«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere
di S. Bravo
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Il testo di Fabrizio Marchi, Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta, scompagina stereotipi e dogmatismi del nostro tempo. Il progresso e l’illuminismo sono la religione non riconosciuta dell’Occidente. Lo scientismo laicista, epifenomeno dell’illuminismo, ha fondato la religione della merce, poiché ha eroso ogni fondamento veritativo fino al trionfo del capitalismo e della mercificazione assoluta. Affinché la merce possa capillarmente diffondersi è necessario rimuovere ogni limite, per cui dietro la retorica dei diritti civili non si cela che il cannoneggiamento del capitale che rimuove ogni comunità, ogni identità e tradizione. Il capitalismo laicistizzato[1] ha raggiunto l’apogeo della sua espansione e della colonizzazione delle menti. La mercificazione totale necessita di essere puntellata da miti (femminismo, teoria gender, laicismo, diritti civili senza diritti sociali) che risultano essere i dogmi della liturgia del capitale. Non vi è nel testo di Fabrizio Marchi nostalgia per il passato, ma la passione per la verità che necessita di sottoporre a critica costruttiva i dogmi di una società che proclama la libertà e l’emancipazione e nello stesso tempo impedisce la dialettica e la discussione su se stessa. Discutere dei miti dell’Occidente, oggi, è praticamente impossibile; l’Occidente proclama la morte delle ideologie per nascondere il trionfo dell’ideologia della merce: con tale operazione il capitale si ritrae da ogni confronto dialettico. Il progresso è tale se non si trasforma in mito fondativo, per cui tra le pieghe delle merci riemergono nuovi fascismi[2], in forme che bisogna imparare a riconoscere. Il fascismo non ha più la forma del ventennio e del franchismo, ma ricompare e si struttura nel dogma dell’emancipazione, nell’eliminazione e rimozione del maschile, in quanto archetipo del limite, nel disprezzo verso la famiglia tradizionale, la quale è realmente, malgrado i suoi umani limiti, un baluardo contro la mercificazione. Non si tratta di essere ostili alle “famiglie plurali”, ma se si concentra l’attenzione e si inneggia solo alle famiglie liquide o non tradizionali, è palese che le famiglie arcobaleno sono la testa d’ariete con cui il capitale attacca ogni spazio sociale ed affettivo liberato dai processi di mercificazione. Le relazioni liquide ed instabili educano al consumo[3], allo scambio veloce, ed oggi tali rapporti sono additati come esempio di massima ed indiscutibile libertà, perché confermano il valore di scambio. Il progresso deregolamentato giustifica l’utero in affitto come conquista rivoluzionaria, esso in realtà è l’espressione massima della mercificazione della vita e della negazione all’identità. Fabrizio Marchi porta il lettore a considerare il punto di vista del bambino: si immagini i sentimenti ed il dramma di un bimbo che sa di essere stato il prodotto di un contratto tra venditrice e compratore[4].
Un nuovo sguardo sul mondo Lo sguardo noetico e noematico sul mondo ci deve invece indurre a stimare positivamente le resistenze al capitale. Si può essere atei, come afferma di essere Fabrizio Marchi, e ciò malgrado avere stima della religione e della spiritualità, poiché ad esse Marchi riconosce il merito di porre al centro la comunità e specialmente ci si può ritrovare sulle domande profonde sulla vita, pur non condividendo le risposte. Non ci si può approcciare alla religione secondo schemi marxiani, in quanto è mutato il contesto, per cui bisogna imparare a giudicare in modo critico, non applicando formule stantie, ma valutando i mutamenti strutturali e sovrastrutturali. Anche la libertà erotica è un dogma dell’Occidente, le donne liberate dal giogo maschile in realtà, non vivono una sessualità liberata, ma mercificata, le donne appaiono libere e disinibite, ma in realtà usano il loro corpo per sedurre e fare carriera. E’ una sessualità legata all’utile, per cui anche dietro questo mito vi è l’azione alienante del capitale[5]. Il femminismo ha la sua genetica all’interno del capitale, esso prepara la liberazione colpevolizzando il maschio al fine di scardinare ogni limite alla circolazione della merce. La sessualità divenuta merce di scambio, simbolo della libertà, insegna il cinismo dell’utile e l’atomismo sociale. La sessualità liberata, invece, dev’essere emancipata da carrierismi, narcisismo e logoramento dell’utile. Per poter rifondare una nuova sinistra comunista è indispensabile passare attraverso dogmi e recinti ideologici, in cui la sinistra si è chiusa con l’effetto di essere diventata organica al sistema capitale. Quest’ultimo è colto da Fabrizio Marchi nella sua verità, ovvero il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere[6]:
“Se la storia ci ha dimostrato qualcosa, è che il capitalismo è un sistema (rapporto di produzione) e un’ideologia (accumulazione illimitata del capitale e forma merce elevata a feticcio e oggi “assolutizzata”, cioè capace di occupare ogni spazio non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso) estremamente flessibile, in grado di coniugarsi, come dicevo, con qualsiasi contesto storico e culturale”.
Su queste parole dovremmo riflettere, per imparare a decodificare le metamorfosi del capitalismo. Si deve aumentare notevolmente la capacità qualitativa di filtraggio delle metamorfosi del capitale per congedarci da esso ed il testo di Marchi, in tal senso, è un valido ausilio critico.
Il saggio di Arianna Fermani Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.
Un’indagine sul carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza»
a partire dallo studio del pensiero etico di Platone e di Aristotele
Il presente studio di Arianna Fermani, dal titolo eracliteo Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato, si propone di fare luce sull’essenza di quella particolare “realtà” che è costituita dalla «speranza», a partire dal riconoscimento che la nozione di «speranza» che domina il senso comune appare incapace di cogliere la complessità dei significati che tale termine racchiude. Se, infatti, si riflette sul modo in cui la «speranza» è generalmente descritta, è possibile osservare come essa venga quasi sempre identificata con un «sogno ad occhi aperti» (p. 7), ossia con qualcosa che intrattiene un nesso indissolubile con la dimensione desiderativa. Questa visione di tale realtà non è falsa ma, rimarca la studiosa, è vera soltanto in parte, giacché si fonda sul presupposto che essa rappresenti una sorta di “sottoinsieme” dell’“elemento” «desiderio», da cui soltanto può essere compresa e spiegata. L’obiettivo del presente saggio è quello di chiarire come la «speranza» non abbia solamente a che fare con la sfera “sentimentale”, poiché è caratterizzata da un altro aspetto essenziale, in virtù del quale essa viene ad assumere un significato diverso da quello il senso comune è solito attribuirle.
L’analisi di Fermani sulla «speranza» è condotta attraverso un vero e proprio “dialogo” con Platone ed Aristotele, grazie ai quali, secondo l’autrice, è possibile cercare di dare risposta alla domanda «che cos’è la speranza?» (Ibidem). Il punto di partenza e il filo conduttore di questo studio è, in ogni caso, costituito dalla ricostruzione e dall’analisi del significato etimologico delle parole connesse alla «speranza» – un’operazione che, per la studiosa, non è sterile o semplicemente erudita, poiché «ogni lavoro sulla parole implica una immersione in profondità e un cambio di prospettiva» (Ibidem). Ciò che si deve fare, al fine di fare luce sull’essenza di tale realtà, è quindi esaminare i diversi termini cui essa è legata, interrogando coloro che, per primi, hanno colto il carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza», mostrando come essa rappresenti l’anima di ogni autentica progettualità.
Fermani evidenzia come il termine ἐλπίς, con cui i Greci indicano la «speranza», si connetta al verbo greco ἐλπίζω, «la cui radice elp corrisponde alla radice latina vel, da cui “volere”» (p. 8). Come rivela l’analisi etimologica, l’elemento del «desiderio» non è solo accostabile alla «speranza», ma coincide con uno dei suoi tratti costitutivi. La «speranza» si caratterizza come un’autentica «aspirazione» o «tensione» verso qualcosa o, più precisamente, verso «qualcosa che non c’è o che non c’è ancora» (p. 10), configurandosi in questo modo come quel «desiderio» «che ci fa muovere» e «ci spinge e ci apre al futuro» (Ibidem). Alla luce di ciò, è evidente che in questo πάθος non vi è alcunché di “passivo”: al contrario, si tratta di un sentimento che ci sottrae al dominio di ciò che è semplicemente presente, impedendoci di assumere i tratti di una «semplice-presenza». In questo senso, la «speranza» è un desiderio che, mirando a portarci “oltre” ciò che appare assolutamente necessario e determinato, fa appello non tanto alla ragione quanto all’immaginazione (φαντασία): come rivela Aristotele, ciò che muove e orienta gli uomini all’azione, e dunque in direzione del futuro, è il desiderio, non il λόγος.
