Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.

Luciano Canfora-Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös

Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci

di Luciano Canfora

Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia

 

«Se si pone mente al caso dei filosofi greci (per lo meno di alcuni), il motto celebre, e celebrato, di Marx, secondo cui i filosofi si sarebbero sinallora limitati a “interpretare il mondo” astenendosi dall’imperativo inderogabile di “cambiarlo”, non sembra corrispondere al vero. Giacché quegli antichi inventori del filosofare, in verità, operarono. E in una piccola comunità, quale fu la città antica, la loro azione risultò sommamente visibile: tanto da diventare non di rado il bersaglio della più popolare forma d’arte, la commedia. Più avanti di tutti si spinse Platone, il quale tentò addirittura di costruire la “città nuova”; e perciò patì la cattiveria e rischiò il peggio. Molto dopo di lui, uno stoico, Blossio di Cuma, fu dapprima coi Gracchi. Una volta persili, andò a morire combattendo al fianco di Aristonico e dei suoi ribelli, i quali chiedevano uguaglianza e adoravano il sole. La loro parola era dunque azione. Contro Socrate – l’uomo che forse meglio rappresenta gli antichi pensatori nella fantasia dei posteri – fu lo stesso ceto politico a mobilitarsi per neutralizzarlo. E lo colpirono: con lo strumento, talvolta cieco, ma ognora onnipotente, del verdetto di un tribunale» (quarta di copertina).

 

 

