Epitteto (50-130 d.C.) – Gli eventi dolorosi che possono accadere al nostro corpo non possono raggiungere ciò che noi siamo nella nostra essenza: la nostra scelta di vita. Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te, che la gente ti schernisca.

Epitteto 001

Dedico questi pensieri alle mie tre figlie,

                     Lilith, Chiara e Costanza

250px-Escaping_criticism-by_pere_borrel_del_caso    …… C. F.                     Il secchio e il vento   …  Logo Adobe Acrobat

 

Essere zoppo è un impedimento per la gamba, ma non per la scelta di vita.

Gli eventi dolorosi che possono accadere al nostro corpo non possono raggiungere ciò che noi siamo nella nostra essenza: la nostra scelta di vita.

Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te,
che la gente ti schernisca

Manuale di Epitteto

Manuale di Epitteto

 

«La malattia è un impedimento per il corpo, ma non per la scelta di vita, a meno che non sia proprio la scelta di vita stessa a volerlo. Essere zoppo è un impedimento per la gamba, ma non per la scelta di vita» (p. 157).

«Se vuoi progredire, sopporta di apparire stolto e insensato, per quanto concerne le cose esteriori. Non voler apparire sapiente; e se alcuni ti considerano qualcuno, diffida di te stesso. Sappi infatti che non è facile conservare la tua scelta di vita in una disposizione conforme alla natura e nello stesso tempo occuparsi delle cose esteriori. Ma è necessario che, se ti prendi cura di una di queste cose, trascuri l’altra» (p. 161).

«Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te, che la gente ti schernisca, che si dica: «Guardalo, ce lo ritroviamo improvvisamente filosofo!». «Da dove ha preso questo sopracciglio arrogante?». Tu però non avere il sopracciglio arrogante, ma attieniti a quanto ti sembra il meglio, come se fossi stato collocato dal dio in questo posto. E ricordati che, se resti stabile nel tuo atteggiamento, gli stessi che ridevano di te prima ti ammireranno dopo. Ma se ti lasci vincere da loro, rideranno doppiamente di te» (p. 171).

Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Trad. dal fancese di Angelica Taglia, Einaudi, 2006.

 

 



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Johan Huizinga (1872-1947) – Viviamo in un mondo ossessionato. Un notevole intorbidamento della facoltà pensante si è impossessato di molte menti. Si tratta di atrofia della coscienza intellettuale.

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La crisi della civiltà

La crisi della civiltà

«Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa, che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita; i motori continuerebbero a ronzare e le bandiere a sventolare, ma lo spirito sarebbe spento.
Dappertutto il dubbio intorno alla durevolezza del sistema sociale sotto cui viviamo; un’ansia indefinita dell’immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della civiltà.
Queste non sono soltanto angosce che ci colgano durante le insonnie notturne, quando è bassa la fiamma vitale. Sono, anzi, meditate prospettive, fondate sulla constatazione dei fatti e sul giudizio.
La realtà c’incalza.
Vediamo distintamente come quasi tutte le cose, che altra volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto» (p. 11).

«Si tratta di atrofia della coscienza intellettuale. II bisogno di pensare esattamente e obiettivamente, quanto si può, intorno alle cose afferrabili dalla ragione, e di vagliare criticamente il pensiero stesso, si fa più debole. Un notevole intorbidamento della facoltà pensante si è impossessato di molte menti. Ogni delimitazione di confine tra le funzioni logiche, quelle estetiche e quelle affettive, è intenzionalmente negletta. Nel pronunciare un giudizio, qualunque ne sia l’oggetto, si tira in ballo il sentimento, senza che la ragione reagisca criticamente, anzi coscientemente, in contraddizione con esso. Viene proclamato intuizione ciò che, in realtà, non è altro che una scelta intenzionale per ragione affettiva. Si confondono le suggestioni dell’interesse e del desiderio con la convinzione fondata su una conoscenza. Per giustificare tutto ciò si chiama necessaria resistenza alla dittatura della ragione ciò che, in realtà, è una rinuncia al principio logico» (p. 54).

 

Johan Huizinga, La crisi della civiltà, Giulio Einaudi Editore, 1938. L’edizione originale di questo volume fu pubblicata nell’ottobre 1935 ad Haarlem (Olanda)

 



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Lu Xun (1881-1936) – La speranza è come una strada e le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino.

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«Lu Xun fu un pioniere della rivoluzione culturale cinese. Egli non fu solo un grande letterato, ma anche un grande pensatore e un grande rivoluzionario». Mao Tse Tung

 

La falsa libertà

La falsa libertà

«La speranza, in se stessa, non si può dire che esista o non esista. È come per le strade che attraversano la terra. Al principio sulla terra non c’erano strade: le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino».

Lu Xun

Lu Xun, September 1930.

Lu Xun, Settembre 1930.

 

La vera storia di Ah Q e altri racconti

La vera storia di Ah Q e altri racconti

La vera storia di Ah Q

La vera storia di Ah Q

The True Story of Ah Q

The True Story of Ah Q

Diario di un pazzo

Diario di un pazzo

Diario di un pazzo2

Diario di un pazzo

Fuga sulla luna

Fuga sulla luna



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Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.

Platone 001

I farisei sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso! (Matteo, 15, 14)

Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechiPieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, 1568.

Platone, Repubblica

Platone, Repubblica

«Dal momento che filosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà essere guida della città? […] Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa […] Ti sembra allora che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero, sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?».

Platone, Repubblica, VI, 484c-d.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
 


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Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.

Eugène Minkowski 03
Il tempo vissuto

Il tempo vissuto

«È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e […] costituisce quanto vi è in essa di più essenziale» (p. 42).

«La psicologia sarebbe tentata di ricondurre il fenomeno […] a una rappresentazione dello scopo da raggiungere, a un sentimento positivo che rende questo scopo desiderabile[…]; questo insieme di elementi darebbe luogo, in tempi più o meno brevi e dopo aver attraversato stadi intermedi, a un altro insieme, composto, questo, dalla constatazione – sia mediante la percezione sia in altro modo – della presenza dello scopo ricercato e da un senso particolare di sollievo che ci annuncia il completamento della nostra azione.