Facendo leva sulla nostra capacità immaginativa, la «speranza» ci induce a vedere la realtà non più in termini di “necessità”, bensì di “possibilità”, mostrando come il futuro sia costitutivamente aperto a scenari radicalmente diversi da quello che domina il nostro presente. È questa la ragione per cui genera piacere: essa «rappresenta una spinta verso il meglio» che «ci porta via da una situazione spiacevole, ci allontana da un vuoto, da una mancanza» (p. 12), trasportandoci, sia pur solo momentaneamente e attraverso l’immaginazione, in un “altrove” migliore. La «speranza», dunque, ha a che fare sia con il dolore sia con il piacere: infatti, «da un lato essa è connessa al dolore per la mancanza e, dall’altra, è connessa al piacere in virtù della sua spinta verso il meglio» (Ibidem).
Ad ogni modo, il fatto di configurarsi come il desiderio di ciò che è ora assente rende la «speranza» anche qualcosa di pericoloso: se, infatti, essa viene riposta in cose che, in realtà, sono prive di fondamento, va da sé che essa non assume l’aspetto di qualcosa che ci dà sollievo e serenità, bensì di un’illusione o autoinganno che ci induce in errore e procura sofferenza. In altri termini, se la «speranza» è infondata, essa «può farci perdere il contatto con la realtà o […] può farcela percepire in modo scorretto» (p. 14), rendendoci passivi e schiavi di un’idea che ci impedisce di gettare «un ponte verso un futuro migliore» (Ibidem). In questo caso, «in ragione di una sua scorretta gestione» (p. 15), la «speranza» si connette al vizio, poiché è causa di infelicità. Tutto ciò, rileva Fermani, è ben spiegato sia da Platone – che, nel Filebo, associa le “speranze insensate” a vizio e a scarsa intelligenza – sia da Aristotele – il quale, nella Retorica, sostiene che nessuno delibera su “cose senza speranza”.
In senso proprio, la «speranza» coincide con una tensione o aspirazione che, chiamando in causa la nostra immaginazione e fondandosi su ciò che è autenticamente possibile, ci conduce a dare un (nuovo) senso all’esistenza. Essa, se bene intesa, non è causa di sofferenza e passività giacché, come emerge dalle opere di Platone ed Aristotele, ha l’aspetto di una buona disposizione interiore, in virtù della quale l’uomo è spinto non solo ad agire ma, più precisamente, ad agire virtuosamente. «In questo caso», osserva la studiosa, «il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto» (p. 18). La «speranza» si caratterizza così come una virtù che rende possibile e accompagna altre virtù, prima tra tutte il «coraggio». Si tratta pertanto di un’autentica “passione attiva” o “attività” che mobilita il nostro λόγος in direzione di ciò che è bene, dandoci «lo slancio per affrontare le numerose sfide che la vita ci pone di fronte. E ogni sfida», ricorda Fermani, «implica inevitabilmente il rischio» (p. 19).
Proprio la sua intima relazione con il rischio mostra che la «speranza» è «intimamente collegata anche alla consapevolezza del limite» (p. 20), ossia alla consapevolezza del fatto che tutti noi, in quanto uomini, siamo enti essenzialmente «finiti». In questo senso, la «speranza» rivela anche la propria funzione positiva e “paideutica”: essa ci insegna e ci rammenta che la nostra essenza risiede nel «limite», e dunque che, se vogliamo essere felici, ciò che dobbiamo fare è “seguire la via della «misura»” e «non desiderare cose impossibili» (Chilone di Sparta). Alla luce di ciò, per Fermani si può dire che «il soggetto agente spera solo se assume il suo limite, solo se abita con consapevolezza il suo essere costitutivamente esposto e manchevole». La «speranza», lungi dall’essere un invito alla rinuncia, è invece un’«apertura» che «si contrappone alla chiusura prodotta dalla paura» (p. 21) e alla «presunzione», cioè al disconoscimento della “limitatezza” della realtà umana. Essa rappresenta «il fondamento della nostra felicità, della felicità “umana”, ovvero di quel “capolavoro” che a noi progettare, fondendo ogni volta ragione e desiderio, con impegno, con costanza e tenacia» (p. 22).
Preziose indicazioni, in questa direzione, sono offerte ancora una volta dall’analisi etimologica. Se consideriamo la radice latina del termine «speranza», spes, possiamo osservare che essa «raccoglie entrambe le matrici della speranza, ovvero […] la speranza come desiderio e la speranza come virtù» (p. 27). Si tratta, infatti, di un termine la cui radice «può essere […] rintracciata nel verbo greco σπεύδω e nel sostantivo σπουδή», che significano rispettivamente «“affrettare”, “sollecitare”, […] “aspirare a”, “affaccendarsi”, “adoperarsi”, “ingegnarsi”», e «“sollecitudine”, “diligenza”, “cura”, “fatica”, “sforzo”, ma anche “aspirazione”» (Ibidem). Le origini della parola «speranza» rivelano in tal modo come essa non implichi soltanto l’atto di “desiderare” ed “aspirare a” qualcosa, ma anche quello di “attivarsi” ed “impegnarsi” concretamente, affinché ciò che desideriamo possa realizzarsi.
In questa prospettiva, «sperare» non equivale dunque a dissociarsi dalla realtà e ad illudersi ma, al contrario, a protendersi verso l’avvenire, accettando i limiti che ci definiscono, da un lato, e, d’altro lato, i rischi cui, per la stessa condizione umana, siamo perennemente esposti. Solo assumendo tali rischi è possibile immaginare un futuro migliore e «costruire nuovi scenari» (p. 23). La «speranza» si fonda sull’idea che lo scenario in cui agiamo non sia il solo possibile e, dunque, sull’idea che ciò con cui entriamo in relazione possa essere cambiato e migliorato. Senza «speranza» non può esservi alcuna progettualità: ogni vera progettualità, come ogni forma di παιδεία o Bildung, si fonda infatti sul riconoscimento che il “regno delle cose umane” non sia un orizzonte stabile e immutabile, bensì qualcosa che può essere trasformato dalla prassi umana. Nessun uomo sarebbe indotto a ri-pensare la realtà e a modificare lo stato di cose presenti, se non fosse animato dalla «speranza» che le cose possano essere migliori. La «speranza» è propriamente ciò «che ci permette di volere un mondo diverso e che ci dà la forza di cambiarlo» (p. 27). «L’invito a coltivare la speranza rappresenta, in conclusione, l’invito a non smettere mai di guardare oltre e di “volare alto”» (p. 28).
Il saggio di Arianna Fermani ha il merito di indurci a ripensare radicalmente l’idea di «speranza», mostrando come la concezione ordinaria della «speranza» sia non solo limitata ma, proprio per ciò, foriera di fraintendimenti. Dal “dialogo” tra la studiosa e Platone ed Aristotele – cui si uniscono, qua e là, le “voci” di Chilone, Agostino, Tommaso, Leopardi e naturalmente, in sottofondo, quella di Eraclito – emerge come la speranza si configuri sia come un «desiderio» che ci spinge all’azione, sia come una «virtù» da cui ha origine la buona azione. La «speranza» non è dunque un sentimento che riguarda un particolare ambito della vita, né una forza irrazionale che, legandoci al presente, ci rende passivi e sofferenti: al contrario, si tratta di una qualità inscritta nell’essenza stessa dell’uomo come «essere progettuale». Appartiene alla natura umana il fatto di desiderare (πάθος) ciò che è buono e pensare (λόγος) al modo in cui esso può essere realizzato. Ogni progetto umano presuppone l’idea che un avvenire migliore sia possibile. La «speranza» rappresenta il disvelamento di tale possibilità.
Il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano la buona vita e le buone azioni umane, o almeno il canale indispensabile per tale linfa.