Il saggio di Luciano Canfora Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, uscito vent’anni fa per i tipi di Sellerio Editore, si pone l’obiettivo di indagare la relazione che intercorre tra la parola filosofica di alcuni fra i maggiori pensatori antichi – come Socrate, Platone, Aristotele e Lucrezio – e la prassi cui essa dà luogo, richiamando l’attenzione sulle conseguenze da esse prodotte e sulle ragioni alla base delle ostilità suscitate dalla speculazione e dall’insegnamento di tali filosofi. Dalla presente ricostruzione ben emerge come la filosofia, lungi dal costituire un mero gioco o un innocuo affare di soli addetti ai lavori, intrattenga necessariamente una relazione con il potere costituito (o con i poteri costituiti) e, più in generale, con le vicende sociali e politiche – una relazione che si rivela assai sovente problematica. Se, infatti, la filosofia non può esimersi dal calarsi nelle convulse dinamiche che definiscono il proprio tempo storico e dall’appartenervi, scendendo talora inevitabilmente – realpoliticamente – a compromessi con l’ordine vigente allo scopo di farsi valere con i fatti e «non apparire solo parola» (Platone, Settima lettera, 328E), essa, per il suo carattere antiadattivo e potenzialmente sovversivo, espone costantemente se stessa e coloro che la praticano a gravi pericoli. Allo stesso tempo, il “bisogno di filosofia” nasce, in modo apparentemente paradossale, proprio là dove il potere si fa dispotico e, tuttavia, non per caso: il «bisogno di consenso intellettuale», infatti, «è un bisogno primario del potere, soprattutto del potere totalitario» (p. 85). È dunque il potere stesso a volere e a chiamare a sé i filosofi, che però finisce per accusare di essere “corruttori”, “cospiratori”, quinte colonne o, in ogni caso, “nemici dello Stato”. Quello del “filosofo” si rivela così un “mestiere pericoloso” in un duplice senso: lo è per i reggitori, i quali non possono non sospettare di coloro che liberamente indagano sui problemi che, in un modo o nell’altro, riguardano ogni uomo; lo è per i filosofi stessi che, proprio per la loro coraggiosa e radicale scelta di vita, si trovano di fatto in perenne pericolo.
La relazione tra la riflessione di tali filosofi e la prassi che da essa deriva è chiarita ripercorrendo i momenti cruciali della loro vicenda biografica. È infatti sul terreno della vita, delle scelte – più o meno filosofiche – che essi si trovano costretti a compiere e delle reazioni che la loro maniera di vivere e pensare provoca in chi detiene il potere, che si fa evidente la pericolosità della loro attività.
Se c’è una figura che, meglio di altre, può rendere l’idea del pericolo cui i filosofi sono esposti, essa è senza dubbio quella di Socrate. Egli è colui che, per le proprie idee e per la propria condotta, è assassinato dalla propria città, Atene. Sarebbe però un errore vedere in costui un uomo che, con coraggio, resta fedele ai propri princìpi di fronte all’estremo pericolo della condanna a morte: tutta la sua vita è infatti irradiata dall’idea che non si debba fare nulla che non sia conforme alla legge; non solo dinanzi alla morte, dunque, ma in ogni momento della sua vita Socrate si muove coraggiosamente contro corrente, rifiutandosi più volte di assecondare i desideri sia del demo sia di coloro che si ritengono migliori. Il suo grande merito è quello di smascherare l’inconsistenza della tesi secondo cui la “giustizia” coinciderebbe necessariamente con gli interessi della maggioranza; in aperto contrasto con la maggior parte degli Ateniesi, egli testimonia il primato del nomos sul demos.
La vita (filosofica) di Socrate rappresenta una sfida continua nei confronti dei pericoli cui un filosofo va inevitabilmente incontro. Diverso è invece, per Canfora, l’atteggiamento del suo allievo Platone. La sua filosofia nasce infatti, per certi aspetti, dal desiderio di evitare il pericolo di una condanna analoga a quella di Socrate, ed è questo a rendere il suo filosofare differente da quello del suo maestro: «se […] sceglierà di filosofare “al chiuso”, in una cerchia remota e separata, lontano dagli occhi dei concittadini, se cioè farà l’esatto contrario del continuo incontrarsi e scontrarsi con la città caratteristico di Socrate, questo sarà dovuto anche, se non essenzialmente, alla tragica conclusione dell’esperienza socratica» (p. 68). La morte del maestro, com’è noto, ha un’importanza decisiva per lo sviluppo del pensiero filosofico-politico di Platone: «il vero trauma, indelebile», per costui, è non la guerra civile che fa seguito alla sconfitta contro Sparta, ma «il processo mostruoso con cui la democrazia restaurata aveva messo a morte Socrate. È a quell’evento che dedica una riflessione altissima», poiché da esso «scaturisce la sua scelta di vita: la rinuncia a misurarsi con la democrazia e la ricerca di altre strade» (p. 69). L’assassinio di Socrate determina la rottura tra Platone e Atene: «è da allora che, giudicato irriformabile il modello politico rappresentato (per eccellenza!) dalla sua città, cerca altre strade, fa esperienze che saranno anch’esse alimento, e banco di prova, del suo pensiero politico» (pp. 69-70). La fondazione dell’Accademia sancisce, in seguito, la definitiva separazione dei filosofi dalla città. La comunità di Platone, infatti, «era una comunità che mostrava di non aver bisogno della città, e che tuttavia osava anche occuparsi della città» (pp. 80-81); questa è una delle ragioni per cui essa «non faceva che insospettire e irritare i “buoni” ateniesi. Cosa tramava quella gente al chiuso?» (p. 81) Il desiderio di «non apparire solo parola di fronte a me stesso» (Settima lettera, 328E) e dunque di modificare lo stato di cose presente è, osserva Canfora, il tarlo che tormenta Platone. È questo tormento, unito alla convinzione «che la prova decisiva alla quale ad un certo punto si è chiamati non è, come pensano molti, lontana e di là da venire o relegata in un passato (ormai mitizzato) di cui non potemmo essere protagonisti, ma è qui, a portata di mano, in un immediato presente dal quale è vile tirarsi indietro» (p. 84), a spingerlo alla collaborazione con i tiranni di Siracusa. E tuttavia, è in questo che, secondo lo studioso, consiste «il vero fallimento di Platone: nell’essere caduto nella spirale del potere, fallendo l’obiettivo di pilotarlo» (pp. 84-85). Ed è qui che, a conti fatti, la vicenda filosofica di Platone assume i tratti del paradosso: se è vero, infatti, che egli ha deciso di tenere la pratica della filosofia lontana dagli occhi degli Ateniesi per sfuggire al pericolo di una condanna a morte, è altrettanto vero che la decisione di venire a un’intesa con la tirannide siracusana lo pone (per più volte!) dinanzi al medesimo pericolo.