Direi che in queste costruzioni c’è tutto, tranne l’essenziale. Manca lo slancio personale, questo slancio sempre vivo che crea l’avvenire e che non potrebbe essere racchiuso, senza costrizione, in una sezione trasversale della coscienza; questo slancio che si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere che il pensiero spaziale tenta di sostituirgli, le unisce, le anima, le organizza in un tutto indivisibile, fa sì che tutte insieme esse costituiscano la tendenza dell’io completo verso la realizzazione di uno scopo» (p. 43).

«Il conosci te stesso, dal momento in cui è stato formulato per la prima volta dal genio umano, è sempre parso all’umanità pieno di senso. Purtuttavia, se quelli che ci vengono rappresentati come elementi coscienti, e più particolarmente i motivi dei nostri atti, venissero ad allinearsi gli uni accanto agli altri nella nostra coscienza, il conosci te stesso non sarebbe che un’illusione, poiché ciò che la nostra coscienza ci farebbe in tal modo conoscere dovrebbe possedere per sua stessa natura il carattere dell’indiscutibile, oppure, cosa quasi inconcepibile, se non avesse questo carattere, sprofonderemmo fatalmente in uno scetticismo dissociante, non avendo ragione di considerare come più validi i moventi sostituiti a quelli riconosciuti come falsi. E solo perché esiste una dimensione in profondità che ogni movente isolato ci appare subito come qualcosa di relativo e poco attendibile, e che affondare il nostro sguardo in fondo al nostro essere, per tentare di scoprirvi la verità, ha un senso, e un senso molto profondo per noi.

Nello stesso tempo vediamo che se il conosci te stesso ci prescrive di diffidare di quanto vi può essere di convenzionale, di meschino, di falso in noi, esso non ci invita a scoprire dietro questa facciata altri motivi che, rimasti inconsci, sarebbero i veri motivi delle nostre azioni; esso cerca solo di rimetterci in contatto con l’inconscio, con la sorgente stessa della nostra vita, da cui non può non scaturire il nostro vero slancio, cioè la nostra tendenza verso il bene. In fondo, ogni motivo che è conscio e come tale si afferma, è per questo stesso fatto un movente ingannevole, poiché il motivo vero non può che confondersi con l’inconscio. La virtù riconosciuta e affermata cessa di esserlo e la maschera della falsa modestia non riesce a salvare colui il quale, dietro questa maschera, nasconde il suo orgoglio di uomo virtuoso. Poiché dirigere lo sguardo verso il proprio intimo non vuoi dire scoprire e affermare ciò che vi è rimosso, ma farne scaturire il nostro slancio in tutta la sua purezza» (pp. 51-52).

«Quando, mediante il mio slancio personale, realizzo qualche cosa, la situazione che così si è creata non si esaurisce affatto nella constatazione: “ho raggiunto ciò che mi proponevo di raggiungere” o anche “ho fatto qualcosa, ho compiuto un’azione”. Questa è solo una parte e la parte meno importante di ciò che ho davanti a me. Nello stesso tempo vedo che la cosa fatta è un’opera, ovviamente nel senso più ampio del termine, opera che, pur restando mia, va a integrarsi in un insieme completamente diverso da quello dal quale sembra essere uscita in quanto opera mia, e ben più possente, ben più grande di essa. L’opera ha sempre una portata, un carattere oggettivo, o meglio trans-soggettivo, ed è questo il senso stesso di un’opera personale» (pp. 54-55).

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
 


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Pablo Ruiz y Picasso (1881-1973) – Il senso della vita è quello di trovare il vosto dono. Lo scopo della vita è quello di regalarlo.

Scritti

P. Picasso, Scritti

 

 «Il senso della vita è quello di trovare il vosto dono.

Lo scopo della vita è quello di regalarlo».

Pablo Ruiz y Picasso
 


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Charles Chaplin (1889-1977) – Ti criticheranno sempre. Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca.

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Chaplin, la mia autobiografia

C. Chaplin, La mia autobiografia

«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei!
Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca».



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Elias Canetti (1905-1994)– Lo scrittore è il custode delle metamorfosi. Questa la sua legge: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno».

Elias Canetti 003
La coscienza delle parole

La coscienza delle parole

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

[…] Da quando abbiamo affidato alle macchine il compito di predire il nostro futuro, le profezie hanno perso ogni valore. Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegniamo a istanze senza vita, tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente potere su tutto, su ciò che è vivente e su ciò che non lo è, e in special modo sui nostri simili, si è trasformato in un contropotere che solo in apparenza riusciamo a controllare. […]

Forse val la pena di riflettere se esista qualcosa che gli scrittori […] possano fare per rendersi utili nell’attuale situazione del mondo in cui viviamo. […]

Lo scrittore è il custode delle metamorfosi, e lo è in due sensi. Innanzitutto egli farà propria l’eredità letteraria dell’umanità, nella quale le metamorfosi abbondano. Solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. […].

Di metamorfosi, infatti, che è il tema che qui ci interessa, in queste tradizioni ce n’è un’infinità. Potremmo passare tutta la nostra vita a raccoglierle e a metterle in atto, e non credo affatto che sarebbe una vita mal spesa. Tribù che contano talvolta poche centinaia di esseri umani ci hanno lasciato una ricchezza che certo non meritiamo […]. Essi hanno salvaguardato fino alla fine le loro esperienze mitiche e la cosa strana è questa: quasi nulla ci è utile e quasi niente ci riempie di speranza più di queste antiche e incomparabili creazioni poetiche scritte da uomini che sono finiti nella più amara miseria dopo essere stati da noi cacciati, truffati e rapinati. Gli uomini che noi abbiamo disprezzato per la loro modesta civiltà materiale e che da noi sono stati sterminati ciecamente e spietatamente, sono gli stessi uomini che ci hanno tramandato un’eredità spirituale inesauribile.

[…] La vera salvaguardia di questo patrimonio, la sua resurrezione per la nostra vita, è compito degli scrittori. Li ho già definiti i custodi delle metamorfosi, ma essi lo sono anche in un altro senso. In un mondo impostato sull’efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l’autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel poco che ancora l’uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto […] appare di un’importanza addirittura cruciale che alcune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi.

Questo, secondo me, è il vero compito degli scrittori.

Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente.

