Giacomo Pezzano / Luca Grecchi – «Commenti»

Commenti

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx

Giacomo Pezzano / Luca Grecchi

«Commenti»

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Giacomo Pezzano:

Commento all’articolo di Luca Grecchi, Sulla progettualità
19-08-2016

Sono stato sollecitato da Alessandro Monchietto a leggere il confronto sul tema della progettualità e magari a intervenire, e seppur in ritardo, eccomi.
Mi permetto di dire alcune, poche, pochissime, cose. Forse provocatorie e irritanti, ma che soprattutto cercano di andare al nucleo della questione senza preclusioni, timori o pregiudizi. Ossia: il tema al centro dello scambio Grecchi-Monchietto è quello del rapporto tra natura umana e progettazione. Quello mi interessa qui e ora…

Giacomo Pezzano:

Commento all’articolo di Luca Grecchi, Perché la progettualità?
05-09-2016

Mi permetto di ricommentare. Dicendo tre cose, di cui una è una proposta.
La prima è che IMO la funzione e la natura di un blog sono proprio quella di consentire una discussione per commenti e non la stesura di saggi più o meno autoreferenziali o più o meno articolati e argomentati. Per questo continuo a credere che un confronto anche apparentemente meno strutturato, ma più diretto e su punti più piccoli, attraverso dei commenti possa avere senso. Anche perché, alla fine, se ci pensate, progettare insieme significa proprio questo: non ciascuno il proprio macroedificio e poi si vede se e come sono vicini ecc., ma insieme pezzetto per pezzetto. Questa prima cosa è poi alla base della terza…

Luca Grecchi:

Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano
Caro Giacomo,
innanzitutto grazie dei tuoi interventi, che so essere fatti in spirito amichevole e dialettico. Per essere breve, come richiede lo strumento del blog (che non è proprio il mio come sai, per cui mi sa che anche stavolta “andrò lungo”…), mi limito ai soli tre punti che menzioni…

[… Leggi tutti li Commenti aprendo il PDF qui sotto]

Commenti
(G. Pezzano-L. Grecchi)



Gli altri interventi
Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.
Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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Claudio Lucchini

Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale
e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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La corretta puntualizzazione ontologica degli interventi trasformativi della prassi umana diretti a realizzare modalità disalienate di vita sociale e forme di ricambio organico con l’ambiente naturale circostante rispettosi degli equilibri ecologici, sembra essere un compito assai rilevante al fine di chiarire l’essenza, le possibilità concrete, i limiti di un agire storico-sociale che voglia concepirsi ed attuarsi non come incessante tendere ad un illimitato e vuoto trascendimento del dato verso un orizzonte di libertà e giustizia mai raggiunto, ma, al contrario, come fondazione di una quotidianità funzionante radicalmente democratizzata, mediamente foriera di riconoscimenti umanizzanti e non estranianti, sebbene al di fuori di qualsiasi automatismo riproduttivo o provvidenzialismo secolarizzato.
Una tale impresa – qui molto schematicamente abbozzata in alcune sue essenziali componenti teoriche – non può in alcun modo prescindere da un’adeguata tematizzazione del rapporto che connette la dimensione sociale e la dimensione naturale del vivere umano, facendo della seconda l’ambito entro cui soltanto la prima – come del resto qualsiasi altra cosa, a patto di rifiutare soluzioni pesantemente metafisiche – può svilupparsi e vivere secondo un’indubbia specificità, che tuttavia mai, lo ribadiamo, può sospendere il nesso con la totalità materiale della natura. È ovvio che, seguendo questa impostazione, si porrà seriamente in discussione l’idea che debba essere posta una radicale discontinuità tra oggettività naturale data e oggettivazioni realizzate dal lavorio storico della prassi sociale in tutte le sue forme, cercando di mostrare in quale senso questa relazione debba venir intesa, sia rispetto alla dimensione connessa al ricambio tra società e natura, sia in relazione al modellamento pratico-politico delle forme delle relazioni sociali e personali, alla possibilità di una loro valutazione etico-sociale processualmente universalizzabile e alla delineazione collettiva di un nuovo modello di società innervato di contenuti oggettivamente e universalmente liberatori.
Uno dei testi storicamente decisivi, nell’ambito del pensiero marxista, per comprendere in qual maniera venga argomentata la sussunzione della struttura “oggettiva” dei fatti naturali nella prassi umana, in particolare nella prassi universalizzatasi con l’affermarsi del modo capitalistico di produzione, è la celebre opera di György Lukács Storia e coscienza di classe – uscita nel 1923, lo stesso anno di pubblicazione di un altro famoso libro che gli è affine, Marxismo e filosofia di Karl Korsch –, dal filosofo ungherese successivamente ripudiata nei suoi presupposti teorici, come si avrà modo di constatare accennando alla tarda, grandiosa Ontologia dell’essere sociale (pubblicata postuma nel 1976).
[… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Claudio Lucchini,
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Arianna Di Cori – Roma, writer contro street artist: la guerra dei muri. Dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo, dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto: ecco i lavori coperti con tag, pezzi o scritte

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Arianna Di Cori

Roma, writer contro street artist: la guerra dei muri

Dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo,
dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto:
ecco i lavori coperti con tag, pezzi o scritte

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Già pubblicato il 09-08-2016 su:        R.it

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L’ultimo è stato il murales sul lungotevere Gassman. Pochi gesti rapidi e i 20 metri di fiori di Laura Galletti, la “pittrice clochard”, 70enne che viveva in una baracca lì accanto, sono scomparsi, coperti interamente da un graffito. È solo l’ultimo di una serie di “sfregi” dei writer a danno del lavoro degli street artist: dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo, dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto. A volte sono solo firme, le tag, oppure pezzi più articolati, spesso scritte contro il business della street art “venduta”. Una guerra, in nome di una cosa sola: lo spazio nella città.
«E’ una battaglia più sentita dal pubblico che si affeziona», spiega Alice, che aveva realizzato il muro nel 2010. «Noi mettiamo in conto il carattere effimero di un’opera in strada. Mi hanno fatto arrabbiare le scritte sessiste, una cosa inaccettabile in un mondo dove il rispetto è la prima regola».
La seconda legge non scritta nel mondo del writing è quella del taglione. Chi copre qualcuno sarà a sua volta coperto. Borondo aveva dipinto su un muro storico per i writer romani, stessa cosa per Laura Galletti. «Sono andato semplicemente a riprendermi il mio spazio sul fiume — dice un writer anonimo, che ha coperto in parte in muro di Laura prima di essere a sua volta cancellato — se avessi conosciuto la storia umana dietro al dipinto della Galletti non l’avrei fatto».
Se è vero che il graffitismo è l’espressione artistica più pop, nel senso di popolare, democratica — “just push the button”, si dice, riferendosi al tappino dello spray — diventare qualcuno implica notti insonni, originalità e lotta per i migliori “spot”.
«Ci siamo battuti per anni per avere muri legali, mentre agli street artist, anche agli ultimi arrivati, viene concesso molto più spazio e questo crea risentimento», spiega Orghone, 20 anni di graffiti alle spalle, uno dei pochi italiani sulla scena internazionale. «Non c’è equità e per fare uno sfregio — aggiunge sarcastico — bastano 2 euro e 30 secondi ». Alcuni stereotipi si possono sfatare, ad esempio che i writer non sappiano disegnare. Tra i più bravi nel campo figurativo ci sono Hitness, Mr Thoms, Gomez, tutti graffitari. I pezzi dello stesso Orghone presentano incursioni figurative di alto livello tecnico; allo stesso tempo molti lavori di street art vengono realizzati solo ricalcando un’immagine proiettata su muro. E sono tante le opere di street art illegali così come ci sono molti muri per i graffiti legali, riportati sul sito di Roma Capitale Urbanact.it.
Un’opera figurativa è più leggibile di un graffito. «Ma tanti pezzi sono splendidi — sottolinea Alice — Solo la storia dirà chi è davvero artista». Lasciando ai posteri l’ardua sentenza, resta una certezza: la legge della strada non sarà scritta, ma è chiara. Lo era anche per Laura Galletti che, davanti allo suo muro imbrattato ha detto: «Io avevo coperto altri disegni, chi dice che il mio fosse migliore del loro?».

