Salvatore Bravo – Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

Giordano Bruno Verità
Gustav Klimt, Nuda Veritas, particolare.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.

Salvatore Bravo

Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno,
abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci
i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

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La pratica della menzogna conosciuta
In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.

Scenografia della menzogna
Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.

Nichilismo passivo
Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.

Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.

 

Salvatore Bravo

[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giordano Bruno (1548-1600) – Malamente potranno approvar questa filosofia color che, mercenari ingegni, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunemente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere.

Giordano Bruno 001

Malamente, dico, potranno approvar questa filosofia color che o non hanno buona felicità d’ingegno naturale, o pur non sono esperti, almeno mediocremente, in diverse facultadi, e non son potenti sì fattamente nell’atto reflesso de l’intelletto che sappiano far differenza da quello ch’è fondato su la fede, a ciò che è stabilito su l’evidenza di veri principii; perché tal cosa comunmente s’ha per principio che, ben considerata, si trovarà conclusione impossibile e contra natura. Lascio quelli sordidi e mercenarii ingegni che, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunemente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere. Malamente, dico, potrà eligere tra diverse opinioni e talvolta contradittorie sentenze chi non ha sodo e retto giudizio circa quelle. Difficilmente varrà giudicare chi non è potente a far comparazione tra queste e quelle, l’una e l’altra. A gran pena potrà comparar le diverse insieme chi non capisce la differenza che le distingue. Assai malagevole è comprendere in che differiscano e come siano altre queste da quelle, essendo occolta la sustanza di ciascuna e l’essere. Questo non potrà giamai essere evidente, se non è aperto per le sue cause e principii ne gli quali ha fondamento. Dopo, dunque, che arrete mirato con l’occhio de l’intelletto e considerato col regolato senso gli fondamenti, principii e cause, dove son piantate queste diverse e contrarie filosofie, veduto qual sia la natura, sustanza e proprietà di ciascuna, contrapesato con la lance intellettuale e visto qual differenza sia tra l’une e l’altre, fatta comparazion tra queste e quelle e rettamente giudicato, senza esitar punto farete elezion di consentire al vero.

Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e Mondi, Dialogo quinto, Harmakis Edizioni, 2018.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Frantz Fanon 05
Pier Paolo Pasolini, Autoritratto

Salvatore Bravo

I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura.
L’essere umano è pensiero, coscienza.
Per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

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Colonialismi
Vi sono verità che assumono forme contingenti, ma che celano dietro il fenomeno storico l’essenza; lo sterminio degli Ebrei è stato l’anticipazione tragica e rimossa dell’esperienza neo-colonialista che diventava globale e si rendeva mondiale al punto che il fantasma genocidiario da secoli praticato nei paesi colonizzati si è materializzato nella casa europea. Il neo-colonialismo economico e politico – con l’intensificarsi della produzione, con l’instaurarsi della normalità dell’illimitato, incapace di correggere se stesso –, ha portato la sua parabola alle conseguenze estreme: il sistema neo-coloniale è diventato l’archetipo del dominio dell’Occidente al punto che le relazioni quotidiane sono vissute secondo logiche di sfruttamento e dominio. La guerra, diventata interna agli Stati, è il pane quotidiano del sistema globale. Il capitalismo ha la capacità di modificarsi ed adattarsi e, come le dune del deserto, avanza, riempie ogni spazio con la sua polvere, è atmosferico, si fa “respirare” quasi, si nasconde, si maschera, ma la sua essenza resta eguale: plusvalore, dominio, alienazione. Il nuovo totalitarismo assume differenti forme genocidarie, lascia la vittima viva al fine di permetterle di consumare: l’essere umano è solo il consumatore perenne ed instancabile nella cui testa martella l’economia. Ogni resistenza è piegata con l’eliminazione fisica, ma solo se è strettamente indispensabile; contemporaneamente il calcolo e la tattica agiscono secondo razionalità economica, glorificando l’eliminazione con nobili parole quali diritti umani, diritti universali. I gendarmi dell’economia mettono in atto un totalitarismo complesso e sincretico che opera simultaneamente con la normalità dei consumi – unica legge dell’agire –, ma nello stesso tempo opera per debellare ogni sacca di resistenza esplicita con l’omicidio legalizzato. La legge dell’economia e del consumo inducono a persuadere i renitenti che consumare è democratico, e non vi è alternativa; si cerca di conquistarli al mercato prima di eliminare il potenziale investimento. I genocidi tradizionali si concentravano su uno spazio geografico, le coscienze restavano parzialmente libere, malgrado la propaganda ed il terrore.
Nella contemporaneità solo la visione d’insieme, sostenuta dalla forza filosofica del concetto – capace di astrarre dal concreto il concetto stesso – riesce a rendere palese la strategia della nuova forma genocidiaria: essa agisce secondo molteplici e varie modalità e pertanto, mentre colonizza le menti con la religione atea del consumo, elimina ogni ostacolo politico, economico, ideologico alla propria colonizzazione, bombarda in nome dei diritti universali; le due strategie sono da collegare, poiché due volti della stessa medaglia. È il “polemos negativo eracliteo”, in cui una forma genocidiaria può continuare a sussistere se contemporaneamente vi è l’altra.