La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per così dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall’intento di ottenere successi o riconoscimenti, dovrebbe essere una passione a sé stante, la passione appunto della metamorfosi.

È chiaro che gli scrittori dovrebbero essere sempre pronti ad ascoltare, ma questo da solo non basta, perché oggi c’è un numero straripante di persone che quasi non sono più capaci di parlare e che si esprimono con le frasi dei giornali e dei mass media e sempre più dicono tutti le stesse cose, che pure in realtà non sono le stesse cose. Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato più radicale che qui ho dato a questa parola, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è possibile coglierla se non in questo modo. È un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura, eppure non c’è altra maniera di accedere davvero a un’altra persona. Si è tentato di definirlo in vari modi, si è parlato per esempio di empatia o immedesimazione, ma […] preferisco «metamorfosi» […]. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati. […]

Se qui prescindo totalmente da ciò che si suol chiamare successo, e addirittura ne diffido, ciò è legato a un pericolo che ciascuno conosce per averlo sperimentato di persona. L’intenzione di ottenere il successo, così come il successo in sé, hanno un effetto limitante. Chi intraprende una certa strada con l’idea di raggiungere un obiettivo, sente la maggior parte delle cose che non servono ad avvicinarlo alla meta come un’inutile zavorra. Egli se ne libera per essere più leggero, non può preoccuparsi del fatto che forse si sta liberando della parte migliore di sé, ciò che gli importa è il punto a cui è arrivato, da quel punto si libra verso un punto più alto, e il suo progresso lo misura a metri. La posizione per lui è tutto, è stata stabilita dall’esterno, non è lui che l’ha creata, e neanche ha preso parte alla sua genesi. La vede e cerca di raggiungerla, e per quanto un simile sforzo possa essere utile e necessario in molti campi della vita, per lo scrittore come noi lo abbiamo in mente sarebbe solo uno sforzo distruttivo. Questi, infatti, deve prima di tutto far posto in se stesso, sempre più posto. Posto per il sapere, di cui si appropria senza uno scopo preciso, e posto per gli esseri umani che conosce e accoglie in sé mediante la metamorfosi. Per quel che riguarda il sapere, egli potrà conquistarlo solo ripercorrendo nel loro nitido profilo i processi che determinano la struttura più intima di ogni branca del sapere. […]

Lo scrittore è l’essere più vicino al mondo ogni volta che reca in sé il caos, e tuttavia egli sente la responsabilità di questo caos (è il tema da cui siamo partiti), non lo apprezza affatto, nel caos non si trova a suo agio, non si sente un fenomeno perché fa posto in se stesso a tante cose contraddittorie e sconnesse, quel caos lo odia e non rinuncia alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque anche per sé.

Se vuole dire qualche cosa che abbia un certo valore riguardo al mondo in cui viviamo, lo scrittore non può né scansarlo né allontanarlo da sé. Ma […] non dovrà abbandonarsi alla mercé del caos e anzi […] dovrà saperlo contrastare e opporre ad esso la forza impetuosa della speranza.

Ma che cosa può essere questa speranza, e perché mai essa ha un valore soltanto se trae alimento dalle metamorfosi che lo scrittore attua in se stesso, con gli uomini del passato grazie alle sollecitazioni derivanti dalla lettura, e con i contemporanei grazie alla sua disponibilità per il mondo attuale che lo circonda?

Intanto c’è la potenza delle figure che lo hanno investito e che, una volta insediatesi in lui, non cedono il posto. Sono figure che reagiscono attraverso di lui, come se di esse fosse fatto il suo essere. Queste figure sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte. Già appartiene alle qualità dei miti tramandati per via orale che essi siano detti e ridetti. La loro vivacità è pari alla loro determinatezza, ai miti è concesso di non modificarsi. Solo considerandoli uno per uno si può scoprire in che cosa consista la loro vitalità, e forse ci si è soffermati troppo poco sul perché debbano essere continuamente ripetuti.

[…] Intendo sottolineare una cosa sola: il senso di certezza e di perentorietà che si trae dal mito, esso è così e non potrebbe essere che così. Quale che sia il contenuto del mito di cui veniamo a conoscenza, per quanto inverosimile debba apparirci in altri contesti, noi nel mito non lo mettiamo in dubbio, qui esso assume una sua indeformabile e irripetibile configurazione.

Questa riserva di certezze, gran parte delle quali sono giunte fino a noi, è stata adoperata per gli abusi più peregrini. […] Il rifiuto dei miti, che è un tratto caratteristico della nostra epoca, è spiegabile appunto in base ad ogni sorta di abusi che di questi miti sono stati fatti. Essi sono visti come menzogne perché se ne conoscono soltanto le strumentalizzazioni, e scartando queste si scartano anche i miti in quanto tali. Le metamorfosi che ancora essi testimoniano sono ritenute indegne di fede. […]

Ma ciò che a prescindere dai loro specifici contenuti costituisce la peculiarità dei miti è la metamorfosi che in essi si attua. Grazie alla metamorfosi l’uomo è diventato quello che è. […] Ho detto che può essere scrittore solamente colui che sente la responsabilità […]. È una responsabilità per la vita che si sta distruggendo, e non bisogna vergognarsi di dire che questa responsabilità è nutrita dalla pietà. La pietà non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c’è. Nel mito e nelle opere letterarie che ci vengono tramandate lo scrittore apprende ed esercita la metamorfosi. Ma egli non vale nulla se non l’applica incessantemente al mondo che lo circonda. La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero concetto, ma gli dà l’energia di contrapporsi alla morte e di attingere così a una sorta di universalità.

Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balìa della morte. Apprenderà con sgomento, lui che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente.

Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati, e suo vanto combatterli con mezzi diversi dai loro. Lo scrittore vivrà, secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola:

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

Elias Canetti, La missione dello scrittore. Discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976, trad. di Renata Colorni, in Id., La coscienza delle parole, Adelphi, 1990, pp. 381-396.