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Da Alice a Borondo,
ecco i lavori degli street artist coperti dai writer

 

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Roma, ancora nel mirino la ‘pittrice clochard’:
vandalizzato il murale di Laura

 

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L’INIZIATIVA

Segnala le opere di street art copert, invia le tue foto


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Arturo Donati – Gli spiriti delicati non possono che cercarsi. E quando il prodigio dell’incontro si avvera, il valore della pienezza della relazione accresce il significato della loro vita: recensione al libro “Specularmente”.

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Coperta 252

Margherita Guidacci Margherita Pieracci Harvell

Specularmente. Lettere, studi, recensioni.

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Con intelligenza letteraria la curatrice Ilaria Rabatti ha assemblato ad arte degli scritti molto interessanti, componendoli in un gradevole volume in quattro parti, ricco di note la cui trama unitaria è possibile cogliere da parte del lettore più attento.
Appaiono lettere, studi e recensioni che favoriscono la conoscenza di due scrittrici amiche e confidenti che meritatamente occupano uno spazio rilevante nel panorama poetico e letterario: Margherita Guidacci e Margherita Pieracci Harwell. I testi consentono la focalizzazione di alcuni aspetti delle loro radici letterarie comuni e delle consonanze spirituali con altri autori di riconosciuta importanza. La prima sezione del libro si compone di undici lettere, edite per la prima volta, che Margherita Guidacci, poetessa fiorentina nata nel 1922, indirizza da Roma all’amica scrittrice e critico letterario Margherita Pieracci Harwell. Interessano il biennio 1987-89 durante il quale la destinataria era residente a Chicago ove insegnava.
Sono anche gli anni di intensa attività poetica e culturale che precedono la grave malattia che paralizzerà Margherita Guidacci, comunque lucida sino alla morte avvenuta nel 1992. Nelle lettere, con toni improntati al rispetto e al desiderio di confronto leale, emergono sia la temperie culturale di quegli anni che l’intenzione di fare della poesia e della letteratura una pratica non retorica ma fondante della vita accettata in toto, ove i piccoli eventi e le grandi amicizie si riconducono alla stessa matrice spirituale. Si evincono preoccupazioni editoriali, consigli di letture e brevi riferimenti ad autori da ricordare per favorire la conoscenza di aspetti significativi della circolazione del pensiero europeo. Si rivela anche la viva gratitudine della Guidacci al prestigioso magistero di Giuseppe De Robertis, con il quale si era laureata nel 1943 con una tesi su Giuseppe Ungaretti.
L’influsso formativo del De Robertis, insigne conoscitore dei classici, accomunava le due amiche, basti pensare agli studi su Leopardi condotti da Margherita Pieracci Harwell. Altrettanto le univa la stima profonda per il genio letterario di Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna 1923, Roma 1977). Alla conoscenza dell’opera della Campo, Margherita Guidacci fu introdotta dalla stessa Pieracci Harwell, nota a tutti per essere stata proprio la cara Mita, cioè la confidente spirituale, destinataria delle copiose lettere di Cristina Campo che costituiscono uno degli epistolari di maggior spessore spirituale e letterario che la letteratura italiana contemporanea possa vantare.
Nella seconda sezione di “Specularmente” sono presenti due note recensioni di Margherita Guidacci. La prima è quella a “Il flauto e il tappeto”, apparsa nel 1972 in “La Nuova Antologia” n. 2054. Per quanto sintetica, tale recensione resta ancora oggi uno dei testi brevi più acuti dell’ormai ricca critica su Cristina Campo. In essa affronta, con elegante sintesi, una delle opere fondamentali dell’autrice bolognese cogliendo la cifra mistica che trama la suggestiva scrittura di Cristina Campo, protesa a fare della ricerca di stile un esercizio preparatorio alla lettura recondita della purezza dell’essere.
Segue la recensione al saggio di Margherita Pieracci Harwell “I due poli del mondo leopardiano”, pubblicata il 25 settembre 1987 su “L’Osservatore Romano”. Nel lavoro esaminato viene riconosciuto alla studiosa il merito di fornire apporti personali all’analisi del Poeta di Recanati, sulla base di un solidissimo approfondimento delle fonti, accompagnato dalla competenza di trattare temi filosofici notoriamente complessi in Leopardi. Nelle ultime sezioni del libro è Margherita Guidacci a essere la recensita… [Leggi tutto aprendo il file PDF allegato]

 

Arturo Donati, Recensione al libro “Specularmente”

 

 

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Vedi anche:

Margherita Guidacci, la vita e la poesia
Da Vitolini a Chicago, Margherita Pieracci Harwell ambasciatrice di italianità nrl mondo
Cristina Campo
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Intervista a Giovanna Fozzer
Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

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Luca Grecchi – Perché la progettualità?

Perché la progettualità?

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Luca Grecchi

Perché la progettualità?