Tommaso Demaria è stato un comunitarista cattolico. Il pensiero metafisico, e come tale antinichilistico, è osteggiato in ogni sua forma filosofica. L’ostracismo di cui sono oggetto gli autori la cui ricerca è spesa nella rifondazione della metafisica, svela la verità del capitalismo ed il suo nichilismo ideologico e dogmatico. L’ostilità bellicosa contro la metafisica è assoluta. Per il capitalismo si tratta di un nemico e, pertanto, non vi sono espressioni metafisiche maggiormente tollerate rispetto ad altre: ogni fondazione veritativa è osteggiata in quanto antitetica al relativismo del capitalismo. La metafisica fonda la verità, delimita dei confini concettuali per discernere il bene dal male. Il capitalismo ha la sua verità nel nichilismo, e nella dismisura, pertanto non può tollerare limiti e confini, perché dove vi è verità necessariamente l’essere umano riconosce razionalmente, o in modo intuitivo, la presenza di confini e con essi la possibilità di progetti alternativi. La censura cade come una mannaia ideologica sui pensatori metafisici, formalmente tollerati, nei fatti sospinti al silenzio. L’ostilità mediatica contro la metafisica comporta l’inevitabile marginalità culturale. La verità è la prima vittima della struttura economica del capitalismo che, per proliferare, necessita dell’assenza di ogni fondamento veritativo, divorando ogni confine, attaccando ogni limite geografico ed etico pur di sopravvivere. Il capitalismo assoluto non conosce altra legge che il profitto «è il dito di dio (il mercato) della contemporaneità». Non vi è più civiltà, in tal modo, ma solo mercato. Il capitale non è “fenomeno esterno”, ma interno: governa la mente dei popoli. Riconoscerlo significa identificare la sua presenza nel modo di pensare, nel linguaggio, nell’agire di ciascuno. Emanciparsi dal nichilismo capitalistico significa confrontarsi con se stessi, riconoscerne la presenza. Senza tale attività interiore ogni progetto è inutile, ogni resistenza mostra la propria incoerenza. Nulla è più osteggiato dei concetti come “bene”, “universale”, “vincoli etici”. Al loro posto vi è il termine “giustizia” utilizzato in modo ideologico. Si tratta di giustizia senza “bene”, e pertanto limitata alla meritocrazia conseguente la competizione. Giustizia astratta e formale, priva di concretezza e fondamento ontologico. La giustizia senza fondamento è semplicemente ridotta ad una formale distribuzione dei beni secondo “l’ordine del merito” coniugato allo sviluppo intensivo dell’economia. In tal modo si procede ad instaurare un’organizzazione sociale senza progetto. Il “bene” non solo comunica significato teoretico alla giustizia, ma stabilisce gerarchie assiologiche. Senza il “bene” non vi può essere vita buona, non vi è comunità e specialmente non vi è storia. La giustizia formale dei diritti individuali non intacca le contraddizioni, ma le consolida, le naturalizza e riduce la vita ad «ente statico», a solo corpo senza storia.
L’ente statico L’essere umano è dominato da un sistema organizzativo che nega la progettualità e riduce la vita di ciascuno a “semplice cranio” senza relazione. L’ente statico è l’essere umano ridotto a sola natura, e dunque astratto dalla storia. Il capitalismo assoluto destoricizza per potersi naturalizzare ed eternizzare. Gli esseri umani sono indotti ad autorappresentarsi come “pura biologia” senza storia vissuta, in tal modo il regno del capitale governa sovrano. il soggetto si ripiega su se stesso e non vi è storia in un mondo di soli corpi:
«L’ente statico quindi viene così chiamato, non per altro che per questo: perché appunto, per creazione divina o per produzione e generazione naturale, vien posto all’esistenza come ente già bell’e fatto. Ciò non impedisce che l’ente statico esistenzialmente appaia come un ente magari attivissimo e con una fenomenologia in continuo movimento anche come crescita, dando luogo ad una apparente contraddizione in termini: quella precisamente di un ente statico che agisce, si muove e forse cresce. Ma bisogna tener conto del significato tecnico della parola, superandone il significato volgare ed empirico corrente, che per quanto tale non ha diritto al monopolio lessicale. E nel significato tecnico da noi stabilito, per una ragione metafisica che andrà man mano chiarendosi, lo statico, ripetiamo, non nega affatto né l’attivismo né il movimento. Nega soltanto l’ente in costruzione, affermando che l’ente statico è già bell’e fatto fin dalprimo istante della sua esistenza. L’ente statico così inteso viene a coincidere con l’ente di primo grado, sì che i due diventino sinonimi. Ambedue infatti corrispondono e qualificano l’ente in natura rerum, sia pure con sfumature diverse. L’ente statico qualifica l’ente in natura rerum come essere (e conseguentemente anche – lo vedremo fra breve – come essenza); l’ente di primo grado invece lo qualifica geneticamente, nel senso che lo pone come ente “primogenito” rispetto all’ente di secondo grado, che metafisicamente è sempre un “secondogenito”. Ciò posto, sarà facile controllare la verità dell’ente statico come da noi concepito, guardando alla natura rerum. Qualsiasi pianta od animale sarà ente statico non perché fisicamente o fenomenicamente sia immobile, ma semplicemente perché, fin dal primo istante della propria esistenza, piante ed animali sono già quel dato essere completo, bell’e fatto. Un bambino, un gatto, un cane, una pianta qualsiasi, nascono già possedendo il loro essere, specificamente completo e inconfondibile. Nascono col loro essere già bell’e fatto. In una parola, metafisicamente sono enti statici, nonostante l’attivismo e la molteplice fenomenologia in movimento che li accompagna».[1]
L’ente statico vive fuori della storia, è astratto, sradicato dalla comunità, la quale non è luogo neutro, ma è radicamento nel linguaggio, nella tradizione storico-filosofica e specialmente nella responsabilità. Entrare nella storia significa schierarsi, situarsi in una posizione ideologica e progettuale. L’ente statico, in quanto passivo dinanzi agli eventi storici, inevitabilmente diviene il suddito fedele dei falsi assoluti che appaiono e scompaiono dal suo orizzonte vitale. Ogni ideologia che riduce l’essere umano ad “ente statico”, ne lede la verità che lo sostanzia. L’essere umano, cioè, è un ente che non può essere limitato al semplice corpo: diventa umano entrando nella storia e radicandosi responsabilmente in un progetto comune.
L’ente dinamico L’ente dinamico, dunque, è l’essere umano che completa se stesso e la sua natura (ente statico) entrando nella storia, dove incontra la comunità viva. L’ente statico assume valore solo se integrato nell’entedinamico. Il corpo vissuto partecipa alla costruzione della storia, diventa concreto integrandosi con l’ente statico; diviene, così, veicolo di relazioni e storia, altrimenti è solo «nuda vita»:
«Ne segue un completamento del panorama dell’essere e dello sviluppo della sua relativa metafisica. E ciò, fin dall’inizio dell’Ontologia, senza discontinuità e senza disorientamenti, senza contraddizioni o rinnegamenti, poiché si tratta di un puro adeguarsi realistico al significato e al quadro effettivo dell’essere, che è insieme ente statico ed ente dinamico. Ed è tale, ci sia lecito ripeterlo ancora una volta, non a titolo di una qualsiasi estrosità soggettiva, ma per suggerimento del dato di esperienza, e per una imprescindibile esigenza della cultura e della vita di oggi, sulla linea dell’integrazione teoretica e della indispensabile apertura pratica dello stesso sistema realistico. Si tratta infatti, sul piano pratico, in continuità e in sintonia con un rinnovamento cristiano del mondo che rimane l’unica vera rivoluzione, di adeguarsi alla più grande rivoluzione storica in atto, che è quella del passaggio dall’homo faber (semplice artigiano) alla umanità costruttiva della nostra civiltà industriale. Ciò che esige, sul piano teoretico, l’integrazione dinamica dello statico, a cominciare da quella integrazione radicale, l’unica veramente decisiva, che consiste nella integrazione ontologica. Integrazione dinamica dello statico, diciamo; e non rifiuto di esso. Il dinamico non è rifiuto dello statico. Al contrario, ne è una postulazione e rivalorizzazione. L’ente di secondo grado non può né esistere né avere un senso, senza l’ente di primo grado e la sua indispensabile premessa metafisica. L’autentico rapporto tra statico e dinamico, quindi, sia detto una volta per sempre, rimane quello della reciproca postulazione, solidarietà ed integrazione, sia teoretica che pratica. Il che si rifletterà necessariamente anche sulla tradizione, che nella dialettica dell’ente dinamico, non solo non può venir rifiutata, ma deve essere accolta rianimata, decisamente rivalorizzata, e dinamicamente rilanciata. La tradizione non è l’essere, ma interpretazione dell’essere. Il suo rilancio implica quindi il passaggio dall’ente statico all’ente dinamico. Senza tale passaggio muore la tradizione, e si blocca la costruzione».[2]
Dinontorganico Tommaso Demaria utilizza il termine dinontorganico (Dinamico, ontologico, organico): significa che la Realtà Storica è costruita dal libero agire degli uomini. L’essere umano è concreto, perché si umanizza nella storia, nella quale realizza la sua verità profonda: è parte di un tutto, per cui il suo agire storico è comunitario, e si storicizza in istituzioni, comunità e modelli economici nei quali realizza “creativamente” la sua essenza di essere concreto e libero. La verità, in questo modo, fonda la giustizia.