Risvolto di copetina

«In questo volume sono presentati in ordine cronologico i saggi che ho scritto fra il 1962 e il 1974. A un primo sguardo potrà sembrare un po’ strano trovare qui riunite figure come Kafka e Confucio, Büchner, Tolstoj, Karl Kraus e Hitler, catastrofi terrificanti come quella di Hiroshima e considerazioni letterarie sulla stesura dei diari o sulla genesi di un romanzo. Ma io mi sono appunto occupato man mano di queste cose, poiché solo in apparenza esse sono fra loro incompatibili. Il pubblico e il privato non sono più separabili ormai, si compenetrano a vicenda in modi che in passato sarebbero apparsi inauditi. I nemici dell’umanità hanno acquistato potere rapidamente, sono assai prossimi alla meta finale, la distruzione della terra, è impossibile non tener conto di loro e ritrarsi nella esclusiva contemplazione di modelli spirituali che ancora possono avere per noi un certo significato. Questi sono diventati più rari, molti che potevano bastare alle epoche passate non hanno in sé una ricchezza sufficiente, il campo che abbracciano è troppo limitato per poter essere utili anche a noi. Tanto più importante diventa dunque parlare dei modelli che hanno retto perfino alla mostruosità di questo nostro secolo». Così scriveva Elias Canetti presentando la prima edizione di questo volume (1974). E spiegava poi che, unica eccezione, era incluso nel libro il suo discorso su Hermann Broch, tenuto a Vienna nel 1936, soprattutto perché in esso aveva formulato i «tre comandamenti» dello scrittore. Essi ci mostrano, nella loro congiunzione, il nodo inestricabile dei rapporti fra lo scrittore e il suo tempo: esserne «l’umile e devotissimo schiavo», avere la «ferma volontà» di darne una «visione d’insieme» e, infine, opporvisi, essere «contro il suo specifico odore, contro il suo aspetto, contro la sua legge». A distanza di quarant’anni, nel discorso di Monaco che chiude questo volume, Canetti offriva poi una definizione che implica quei «tre comandamenti» e schiude l’accesso a tutta l’opera sua, oltre che a questo libro stesso: lo scrittore come «custode delle metamorfosi», erede della capacità mitica di aprire in sé un vasto spazio dove ospitare le figure più contrastanti. Figure che, per lo scrittore, «sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte».

Elias Canetti – Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli …
Elias Canetti (1905-1994)– L’opera sopravvive perché contiene pura quantità di vita e lo scrittore coinvolge tutti coloro che sono con lui nell’immortalità dell’opera.
Elias Canetti (1905-1994) – È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria.
Elias Canetti (1905-1994) – Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici. È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.


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Mario Quaranta – L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni.

Mario Vegetti_x01

Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

indicepresentazioneautoresintesi

 

Mario Quaranta

Note filosofiche sulla politica

 