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Il mio intervento Sulla progettualità, scritto di apertura di questo nuovo formato “in progress” della rivista Koinè, ha dato finora luogo, dopo circa due mesi, ad alcune reazioni poco argomentate, e ad alcune risposte argomentate. Cercherò, in questa sede, di dare conto di entrambe, convinto come sono del necessario carattere dialettico della filosofia; e convinto come sono, da sempre, che solo buone ragioni ed un atteggiamento costruttivo possono consentire ai giovani di chiarirsi le idee fuori dai desueti luoghi comuni, e di agire poi, con la propria testa, per modificare il mondo nella maniera migliore.
Comincerò facendo un passo indietro, a volte utile, come si sa, per farne poi due avanti. Il passo indietro riguarda alcune reazioni di “terrore” suscitate dalla prospettiva della progettualità (oltre che dalla idea che chi partecipa ad un dibattito, non importa se su una rivista o altrove, possa confrontarsi anche in modo serrato, per valutare se vi è o meno una convergenza verso una certa tesi). Non entro ovviamente nei casi specifici, perché è più interessante, in filosofia, il carattere generale di queste obiezioni, che incontrano peraltro oggi un consenso diffuso. L’unico modo per rispondere, come sempre, è argomentare, ed in particolare chiarire perché è necessario parlare di “progettualità”, anziché dedicarsi ai tanti temi che la filosofia offre; occupazioni “non indegne” – come direbbe Platone nella Lettera VII –, che garantiscono peraltro migliore accoglienza accademica e sociale, ma che a mio avviso non tengono conto della gravità della situazione in cui viviamo.
Ebbene: premesso che continuo anche io con i vari lavori scientifici2, per vari motivi necessari, ritengo che nella vita, in generale, sia indispensabile dare un ordine di priorità alle cose, dalle più importanti alle meno importanti. Nel mondo ci sono parecchie centinaia di milioni di persone che non dispongono di cibo, acqua, medicine; decine di milioni di bambini nel sud del mondo che conducono una vita infernale; anche in Occidente il degrado materiale cresce, ma cresce ancora di più la pochezza spirituale, l’indifferenza verso le altre persone, la conflittualità; il pianeta è inoltre progressivamente avvelenato dalla brama di profitto, da parte di un capitale incurante di ciò che accade per effetto delle proprie produzioni. Questo solo per limitarmi all’essenziale nel descrivere uno stato di cose sicuramente noto, ma spesso non conosciuto nelle sue cause (senza conoscere le quali, però, non si capisce granché). Ora: poiché questi fenomeni non erano presenti, o comunque non in queste dimensioni, nei secoli passati, in cui vigevano differenti modi di produzione, la causa più probabile di questi fenomeni mi pare essere – data anche la sua struttura di funzionamento – il modo di produzione capitalistico. Mi pare infatti che la generalizzata estensione al globo di modalità proprietarie privatistiche (in cui cioè i proprietari dei mezzi della produzione sociale privano tutti gli altri di quei mezzi e dei relativi prodotti), modalità distributive mercificate (in cui tutto è merce, ossia strumento da utilizzare, comprese la natura e le persone), e modalità sociali che pongono il denaro come supremo criterio di valore, producano proprio quello che ho qui sinteticamente descritto: diseguaglianze, ingiustizie, indifferenza, conflitti, inquinamento, alienazione.
Che fare? I filosofi, solitamente, si tengono alla larga da queste tematiche. Qualcuno se ne occupa di passaggio, come alcuni maitres à penser molto noti, i quali effettuano anche dure critiche al sistema, arrivando perfino a dire che si dovrebbe ragionare sulle alternative al capitalismo. Tuttavia, quando poi qualcuno cerca effettivamente di ragionare su queste alternative, ossia di mostrare come potrebbe essere – basandosi su una determinata concezione della natura umana: l’uomo del resto, come ogni ente, ha alcune determinate caratteristiche costitutive – un modo di produzione sociale per essere migliore, ecco che scatta l’accusa di “ideologia”, di “terrore”, di “giacobinismo”. Ora: per comprendere il motivo per cui persone intelligenti che vivono, consapevoli, in un modo di produzione massimamente distruttivo e pianificatore come quello capitalistico – che pianifica perfino i singoli movimenti dei lavoratori nella produzione, le reazioni psicologiche delle masse ai messaggi consumistici, addirittura le probabilità di subire conseguenze penali in tempi limitati producendo beni dannosi per la salute pubblica – sono “terrorizzate” di fronte alla proposta di delineare un differente modo di produzione, occorre appunto entrare nella psicologia collettiva del modo di produzione stesso, che produce in massa strutture della personalità ad esso funzionali. Faccio però notare che, più che il “terrore” verso un evento improbabile e comunque molto in là dal venire, mi sembra che queste persone esplicitino, con le loro parole, una mal celata repulsione verso chi fa filosofia come la faceva Platone nella Repubblica, o Aristotele nella Politica quando parlava dello «Stato ideale»: verso coloro, insomma, che fanno filosofia occupandosi in primis dei problemi più importanti; ed occupandosene per cercare di risolverli. In questo modo, infatti, costoro vedono chiaramente sminuito il loro modo consueto di approcciarsi alla filosofia (che è in alcuni casi accademico-iperspecialistico, ed in altri casi ludico-passatempistico): questo, non altro, produce in loro ostilità. Purtroppo, anziché reagire interrogandosi – atteggiamento propriamente filosofico –, costoro reagiscono arrabbiandosi, un po’ come i bambini piccoli si arrabbiano coi genitori quando questi gli dicono che è finita l’ora di giocare, ed occorre andare a fare il bagnetto. Ovviamente, scrivo queste cose non per fare arrabbiare ulteriormente queste persone, ma solo per farle riflettere, anche se probabilmente otterrò l’effetto opposto.
Per quanto mi riguarda – dato che significativamente le reazioni più stizzite si sono indirizzate verso il mio scritto: dirò poi perché –, penso di avere mostrato, in molti libri ed in università, che mi occupo di progettualità perché lo ritengo necessario, specie nella attuale situazione. Dopo infatti avere identificato nelle strutture costitutive dell’attuale modo di produzione sociale la causa prima della maggior parte della infelicità del nostro tempo, non posso ritenere sufficiente occuparmi di temi filosofici marginali o “di attualità”; anche quando me ne occupo peraltro, come negli articoli su quotidiani on line e riviste, lo faccio sempre, come sa chi mi legge, solo per mettere qualche semino affinché altri dopo di me riescano poi a cambiare il mondo per il meglio.  È una questione di responsabilità e di priorità. Come sa chi ha un bambino piccolo – torno su questa metafora a me particolarmente cara –, è interessante valutare di quale colore dipingere le pareti della sua cameretta, o con quali ninnenanne farlo addormentare, ma la priorità è che il bambino sia nutrito, accudito ed amato. Ecco: chi non si occupa delle cause prime per cui centinaia di milioni di persone vivono ogni giorno in maniera miserevole, a mio avviso non dà le giuste priorità alle cose, e pertanto non è responsabile, nel senso che non ha di che rispondere ai gravi problemi che distruggono l’esistenza di molti suoi simili. Detto questo, come ovvio, ciascuno può occuparsi di ciò che desidera; tuttavia, per rispetto, eviti di screditare chi si occupa di temi importanti tirando fuori la solfa desueta del “totalitarismo”, che non si può davvero più sentire. Se qualcuno vuole teorizzare che la progettualità conduce inevitabilmente al totalitarismo, strutturi sul piano teoretico i nessi di questo legame; prenda però anche sul serio le conseguenze di ciò che afferma, ossia che è meglio accettare “a prescindere” il modo di produzione in cui si vive anziché progettare, e soprattutto non si dimentichi di argomentare per quale motivo non sarebbe totalitario il capitalismo, che pure pianifica ogni cosa per il massimo profitto incurante dell’uomo e della natura. La richiesta di argomentazione teoretica non è uno strumento di tortura, ma il solo modo accettabile, da sempre, di fare filosofia.
Detto questo passo alle cose più importanti, ossia appunto ai contenuti teoretici. Il mio testo è stato infatti seguito da un saggio di Alessandro Monchietto, su cui tornerò lungamente, e da due saggi, uno di Claudio Lucchini e l’altro di Alessandro Pallassini, su cui invece non mi soffermerò molto. Non mi ci soffermerò in quanto il saggio di Lucchini ripropone, ottimamente, le tesi di Marx (oltre che di alcuni altri autori) sulla progettualità, argomentando in sostanza la necessità di proseguire il discorso da me iniziato, e rendendolo anzi più concreto; il saggio di Pallassini fa la stessa cosa prendendo come riferimento Spinoza. Anche il più breve testo di Antonio Fiocco si pone chiaramente in continuità con le tesi da me avanzate. Il saggio di Alessandro Monchietto, invece, avanza diverse interessanti critiche al discorso progettuale che ho tentato di svolgere, per cui ritengo doveroso analizzarlo. [… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Luca Grecchi,
Perché la progettualità



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Elio Vittorini (1908-1966) – L’ambivalenza dell’animo favorisce, naturalmente, l’affermazione italiana del fascismo. È sempre tanto più facile lasciarsi prendere da una corrente che resistervi.