Tommaso Demaria, come di molti studiosi metafisici (Costanzo Preve,[3] Massimo Bontempelli[4]), ha testimoniato con coerenza la necessità di una rifondazione metafisica e comunitaria del pensiero senza la quale l’essere umano è solo quantità, e dunque oggetto di “cattivi infiniti”. Il filosofo deve entrare nella storia per vivere e pensare i problemi che essa pone, deve dimostrare “concretezza”, altrimenti è solo servo del potere e tradisce la sua vocazione politica ed etica:
«La realtà storica è una realtà viva, impegnata nell’azione e impregnata di azione, che addirittura si risolve in una costruzione del mondo. Niente di meno invitante ad una speculazione metafisica pura, inerte, sganciata dalla pratica, per non dire evasione, talvolta, da ogni impegno e funzionalità pratica. A costo di ripeterci, diciamo ancora una volta che ci interessiamo della metafisica della realtà storica non già per una tendenza alla contemplazione pura o per un istinto di evasione dalla pratica, tacitando se mai la propria coscienza di fronte al dovere operativo, col pensiero che ogni idea si riflette, sia pur mediatamente e remotamente, nell’azione. Il motivo del nostro interesse, e del nostro passaggio dalla realtà storica alla sua metafisica anziché ad un impegno pratico immediato, è proprio l’opposto: è indettato dalle esigenze del problema operativo, e nient’altro. Il motivo del nostro interesse nasce dalla convinzione che il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, tanto sul piano naturale che soprannaturale, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Essi affondano le loro radici appunto nel problema metafisico della realtà storica. E soltanto dalla giusta soluzione di questo possono ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano, o almeno il canale indispensabile per tale linfa».[5]
Il comunitarismo cattolico di Demaria ha molti punti di contatti con i comunitaristi italiani e con gli studiosi che silenziosamente ricercano per fondare una nuova metafisica (Luca Grecchi, con la sua metafisica umanistica,[6] ne è un esempio) pone problemi che non possono essere elusi, perché sono l’urgenza della contemporaneità.
Salvatore Bravo
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[1] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, vol. I, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, p. 45.
[3] Cfr. Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006; Costanzo Preve, Lettera sull’umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012. Cfr. anche: Salvatore Bravo, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2019.
[4] Cfr. Salvatore Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2020.
[5] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, op. cit., pp. 19-20.
[6] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2018.
Lettera di Kant a Marcus Herz (Inizi di Aprile 1778)
Mio prezioso amico, amico scelto, lettere come quelle che ricevo da te mi trasportano in uno stato emotivo che ingentilisce la mia vita, esattamente come vorrei che la vita ne fosse ingentilita, quasi fosse una sorta di assaggio di un’altra vita. Questo avverto nel momento in cui, se le mie speranze non sono vane, intravedo nella tua anima onesta e grata una prova rincuorante che l’obiettivo dominante della mia vita accademica, che ho sempre presente nella mia mente, non è stato perseguito invano: parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili. Tuttavia, questo mio piacere si tinge di una certa nota di malinconia, se considero che davanti a me si aprirebbe un’arena molto più vasta in cui promuovere questo obiettivo, ma che d’altra parte ne sono escluso per la limitata vitalità che mi caratterizza. Sai che non mi entusiasma particolarmente il pensiero di far profitti o di ricevere applausi su un grande palcoscenico. Piuttosto, una situazione tranquilla, che soddisfi la mia necessità di una dieta variabile di lavoro, riflessione e rapporti con gli altri, una situazione in cui il mio spirito, ipersensibile ma per altri versi leggero, e il mio corpo, precario ma mai tutto sommato malato, possano tenersi in esercizio senza eccessivo sforzo… è questo tutto ciò che ho desiderato e che sono riuscito ad ottenere. Tutti i mutamenti mi spaventano, anche quelli che prospetterebbero un miglioramento significativo delle mie condizioni. E penso di dover obbedire a questo istinto della mia natura, se voglio dipanare il filato tenue e delicato che il Fato ha intessuto per me. I miei ringraziamenti più sentiti, quindi, vanno ai miei amici e sostenitori che nutrono di me un’opinione così generosa, e si dedicano al mio benessere. Al contempo, però, chiedo sinceramente che dirigano questo genere di disposizione d’animo a proteggermi e sostenermi nella situazione che vivo adesso, in cui (finora) ho avuto la fortuna di vivere senza notevoli apprensioni. Ti sono grato, quindi, della tua prescrizione di medicinali nel caso di un’eventuale emergenza, carissimo amico, ma includendo essa dei lassativi, che in genere influiscono pesantemente sulla mia costituzione e comportano inevitabilmente una costipazione intensa, e considerata la regolarità del mio corpo ogni mattino, penso di essere in una saluta buona, pur fragile (buona a mio modo, perlomeno, non avendo mai esperito una salute migliore dell’attuale), e quindi ho deciso di lasciare interamente la questione alla natura, intervenendo con i rimedi artificiali laddove questa desistesse. La notizia secondo cui alcune pagine del libro su cui sto lavorando siano state già date alle stampe è prematura. Non desidero obbligarmi a sforzi per pubblicare in fretta (intenderei continuare i miei lavori su questa terra ancora per un po’), e lascio che altri progetti interrompano il mio lavoro sul libro. Esso prosegue, comunque, e penso di portarlo a compimento l’estate ventura. Mi auguro che tu riconosca, dalla natura e l’ambizione del progetto, che ci sono buoni motivi per cui un libro di questo genere, pur non straordinario per numero di pagine, mi abbia assorbito così tanto. Tetens, nel suo diffuso trattato sulla natura umana, ha scritto osservazioni penetranti, ma indubbiamente il testo dà l’impressione di essere stato edito direttamente dopo la stesura, senza correzioni. Introducendo il suo lungo saggio sulla libertà nel secondo volume, deve aver sperato di districarsi da un labirinto del genere inseguendo schizzi di idee abbozzati in tutta fretta da lui stesso, almeno così mi parrebbe. Dopo aver esaurito se stesso e il lettore, ha lasciato la questione esattamente al punto di partenza, suggerendo al lettore di farsi scortare dai propri sentimenti. Se la mia salute non vorrà peggiorare, penso proprio che sarò in grado di presentare il mio promesso libricino ai lettori la prossima estate. Mentre ti scrivo, ricevo un’altra amabile lettera, da Sua Eccellenza, il Ministro von Zedlitz, che mi ribadisce la sua offerta di un posto a Halle. Devo rifiutare, per le ragioni che ti ho già descritto. Siccome ho il dovere di rispondere immediatamente a Breitkopf a Lipsia, che mi chiedeva di rielaborare il mio saggio sulle razze del genere umano in maniera più approfondita, devo attendere il prossimo passaggio del postiglione per inviarti la presente lettera. Ti prego di salutare il Sig. Mendelssohn per me, riferendogli la mia speranza che la sua salute migliori, e il mio augurio di raccogliere il frutto del suo cuore naturalmente allegro e del suo spirito sempre fertile. Mantieni il tuo affetto e la tua amicizia nei miei confronti.
Il tuo servo sempre devoto e fedele, I. Kant
Il dono della parola
Questa lettera di Kant mi è stata donata da un amico traduttore, Angelo Magliocco. Ne cito il nome, poiché il suo lavoro di traduzione è sempre stato rispettoso delle parole verso le quali si ha ormai un’intenzionalità veloce, le si usa senza ascoltarle, mentre esse racchiudono un corpo, un’anima ed una storia. La lettera ci consente di vedere la grandezza da vicino. Siamo abituati alla grandezza seduttiva e rumorosa che non lascia spazio che a se stessa. Grandezza spaziale e barocca che deve occupare lo sguardo con la forza magnetica del sogno e della distopia dell’eccesso. La grandezza che ritroviamo in Kant riscalda il cuore e ci riconcilia con il mondo. Le parole nella lettera sono disposte in modo da comunicare all’amico un senso di mitezza ed accoglienza. Non vi è nessuna parola che possa essere associata a protervia o ad arroganza intellettuale, anzi vi è la consapevolezza che la produzione filosofica e scientifica necessitano di lentezza.