Mario Vegetti ha pubblicato in questo breve volume i suoi scritti di politica nel senso che egli attribuisce al termine: scritti marginali rispetto alla sua attività professionale, e “a sinistra” per indicare la sua collocazione politico-culturale, fondata sulla sua “convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa i nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte”. Nella prima parte – Tra filosofia e politica (1981) –, sono selezionati scritti su problemi filosofici che scaturiscono dalla politica: nell’intervento Per un lavoro filosofico, Vegetti si sofferma sulla discussione dell’eclissi delle ideologie, della crisi della ragione, ritenute non più in grado di fornire “sistemi unitari di spiegazione del mondo”. Attraverso di esse, al vecchio razionalismo si è sostituito il “pluralismo dei segmenti della ragione”, che necessariamente sono locali, strumentali. Alla radice di queste posizioni c’è, secondo Vegetti, l’idea di una fine del marxismo e della tradizione hegeliana e, più in generale, della fine o addirittura dell’impensabilità di una rivoluzione capace di compiere un rinnovamento radicale del mondo.
Di fronte alla crisi della ragione, i filosofi si sono perlopiù dedicati alle diverse pratiche di indagini specialistiche come la sociologia, la politologia, la psicologia e via dicendo. In questo modo, però, per Vegetti la filosofia rischia di diventare un residuo storico, specie nel momento in cui prevale la razionalità scientifica come modello esplicativo della realtà. A suo giudizio, invece, occorre riconoscere che ci sono problemi che richiamano la radicalità d’indagine e la globalità di risposte che può dare solo la filosofia.
Per sostenere l’attualità del discorso filosofico, Vegetti mette in campo alcune cruciali questioni attraverso l’analisi del lessico filosofico che adoperiamo. È il caso delle categorie di sviluppo e di lavoro, presenti in vari ambiti di pensiero, come nel marxismo. La prima categoria ha prodotto una forte giustificazione del mutamento come fine in sé, consentendo di connettere scienza, tecnica, economia, società, e gli stessi valori in un plesso unitario. Un discorso analogo viene fatto sulla categoria di lavoro, generatrice di un’antropologia: l’uomo si sarebbe realizzato e liberato nella misura in cui il suo lavoro avesse trasformato il mondo. In conclusione, sostiene Vegetti, dagli anni Trenta agli anni Sessanta abbiamo assistito a una “impraticabilità” di queste categorie, centrali nel marxismo.
Vegetti si pone, infine, il problema se non si possa ricominciare il lavoro filosofico riappropriandosi di quelle parole che mantengono un senso anche dopo l’eclissi della ragione. È il caso della questione della verità, cui non possiamo rinunciare nella nostra attività discorsiva, come all’uso di un’altra parola “pericolosa e difficile”, quella di “progetto”; esse aprono la via a un terreno a cui non possiamo sottrarci, quello dei valori oggi molto incerto perché è messa in discussione proprio l’universalità dei valori. Nel saggio La polis, i filosofi, i poteri (1992), Vegetti parte dalla considerazione che le forme di vita e di pensiero sono state “tramate dal sistema diffuso dei poteri sociali, dalle istituzioni, dalle strutture dei poteri costituiti”, e sono comprensibili all’interno di quelle scelte istituzionali. Un esempio efficace: se Aristotele afferma che la schiavitù esiste per natura, ciò non vuol dire, precisa Vegetti, che fosse uno “schiavista efferato”, ma che considerava “ontologicamente” fondato tutto ciò che era “normale”, ossia dispiegato nell’esistente. Ciò significa che alla base di tale posizione c’è una scelta: la strategia epistemica dell’ordine del mondo che impone il discorso sulla schiavitù.
Con Un viaggio di mille anni. Tre questioni filosofiche (2001), Vegetti afferma che la globalizzazione, l’omologazione, il “pensiero unico”, la perdita della soggettività progettuale, non vanno imputati ad agenti come la modernità e la tecnica; fenomeni che secondo Hegel sono rinvenibili già nel mondo romano e secondo Platone nella polis greca. Ciò significa solo che siamo di fronte all’approdo, nella nostra epoca, di un lunghissimo processo storico in cui l’imperialismo e la tecnologia hanno offerto dei potentissimi strumenti di accelerazione. In conclusione, Vegetti tende anche a escludere che soffermarsi sulla tecnica e il capitalismo significhi accettarne gli esiti, perché la possibilità del conflitto e l’orizzonte della liberazione permangono come una costante nel processo storico.
La questione centrale, ieri come oggi, rimane quella di “vedere chi comanda”, consapevoli che la risposta è molto più complessa e difficile che ai tempi di Platone, dell’impero romano e di Hegel. Il dato più evidente dell’odierna situazione è il logoramento di quelle strutture di socialità e identificazione sociale che hanno creato processi di disaggregazione sociale, che sono la forma specifica del dominio e dell’assoggettamento. Sono processi che hanno trasformato il produttore in consumatore, determinando il regresso verso forme “sostitutive e arcaiche di identificazione di gruppo”. Una frantumazione, questa, che provoca una riaggregazione per etnie, per forme di religiosità fanatiche, per bande metropolitane. In conclusione, ci troviamo di fronte all’impossibilità di formare figure di soggettività sociale costruite “intorno ad una progettualità antagonista”.
Un possibile punto di ripartenza è, secondo Vegetti, la riapertura del discorso etico, ossia sulla giustizia, sui valori, sui fini, con l’obiettivo di “ricostruire il legame sociale come rapporto comunitario comunicativo e progettuale a partire dai bisogni ricchi di senso”. Egli individua in certi fenomeni di autoaggregazione sociale che sorgono a partire da fini e valori condivisi, come il femminismo, il volontariato, i movimenti anti-globalizzazione, le aggregazioni che si formano in rete; fenomeni parziali sì, ma che sono il segno che c’è un bisogno diffuso di una socialità “il cui vincolo sia formato a partire da un orizzonte comune di senso, di finalità potenzialmente universali”. Si tratta di compiere un “viaggio di mille anni” verso “lo star bene”, come dice Platone nelle ultime righe della Repubblica. Un’utopia? ma come tale legata a richieste, bisogni, progetti, e che comunque consente, secondo il filosofo greco, di “rifondare” noi stessi fin da ora.
La seconda parte del libro è dedicata a testi Tra politica e filosofia, in cui sono delineate le prospettive della politica da un punto di vista filosofico. Nell’intervento Per una politica dei comunisti. Problemi teorici (1993), Vegetti rileva in via preliminare che una teoria per la politica per i comunisti è strettamente legata all’azione organizzata, volontaria, di comunisti, onde senza il partito comunista “non esistono né le richieste di senso, né il luogo di elaborazione, né le condizioni di validazione di una teoria politica dei comunisti”. Egli individua un nesso dialettico tra le conquiste del movimento operaio e lo sviluppo capitalistico; da ciò la natura contraddittoria della socialdemocrazia nel primo Novecento, specie quella tedesca. Lo sviluppo permanente del capitalismo in una direzione poi detta della globalizzazione, ha determinato una riduzione fino alla marginalità della fabbrica, con la conseguente affermazione dei settori terziari (marketing, finanza, informazione). La conseguenza più visibile è l’isolamento sociale e culturale della classe operaia; essa è passata da portatrice di “un senso universale di emancipazione e liberazione, a difendere interessi legittimi ma parziali”. D’altra parte, due dei maggiori partiti comunisti europei, quello francese e quello italiano, hanno espresso due linee alternative: il Pcf. ha rinunciato a una egemonia complessiva e il Pds ha rappresentato un cartello di interessi secondo il modello del partito democratico americano, rinunciando a una radicale opposizione al sistema. Siamo così di fronte a un paradosso: la crisi del capitalismo rende sempre più urgente il bisogno di comunismo, “tanto che il motto di Rosa Luxenburg ‘socialismo o barbarie’ non è mai stato così attuale come oggi”.
Nel successivo intervento – L’Ottobre dopo la sconfitta. Le ragioni della Rivoluzione sovietica agli inizi del XXI secolo –, Vegetti parte da un’affermazione netta: “una sconfitta c’è stata”, e indica in modo sommario alcuni motivi ‘interni’ di fondo, dissociando l’analisi del fallimento della rivoluzione sovietica da quella degli Stati socialisti europei, nella persuasione che serie analisi di questo processo storico possano rendere possibile l’inizio di un “progetto comunista”. Infine, nella terza parte, Tra gli antichi e noi, Vegetti affronta due questioni: da un lato l’uso delle categorie marxiane nell’interpretazione del mondo antico, dall’altro le diverse interpretazioni del pensiero di Platone e la valutazione di quale aspetto di esso è ancora attuale. I progetti di trasformazione della modernità occidentale sono stati perlopiù legittimati da una riappropriazione selettiva della tradizione, ove un ruolo centrale ha avuto il pensiero di Platone, per molte e buone ragioni qui indicate. La tradizione dei testi antichi, afferma conclusivamente Vegetti, “costituisce nel suo insieme, una manifestazione esemplare di libertà e apertura di pensiero, di rifiuto del dogmatismo”.