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Il garofano rosso

Il garofano rosso

Ha il fascino dei libri
della prima giovinezza,
quando il talento
è una specie di follia,
e vivere è come viaggiare
in incognito con se stessi …
Gianna Manzini

«Il principale valore documentario del libro è nel contributo che può dare a una storia dell’Italia sotto il fascismo e ad una caratterizzazi’bne dell’attrattiva che un movimento fascista in generale, attraverso malintesi spontanei o procurati, può esercitare sui giovani. In quest’ultimo senso il libro ha un valore documentario non solo per l’I talia.
Si parla dal ricordo d’infanzia che viene, nelle prime pagine, attribuito al ragazzo protagonista. “E. ricordo d’un desiderio, conosciuto nella primissima infanzia, di uccidere qualcuno. L’esistenza successiva del protagonista e l’educazione ricevuta non lo hanno eliminato, o lo hanno semplicemente represso. A sedici anni egli è ancora posseduto da una vaga impressione che, per affermare se stesso, “entrare nella vita degli adulti”, essere
riconosciuto uomo, occorra “forse” uccidere qualcuno o, comunque, versare sangue.
Tutti i ragazzi intorno a lui si comportano come se fossero, tutti, posseduti più o meno, e più o meno vagamente, dalla stessa impressione. C’è in loro, verso il mondo costituito) una diffidenza che li accomuna e un atteggiamento di rivolta non preciso ma costante per cui sono portati a credersi rivoluzionari e sono pronti a simpatizzare con qualunque movimento politico appaia loro rivoluzionario. Hanno sentito parlare di socialismo, hanno sentito parlare di comunismo, e vedono intanto il fascismo.
Sono i giorni del delitto Matteotti, e i tempi, in Sicila, del soldino. Il fascismo ha ucciso Matteotti: vale a dire ha ucciso, come ciascuno di essi ha l’impressione d’aver bisogno di fare, qualcuno. Agli occhi loro, che vedono gli altri partiti non uccidere, il fascismo è forza, e come forza è vita, e come vita è rivoluzionario. Ma hanno sentito parlare, ripeto, di socialismo, e di rivoluzioni comuniste per il socialismo. Ne sanno quanto basta per pensare che ogni mutamento rivoluzionario del mondo debba avvenire in senso socialista. Il mondo che loro vorrebbero è come s’immaginano che lo voglia il socialismo. Cosi le ragioni confessate per le quali aderiscono al fascismo e fanno chiasso dentro al fascismo derivano, nella maggioranza, dall’idea che il fascismo non possa non avere un contenuto socialista.
Ne nasce in loro, coi dubbi che pur conservano sulla possibilità di un tale contenuto nel fascismo, una condizione di ambivalenza. Essi sono disposti al socialismo e al fascismo nello stesso tempo. E l’ambivalenza del loro animo favorisce, naturalmente, l’affermazione italiana del fascismo. È sempre tanto più facile lasciarsi prendere da una corrente che resistervi.
Un ultimo avvertimento.
Lo stato d’animo giovanile rispetto al fascismo non è analizzato nel libro in modo da riflettere storicamente qual esso fu al sorgere della dittatura. Vi si combinano convinzioni che si erano formate, tra i giovani, più tardi, e illusioni molto comuni proprio negli anni in cui scrivevo il libro, il ’33 e il ’34. Anzi, i giudizi espliciti su fascismo e comunismo messi in bocca al ragazzo Tarquinio, l’amico più grande del ragazzo protagonista, sono tipici di quegli anni. Ricorrevano di continuo nella stampa dei G. U. F. e persino in qualche settimanale di Federazione. Doveva essere la posizione che prese la stampa ufficiale nei riguardi degli avvenimenti viennesi di febbraio ’34, a darci la prima smentita per noi efficace circa il nostro granchio».

Milano, dicembre 1947.

Elio Vittorini, Il garofano rosso, Mondadori, 1975, pp. 213-214.

Risvolto di copertina
Scritto negli anni trenta, ma pubblicato in volume solo nel dopoguerra a causa della censura fascista, questo romanzo di Elio Vittorini è un'opera corale: il conteso «garofano rosso», dono di una studentessa liceale a un compagno di scuola, interessa e coinvolge oltre all'autore-protagonista diversi gruppi di ragazzi furiosamente vitali. Erano gli anni 1920-24, i tempi del delitto Matteotti. In quel clima rovente, anche un garofano rosso all'occhiello, un ingenuo pegno d'amore, poteva apparire un simbolo sovversivo. I giovani erano posseduti allora da una diffidenza e da un bisogno di ribellione che li portava a simpatizzare con qualsiasi movimento rivoluzionario, con il presagio però che altre esigenze avrebbero finito per prevalere: come in politica, cosi nell'amicizia e anche in amore, la stessa incertezza dolorosa, la stessa rabbiosa necessità di «entrare nella vita degli adulti.

 

Immagine in evidenza:
Pablo Picasso, Natura morta con testa antica, part., 1925. Museo Nazionale di Arte Moderna, Parigi.

 

 


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Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