La pratica filosofica Il filosofo educa al pensare non solo nell’attività professionale, ma sempre, nel privato come nelle relazioni: filosofare è una pratica che unisce in un filo sottile ogni segmento temporale della vita. Nella lettera le parole ci lasciano immaginare la gestualità lenta e delicata del pensare. Pensare è il regno delle parole, le quali per potersi configurare necessitano di tempo, di intenzionalità temporale qualitativa e non quantitativa. Il successo con i suoi abbagli non lo attrae. L’erotica del sapere lo induce ad essere gratificato dall’agire nel sapere, mentre il palcoscenico con i suoi applausi non lo affascina, poiché il sapere ostentato è interruzione della profondità a favore della dispersione in vane e convenevoli parole. Il tempo del pensiero è prezioso e non lo si può dissipare nella vanità e nella dipendenza dalle adulazioni. La brevità della vita conferisce al tempo vissuto di ciascuno un valore assoluto.
Grandezza autentica La grandezza vista da vicino palesa la consapevolezza dei limiti di ogni esistenza e la necessità di dare senso alla propria vita con scelte che testimoniano un insegnamento etico senza “moralismo” o “giudizio”. Vivere con coerenza l’amore per il sapere nella condivisione discreta e dialogica, assume valenza educativa per coloro che hanno la fortuna di poter incontrare la vera grandezza. Ma anche coloro che nel tempo pongono lo sguardo lontano dal loro presente, per incontrare modelli a cui potersi ispirare e rigenerare dalla volgarità dell’eccesso, ritrovano nella vera grandezza una stella polare pronta a brillare sul loro cammino. Kant scrive che il fine della sua vita accademica è diffondere “disposizioni d’anime buone”. Si può essere certi che tale “disposizione” ha attraversato il tempo e continuerà a splendere per chi sa guardare ed ascoltare la profondità delle parole. Se tanta grandezza ha attraversato i secoli, vi è da chiedersi cosa resterà nel tempo di questi nostri anni.
Là sulle cime nevose una croce sta piantà. Non vi sono né fiori né rose è la tomba d’un soldà. D’un partigian che il nemico uccise, d’un partigian che tra il fuoco morì; a mamma tua lontana ti piange sconsolata mentre una campana in ciel prega per te. E noi ti ricordiamo, o partigiano che guardi di lassù, mentre scendiamo al piano ti salutiamo, caro compagno.
Non pianga più la mamma il figlio suo perduto sull’Alpe sconosciuto un altro, eroe sta là. Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti al sorger dell’aurora montagne del mio cuor. Questo dolce ricordo mi fa sognare, mi fa cantare tutta la melodia che riempie il cuor di nostalgia. Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.
Salvatore Bravo
La preghiera del partigiano
La preghiera del partigiano è un canto della resistenza. L’autore non ha un nome: l’esperienza partigiana è stata un’esperienza di prassi comunitaria. Nulla si teme maggiormente nei nostri anni che la prassi politica e storica, per cui l’esperienza partigiana è stata ridimensionata a presenza liturgica svuotata di ogni valenza rivoluzionaria. Si susseguono gli appelli a cantare “Bella ciao”, ad inneggiare sui balconi alla Liberazione in una triste festa confinata all’urlo di circostanza in un microspazio, che denota la restrizione delle nostre libertà. L’urlo liberatorio in un momento di grande incertezza serve a dare l’ennesima illusione, ovvero quella di essere protagonisti della storia. Il velo dell’ignoranza scende con le sue illusioni, permette di non vedere che il 25 Aprile 1945 è uno dei tanti furti a cui la comunità è sottoposta. La festa della Liberazione dovrebbe essere la festa con cui si festeggia e si rende vivo il ricordo del progetto costituzionale. La Costituzione affonda il suo senso nell’esperienza della dittatura e nell’esperienza partigiana. La dittatura aveva offeso la volontà di ciascuno, le volontà erano coartate ed oggetto di perenne di violenza, i partigiani mostrarono che non vi è comunità, se non nel rispetto nelle volontà di ciascuno. Ci furono errori, certamente, ma devono essere letti all’interno della cornice storica del momento. Il loro agire dimostrò che la volontà non può essere nullificata, che la volontà senza giustizia non è che una vuota forma di volontarismo fine a se stesso. I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia. La volontà della giustizia implica il “no” al potere, la capacità di distanziarsi rispetto alla coercizione del potere per poterlo sovvertire. La parola giustizia sociale, oggi, è temuta, mentre imperversano gli effetti dei tagli alla sanità, dopo decenni di partecipazione ai “bombardamenti etici” della NATO e con la distribuzione delle ricchezze sempre più ineguale. Al posto della parola giustizia, “essenza dell’esperienza partigiana”, oggi ci si propone di ricordare la data fondativa della Repubblica con la spettacolarizzazione della festa: sui balconi si canta e si balla come se si fosse su un piccolo palcoscenico, i video virali impazzano, così il messaggio cade svilito tra il narcisismo e l’incoscienza collettiva. Negli ultimi anni si è ipotizzato anche, non poche volte, di festeggiare il 18 Aprile 1948 data in cui il fronte popolare fu sconfitto, piuttosto che il 25 Aprile 1945. Si teme l’esperienza partigiana, poiché ci ricorda quanto i padri fondatori siano stati traditi e dimenticati.
Festa della giustizia che non c’è Si dovrebbe, in questa data, rileggere la Costituzione nella quale la giustizia, in nome della quale si è combattuto, ha trovato forma giuridica ed etica. La giustizia partigiana ha favorito processi di concretizzazione dei diritti sociali: non vi è giustizia senza diritti sociali. Al posto di essi prevalgono i processi di privatizzazione, di individualismo, si esaltano i soli diritti individuali scissi dai diritti sociali tradendo la lotta partigiana. La stessa rete è privatizzata, per cui la conoscenza non è per tutti, ma solo per alcuni. Di tutto questo si tace, si riempie il vuoto con canti e balli che servono a “tenere buoni” su un balcone una popolazione che subisce provvedimenti con il parlamento esautorato dalle sue funzioni. Intanto si canta e si balla e non si comprende cosa ci stanno portando via: la nostra storia e con essa la nostra identità. Il regime fascista, nella sua morte, rivelò la sua verità: era un regime violento e dunque la sua fine fu violentissima, ma i partigiani seppero pensare “quella morte” e la trasformarono in progetto politico e in speranza comunitaria. Vissero un processo dialettico di rinascita con cui ridiedero dignità ad un popolo umiliato ed offeso, anche se a volte complice. Di tutto questo sembra non esserci più traccia, al suo posto vi è solo una breve gioia da consumarsi esibendosi sul balcone tra gli sguardi dei passanti e le riprese degli smartphone.
La cultura partigiana che non c’è Sorge un ulteriore dubbio: cosa conoscono i nostri giovani dei partigiani? Poco o nulla. I tagli alla scuola, la storia ridotta ad una presenza curriculare senza spessore e la scuola che quest’anno non c’è, fanno in modo che ne abbiano un’idea vaga e fuorviante, pertanto festeggiano ciò che non conoscono. Si permette di festeggiare ciò che non si conosce, in quanto non crea nessun concetto, non c’è pericolo che l’esperienza partigiana si trasformi in attività politica, per cui li si lascia festeggiare … sono innocui, e domani non sarà un altro giorno. A tutto questo è necessario non reagire, ma agire, ed ancora una volta è la conoscenza il fondamento da cui ricominciare. Coloro che vivono la conoscenza come missione con cui umanizzarsi ed umanizzare devono far sentire la loro resistenza civile non abbandonando le nuove generazioni allo squallore di una gioia belante. La speranza si radica nella storia, pertanto si tratta di conoscere e cogliere che i partigiani non hanno lottato solo per se stessi, ma per la comunità intera. Le loro storie ci raccontano di vicende umane, in una situazione storica eccezionale, capace di comprendere la giustizia ed il suo valore. Senza giustizia non vi è comunità, ma solo la giustapposizione violenta di individui espressione della politica che non c’è anche in questa giornata.
Un’altra storia è possibile. Il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile.