Nota di commento

Questi scritti costituiscono un’avvincente lettura compiuta dal noto e apprezzato studioso della cultura greca, da poco scomparso, il quale ha elaborato un “programma di epistemologia materialistica”, secondo le sue stesse parole, collocandosi politicamente “a sinistra”, come afferma fin dal titolo. Gli obiettivi principali di questo libro, che raccoglie gli interventi teorico-politici di un trentennio, sono, da un lato, un esame delle ragioni che presiedono alla sconfitta del comunismo e dell’eclissi del marxismo; dall’altro, l’individuazione delle condizioni che consentano di ripristinare il valore filosofico del marxismo e rilegittimare “un’idea di comunismo”. Vegetti nota con acume che la cultura ha messo in atto un vasto apparato logico-linguistico per rendere obsoleto il linguaggio del razionalismo e del marxismo. Da ciò la necessità di ripristinare in termini nuovi il linguaggio filosofico dopo la crisi del marxismo. Egli si sofferma brevemente sull’Ottobre Rosso, consapevole che di lì occorre ripartire, perché il marxismo dominante nel corso degli anni Venti-Trenta è stato, diciamo così, la variante staliniana, indisgiungibile dall’esperienza dell’Unione sovietica. Dobbiamo riconoscere che su questo terreno gli storici e i filosofi hanno fatto poco, troppo poco; e anche le parole di Vegetti esprimono al più l’esigenza di continuare una discussione. Egli accenna più volte a una lettura della globalizzazione, senza andare oltre; a mio parere essa è decisiva per comprendere l’odierna situazione economica e culturale; è la base di ogni possibile discorso “tra politica e filosofia”.
Dopo la fine di quello che lo storico Hobsbawm ha definito il “secolo breve” (1914-1991), è maturata la coscienza di un cambiamento epocale nella storia del mondo. L’epilogo della rivoluzione russa del 1917 nell’Eurasia è stato imprevisto e imprevedibile, almeno nel modo della catastrofe gorbacioviana. Lo sviluppo economico-tecnologico sempre più rapido del mondo capitalistico anglo-americano, europeo occidentale franco-renano e giapponese, è stato il fatto macroscopico che ha sanzionato la fine del “secolo breve” e il trionfo dell’idea dell’eclissi delle ideologie.
In realtà, è avvenuto il tramonto di ideologie storiche rivoluzionarie che nel corso del Novecento erano state attratte nel marxismo-leninismo e alla traduzione pratica di esso nell’organizzazione dell’Unione Sovietica staliniana, nonché di ideologie controrivoluzionarie e totalitarie di destra. Ciò appare una conseguenza destinata ad accentuarsi e a dilatarsi rapidamente dall’enorme e diseguale accelerazione dello sviluppo economico-tecnologico avvenuto nella seconda metà del Novecento, corrispondente ai processi in atto di crescenti concentrazioni finanziario-industriali, multinazionali e sopranazionali, il cui dominio economico, e quindi politico, del mondo, si è intensificato ulteriormente nel primo decennio del nuovo Millennio. È sintomatico che il maggiore studioso della globalizzazione sotto il profilo politico, culturale, filosofico sia stato Zygmunt Bauman, di cui è stata pubblicata in Italia una delle sue prime opere, Lineamenti di una sociologia marxista (Roma, Editori Riuniti), indicando successivamente i limiti di un approccio secondo un marxismo tradizionale. È da questi contributi, a mio parere, che bisogna ripartire.

Mario Quaranta

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Mario Quaranta

Mario Quaranta, giornalista pubblicista, vive e lavora a Padova dove per oltre venti anni ha insegnato storia e filosofia nel Liceo classico Tito Livio. Ha collaborato alla Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat con tre capitoli sulla filosofia italiana dell’Ottocento e del Novecento ed è stato tra i fondatori dell’“Istituto Geymonat per la filosofia della scienza”, dell’“Istituto Giulio Cesare Ferrari per la psicologia”. Per le Edizioni Sapere (Padova) dirige la collana “Gli amanti di Sofia”, e per A. Forni (Sala Bolognese, Bo), Riviste del Novecento (in anastatica). Ha curato l’opera omnia di Giovanni Vailati in tre volumi (Sala Bolognese 1987), e un’antologia di suoi scritti, Gli strumenti della ragione, Padova 2003. Fra i lavori più recenti: Ludovico Geymonat. Una ragione inquieta, Roma 2001; Il positivismo veneto, Rovigo 2003; Geymonat, Koyré, Husserl, Manduria 2004; I mondi di Giulio Cesare Ferrari. Psicologia, psichiatria, filosofia, Padova 2006; Nuovi paradigmi dell’educazione in una società globale, Bologna 2006, Voci del Novecento tra filosofi e scienziati, Padova 2008; Comte epistemologo, Padova 2012; Da Casati a Google. La scuola italiana fra storia e attualità, Padova 2012.

 

Norberto Bobbio un "illuminista pessimista"

Norberto Bobbio un “illuminista pessimista”

Positivismo e modernità

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Scristianizzare l'Europa

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Un secolo di filosofia

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Cultura e politica

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Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.

Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.

Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).



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Vladimiro Giacchè – Recensione di Salvatore Bravo. L’Anschluss della Germania dell’Est. Un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.

Vladimiro Giacchè 01

Vladimiro Giacché svela come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città.

 

Un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta

Anschluss L’Annessione

Anschluss L’Annessione

 

Salvatore Bravo

Recensione al librio di

Vladimiro Giacchè, Anschluss L’Annessione, Imprimatur, 2018

 

***

L’Anschluss della Germania dell’Est

 

Anschluss-L’Annessione è un libro di Vladimiro Giacchè: e ci sono libri che svelano la verità in cui siamo gettati. Vladimiro Giacchè documenta la fine ingloriosa della Germania dell’Est, fine programmata e voluta dal monopolio della finanza. Archetipo del capitalismo in azione, attraverso l’esperienza della RDT si rende palese la logica intestinale-divoratrice del capitalismo assoluto. La tecnocrazia finanziaria ha la sua verità logica ed ontologica nella regressione biologica ad attività di assorbimento e nullificazione di ogni realtà con cui si rapporta. Dietro il paravento dell’algoritmo, dei linguaggi astratti, si cela un primitivismo intestinale: si divora per trasformare in energia per la propria insaziabile voracità. L’energia, qui, è il denaro. Ciò malgrado, la verità non può essere divorata, marginalizzata, vituperata, diffamata: resiste. L’azione del capitalismo assoluto è talmente iperbolica da rendere, in realtà, più semplice di quanto non sembri scoprire la verità. Il «Non c’è alternativa» della Merkel denuncia un certo disagio dinanzi al vero. La forza del capitale assoluto è la debolezza dell’opposizione, di un’alternativa credibile e voluta. Cominciamo con la prima verità: la RDT ha subìto un’annessione veloce e degna di un’invasione manu militari. Quando cadde il muro di Berlino nessun tedesco dell’Est voleva la fusione con l’Ovest. Nessuno striscione – il 4 Novembre 1989 a Berlino – proclamava il desiderio dell’unione delle due Germanie. Il giornale Der Spiegel con un sondaggio, in quei giorni, rese pubblico che il 71% dei Tedeschi dell’Est voleva che la RDT sopravvivesse alla caduta del muro; esigevano riforme democratiche, ma non la cancellazione dell’esperienza socialista:

«Il 17 dicembre sono pubblicati i risultati di un sondaggio sui cittadini tedeschi orientali commissionato dal settimanale tedesco Der Spiegel: il 71 per cento si pronuncia per il mantenimento della sovranità della RDT, il 27 per cento per uno Stato unico RFT». [1]

 

In un tempo brevissimo si è consumato un crimine, l’ennesimo, contro l’umanità. Il mezzo più adatto per intimorire i tedeschi dell’Est e congelare i tentativi di una riorganizzazione della RDT è stata la minaccia del fallimento. I conti erano in rosso, ma non in modo drammatico; le riserve dello Stato erano in buona salute, ma i conti e le riserve non erano pubblica informazione nello stato comunista. Tale elemento alimentò la paura. I movimenti peristaltici erano in funzione: fu sufficiente introdurre il marco tedesco per avere un apprezzamento dei debiti ed i conseguenti fallimenti. Si stimava che l’indebitamento avrebbe raggiunto a fine 1989 una cifra pari a 26 miliardi di dollari. La cifra era errata, ma fu usata come testa d’ariete per fagocitare la Germania dell’Est con l’assenso dell’Unione Sovietica:

«La cifra era sbagliata e molto superiore al vero, perché non teneva conto delle riserve in valuta pregiata detenute dal dipartimento Coordinamento commerciale, diretto da Alexander Schalck-Golodkowsky. Le attività di questo dipartimento, responsabile dell’approvigionamento di valuta pregiata, erano uno dei segreti meglio custoditi della RDT: ne erano di fatto al corrente, oltre ovviamente a Schalck-Golodkowsky, soltanto Honecker e il responsabile dell’economia Mittag, mentre ne era all’oscuro lo stesso capo della pianificazione Schurer».[2]

 

La debolezza dell’economia della Germania dell’Est dipendeva da scelte errate svolte negli anni ‘70: le previsioni sulla produzione di beni di consumo era stata fallace considerando le ingenti risorse investite nell’edilizia. Nulla era irrimediabile. Si decide per spingere verso il fallimento e dunque condurre la popolazione verso l’Ovest, di introdurre il marco dell’Ovest senza un periodo di transizione, ad un cambio proibitivo, l’apprezzamento dei debiti, l’impennata dei prezzi, la produzione di prodotti non competitivi che condurranno al fallimento ed all’impossibile riorganizzazione dello Stato:

«Benché il marco dell’Est non fosse una valuta convertibile, negli scambi commerciali della Germania dell’Est con la Germania si usava un coefficiente di correzione per misurare il valore relativo delle due valute; altri coefficienti di correzione venivano adoperati nei confronti del dollaro e di altre valute occidentali. Nel 1989 questo coefficiente era di 1 a 4,44 marchi dell’Est, e precisamente secondo questo parametro veniva regolato il commercio intertedesco. L’unione monetaria significò quindi un aumento dei prezzi delle merci prodotte nella RDT di poco meno del 350 per cento! (Most 2009: 13, 161)». [3]

L’unità monetaria difatti implica la cessione dell’indipendenza. L’annessione passa per l’unità monetaria attraverso cui si destabilizza non solo l’economia, ma un intero assetto sociale. Il potere d’acquisto dei cittadini della RDT crolla, i loro prodotti non sono più competitivi, i debiti dell’apparato industriale in marchi dell’Ovest paralizza il sistema, non è possibile pagare i debiti perché insostenibili, è impossibili rivitalizzare le industrie con investimenti sui macchinari o altro. La moneta diviene un cappio al collo per tutti i cittadini dell’Est. L’annessione insegna ai Tedeschi ciò sarà fatto alla Grecia, è la verità dell’Europa unita. Verità sommersa eppure palese. Al fallimento segue l’annessione. La campagna elettorale, la prima “libera” nell’Est è una farsa della democrazia. I protagonisti sono esponenti della Germania dell’Ovest, ogni regola, ogni trasparenza, la pluralità sono negate. Si promise di trasformare la Germania dell’Est «in breve tempo in una terra fiorente».[4]
Il successo della CDU è inevitabile e molto abilmente il parlamento della Germania dell’Est lavora per la sua liquidazione, si lavora per un trattato: «Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale». Il trattato naturalmente è stato predisposto da Bonn. Furono negate anche modeste contromisure per salvare le imprese salvabili.
La liquidazione non di un’economia, ma di un intero mondo, passa per l’istituzione della Treuhandanstalt, organo delle privatizzazioni che in modo sregolato – dal 1990 al 1994 – ha cannibalizzato la Germania dell’Est:

«Per ogni impresa fu stilata una sorta di pagella, per decidere quali aziende fossero immediatamente privatizzabili, quali risanabili per essere privatizzate, quali dovessero invece essere liquidate. Ma in base a quali criteri si decideva se un’impresa fosse risanabile o dovesse essere chiusa? Li spiegò davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla Treuhandanstalt uno dei suoi più importanti funzionari, Horst Plaschna: “la risanabilità di un’impresa dipende dal fatto che abbia già un prodotto vendibile nell’Ovest. La cosa può espressa anche in questi termini: se non ce l’ha, è a priori non risanabile. Infatti non siamo autorizzati a sviluppare nuovi prodotti con i soldi dei contribuenti tedeschi”».[5]

 