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«Tommaso Moro [nella Utopia] supera e rovescia l’impostazione che certi Padri della chiesa avevano dato al problema della proprietà: secondo tale impostazione […] il male non sta nella proprietà in sé, nel possesso delle ricchezze, ma nell’attaccamento morboso ad esse da parte dell’uomo. Ciò significa che la causa dei mali sociali è posta solo all’interno dell’uomo, ossia nel peccato del singolo. […] Moro, come s’è appena visto, capovolge tale schema e fa della trasformazione radicale delle strutture esterne la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la costruzione di un’umanità e di una società autenticamente virtuose e felici. Con Moro, la destinazione universale dei beni cessa di essere, com’era avvenuto per secoli, un astratto principio etico-religioso, per assumere una chiara e incontestabile valenza politica.
Ho parlato di trasformazione necessaria ma non sufficiente delle strutture, perché se ad essa non s’accompagna anche un mutamento delle coscienze, la costruzione di una società giusta e fraterna non sarà possibile. Puntare tutto e unicamente sulle strutture significa commettere un errore non meno grave di coloro che puntano tutto e unicamente sulle coscienze. Se la via della “sola coscienza” s’è rivelata chiaramente ideologica, dal momento che per millenni non è riuscita non dico a mutare ma nemmeno a scalfire le strutture di male su cui si reggono le nostre società, non meno mistificante s’è rivelata la via della “sola struttura”, la quale, nel periodo pur relativamente breve della sua applicazione, ha prodotto uno stato di cose che, per molti aspetti, è ancora più ingiusto, oppressivo e aberrante delle vecchie strutture cui s’è sostituito. Ma il problema non si risolve nemmeno attraverso la via che, pur riconoscendo la necessità d’intervenire tanto sulle strutture quanto sulle coscienze, tenta di stabilire tra i due ambiti un rapporto di prius-posterius.
Se si ritiene d’intervenire prima sulla struttura e poi sulla coscienza (o viceversa) non si fa altro che ricadere nell’errore che ho testé denunciato. Poiché è nell’indeterminatezza dell’intervallo tra il prima e il poi che s’annida il pericolo. Può accadere infatti, come storicamente è accaduto, che se si considera come prius la coscienza, si può attendere secoli e perfino millenni prima che arrivi il posterius, ossia il mutamento della struttura; se invece si considera quest’ultima come prius, si corre il rischio di non vedere mai il posterius, ossia il momento della coscienza; perché nel frattempo quest’ultima può essere, nonché mutata, semplicemente distrutta dalla violenza degli eventi che necessariamente accompagnano l’instaurarsi di nuove strutture, quando ciò avvenga contro o al di sopra delle coscienze dei singoli. Per queste ragioni, struttura e coscienza non vanno viste in termini di prius-posterius, né tanto meno in termini di separatezza e contrapposizione. Coscienza e struttura devono procedere di pari passo nel processo di trasformazione; devono cioè essere in grado di interagire dialetticamente, altrimenti si creeranno inevitabilmente quelle enormi sfasature storiche cui dianzi accennavo. Se è vero dunque che la condizione prima per la costruzione di una società giusta, fraterna e comunitaria risiede nel raccordo dialettico tra struttura e coscienza, allora l’Utopia, dove tale condizione è soddisfatta, si rivela anche per questo, oggi più che mai, come un prezioso paradigma per l’azione politica.

Ma il contributo di Moro al principio comunitario non finisce qui. Egli infatti non solo conferisce una valenza politica all’istanza cristiana della destinazione universale dei beni, ma va anche oltre la stessa istanza platonica, cui pure, come s’è già detto, s’ispira. Occorre infatti notare che la comunanza dei beni, così com’è sviluppata nell’Utopia, assume aspetti e significati suoi propri, rispetto alla Repubblica.
Intanto perché […] More prende “l’aristocratico” principio comunitario istanziato da Platone e lo trasforma da “privilegio di pochi in diritto di tutti”. L’estensione del principio comunitario all’intero corpo sociale costituisce di per sé un salto qualitativo. Quello di Utopia, dunque, è ben lungi dall’essere un “comunismo signorile”, come alquanto frettolosamente lo giudicò Croce […]
Un secondo elemento che differenzia la proposta moriana da quella platonica sta nel fatto che mentre per il filosofo greco la comunanza dei beni aveva una finalità essenzialmente politica (in quanto mirava alla coesione della classe dirigente e alla saldezza ed unità dello stato), per l’umanista inglese, invece, il principio comunitario era diretto principalmente a sradicare i mali sociali. Finché ci sarà la proprietà privata, dice Itlodeo, continuerà a gravare sulle spalle della gran parte dell’umanità, che è poi anche la migliore, “l’angoscioso e inevitabile fardello della miseria e delle tribolazioni”. Platone aveva affermato con forza, attraverso la comunanza dei beni tra i custodi e i reggitori, il primato della politica sull’economia. Moro fa un passo innanzi e sottomette non solo l’economico al politico, ma anche il politico al sociale. Nell’Utopia viene istanziato, forse per la prima volta nella storia, il primato del sociale. […]
Un terzo tratto eli differenziazione tra i due autori può essere ravvisato nel fatto che mentre la polemica di Platone contro la proprietà privata si svolge prevalentemente sul piano dei principi e, in quanto tale, può apparire, per certi versi, astratta e piuttosto sommaria, Moro, invece, come s’è visto, muove alla proprietà una critica puntuale, serrata e storicamente situata, a tal punto che la sua Utopia (e in particolare il primo libro) costituisce non solo uno dei più lucidi e significativi attacchi teorici che siano mai stati portati all’istituto della proprietà privata, ma anche un prezioso documento storico che lo stesso Marx utilizzò per disvelare “l’arcano dell’accumulazione originaria”. A ciò si aggiunga, infine, che mentre nella Repubblica il principio comunitario riguarda solo i beni di consumo, nell’Utopia, invece, […] tale principio si applica anche e soprattutto ai mezzi di produzione. In tal modo Moro non solo supera Platone, ma precorre anche Marx, ponendosi d’imperio nel solco del socialismo moderno, di cui egli fornisce la prima traccia.
Sia chiaro che riconoscere questo non significa limitare o ridurre il debito di More nei confronti di Platone. […] Del resto, che l’Utopia fosse andata oltre la Repubblica non sfuggì agli amici di Moro, e forse egli stesso ne ebbe coscienza. Queste precisazioni nulla tolgono a Platone, che resta per Moro un punto di riferimento costante e una delle fonti principali a
cui egli attinse per elaborare il suo principio comunitario.
[…]
Certamente, il vero limite della comunanza dei beni proposta da Moro, ciò che fondamentalmente lo differenzia, in negativo, dal “socialismo scientifico”, è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi rispetto al fine. L’ordinamento comunitario di Utopia non è infatti, come per Marx, il risultato della lotta di classe, della vittoria del proletariato sulla borghesia, ma è scaturito dalla volontà buona di un conquistatore illuminato, Utopo, appunto. Moro credeva che la società giusta potesse nascere dall’alto, per volontà dei governanti e non del popolo, in cui pure, come si vedrà, riponeva la sua fiducia. E ciò era, evidentemente, un’illusione. Egli si piegò sulle miserie del popolo, ne scorse le cause e, soprattutto, ne indicò quello che a lui sembrava l’unico, reale, duraturo rimedio: la società comunitaria. Ma qui si fermò.
Non riuscì a scorgere il realizzatore storico del suo progetto, la forza capace di provocare un mutamento così radicale. Il proletariato non esisteva come “classe”, come forza storica su cui puntare per costruire la nuova società, in quanto non si erano ancora prodotte le condizioni storiche per la sua nascita, ossia lo sviluppo del capitalismo e la grande industria. In ogni caso, anche se si fossero date le condizioni oggettive, se ci fosse stata cioè una classe adeguatamente motivata e abbastanza forte da sovvertire l’ordine esistente per instaurarne uno nuovo, Moro non vi avrebbe fatto ricorso, perché aborriva i tumulti, le sedizioni, le violenze. Egli pensava che la trasformazione della società potesse avvenire attraverso un intervento dall’alto. Donde il ricorso al “legislatore saggio”, l’esigenza di un “fondatore”, la ripresa della non mai troppo lodata istanza platonica del “re filosofo”. Questa profonda illusione, che è, al tempo stesso, come si vedrà poi, una grave incongruenza nel pensiero politico di Moro, costituisce il vero grosso limite della sua istanza comunitaria. Che è però un limite comune a tutti i maestri del pensiero utopico occidentale fino a Marx; col quale la tensione realizzativa si fa più forte, avendo egli individuato nel proletariato industriale il portatore storico del progetto universale di liberazione umana. Che poi le cose, nella realtà storica concreta, siano andate in una direzione per molti versi opposta a quella sperata da Marx è un altro discorso.
Qui tuttavia mi preme mettere in evidenza un altro elemento che differenzia, questa volta in positivo, la proposta comunitaria di More dal comunismo di Marx. E cioè il fatto […] che nell’Utopia, la trasformazione delle condizioni esterne venga considerata come necessaria, ma non sufficiente, per la costruzione della nuova società. Marx riteneva, com’è noto, che la trasformazione della struttura economica, ossia dei rapporti di produzione, fosse di per sé sufficiente a cambiare la sovrastruttura, ossia l’insieme dei rapporti politici, sociali, etici, giuridici, religiosi, culturali ecc.
Questo aspetto della concezione storico-materialistica tendente a considerare, deterministicamente, la coscienza come un mero riflesso del modo di produzione, questo abbaglio economicistico – dovuto forse più ai marxisti che a Marx –  è una delle principali cause della crisi del marxismo e dello scacco ch’esso ha subito nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale. Dal modo in cui è strutturata Utopia si evince invece che non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze.
[…] Ma dallo scritto di Moro si può ricavare almeno un’altra lezione non meno importante della precedente. Infatti, come da un lato Moro si sforzò di superare la concezione spiritualistica tipicamente cristiano-medievale, che credeva di poter arginare le iniquità umane facendo presa soltanto sulla coscienza, allo stesso modo, egli si guardò bene dal credere che le radici dei mali sociali fossero solo esteriori e d’ordine esclusivamente economico. […] Di qui il ruolo primario, fondamentale, che in Utopia viene assegnato all’educazione, alla crescita culturale e spirituale di tutti i cittadini.
Perché vi sia autentica comunità non è sufficiente mettere in comune ciò che si possiede individualmente o, peggio ancora, accentrare nelle mani dello stato tutti i beni dei singoli. Occorre anche e soprattutto sviluppare una coscienza comunitaria, a cui si può pervenire soltanto se si adotta una nuova scala di valori, all’interno della quale, gli “altri” vengano considerati non più come antagonisti o nemici, né alla stregua di meri “produttori associati”, ma semplicemente come uomini, come propri simili, ossia come esseri protesi ad espandere, con la propria, l’altrui libertà e umanità. Non è un casose, com’è stato opportunamente sottolineato, il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia»,
Edizioni Dedalo, 1991, pp. 190-197.

