Carmine Fiorillo – I ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero, ponti eidetici, su cui si sedimentano quelle tracce di significato che consentono l’attraversamento dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo la necrofila distopia del ponte. I veri costruttori di ponti li progettano in armonia con l’essenza umana, nel rispetto della natura.

Ponti eidetici

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

ponte

Noi siamo storia
e siamo la nostra storia nella storia.
Siamo una trama di significati.
Le nostre tracce di significato sono ponti.
Costruiamo ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello.

La storia è soprattutto trama di significati universali.
E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino.

La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali, e preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia.
Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro.

Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”.

Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione, descrivendo la parabola efficace di uno stato relazionale.

Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita.

L’antropologia capitalistica ci riserva distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” di ponti unicamente “materici” destinati a schiacciare lo spirito per la loro intrinseca deteriorabilità strutturale, perché confligge con l’idea stessa di ponte, pur dovendoli costruire, e vorrebbe vedere il mondo solo come una pianura senza fine, con un paesaggio assolutamente piatto, che per questo non necessita della presenza di ponti.

Per il capitalismo mondializzato, per gli speculatori e le lobby dell’ingegneria dei ponti, l’idea stessa di ponte viene vissuta come un “non senso”, da risolvere con i “pacificanti” calcoli matematici: «un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (F. Kafka).
Ma anche un pericolo.
E non perchè i ponti possono «precipitare», e dunque occorre poi “spendere” per ricostruirli.

Per essi è l’idea stessa di ponte ad essere un pericolo in quanto i veri costruttori di ponti testimoniano un alto grado di differenziazione dall’onnivora omologazione, e soprattutto di consapevolezza delle possibili condizioni alternative per il movimento, per l’attraversamento, per il cambiamento, per il dialogo, ed anche per il conflitto.

Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia (anche “minore”, anche della nostra storia personale e psicologica) lo dobbiamo ritrovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato.

Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.

Tracce di significato, perché traccia è:

segno” lasciato sul terreno della storia;

vestigio” che permette di riconoscere, ricordare, rammemorare;

testimonianza”  di pienezza di valore vissuta,
di progettualità impegnata comunitariamente;

orma” che rinvia al “cammino” dell’uomo
nella realizzazione della propria compiuta umanità;

indizio” di eventi passati che il tempo ha reso evanescenti,
ma che sono prefigurazione di un futuro;

cifra” di virtualità che cercano la vita nel presente;

segnacolo” di accadimenti futuri;

impronta” della possibile dialettica di comprensibilità tra passato e presente;

abbozzo” che serva da guida;

filo conduttore” di un discorso di rilevanza umanistica;

schizzo” di un progetto di ricerca sul bene e sul bello;

metafora” della fiducia critica nella memoria storica dell’uomo.

Carmine Fiorillo


Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino

Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino.


Edvard Munch, L'urlo, 1893.

Edvard Munch, L’urlo, 1893.

 


«Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano […]una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (Franz Kafka).[1]

«Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento» (Ernst Jünger).[2]

«Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» (Georg Simmel).[3]

«Allora io capisco […] perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» (Alberto Savinio).[4]

«A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» (Rudyard Kipling).[5]

 


[1] Franz Kafka, Die Brücke, 1916, in Id., Ein Landarzt, 1918, trad. it. Il ponte, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di Anita Rho, Milano, Frassinelli, 1935, 19686, pp. 319-321: 321.

[2] Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, 2002.

[3] Georg Simmel, Brücke und Tür, in «Der Tag», 15 settembre 1909, ora in Id., Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, im Verein mit Margarete Susman, herausgegeben von Michael Landmann, Stuttgart, Koehler, 1957, trad. it. Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, introduzione e note di Massimo Cacciari, Padova, Liviana, 1970, pp. 1-8: 3.

[4] Alberto Savinio, Ad vocem «Zoografia», in Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 20025, p. 401.

[5] Rudyard Kipling, The Bridge-Builders, trad. it. I costruttori di ponti, in Id., I figli dello Zodiaco, A cura di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2008, p. 166.



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