Sergio Finardi (1950-2015) – Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari, «Alle fonti del kafkiano».

Sergio Finardi - Franz Kafka
Sergio Finardi

«Da tempo ormai il nuovo modo di lavorare, di organizzare il lavoro, la produzione e l’economia stavano cambiando l’uomo, il suo ambiente e le sue relazioni, ma mancavano alcuni indispensabili modi di discuterne. Certo, gran parte delle parole e dei concetti che noi oggi usiamo per parlare della grande fabbrica, dell’impresa, del primato dell’economia nella vita associata e di argomenti connessi erano disponibili da tempo – da Taylor a Marx –, ma chi aveva parlato dell’inconsistenza del soggetto, del vuoto mentale, chi aveva mostrato, o solo nominato, il legame psicologico del soggetto all’evanescenza persecutoria delle grandi costruzioni organizzative? Chi, pur parteggiando per i lavoratori, ne aveva narrato così bene la cecità, il vuoto interiore e le vuote illusioni e chi aveva altrettanto bene intravisto i contenuti profondi della progressiva e radicale atomizzazione degli individui?».

Disegno di Franz Kafka

Così Luigi Ferrari, nel suo recente Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka (prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, editrice Vicolo del Pavone, pp. 312, euro 21) ci introduce ad analizzare con una lente non letteraria e non tradizionale l’opera di Kafka (1883-1924). Ideale continuazione del suo monumentale L’ascesa dell’individualismo economico, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2010, il lavoro di Ferrari è uno straordinario viaggio dentro il pensiero di Kafka «scrittore del lavoro, dell’economia e della realtà» e apre una prospettiva inedita nella comprensione della sua opera – restituita nella sua estrema varietà e complessità – e dei meandri di senso che sono all’origine dell’uso quasi universale del termine «kafkiano».
Il libro si compone di una introduzione generale e di cinque capitoli che fanno perno su altrettanti nodi dell’interpretazione delle opere e delle lettere private dello scrittore praghese. Ne accenneremo qui per tratti fondamentali nella descrizione dei vari capitoli, certo non esaustiva del quadro ben più articolato che il lettore troverà nel volume.

Disegno di Franz Kafka

L’analisi del primo capitolo (il Lavoro) è innovativamente centrata sulla relazione tra i temi di alcune opere fondamentali di Kafka (Le Metamorfosi, Il Digiunatore e Il Castello) e le approfondite conoscenze sull’organizzazione del lavoro – riflesse in varie «relazioni tecniche» riportate alla luce da Ferrari – che lo scrittore aveva acquisito come analista dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, a Praga, dove lavorerà tra il 1908 e il 1918.
Lontano dall’immagine di «povero travet ‘scadente’ e svogliato, con il solo esclusivo interesse perla letteratura» che l’autore praghese, ancora prima dei suoi esegeti, ha voluto trasmetterci, Kafka aveva, in realtà, sempre rivestito un ruolo formale e soprattutto informale di primissimo piano nello studio tecnico, psicologico, legale e gestionale della prevenzione degli infortuni e, in senso lato, dell’organizzazione del lavoro.
Così – sostiene Ferrari – i protagonisti delle opere di Kafka sono investiti – pur nei termini onirici che ne caratterizzano l’esperienza – dai processi e dalle condizioni che Kafka conosceva bene: l’interscambiabilità e fungibilità dei lavoratori nella produzione capitalistica; la perdita di senso dell’attività lavorativa del singolo; la sempre possibile e incombente sua «superfluità» e irrilevanza; l’immiserimento della vita interiore del lavoratore, il «vuoto mentale» che si produce in chi subisce.
Nel secondo capitolo (Intermezzo metodologico) troviamo il tema degli strumenti metodologici – in particolare in attinenza alla scuola delle Annales – che permettono di comprendere il nesso tra storia oggettiva e soggettiva nell’opera kafkiana, con ampio riferimento ai processi descritti da Ferrarine L’ascesa dell’individualismo economico e la discussione di merito riguardo il senso della scelta della forma nell’apologo onirico, «ovvero di una narrazione al contempo sfrenata e imperturbabile e perciò adatta a riflettere il caos del nuovo nelle società» in comparazione con Freud dell’Interpretazione dei sogni.
Di notevole importanza appare, poi, l’insieme delle considerazioni condotte nel terzo capitolo (Le Organizzazioni), che verte sull’analisi kafkiana delle forme del potere organizzativo, così come si mostra in opere quali Il Processo, Il Castello, La Colonia Penale. In questo capitolo, Ferrari capovolge l’interpretazione di Kafka come esegeta delle strutture organizzative totalitarie, monolitiche e impenetrabili nelle loro logiche occulte, mostrando come in realtà egli parli delle grandi organizzazioni come strutture deboli o meglio, indebolite, dal «brulicare», al loro interno, di interessi individuali e privati, da procedure vaghe e imprecise, da disordine organizzativo e resistenza al cambiamento – anticipando riflessioni che solo oggi l’evoluzione del lavoro e delle organizzazioni ha reso del tutto attuali.
Il nodo della visione che Kafka mostra di avere dell’economia che si andava affermando e del lavoro dipendente in cui si identifica contrariamente al «destino» che la famiglia vorrebbe per lui, viene affrontato nel quarto capitolo (Affetti e denaro), con una disamina del groviglio intricatissimo di affetti e interessi economici che hanno riguardato la relazione tra KaIka e la sua famiglia, in particolare con la figura patema (Lettera al padre), nel contesto generale del precipitare, nel periodo, di quella «ribellione al padre» che andava maturando da molto tempo con il disgregarsi progressivo della società agrario-feudale.