 

 

ncisione di Ambrosius Holbein per l'edizione del 1518 dell'Utopia di Tommaso Moro

Incisione di Ambrosius Holbein per l’edizione del 1518 dell’Utopia di Tommaso Moro.

Titolo originale:
Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia

 

Risvolto di copertina
L'Utopia di Tommaso Moro costituisce un punto di riferimento imprescindibile nella storia del pensiero moderno. L'opera, tuttavia, nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni, è stata fatta oggetto di gravi fraintendimenti. Questo libro, oltre a spiegare le razioni di tali fraintendimenti, tenta di enucleare, sulla base di incontrovertibili dati storici e filologici, gli aspetti più significatlvi del progetto utopico moriano. All'antropologia pessimistica dell'"homo homini lupus", Moro contrappone la suamite e cristiana concezione dell'"homo homini salus", contro l'insorgente e deteriore machiavellismo, egli afferma l'unicità, cui devono conformarsi tanto gli individui quanto gli stati; alla prassi rapace del capitalismo nascente, egli oppone una societàsolidale e comunitaria, contro la nobiltà frivola e oziosa egli indica nel lavoro il primo dei doveri sociali. Istanza, inoltre la sovranità popolare, la rotazione delle cariche pubbliche, la tolleranza religiosa, la centralità della famiglia, il sacerdozio delle donne, il divorzio, l'etica del piacere, l'eutanasia la pace universale. Purtroppo, molti di questi problemi sono ben lungi dall'essere risolti. In un epoca come la nostra, caratterizzata da un forte disorientamento teorico e pratico, l'Utopia può costituire un valido aiuto per affrontare la crisi in atto.

 

***

 


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Fernando Birri – «Para que el lugar de la Utopia, que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”, esté en alguna parte».

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«Para que el lugar de la Utopia,

que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”,

esté en alguna parte».

 

Fernando Birri,
in occasione dell’inaugurazione a Cuba
de la Escuela Internacional de Cine y Television, il 13 dicembre del 1986.
Con queste parole indicava il compito che egli attribuiva
alla scommessa implicita nella costituzione della Escuela.

***

 

 

«Il nostro cinema, le nostre vite
sono un atto, un seme, un fiore,
un frutto carnale di resistenza poetico-politica.
Quando dico il nostro cinema, le nostre vite,
non sto usando la retorica
di una prima persona in plurale:
tutto il contrario,
sto usando il plurale del popolo
e dei cineasti del popolo.
Questa resistenza poetica
si chiama Nuovo Cinema Latinoamericano»

Fernando Birri

Manifesto dei 30 anni di Nuovo Cinema Latinoamericano, 1985
***

Una finestra sull’utopia

«Lei è all’orizzonte» dice Fernando Birri.
«Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là.
Per quanto io cammini non la raggiungerò mai.
A cosa serve l’utopia?
Serve proprio a questo: a camminare.»
Da “Las palabras andantes”, di Eduardo Galeano, Finestra sull’Utopia

 ***

220px-Fernando_Birri_(Ceremonia_de_Clausura)

***

Che-Muerte-de-la-Utopia

Che: ¿muerte de la utopia? (1997)

Con motivo del 30 aniversario de la muerte del Che Guevara, Birri viajó, cámara en mano, por varios países tras las huellas de este legendario personaje. El filme reflexionar sobre el mito y el hombre. Pero, sobre todo, es un pretexto para preguntarse sobre la vigencia y el significado de la utopía.