Lo stordimento dell’economicismo conduce l’anima verso la dispersione di sé. Il potere cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità.
La vera emancipazione è la liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza.
Il mondo neoliberale non è la verità dell’essere umano. Il neoliberismo – in continuità con le strutture di potere che separano, escludono e strumentalizzano – è l’effetto finale di logiche di potere che hanno attraversato il “secolo breve”. Accanto alla storia ufficiale vi è la storia parallela e carsica di un’altra umanità che non compare nei libri di storia, perché devono confermare il paradigma della divisione e dello sfruttamento. «La storia inizierà», affermava Marx «quando terminerà la legge della giungla». Lungo la storia ci sono state esperienze di fratellanza che normalmente sono escluse dalla storia ufficiale e talvolta sono oggetto non solo di rimozione, ma anche di irrisione. Non solo la storia non è conclusa, ma è invece esperienza collettiva plurale. Vi sono testimonianze che dimostrano che un’altra storia è possibile e che il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile e da scrivere. La vita di Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910), testimonia un’altra storia. La sua opera come la sua vita sono il dono di uno scrittore, di un uomo che ha vissuto per la comunità, ed ha dato dimostrazione che un’altra vita non è solo potenzialmente ipotizzabile, ma la si può mettere in atto. In un suo breve racconto, Padrone e iservo, descrive il percorso di due anime che escono dall’oscurità delle gerarchie, delle sovrastrutture, per ritrovarsi nella comune umanità. La vita è ritrovata quando è ormai persa per il padrone, la fine segna l’uscita dallo stordimento dell’economicismo, che conduce l’anima verso la dispersione di sé, verso «la sua notte oscura». L’ossessione per il denaro, per l’accumulo, il martello dell’economia che tutto annichilisce in nome del plusvalore, è la dannazione del padrone: la sua solitudine è attraversata dall’ossessione del calcolo. Quest’ultimo segna la sua tragica distanza dal mondo e la sua solitudine:
«Non aveva sonno. Stava disteso lì e pensava: pensava sempre a quell’unica cosa che costituiva l’unico scopo, senso, gioia e orgoglio della sua vita, – a quanto denaro avesse già messo da parte e a quanto ancora avrebbe potuto guadagnarne; e a quanto denaro avessero accumulato e possedessero ora altre persone di sua conoscenza, e a come costoro avessero accumulato e continuassero ad accumulare denaro, e a come lui, proprio come loro, potesse accumulare ancora molto, molto denaro. L’acquisto del bosco di Gorjàtchkino era per lui un affare di enorme importanza. Sperava di trarre da quel bosco un guadagno di diecimila rubli, tutti d’un colpo. E cominciò nei suoi pensieri a far la stima del bosco, che aveva veduto in autunno, e in cui aveva contato tutti quanti gli alberi per un tratto di due “desjàtine”. “Le querce daranno legno per pattini. Per i tagli non c’è problema. E di legna si farà un 30 ‘sàgieni’ ogni ‘desjàtina’” diceva a se stesso. “E ogni ‘desjàtina’, mal che vada, verranno almeno 200 rubli. Con i più magari anche un biglietto da 25, perché no. Per cui 56 ‘desjàtine’, 56 centinaia, con in più 56 decine, più un’altra volta 56 decine, e più 56 cinquine… “. Vide che il risultato doveva superare i dodicimila rubli, ma senza il pallottoliere non riusciva a capir bene di quanto precisamente li superasse. “Diecimila comunque non gliene do, gliene darò ottomila, e non metteremo in conto le radure. L’agrimensore me lo lavorerò un po’ io, potrei dargli un cento rubli, o magari anche cinquecento; e lui mi segnerà cinque ‘desjàtine’ di radure. Cosi quello là me lo darà per ottomila. Adesso ne ho qui 3000, pronti sull’unghia. Si raddolcirà di sicuro a vederli” pensava, tastando con l’avambraccio il portafogli che aveva in tasca. “E come abbiamo fatto a perderci dopo la svolta Dio solo lo sa! Qua dovrebbe esserci il bosco, con il casotto del guardiacaccia. Si sentissero almeno i cani. Ma ti dico io, mai che abbaino quando serve”. Scostò il bavero dall’orecchio e si mise in ascolto; si udiva sempre il medesimo fischiare del vento, e in cima alle stanghe lo sventolio e gli schiocchi del fazzoletto, e le frustate della neve sul tiglio delle stanghe. Si nascose di nuovo sotto il bavero».[1]
Ossessione L’ossessione per i suoi affari, il sospetto che qualcuno gli potesse soffiare l’acquisto per il quale era in trattative, lo inducono a sfidare le intemperie, ad affrontare il negativo, in questo caso simbolizzato dalla tempesta furiosa di neve, dai lupi che ululano, dal vento che non smette di tormentare cose e persone: nella notte buia trova rifugio, ma ancora il pensiero ossessivo riprende vigore e lo costringe a lasciare l’ospitalità che lo protegge. Eppure in questa notte, mentre il mondo sfuma con le sue certezze, dall’anima senza fondo comincia ad emergere la paura, si incrina la sicurezza del padrone, il suo sentirsi “altro” rispetto ai comuni mortali, mentre perde il controllo emerge la sua umanità, e la sua verità:
«”Oh, che notte lunga!” pensò Vasilij Andreitch, sentendo il gelo corrergli lungo la schiena, e, riabbottonatosi e riavvoltosi nella pelliccia, si strinse contro l’angolo della slitta, preparandosi alla paziente attesa. A un tratto, in mezzo al rumore sempre uguale del vento udì distintamente un suono nuovo, vivo. Il suono si rafforzava via via, giunse a una perfetta nitidezza, e poi cominciò via via a indebolirsi. Non vi era alcun dubbio che si trattasse di un lupo. E questo lupo era così poco lontano, che lo si udiva, nel vento, mutare i suoni della voce, rigirando le mascelle. Vasilij Andreitch scostò il bavero e ascoltò attentamente. Anche Baio ascoltava, tendendosi tutto, muovendo le orecchie ora in una direzione ora in un’altra, e quando il lupo ebbe terminato d’eseguire la sua cadenza, cambiò la posizione delle gambe e sbuffò, per avvertire gli uomini. Dopo di ciò Vasilij Andreitch non riuscì più non soltanto ad addormentarsi, ma nemmeno a calmarsi. Per quanto si sforzasse di pensare ai suoi conti, ai suoi affari e alla sua gloria e dignità e ricchezza, la paura si impadroniva di lui sempre più, e sopra a tutti i suoi pensieri dominava e a tutti i suoi pensieri si mescolava il pensiero del perché egli non fosse rimasto a Grischkino per la notte. “Dio se lo prenda, quel bosco, ne avevo di affari anche senza quel bosco, grazie a Dio».[2]
L’anima, tormentata dall’ossessione dell’affare riprende vigore, il suo flusso di coscienza è inarrestabile, ipotizza di lasciare il servo per proseguire da solo. Ma il percorso è praticamente impossibile, il muro di neve e buio gli fanno perdere l’orientamento, non si arresta, ma ormai ha perso ogni punto di riferimento. Ora che la vita sembra essere minacciata, l’ossessione lo abbandona, pochi passi nella neve e involontariamente ritorna dal suo servo. Lo ha abbandonato al suo destino, lo ha tradito per il denaro, ma ora che il mondo con le sue lusinghe tace, dinanzi al servo che rischia la morte, si ritrova, vede nel servo il fratello che vive il suo stesso destino. Si stende su di lui per proteggerlo, per riscaldarlo, prova una triste gioia nel gesto di sentirsi al contatto con il servo, è per lui la prima volta che le gerarchie tacciono, semplicemente è dinanzi ad un altro essere umano che soffre come lui, non è più solo per la prima volta nella sua vita:
«”Ah, vedi, e dicevi che morivi. Sta’ disteso, scaldati, ecco come facciamo noialtri… ” cominciò a dire Vasilij Andreitch. Ma con suo grande stupore non riuscì a dire altro, perché le lacrime gli spuntarono negli occhi e la mascella cominciò a tremargli forte. Smise di parlare e si limitò a inghiottire quel che gli stava salendo in gola. “Mi devo essere proprio spaventato tanto, da esser così debole adesso” pensò di sé. Ma questa debolezza non soltanto non gli riusciva sgradita, ma gli procurava una gioia particolare, che non aveva ancora mai provato. “Ecco come siamo noi” diceva a se stesso, provando una commozione particolare, trionfante. E per un tempo piuttosto lungo rimase disteso così, asciugandosi gli occhi sul pelo della pelliccia e infilandosi sotto il ginocchio il lembo destro della pelliccia, che il vento continuava a rivoltargli. Ma aveva una voglia appassionata di parlare a qualcuno di quella gioia che si sentiva dentro. “Nikita!” disse. “Sto bene, sto caldo” si sentì rispondere da sotto. “E così, fratello, io ancora un po’ ed ero perduto, sai. E tu ti saresti congelato, e anch’io… ” Ma di nuovo cominciarono a tremolargli i pomelli, e di nuovo gli occhi gli si riempirono di lacrime, e non riuscì a dire nient’altro. “Be’, non importa” pensò. “Quel che so, lo so io per conto mio”. E tacque. Cosi rimase a lungo. Sentiva caldo da sotto, perché c’era Nikita, e sentiva caldo anche da sopra, perché sopra c’era la pelliccia; soltanto le mani, con cui egli teneva le falde della pelliccia sui fianchi di Nikita, e le gambe, da cui il vento continuava a rovesciargli via la pelliccia, cominciavano a gelarglisi. Gli si stava gelando in particolar modo la mano destra, che era senza guanto. Ma lui non pensava né alle sue gambe, né alle mani, ma pensava soltanto a scaldare il meglio possibile il “mugik” che gli giaceva sotto».[3]
Alla fine la vita è persa, ma ha ritrovato il suo senso. Il gesto del dono gratuito lo trasfigura, l’uomo che muore per salvare il servo e l’uomo ossessionato dal capitale sono due uomini diversi. Nella vita del padrone, ormai solo un uomo che cerca il fratello è entrato il tempo cairologico,[4] il tempo della qualità che muta e trasfigura la vita nell’unità della fratellanza. Il potere, sembra dirci Tolstoj, cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità, nelle sue etiche tragedie. La liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza è la vera emancipazione. Ma, per ritrovarsi, spesso si deve attraversare la notte oscura, con i suoi dubbi dolorosi.