Disegno di Franz Kafka

Oltre l’individualismo, verso l’individualismo economico, tema del capitolo finale, si svolge sullo sfondo dei processi storici che sono alla base della riflessione di Ferrari. Vediamo così, attraverso le parole delle lettere, dipanarsi il pensiero di Kafka su se stesso, sul proprio individualismo e tendenza all’isolamento, sul suo rifiuto della famiglia e del matrimonio, sul «nucleo più interno dell’incipiente atomizzazione degli individui e dell’eclisse generalizzata della socialità», arrivando infine – tra altre opere – alla cupa visione che si esprime nella Tana (1923-24), scritto sei mesi prima della morte e rimasto incompiuto.
In quel racconto, come vorrebbe oggi il liberismo economico, «il mondo è popolato solo da predatori e ogni forma di relazione con l’altro è un duello: non ci può essere cooperazione e dunque totalmente assente è la fiducia».
Quindi, «il mondo è atomizzato: quella che inizialmente era la difesa dell’individuo dal collettivo si è poi trasformata nel primato dell’individuo e, infine, nel culto totalitario del singolo».

Sergio Finardi, Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari «Alle fonti del kafkiano». Luigi Ferrari, Alle fonti  del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka, prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, a cura di V. Guerrini, D. Dondi, Editrice  Vicolo del Pavone, Castelnuovo Scrivia AL 2014. La recensione di Sergio Finardi è stata pubblicata su il manifesto del 29-04-2014, p. 11.

Marco Cinque, Addio caro Sergio Finardi
In ricordo di Sergio Finardi
Carlo Tombola, Per Sergio Finardi
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Carmine Fiorillo – I ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero, ponti eidetici, su cui si sedimentano quelle tracce di significato che consentono l’attraversamento dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo la necrofila distopia del ponte. I veri costruttori di ponti li progettano in armonia con l’essenza umana, nel rispetto della natura.

Ponti eidetici

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

ponte

Noi siamo storia
e siamo la nostra storia nella storia.
Siamo una trama di significati.
Le nostre tracce di significato sono ponti.
Costruiamo ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello.

La storia è soprattutto trama di significati universali.
E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino.

La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali, e preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia.
Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro.

Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”.

Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione, descrivendo la parabola efficace di uno stato relazionale.

Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita.

L’antropologia capitalistica ci riserva distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” di ponti unicamente “materici” destinati a schiacciare lo spirito per la loro intrinseca deteriorabilità strutturale, perché confligge con l’idea stessa di ponte, pur dovendoli costruire, e vorrebbe vedere il mondo solo come una pianura senza fine, con un paesaggio assolutamente piatto, che per questo non necessita della presenza di ponti.

Per il capitalismo mondializzato, per gli speculatori e le lobby dell’ingegneria dei ponti, l’idea stessa di ponte viene vissuta come un “non senso”, da risolvere con i “pacificanti” calcoli matematici: «un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (F. Kafka).
Ma anche un pericolo.
E non perchè i ponti possono «precipitare», e dunque occorre poi “spendere” per ricostruirli.

Per essi è l’idea stessa di ponte ad essere un pericolo in quanto i veri costruttori di ponti testimoniano un alto grado di differenziazione dall’onnivora omologazione, e soprattutto di consapevolezza delle possibili condizioni alternative per il movimento, per l’attraversamento, per il cambiamento, per il dialogo, ed anche per il conflitto.

Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia (anche “minore”, anche della nostra storia personale e psicologica) lo dobbiamo ritrovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato.

Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.

Tracce di significato, perché traccia è:

segno” lasciato sul terreno della storia;

vestigio” che permette di riconoscere, ricordare, rammemorare;

testimonianza”  di pienezza di valore vissuta,
di progettualità impegnata comunitariamente;

orma” che rinvia al “cammino” dell’uomo
nella realizzazione della propria compiuta umanità;

indizio” di eventi passati che il tempo ha reso evanescenti,
ma che sono prefigurazione di un futuro;

cifra” di virtualità che cercano la vita nel presente;

segnacolo” di accadimenti futuri;

impronta” della possibile dialettica di comprensibilità tra passato e presente;

abbozzo” che serva da guida;

filo conduttore” di un discorso di rilevanza umanistica;

schizzo” di un progetto di ricerca sul bene e sul bello;

metafora” della fiducia critica nella memoria storica dell’uomo.

Carmine Fiorillo


Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino

Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino.


Edvard Munch, L'urlo, 1893.

Edvard Munch, L’urlo, 1893.

 


«Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano […]una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (Franz Kafka).[1]

«Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento» (Ernst Jünger).[2]

«Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» (Georg Simmel).[3]

«Allora io capisco […] perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» (Alberto Savinio).[4]

«A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» (Rudyard Kipling).[5]

 


[1] Franz Kafka, Die Brücke, 1916, in Id., Ein Landarzt, 1918, trad. it. Il ponte, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di Anita Rho, Milano, Frassinelli, 1935, 19686, pp. 319-321: 321.

[2] Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, 2002.

[3] Georg Simmel, Brücke und Tür, in «Der Tag», 15 settembre 1909, ora in Id., Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, im Verein mit Margarete Susman, herausgegeben von Michael Landmann, Stuttgart, Koehler, 1957, trad. it. Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, introduzione e note di Massimo Cacciari, Padova, Liviana, 1970, pp. 1-8: 3.

[4] Alberto Savinio, Ad vocem «Zoografia», in Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 20025, p. 401.

[5] Rudyard Kipling, The Bridge-Builders, trad. it. I costruttori di ponti, in Id., I figli dello Zodiaco, A cura di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2008, p. 166.



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