Di grande interesse è anche l’intrigante ricostruzione della vita di Aristotele, compiuta da Canfora con l’intento di portare alla luce la complessa trama che lega saldamente lo Stagirita alla monarchia macedone. L’autore rileva come il suo stesso desiderio giovanile di recarsi ad Atene per studiare presso l’Accademia di Platone sia, a ben vedere, riconducibile al sovrano di Macedonia, Filippo. La Macedonia, infatti, «era un paese che guardava alla cultura ateniese con interesse, anzi con avidità. […] Mandare il promettente figlio del medico di corte alla scuola di Platone era dunque, per la casa regnante macedone, innanzi tutto un investimento: Aristotele, l’adolescente promettente, veniva messo a contatto col centro di pensiero più avanzato della grecità continentale. […] Si nutriva a quella educazione da re per portare a sua volta, o trapiantare, nel suo paese, e soprattutto nell’educazione del giovanissimo principe ed erede, i frutti di quello straordinario apprendistato» (pp. 97-98). La decisione di lasciare Atene dopo un soggiorno ventennale va intesa considerando ciò che avviene tra il 348 e il 347 a.C.: la città di Olinto, sostenuta da Atene per volere di Demostene, si arrende a Filippo; Demostene diviene il leader della politica ateniese. È chiaro come in tali condizioni non convenga a un suddito macedone rimanere ad Atene. La scelta di andare in Troade, ad Atarneo, su invito del suo dinasta Ermia, anziché in Macedonia, si spiega per Canfora tenendo a mente che Ermia, benché protetto dal Gran Re di Persia, è in verità un agente di Filippo avente il compito di preparare l’attacco contro la Persia; in gioventù è stato allievo di Platone ed è presso la sua scuola che ha conosciuto Aristotele, divenendo suo amico e, in seguito, addirittura suo parente. In Troade, Aristotele fonda una scuola patrocinata dallo stesso Ermia che, tuttavia, segnala lo studioso, non è illecito ritenere che si tratti in realtà di un “organo” dell’intelligence macedone. In generale, secondo Canfora, è lecito pensare che Filippo abbia «infiltrato suoi uomini nella scuola di Platone» e che questi «stessero accanto ad Aristotele sotto l’eccellente copertura della frequentazione di studio presso quella scuola dove tutto avveniva al chiuso, al riparo dagli occhi della città» (pp. 109-110). Quanto ad Aristotele, quando diviene precettore del giovane Alessandro, figlio ed erede di Filippo, solo pochi possono sospettare che costui, che è ormai noto come una delle più grandi menti viventi, sia in realtà un agente macedone. Il suo successivo ritorno ad Atene, nei primi mesi del 334, può essere compreso alla luce di alcuni eventi connessi ai successi della politica macedone, come la distruzione di Tebe, che dà ad Aristotele la certezza che coloro che sono stati sconfitti nella guerra contro i Macedoni – come gli Ateniesi – non riservino sorprese. Ad ogni modo, anche la sua amicizia con Antipatro, reggente di Macedonia per conto di Alessandro dallo stesso anno, permette di fare luce tanto sulle ragioni del suo rientro quanto «sui rapporti ininterrotti e profondi di Aristotele con i livelli supremi del potere macedone. Un dato del genere», osserva l’autore, «consente di cogliere i fili che, dietro la scena, muovono i personaggi: Antipatro e Aristotele si muovono all’unisono quando vengono, entrambi, in Grecia durante l’assenza prevedibilmente non breve di Alessandro» (ivi). È addirittura proprio quest’ultimo a patrocinare il Liceo, la scuola che Aristotele, in quegli anni, fonda ad Atene. «Il legame che, anche a distanza, univa Alessandro al suo maestro», evidenzia Canfora, «era impersonato fisicamente da Callistene, il nipote di Aristotele» (p. 126), lo storico al seguito di Alessandro nella sua spedizione in Asia. Ed è per certi versi sempre Callistene la causa della rottura tra il Conquistatore e lo Stagirita: dopo l’uccisione di Callistene (327 a.C.) – accusato di aver congiurato contro di lui –, infatti, l’ira di Alessandro si scatena sul vecchio maestro, considerato il suo mandante. Dopo la morte improvvisa di Alessandro, molte personalità a lui vicine sono sospettate di averlo avvelenato; tra queste vi è anche Aristotele. Anche sulla morte di quest’ultimo (322 a.C.), per lo studioso, è lecito formulare alcune ipotesi. Fuggito da un’Atene nuovamente guidata da Demostene e in guerra contro Antipatro, forse anche per evitare un processo per empietà, egli si rifugia nella città di Calcide, controllata dai Macedoni, dove poco dopo muore. Non è dato sapere se la sua morte sia dovuta a malattia o avvelenamento, come sostengono alcuni storici antichi. «In tal caso», suggerisce Canfora, «ci dovremmo chiedere chi avesse provveduto a far fuori il filosofo a quel modo: degli Ateniesi esasperati dalla sconfitta che mal sopportavano di non averlo potuto processare, o dei “vendicatori” macedoni della morte di Alessandro?» (p. 138). In ogni caso, nonostante la vicenda di Callistene, è forse ancor prima, sul piano filosofico-politico, che si consuma la rottura tra Aristotele e Alessandro: l’ideale politico di Aristotele, infatti, «non si identifica con la monarchia dei suoi sovrani», ma con una polis «retta da leggi e avente come fulcro la classe media possidente» (p. 121) – un modello evidentemente distante da quello della basileia universale di Alessandro. Atene è, in questo senso, non solo un luogo particolarmente stimolante in cui fare ricerca e insegnare, ma anche «un punto di osservazione privilegiato per la sua riflessione politica» (pp. 120-121). È dunque il suo pensiero che forse, più di altri fattori, può spiegare cosa lo abbia indotto a lasciare Pella, la capitale macedone, per stabilirsi ad Atene.
Quanto esaminato costituisce solo una parte dell’opera di Canfora, alla quale vanno riconosciuti almeno due grandi meriti: da una parte, essa porta alla luce il carattere pratico della filosofia greca, indicando, nel confronto con la vita di alcuni suoi protagonisti, quali siano i pericoli cui un filosofo va o rischia di andare incontro; dall’altra, essa lascia intendere come, in ogni tempo, chiunque aspiri non solo ad “interpretare il mondo”, ma anche a “trasformarlo”, non cessi di imbattersi in analoghi pericoli, dimostrando come ogni vero filosofare rappresenti, in definitiva, un “mestiere pericoloso”.