 

 

BIRRI, Fernando

Enciclopedia del Cinema (2003)
di Daniele Dottorini

Regista cinematografico argentino, nato a Santa Fe il 13 marzo 1925. Tra le figure più significative del cinema argentino moderno, radicato nella cultura latinoamericana ma fortemente legato all’Europa, sospeso tra documentazione della realtà e creazione di immagini poetiche, B. ha contribuito al rinnovamento del cinema sudamericano non soltanto con i suoi film, basati su un’originale rielaborazione della lezione neorealista, ma anche con il suo impegno costante per la formazione di nuove generazioni di autori. Il suo primo film a soggetto, Los inundados (1961), è stato premiato come migliore opera prima alla Mostra del cinema di Venezia del 1962. Interessatosi alla poesia fin da giovanissimo, nel 1943 fondò un teatro ambulante di burattini, il Retablillo de Maese Pedro. Dopo aver frequentato l’Universidad Nacional del Litoral, a Santa Fe, nel 1950 si trasferì a Roma per frequentare il Centro sperimentale di cinematografia, dove si diplomò nel 1952. Tornato a Santa Fe, nel 1958 fondò e diresse l’Instituto de Cinematografía de la Universidad Nacional del Litoral (da cui derivò la Escuela Documental de Santa Fe), un centro di formazione volto a promuovere un nuovo cinema latinoamericano, realista, nazionale e popolare, capace di sottrarsi al sottosviluppo culturale attraverso film di inchiesta su temi di interesse sociale. Il primo prodotto nato da questa esperienza fu Tire dié (1958), un documentario sulla vita nei quartieri poveri di Buenos Aires, realizzato con la collaborazione degli studenti e considerato l’atto di nascita del Nuevo Cine argentino. Tra le realizzazioni seguenti, di particolare rilievo La verdadera historia de la primera fundación de Buenos Aires (1959), mediometraggio che racconta le origini coloniali della capitale ispirandosi a un grande affresco dell’illustratore argentino Oski (pseudonimo di Oscar Conti), a sua volta basato sulla cronaca scritta nel 1535 dal lanzichenecco tedesco Ilrich Schimedl che nel film viene utilizzata come commento delle immagini. Los inundados, atto di denuncia delle condizioni della provincia di Santa Fe, esposta a periodiche inondazioni ‒ che suscitò subito l’attenzione della critica internazionale ‒ si caratterizza per l’impiego di codici della cultura popolare, come la poesia a braccio (i payadores) e il teatro comico (il sainete), che conferiscono al racconto un tono ironico. Dopo La pampa gringa del 1963, film sospeso tra fiaba e documentario, il golpe militare guidato dal generale Juan Carlos Onganía lo costrinse quello stesso anno a lasciare l’Argentina, chiudendo così l’esperienza della scuola, cui B. dedicò anche il libro La escuela documental de Santa Fe ‒ Una experiencia piloto contra el subdesarrollo cinematográfico en Latinoamerica, pubblicato nel 1964.

Fermatosi in un primo tempo in Brasile, paese che dovette presto abbandonare, sempre per motivi politici, tornò quindi in Italia. Qui, dopo aver collaborato con Ansano Giannarelli per Sierra maestra (1970) e Non ho tempo (1973), fu impegnato per dieci anni nel complicato lavoro di montaggio di Org (1979), film sperimentale, basato sulla complessa ricerca di associazioni oniriche tra suoni e immagini. All’inizio degli anni Ottanta, mentre riprendeva l’attività didattica fondando in Venezuela il Laboratorio Ambulante de Poéticas Cinematográficas (1982), i suoi interessi si concentrarono di nuovo sul documentario, come testimoniano i lungometraggi Rafael Alberti, un retrato del poeta por Fernando Birri (1983), Remitente Nicaragua: carta al mundo (1984), e Mi hijo el Che. Un retrato de familia de Don Ernesto Guevara (1985). Nel 1986 ha fondato, con Gabriel García Márquez, la Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños, a Cuba, di cui è stato direttore fino al 1991. I due artisti hanno inoltre collaborato alla sceneggiatura di Un señor muy viejo con unas alas enormes (1988), film tratto dall’omonimo racconto dello scrittore colombiano. Per la televisione tedesca ha girato Che: ¿muerte de la utopia? ‒ Che: Tod der Utopie? (1997), in cui, in occasione del trentennale della morte, è tornato sulla figura del guerrigliero argentino, ed El siglo del viento ‒ Das Jahrhundert des Sturms (1998), un percorso nel Novecento latinoamericano ispirato all’opera dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, La memoria del fuego (1982-1987), e realizzato fondendo materiali di repertorio e scene da uno spettacolo di burattini, primo amore del regista.Nel 1999 ha dato vita alla Fundación Fernando Birri de Artes Multimediales, con sede a Santa Fe, dedicata alla formazione di giovani artisti nel campo audiovisivo. Tra gli scritti da lui pubblicati, si segnalano: Pionero y peregrino (1987); El alquimista poético-político: por un nuevo nuevo nuevo cine latinoamericano, 1956-1991 (1996). bibliografia

A. Toni, Il cinema dell’America Latina dal 1959 ad oggi, in Storia generale del cinema, a cura di V. Bossoli, Roma 1977, pp. 405-29 (in partic. pp. 418-24).

Fernando Birri e la Escuela Documental de Santa Fe, a cura di L. Miccichè, Pesaro 1981.

Fernando Birri. Il nuovo cinema latino-americano, a cura di D. Fasoli, Roma 1988 (in partic. pp. 30-58).

P. D’Agostini, Il nuovo cinema latino-americano, Roma 1991, pp. 40-51.

P. Sendrós, Ferdinando Birri, Buenos Aires 1994.

J.C. Avellar, A ponte clandestina: Birri, Glauber, Solanas, García Espanosa, Sanjinés, Alea: teorias de cinema na América Latina, São Paolo-Rio de Janeiro 1995.

 

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Inaugurazione della sala Fernando Birri alla Casa Argentina di Roma

INTERVISTA INEDITA AL REGISTA FERNANDO BIRRI (A cura di MARCELLO CELLA e SIMONETTA DELLA CROCE)

 

 

 


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Arrigo Colombo – L’utopia è un progetto che ha la sua base nella stessa natura d’uomo. Le linee fondamentali del progetto stanno dunque già nella stessa natura d’uomo.