La commissione chiuderà l’inchiesta il 28 agosto 1994, ma nei fatti ha l’ostilità del governo e nel contempo le si proibisce, per legge, l’accesso a un’enorme quantità di atti, circa l’80 per cento; spesso i fascicoli consegnati sono in disordine e con fogli mancanti. La SPD farà ricorso alla Corte Costituzionale che abilmente non respinge il ricorso, ma afferma che la risposta ci sarà dopo la fine della legislatura. Cade il mito della correttezza tedesca, del capitalismo ligio alle regole. Ciò malgrado la Commissione denuncia, pur in assenza di dati e documenti completi, irregolarità diffuse. In molti casi l’acquirente non ha contratti vincolanti circa il dovere di effettuare investimenti e conservare posti di lavoro. Si smantella la struttura, la si fagocita per mettere in atto un processo di clonazione, raddoppiamento della Germania dell’Ovest. Ogni metessi è copia e come tale negazione effettivo dell’originale e dell’originario. Perché abbia fine il processo famelico, il crimine, si deve smantellare la sovrastruttura. Si procede ad un’autentica epurazione degli accademici, ad un’estensione veloce e senza appello del sistema scolastico della Germania occidentale. Della RDT nulla deve sopravvivere. Il sistema scolastico della RDT che aveva messo in atto soluzioni pedagogiche dall’alto valore qualitativo e “democratico” non solo perché gratuite, ma soprattutto per il sistema unitario che evitava le divisioni tra classi sociali che si riproducono nei sistemi scolastici molto differenziati:

«La cosa ebbe tra l’altro un risvolto decisamente umoristico, allorché nel 2000, furono resi noti i primi risultati del test “Pisa” di valutazione dell’efficienza dei sistemi scolastici. La Germania conseguì risultati tutt’altro che brillanti, mentre la Finlandia ebbe il punteggio più elevato. Plotoni di zelanti ministri, pedagoghi e giornalisti tedeschi si recarono quindi in Finlandia per carpire al paese nordico il segreto del successo del suo sistema educativo. E si sentirono rispondere che il sistema finlandese si era rifatto agli insegnamenti dei pedagogisti tedeschi dell’Ottocento Wilhelm von Humboldt e Friedrich Fröbel, ma anche ai testi degli esperti della RDT».[6]

 

L’eliminazione del ceto intellettuale e della scuola fu sostenuta dalla negazione della validità dei titoli della Germania dell’Est. In tal modo la Germania dell’Est era rasa al suolo. Senza classe dirigente ed intellettuale, il 90 per cento dei professori universitari fu rimosso e sostituito da accademici occidentali: la Germania dell’Est non aveva più voce e memoria. In ultimo la disoccupazione di massa ha comportato denatalità ed emigrazione. La colonizzazione non poteva essere più completa. La propaganda aveva affermato con i suo trombettieri che l’introduzione del marco avrebbe impedito l’emigrazione:

«E oggi il banchiere Edgar Most ha facile gioco nell’affermare: “l’argomento secondo cui senza il marco occidentale troppe persone sarebbero scappate all’Est non posso condividerlo. Anche dopo l’unione monetaria almeno due milioni di tedeschi dell’Est sono andati all’Ovest. L’introduzione del marco occidentale all’Est non ha impedito questo esodo, lo ha anzi accelerato, perché ha portato al fallimento innumerevoli imprese dell’Est”» (Most 2011:164). [7]

 

Il punto finale dell’eliminazione di un’esperienza storica fu l’introduzione del Principio di restituzione, ovvero le proprietà dovevano essere restituite ai legittimi proprietari. Il caos giuridico fu inevitabile, molti degli ex proprietari erano nella Germania dell’Ovest, e vi erano specialmente i contenziosi tra eredi. La cultura della proprietà doveva essere reintrodotta in modo maldestro e massiccio. Tutto doveva perire. Le innumerevoli contese scoraggiarono gli investitori:

«Del resto, è ovvio che in assenza di garanzie circa i diritti di proprietà non può darsi alcuna formazione di capitale: quando eventualmente posto in vendita (è il caso dei beni pubblici offerti dalla Treuhand) perde quindi appetibilità per gli investitori e si svalorizza (sul punto cfr. Luft 1992: 107-109) ». [8]

 

L’annessione fu, dunque, il primo esempio di ciò che sarebbe accaduto in Europa col vincolo della moneta unica. Gramsci affermava che la storia è maestra di vita, ma ha pochi alunni. La fine della Germania dell’Est è una doppia occasione mancata di consapevolezza e prassi. La Germania dell’Est, se avesse avuto tempo, avrebbe potuto declinare l’economia di mercato secondo forme di pianificazione statale e l’Europa delle patrie avrebbe potuto imparare dalla terribile esperienza della RDT a difendersi dall’unione monetaria. Ma, in assenza di classi dirigenti degne di questo nome, tutto è avvenuto fatalmente.
Sottrarci al fato attraverso la conoscenza storica può essere un passo, tra gli innumerevoli, passi che ci dovrebbero portare verso l’uscita dalla gabbia d’acciaio.

Salvatore Bravo

 

***

[1] Vladimiro Giacchè, Anschluss L’Annessione, Imprimatur, 2018, p. 12.

[2] Ibidem, p. 19.

[3] Ibidem, p. 42.

[4] Ibidem, p. 36.

[5] Ibidem, pp. 62-63.

[6] Ibidem, pp. 120-121.

[7] Ibidem, p. 137.

[8] Ibidem, pp. 99-100.


Quarta di copertina

Ancora oggi, a quasi 25 anni dal crollo del Muro, la distanza economica e sociale tra le due parti della Germania continua ad accentuarsi, nonostante massicci trasferimenti di denaro pubblico dalle casse del governo federale tedesco e da quelle dell’Unione Europea. Sulla base di una ricerca scrupolosa, condotta attraverso i dati ufficiali e le testimonianze dei protagonisti, l’economista Vladimiro Giacché svela come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città. La storia di questa “unione che divide” è una storia che parla direttamente al nostro presente. Essa comincia infatti con la decisione di attuare subito l’unione monetaria tra le due Germanie, prima di aver attuato la necessaria convergenza tra le economie dell’Ovest e dell’Est. L’unione monetaria ha accelerato i tempi dell’unione politica, ma al prezzo del collasso economico dell’ex Germania Est. Allo stesso modo la moneta unica europea, introdotta in assenza di una sufficiente convergenza tra le economie e di una politica economica comune, è tutt’altro che estranea alla crisi che sta investendo i paesi cosiddetti “periferici” dell’Unione Europea. Il libro di Giacché si conclude quindi con un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.

 

 



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