Alessandro Dignös

 

 

 

Indice del volume

Socrate ovvero l’infallibilità della maggioranza
L’esule: vita randagia del cavaliere Senofonte
Platone e la riforma della politica
Aristotele uno e due
Epicuro e Lucrezio: il senso degli atomi
Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca

Michel Foucault-Dignös Alessandro
Alessandro Dignös

Discorso e verità nella Grecia antica
di Michel Foucault

Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca

 

Tra le opere che più contribuiscono a fare luce su alcune caratteristiche fondamentali della cultura e del pensiero dei Greci, favorendo una migliore comprensione del loro essenziale tratto umanistico, Discorso e verità nella Grecia antica di Michel Foucault occupa indubbiamente un posto di primo piano. Le riflessioni in esso contenute, relative all’ultimo periodo della ricerca foucaultiana, mirano non ad «affrontare il problema della verità» nella Grecia antica, ma a porre «il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività» (p. 111), al fine di mostrare che, «se la filosofia greca ha sollevato il problema della verità dal punto di vista dei criteri che presiedono ad affermazioni vere e a un giudizio corretto, la stessa filosofia greca ha sollevato anche la questione della verità dal punto di vista del dire la verità come attività» (ivi). Non si tratta di un problema di scarso rilievo: esso, infatti, ha posto i Greci di fronte a questioni della massima importanza come: «chi è in grado di dire la verità? Quali sono i requisiti morali, etici, spirituali che abilitano qualcuno a presentarsi e ad essere considerato come un dicitore di verità? E su quali argomenti è importante dire la verità?» (ivi). E ancora: «Quali sono le conseguenze del dire la verità? Quali sono gli effetti positivi per la città, per i governanti, per gli individui? E infine: qual è il rapporto tra l’attività del dire la verità e l’esercizio del potere? Può il dire la verità coincidere con l’esercizio del potere […]?» (pp. 111-112).