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Utopia e distopia

Utopia e distopia

Si comprende allora il senso nuovo dell’utopia come progetto della storia. In questa fase moderna il progetto che intenziona la storia occidentale, poi la storia universale; nell’universalizzarsi del prrocesso. Intenziona la prassi storica, umana, la società umana, l’«umanità» nel suo farsi, nel suo costruirsi; tesa ormai, impegnata sull’obiettivo della società giusta e fraterna.
Un progetto che si elabora e rielabora, si rifà sempre; che perciò può dirsi storico-metastorico, nel senso che trascende sempre il presente, e il futuro nella prospettiva del presente; è sempre al di là, ogni volta al di là non solo della società realizzata, ma di quella stessa progettata, della stessa possibilità progettuale del momento. Quelli che hanno identificato l’utopia con la categoria della «perfezione», perché ne hanno trovato il germe o l’idea in certi progetti letterari; e vi hanno discusso a non finire, si ritrovano spiazzati perché l’idea di perfezione è incongrua all’utopia: contrasta da un lato con la finitudine umana, dall’altro con la creatività in cui si essenzia lo spirito. Perciò le è incongrua l’idea di compimento, di stadio finale o supremo: una concezione del tipo hegeliano, chiusa nella ragione (nell’Idea) e nel suo manifestarsi […].
L’utopia è un progetto che ha la sua base nella stessa natura d’uomo, la quale però – lo si è visto – è potenzialità pura o quasipura, perché creatività. Perciò comincia dal nulla o quasi-nulla, dalla preistoria animale; poi dalla base animale e insieme spirituale. Che deve però realizzare, costruire creativamente. Il discorso già impostato
all’inizio. «Uomo sii uomo», sei uomo ma lo devi essere; lo sei potenzialmente, lo devi realizzare in libertà e creatività. Sei un essere di specie, un coessere; sei un’armonia di soma-psiche-pneuma; sei dotato di ragione e di volontà-amore: devi essere tutto questo, costruire il tuo essere-coessere, la tua persona-società; costruire una società nell’uguaglianza e nel vincolo della comune natura, il vincolo fraterno.
Le linee fondamentali del progetto stanno dunque già nella stessa natura d’uomo. Né può essere altrimenti; se appunto si tratta dell’uomo e non di un altro, non di un antropoide o di un «alieno». E però queste linee fondamentali son nulla o quasi-nulla in conseguenza della potenzialità pura o quasi-pura in cui giacciono, e in rapporto alla creatività che le dovrà realizzare. «Uomo sii uomo», ma lo sii autocostruendoti (Selbsterzeugung, la parola hegeliana, poi marxiana), lo sii nel modo più fortemente creativo; mentre sai che potresti essere anche un uomo-non-uomo, uomo-bestia; lo sei stato, lo sei ancora.
Senza questa riflessione sulla natura non si può capire la valenza etica dell’utopia, il suo imperativo, lo stretto dovere che la impone. o altrimenti giustizia e ingiustizia, amore e odio sarebbero indifferenti, il prevalere dell’uno o dell’altro affidato alla casualità, alla forza, o al calcolo per una società che funzioni. Non all’insuperabilità del vincolo etico, del dovere, del diritto. Né si potrebbe capire l’eutopia, il suo fondamentale e globale precomprendersi nel disegno della società buona, società giusta e fraterna. […]
L’utopia, il progetto della società giusta e fraterna, è dunque un progetto storico.

Arrigo Colombo, L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico,
in Utopia e distopia,
a cura di A. Colombo, Edizioni Dedalo, 1993, pp. 158-160.

 

Scritti di:
E. Baldini, L. Bertelli, G. Bof, G.C. Calcagno, G. Capone, A. Colombo, V. Fortunati, H. Hudde, S. Manferlotti, M. Moneti, G. Pirola, C. Quarta, A. Rizzi, G. Schiavone, G. Seclì, R. Trousson, L. Tundo, G. Zucchini

Risvolto di copertina

Il libro è mosso da un duplice intento, ch’è anche il nodo della discussione e del dibattito che lo anima. Anzitutto la rifondazione dell’utopia come progetto della storia, il progetto della società giusta e fraterna che muove la storia intera. Di contro al concetto usuale che ne fa un vagheggiamento irreale e fantastico, o un ideale comunque impossibile; ma anche contro la corrente che lo risolve nel fatto letterario, nel viaggio e nel romanzo. In secondo luogo la sceverazione dell’utopia dalla distopia ch’è il suo opposto, la società perversa; mentre l’utopia-eutopia e la società buona, la società di giustizia. Non si può dire che il comunismo sovietico fosse un’utopia: era il suo opposto, una distopia.

Arrigo Colombo, filosofo, responsabile del Gruppo di ricerca sull’utopia dell’Università di Lecce. Lavora sui problemi della società del nostro tempo e sul progetto utopico che la va trasformando: Martin Heidegger. Il ritorno dell’essere, Il Mulino, Bologna 1964; Il destino del filosofo, Lacaita, Manduria 1971; Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali, Dedalo, Bari 1978; Fourier. La passione dell’utopia (ed. con L. Tundo), Angeli, Milano 1988.

 

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Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.

Quale progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Alessandro Pallassini

Note marginali
per la progettazione di un comunismo della finitezza
a partire da Spinoza

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Ordo et connexio rerum
idem est ac
ordo et connexio idearum

Ringrazio Luca Grecchi e Carmine Fiorillo che mi hanno dato la possibilità di intervenire su un tema su cui li seguo da tempo e che mi interessa molto. Debbo precisare, però, che essendo un neofita della rivista – per quanto ne conosca alcuni pregevoli numeri – e dei suoi dibattiti interni cercherò di argomentare alcune tesi che non so quanto possano essere strettamente coeve al dibattito che si sta sviluppando, ma che tuttavia credo possano ricoprire un certo interesse per lo stesso. Sebbene l’analisi parta da lontano ed abbia un taglio incentrato principalmente, soprattutto nella prima parte, sulla filosofia di Spinoza, crediamo tuttavia che questa scelta non solo non sia in contrasto con la tematica proposta dalla rivista, bensì costituisca una modalità di approccio che, esplicitando i propri fondamenti filosofici, contribuisca al dibattito circa la natura umana e la pianificazione, che nel nostro caso chiamiamo programmazione e tendiamo a declinare secondo due direttrici, ovvero, anticipando quanto andremo a dire nei paragrafi successivi, come programmazione attuale e come possibile programmazione\progettazione futura.
Mi concentrerò su quello che, riprendendo le analisi di A. Tosel, chiamo comunismo della finitezza, ovvero su una prospettiva di programmazione sociale che tenga insieme una base ontologica fondata sul riconoscimento della finitezza umana, una base etica che faccia sistema con l’ontologia e una sfera politica che funga da dispositivo immanente per la progettualità umana, declinata secondo la sua dimensione alienata – propria dell’attuale fase storica – e secondo una prospettiva di liberazione per il futuro e conforme a natura\concetto umano.
Tuttavia, parlare dei temi che vengono proposti è particolarmente difficile e come tutte le imprese che riguardano l’intero e non una sua singola parte portano con sé il rischio che ci si perda nell’argomentazione. Proprio per questo motivo, cercherò di trattare il tema per progressive camere di compensazione, argomentando dal più generale al più particolare e tornando nel finale sulla prospettiva futura.
Affronterò, pertanto, la discussione di sguìncio, proponendo alcuni temi di ordine essenzialmente spinoziano circa la condizione ontologica degli esseri umani, il rapporto tra ontologia, etica e politica, la programmazione sociale – declinata sia come dispositivo pedagogico oppressivo, sia come progettualità futura – e l’idea di comunismo della finitezza ed infine alcune note tra il presente ed il futuro a mo’ di conclusione estremamente provvisoria.
Nello specifico, il primo paragrafo è dedicato al concetto di produttività anonima della Sostanza e di naturalità umana, mentre il secondo paragrafo, seguendo la medesima linea, cercherà di concentrarsi sul rapporto tra finitezza umana e Sostanza\Natura, sull’idea di natura umana e su quella di etica come modalità non scissa dall’ontologia e dalla politica.
I paragrafi tre e quattro, in qualche forma, propongono una fenomenizzazione – non una fenomenologia – delle strutture portanti della società e dei suoi dispositivi.
Infine, l’ultimo paragrafo riprenderà, in forma ontologica, una prospettiva comunista, declinandola secondo quello che, a partire dalle analisi di A. Tosel, chiamiamo comunismo della finitezza. Le conclusioni tireranno le fila di questo processo, nella prospettiva di una progettazione futura. [… Leggi tutto nel PDF allegato]

Alessandro Pallassini,

Note marginali per la progettazione
di un comunismo della finitezza
a partire da Spinoza


Gli altri interventi

Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.

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