L’animalizzazione dell’altro
Frantz Fanon, in I dannati della terra, svela meccanismi di potere che prima erano applicati al solo colonialismo ed oggi sono la normale tattica del potere globale. I colonizzatori europei, per giustificare la colonizzazione, rappresentavano i colonizzati come animali, subumani vicini all’animalità e bisognosi del padrone per contenere la loro eccedente bestialità. Il linguaggio era il veicolo dell’animalizzazione, il colonizzato scompariva nella narrazione del colonialista per diventare semplice stereotipo, creatura astratta senza anima o logos. Lo stesso colonizzato si percepiva mediante la rappresentazione del padrone, si pensava inferiore, perché incapace di pensare con categorie che gli appartenevano. Si rendeva impossibile ogni processo dialettico, poiché i ruoli servo-padrone erano sclerotizzati dall’immaginario del potere:

«A volte tale manicheismo spinge fino in fondo la sua logica e disumanizza il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. Si fa allusione ai movimenti serpeggianti dell’indocinese, agli effluvi della città indigena, alle orde, al puzzo, al pullulare, al brulicare, ai gesticolamenti. Il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario».[1]

L’animalizzazione è oggi applicata ai nuovi colonizzati, agli occidentali “liberi e benestanti”; il veicolo di trasmissione dell’animalizzazione sono gli innumerevoli mezzi dell’economia tecnocratica con la conseguente riduzione della persona a corpo pulsionale da soddisfare con l’effetto di mortificare la prassi. Così la persona ridotta a solo corpo da misurare e quantificare non concepisce la possibilità della prassi, regredisce ad uno stato puerile che fa del corpo, dei suoi istinti e meccanismi l’unico centro di interesse. Giordano Bruno ci ha insegnato il significato di infinito, ha mostrato quanto l’universo infinito invitava ad un nuovo modo di pensare, mentre l’animalizzazione cancella le grandi conquiste del pensiero per contrarlo alla sola attività somatica, al solo finito corporale, il quale è continuativamente stimolato dal mercato che, mentre cancella il pensiero, invita al desiderio acquisitivo senza confini. I colonizzati sono ora ovunque: nessuno sfugge alla rete dei colonialisti che fanno di ogni mente un mercato, di ogni corpo il territorio dove impiantare le proprie bandiere coloniali.

L’intellettuale
In tale contesto l’intellettuale ha perso aureola e missione; dominato tra i dominati, è solo oratore, molto spesso consapevole, sovente inconsapevole del potere. L’intellettuale colonizzato, fa notare F. Fanon, utilizza lo stesso linguaggio dei coloni, anche quando si fa portavoce della liberazione nazionale. Resta così all’interno del recinto dei coloni e, usando il loro linguaggio, prepara il ritorno dei coloni in forme nuove:

«L’intellettuale che ha, per parte sua, seguito il colonialista sul piano dell’universale astratto, si batterà perché colono e colonizzato possano vivere in pace in un mondo nuovo. Ma quello che egli non vede, proprio perché il colonialismo s’è infiltrato in lui con tutti i suoi modi di pensare, è che il colono, appena il contesto coloniale sparisce, non ha più interesse a rimanere, a coesistere».[2]

L’intellettuale dell’universale astratto rinuncia a capire la verità della realtà storica, poiché occulta i dati materiali delle vite delle persone, le quali sono giuridicamente eguali, ma materialmente diverse, perché i rapporti gerarchici si riproducono per l’ineguale distribuzione del potere, della cultura, delle ricchezze. La normalità con cui i sudditi del passato e di oggi giudicano la condizione che vivono svela la verità di una classe intellettuale che ha abdicato al suo ruolo emancipativo collettivo, per essere parte della strategia di rabbonimento delle masse omologate che trovano negli intellettuali non più guide critiche, pensatori autonomi organici con il popolo, ma solo la cinghia di trasmissione della colonizzazione.
L’intellettuale invece deve impegnarsi a condurre un’opera di sensibilizzazione ed organizzazione contro le strutture mentali che impediscono la prassi e che non risiedono solo nella testa, nelle parole, nelle azioni dei colonizzatori, ma sono anche nei colonizzati. Senza tale attività ogni lotta non può che essere annichilita dagli stessi colonizzati che desiderano essere i nuovi coloni. La forza dei coloni è nella consapevolezza che il colonizzato, il suddito globale, è il suo clone povero, il suo doppio che ambisce ad essere eguale all’originale, la finanza è immaginata come l’iperuranio platonico dai “dannati della globalizzazione”:

«L’intellettuale colonizzato tuttavia, presto o tardi, si renderà conto che non si legittima la propria nazione a partire dalla cultura, ma la si manifesta nella lotta che il popolo conduce contro le forze di occupazione. Nessun colonialismo trae la sua legittimità dell’inesistenza culturale dei territori che domina. Non si disonorerà mai il colonialismo spiegando davanti al suo sguardo tesori culturali mal noti. L’intellettuale colonizzato, nel momento stesso in cui si preoccupa di far opera culturale, non si rende conto che impiega tecniche e una lingua presa a prestito dall’occupante».[3]

Lessico dei dominatori e liberazione
La dispersione dei popoli e delle persone si mette in atto mediante la cancellazione delle identità, ciò che si può concretizzare con l’eliminazione fisica o con l’eliminazione culturale. I coloni parlavano le lingue dei colonizzatori, la loro storia è scomparsa nella narrazione dei colonizzati, oggi la lingua dei popoli è sostituita dalla lingua della cultura vincente: l’inglese. I colonizzati non sono più popoli, ma plebe che parla la lingua del vincitore, pensa come il vincitore. L’esproprio non riguarda solo le risorse naturali, la storia, le identità, ma anche le singole coscienze, poiché con l’intensificarsi delle tecnologie l’asse di attenzione agisce sul macro e sul micro e le coscienze sono irrigidite dal lessico dei dominatori:

«Il dominio coloniale, perché totale e semplificante, ha fatto presto a disgregare in modo spettacolare l’esistenza culturale del popolo sottomesso. La negazione della realtà nazionale, i rapporti giuridici nuovi introdotti dalla potenza occupante, la cacciata alla periferia da parte della società coloniale, degli indigeni e dei loro usi, l’esproprio, l’asservimento sistematizzato degli uomini e delle donne, rendono possibile questa cancellazione culturale».[4]

È necessario riconoscere il nuovo totalitarismo con il suo tatticismo deviante. In questo momento i popoli sono soli davanti al nuovo che avanza, al deserto che assume nuove forme per confondere. Ma la coscienza è dinamica, è il luogo del possibile dove il pensiero prepara i suoi concetti, la sua consapevolezza. La natura pensante dell’essere umano resta, malgrado la diffusione capillare ed infiltrante nelle coscienze del potere. La violenza capitale può ribaltarsi in pensiero dialettico, la pressione continua genera disagio che necessita di “parole nuove” per capire la mortificazione malinconica della globalizzazione.
L’essere umano è pensiero, coscienza che, per quanto condizionabile, nessun potere potrà occupare, perché l’infinito è nell’essere umano. Ricordiamo il frammento 45 di Eraclito nel riprendere la prassi da vivere nel quotidiano: «Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos».
Non è consolatorio, ma il logos in ogni circostanza della storia ha mostrato di saper riemergere dalle lunghe notti del pensiero. La condizione servile si rafforza con la paura della lotta, con la fuga dal conflitto. Hegel nella Fenomenologia dello Spirito attraverso la figura servo-padrone ci ha insegnato che per decolonizzare la coscienza dalla servitù bisogna vincere la paura.
Il timore del possibile è continuamente indotto dal sistema capitale che orienta le scelte contro ogni “salto nel buio”. Vivendo nella paura gli esseri umani contribuiscono a rafforzare le catene che li tengono avvinti perpetuando appunto il sistema della paura che impigrisce le coscienze ed allontana l’infinito, lo spazio libero del pensiero.

Contro la paura del nuovo ed i suoi rischi diventa fondamentale un nuovo senso critico che ponga al centro l’infinito della coscienza ed i limiti della struttura economica che costringe la coscienza entro una visuale delimitata dai muraglioni dell’economicismo.

Salvatore Bravo

[1] Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 9.

[2] Ibidem, p. 11

[3] Ibidem, p. 153

[4] Ibidem, p. 164



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