Così Tolstoj narra gli ultimi pensieri di Vasilij prima della morte: «E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. “È vivo, Nikita, e dunque anch’io sono vivo” dice a se stesso con aria di trionfo. E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. “Be’, è perché non sapeva qual era il punto” pensa di Vasilij Brechunòv. “Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so”. E sente di essere libero, e non c’è più nulla che lo trattiene. E null’altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreevic. Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio».
Salvatore Bravo
[1] Lev Tolstoj, Padrone e servo, Freedbookss 2012, pp. 40-41.
[4] Cairologico dal greco καιρός “momento opportuno o speciale”.
«Poiché la vita è essenziale quanto la libertà, la lotta termina innanzitutto, come negazione unilaterale, con la seguente disuguaglianza. Uno dei due combattenti preferisce la vita, si conserva come autocoscienza singolare, ma rinuncia al suo essere riconosciuto; l’Altro, invece, si mantiene saldo alla sua autorelazione, e viene riconosciuto dal primo come da un assoggettato. Si ha così il rapporto tra signoria e servitù».
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.
Il capitalismo assoluto è sistema senza alterità, quest’ultima è possibile dove vige la creatività. La pluralità implica un lavoro di traduzione, ovvero di avvicinamento senza possibilità di sovrapposizione all’altro. L’attività creativa umana pone ponti, ma non sono mai percorribili in toto, le identità restano inafferabili, perché creatrici e germinatrici di vita. Senza tale processo la comunità è solo “luogo computazionale”, in cui regna l’intelletto unico, prospettiva eguale, che rende le attività automatiche e sincrone. Il grande sogno del capitalismo assoluto è la realizzazione di questo immenso intelletto comune mediante il quale ridurre l’alterità, il pericolo della creatività a semplice “attività organica al sistema”. Si tratta di realizzare compiutamente l’atomismo per impedire lo scambio creativo e politico. La divisione facilita l’installarsi dell’intelletto computazionale comune, l’anomia diventa la legge del capitale. Se ognuno è come gli altri il sistema è protetto da critiche e prassi e può in tal modo eternizzarsi e diventare globale. Si tratta di utilizzare il senso comunitario nel suo negativo, ovvero da “essenza della relazione per creare” a sterile contatto trasmissivo di informazioni, a uso del capitale umano ai soli fini produttivi. Alla vita, che con i suoi processi semina altra vita, si sostituisce la violenza della sola produzione, dell’accumulo divenuto mezzo e fine del sistema. È il nuovo imperativo categorico che i popoli debbono prima omaggiare e poi trasformare nell’unico modello da realizzare. È il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche, la mediocrità sterile che diviene legge della vita.
Il regno dell’ultimo uomo è stato profetizzato anche nella letteratura russa. La mediocrità divenuta legge è descritta come parametro medico, a cui ci si deve conformare. La medicalizzazione dell’alterità, di coloro che vivono lo spirito dionisiaco e dunque creativo, è ben descritto da A. Čechov in un breve racconto Il monaco nero, con il quale descrive la medicalizzazione del diverso, dello spirito creativo. Nel racconto vi è il montare di una scienza minacciosa che tutto vuole assimilare a paradigmi ritenuti “oggettivi”. Scienza medica incapace di metalettura, e dunque al servizio dei poteri di normalizzazione. Nel racconto dello scrittore russo emerge dunque, il problema della creatività e specialmente la domanda su che cosa sia la creatività e quale sia la sua genealogia. Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) per poter denunciare la minaccia del potere di normalizzazione che avanza chiarisce che la creatività massimamente espressa nel genio è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo. La creatività è un dentro ed è contemporaneamente un fuori, è dunque relazione nella profondità di sé che apre varchi verso il mondo, verso la comunità, è attività che forma ed informa le relazioni. Il monaco che il protagonista scambia per allucinazione, in realtà è l’io profondo nel quale ciascuno intuisce la presenza della vita non sclerotizzata in forme precostituite, ma che necessita di essere tradotta in forme sempre vive:
«”Devi essere un miraggio”, disse Kovrin. “Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda e diversa.”“E lo stesso” rispose il monaco non subito, piano, girando la faccia verso di lui. “La leggenda, il miraggio e io, tutto questo e un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.” “Quindi, non esisti?” chiese Kovrin. “Pensala come ti pare” rispose il monaco e fece un lieve sorriso. “Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura.”“Hai una faccia molto vecchia, intelligente e moltissimo espressiva, proprio come se vivessi davvero da più di mille anni” disse Kovrin. “Non sapevo che la mia immaginazione fosse in grado di creare fenomeni del genere. Ma perchè mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio?”“Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che e eterno.≫≪Hai detto: verità eterna… Ma e accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste?”“La vita eterna esiste≫ disse il monaco. ≪Tu credi nell’immortalità degli uomini?”“Sì, certo. Un grandioso, brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro. Senza associazione culturale Larici di voi, al servizio del principio supremo, che vivete con coscienza e liberta, l’umanità sarebbe insignificante; sviluppandosi in modo naturale, aspetterebbe ancora a lungo la fine della propria storia terrestre. Voi invece la fate entrare con qualche migliaio d’anni di anticipo nel regno della verità eterna – e in questo sta il vostro grande merito. Voi incarnate la benedizione divina che riposa negli uomini.”“E qual e il fine della vita eterna?” chiese Kovrin. “Come di tutte le vite: il piacere. Il piacere autentico sta nella conoscenza, e la vita eterna offre innumerevoli e inesauribili fonti di conoscenza, in questo senso e scritto: nella casa del Padre mio vi sono molti posti.”“Se tu sapessi com’e piacevole starti a sentire!” disse Kovrin sfregandosi le mani dalla soddisfazione. “Sono molto contento.”“Ma lo so: quando te ne andrai, la questione della tua essenza non mi dara pace. Sei un fantasma, un’allucinazione. Quindi sono malato di mente, anormale?”».[1]
Vera gioia è nell’ascolto della creatività La vera gioia è nell’ascolto della creatività fine a se stessa che rompe i limiti dello spazio e del tempo per armonizzare il soggetto con il cosmo, il quale è un organismo sempre vivo, l’anima mundi è la legge che “passa” e “vive” nell’atto creativo donando gioie non estemporanee, ma che si radicano in emozioni e formano strutture caratteriali positive. Il creativo non è invidioso, perché ha in sé più vita. La creatività insegna che per “essere diversi” non c’è bisogno di essere fenomeni da baraccone da vendere nel mercato dell’immagine. La diversità è l’ascolto del proprio “demone” come Socrate ci ha già insegnato. Se non si ascolta la propria voce interiore, la creatività è solo un volgare succedaneo di se stessi, pertanto diviene esibizionismo egocentrico, visivo e logorroico. La creatività autentica è nell’atto di coltivare il proprio sé profondo nel quale reincontrare se stessi e l’umanità intera. La mediocrità da sistema vuole avvelenare la fonte della libertà per imporre la normalità statistica come legge scientifica, e dunque si arroga il diritto di normalizzare e sanare chiunque rompa il protocollo del sistema gregge:
«”E se fosse. Non c’è da essere imbarazzati. Sei malato perché hai lavorato al di là delle tue forze e ti sei esaurito, e quindi hai sacrificato la tua salute all’idea ed e vicino il tempo in cui le darai la vita stessa. Cosa c’è di meglio? E l’aspirazione di tutte le nature nobili che hanno doti celesti.”“Se so di essere malato di mente, posso credere in me stesso?”“Ma come fai a sapere che le persone geniali a cui crede tutto il mondo non abbiano visto fantasmi anche loro? Ora gli scienziati dicono che il genio sia affine alla follia. Amico mio, sani e normali sono solo i mediocri, che stanno in mezzo al branco. Le riflessioni sull’epoca delle malattie nervose, del sovraffaticamento, della degenerazione e cosi via possono mettere in seria agitazione solo chi vede lo scopo della vita nel presente, cioè quelli che stanno nel branco.”“I romani dicevano: mens sana in corpore sano.”“Non tutto quello che dicevano i romani o i greci e vero. L’animazione, l’eccitazione, l’estasi: tutto quello che distingue i profeti, i poeti, chi soffre per un’idea, dagli uomini normali e l’opposto dell’aspetto animalesco dell’uomo, cioè della sua salute fisica. Ripeto: se vuoi essere sano e normale, entra nel branco.”“E strano, ripeti quello che spesso viene in mente a me≫ disse Kovrin. “Sembra che abbia spiato, origliato i miei pensieri reconditi. Ma non parliamo di me. Cosa intendi per verità eterna?”».[2]