Secondo l’autore, tali domande fondamentali concernenti l’attività del «dire la verità» – che i Greci hanno designato col termine parresia, forma nominale del verbo parresiazestai, «dire tutto» – sono state poste al centro della riflessione e del discorso filosofico a partire da Socrate. Questo pensatore occupa una posizione privilegiata nell’analisi di Foucault. È proprio Socrate, infatti, a rappresentare ai suoi occhi la figura del parresiastes – e cioè del «dicitore di verità» – nel modo più eminente, come testimoniano i dialoghi di Platone. Ma in che senso costui è un «parresiasta»? Che cosa lo fa essere tale? Quali requisiti possiede colui che pratica la parresia? In generale, chi è il «parresiasta»? In Socrate, evidenzia Foucault, «non vi è la minima discrepanza tra ciò che dice e ciò che fa»; «c’è un rapporto armonico […] tra le sue parole (logoi) e le sue azioni (erga)» (p. 65). Il suo logos, ciò che egli sostiene, e il suo bios, il suo modo di vivere, sono in perfetta concordanza. Questa armonia, dal carattere dorico, si manifesta nel coraggio che contraddistingue Socrate. Infatti, come precisa Foucault, «se c’è una specie di “prova” della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio» (p. 6). Il «parresiasta» non coincide con chiunque dica la verità, poiché, in tal caso, qualsiasi insegnante di scuola potrebbe definirsi tale, dal momento che ciò che insegna è certamente vero; egli è invece «qualcuno che corre un rischio. […] La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un “gioco” di vita o di morte» (p. 7). Stando così le cose, è evidente come essa non riguardi soltanto il rapporto con gli altri ma, innanzitutto, con se stessi: il parresiastes agisce secondo coscienza e in piena libertà e «preferisce essere uno che dice la verità, piuttosto che un essere umano falso con se stesso» (ivi). In conclusione, la parresia può essere descritta come «un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio» (p. 9). Ed è proprio in ciò che consiste il filosofare socratico.

L’attività di Socrate si caratterizza così come un’autentica pratica parresiastica che si contrappone «all’ignoranza di sé e ai falsi insegnamenti dei sofisti» (p. 67) ed è in qualità di «parresiasta» che egli, diversamente dagli altri uomini, si rivela capace di guidare i propri interlocutori a rendere conto di se stessi, ossia della relazione tra ciò che essi dicono e il modo in cui vivono, esortandoli alla cura dell’anima e alla pratica della giustizia e avviandoli così alla comprensione del bene della polis. In questo senso, con Socrate, la parresia, il principio cardinale della democrazia di Atene, viene a definirsi come una pratica di trasformazione di sé, in virtù della quale gli uomini possono dare una nuova forma a se stessi e agli altri secondo verità e giustizia, per vivere nel miglior modo possibile.

Attraverso l’esame del pensiero di Socrate e di altri protagonisti della cultura antica, Foucault rileva come la conoscenza della verità non si riduca, per i Greci, ad una mera operazione gnoseologica, poiché implica necessariamente un’etica – e una politica – della verità: la comprensione del vero, infatti, trasforma radicalmente l’esistenza, dando luogo ad un diverso modo di vedere il mondo e, ancor più, ad un diverso e più autentico modo di vivere la relazione con se stessi e con gli altri. Da qui la “scoperta”, da parte della cultura e della filosofia ellenica, non solo dell’importanza della ricerca della verità, ma anche del «dire la verità» per la formazione e per la realizzazione dell’uomo.

Alessandro Dignös

Indice del volume

Dire la verità

Introduzione di Remo Bodei

Nota del curatore dell’edizione inglese

I. Significato ed evoluzione della parola parresia

1. Il significato della parola

2. L’evoluzione della parola

II. La parresia nelle tragedie di Euripide

1. «Le fenicie»

2. «Ippolito»

3. «Le baccanti»

4. «Elettra»

5. «Ione»

6. «Oreste»

7. La problematizzazione della parresia in Euripide

III. La parresia e la crisi delle istituzioni democratiche

IV. La parresia e la cura di sé

1. La parresia filosofica

2. La pratica della parresia

Osservazioni conclusive

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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