Nel regno del dicitur L’attività creatrice è oggi osannata solo se funzionale al sistema produttivo, ma la creazione per sua natura risponde solo a se stessa, la creatività è anarchica. Il creativo oggi è perennemente minacciato, la pletora di messaggi che gli giungono, le pressioni istituzionali e la logica dell’utile inquinano il contatto con “il monaco nero”. Ognuno gioca la sua partita esistenziale nel coraggio di dire “sì” a se stesso, in un mondo che osanna i “dicitur”. Solitudine del genio e solitudine dell’umanità intera suddita di valori che necrotizzano la gioia e la fiducia nel proprio io profondo. Il potere si installa fin nelle viscere della persona, svuotandola e riducendola a semplice copia perfettamente sostituibile. La violenza diventa, così, legge, perché colui che è stato defraudato di sé diventa portatore di rabbia ed aggressività. Dobbiamo imparare dagli uomini che vissero la gioia:
«”Nell’antichità un uomo felice fini per aver paura della propria felicita tanto era grande! – e, per propiziarsi gli dei, porto loro in sacrificio il suo anello preferito. Lo sai, anche me, come Policrate, comincia un po’ a inquietare la mia felicita. Mi sembra strano di provare dal mattino alla notte solo gioia, mi riempie tutto e ottunde tutti gli altri sentimenti. Non so cosa sia la malinconia, la tristezza o l’angoscia. Come ora che non dormo, ho l’insonnia, ma non mi angoscio. Dico sul serio: comincio a non capacitarmene.”“Ma perché?” si stupì il monaco. “La gioia e forse un sentimento sovrannaturale? Non deve essere la condizione normale dell’uomo? Più è elevato lo sviluppo intellettuale e morale di un uomo, più è libero, più piacere gli dà la vita. Socrate, Diogene e Marco Aurelio provavano gioia, non tristezza. Anche l’apostolo dice: Rallegratevi sempre. Quindi rallegrati e sii felice”».[3]
Il protagonista muore, perché è stato oggetto di un’operazione di normalizzazione, la morte fisica è il completamento della sua morte psichica avvenuta con la sua normalizzazione, con la scissione da se stesso con la quale ritrovare la acclamata normalità che il sistema vuole:
«Un’ altra colonna nera simile a un vortice o a una tromba d’acqua apparve sull’ altra riva della baia. Attraversava la baia a velocita spaventosa in direzione dell’ albergo, diventando sempre più piccola e scura, e Kovrin fece appena in tempo a scansarsi per lasciarla passare… Un monaco con la testa canuta scoperta e le sopracciglia nere, a piedi nudi, le braccia incrociate sul petto, gli sfreccio accanto e si fermo in mezzo alla stanza. “Perché non mi hai creduto?” domando con aria di rimprovero, guardando tenero Kovrin. “Se allora avessi creduto che sei un genio, questi due anni non li avresti passati in modo cosi triste e misero.” Kovrin credeva già di essere un eletto da Dio e un genio, gli vennero in mente nitide tutte le conversazioni precedenti col monaco nero e voleva parlare, ma il sangue gli usci dalla gola dritto sul petto e lui, non sapendo che fare, si passava le mani sul petto e i polsini gli si intrisero di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che dormiva dietro il paravento, fece uno sforzo e disse: “Tanja!” Cadde a terra e, sollevandosi sulle braccia, chiamo di nuovo: “Tanja!”».[4]
La morte del genio è la morte dell’occidente culturale che in nome dell’utile e della sicurezza ha rinunciato all’essenziale per il superfluo, in questo scambio vi è la verità del capitalismo assoluto che abbaglia per favorire “la cecità di massa”.
Salvatore Bravo
[1] Anton Pavlovič Čechov, Il monaco nero, associazione culturale Larici http://www.larici.it pagg. 12-13.
«La convenzionalizzazione della psicanalisi determina la sua propria castrazione […]. L’ultimo grande teorema dell’autocritica borghese è diventato un mezzo per assolutizzare, nella sua ultima fase, l’alienazione borghese, e per vanificare anche il sospetto dell’antichissima ferita, in cui si cela la speranza di qualcosa di meglio nel futuro».
T.L.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, 1954.
È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.
La trasformazione dell’ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimandano a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice radio-generation, generazione radiofonica. È il tipo dell’uomo la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell’io, fino alla «persona». Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell’io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio, adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un «io» essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve. Se tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose. Abbiamo ragione di credere che l’atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operate trasformazioni che i vecchi «individui» non avrebbero mai saputo realizzare. L’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze. La generazione radiofonica è stata definita «bidimensionale». La mancanza di continuità nell’esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore.
Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c’è il sogno, ed essi non sanno più sognare. Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d’azione abituale, e tali da trascendere l’adattamento alle sue condizioni. Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. […] Vedono il mondo così com’è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono «induriti» in senso fisico e psicologico. La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi. […] A questa freddezza risponde una complicità segreta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. […] Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell’automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quanto mai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra «iniziativa» autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi. […] Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall’ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche. Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza. Al tempo stesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime. Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc.) si sono fatti «scaltriti» e non si lasciano più abbindolare da nessuno. Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un’educazione riflessiva nell’attuale fase storica.
Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.
Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: – Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace – ; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.
G. Boccaccio, Decameron, VI, 9
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Lezioni americane
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« Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili »
(da Italo Calvino, Lezioni americane, 1988)
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«[…] la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.
Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che passavano da una festa all’altra, sempre cercando occasioni d’ampliare il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d’empietà:
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: “Andiamo a dargli briga”; e spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: “Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?”. A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.
Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso “epicureismo” del poeta era in realtà averroismo, per cui l’anima individuale fa parte dell’intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s’innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell’intelletto). Ciò che ci colpisce è l’immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite. Vorrei che conservaste quest’immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza».
Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, 1988.
Giovanni Boccaccio Decameron, Sesta Giornata, Novella Nona: Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l’aveano.
Sentendo la reina che Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir cominciò: Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato. Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate. Tra le quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de'cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città. Tra le quali brigate n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de'Cavalcanti, e non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de'migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co'suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga -; e spronati i cavalli a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire:- Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto? A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: - Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace - ; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò. Costoro rimaser tutti guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro. Alli quali messer Betto rivolto disse: - Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra. Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.
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