Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 03

Salvatore Bravo

Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano


Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo.
Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano.
Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo.
La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità.
Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
Il potere non tollera la verità.
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano.
La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”.
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica.
Cultura è  lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.


Totalità titanismo e totalitarismo
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità.
La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento.
Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale.
Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo.
La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso.
Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

La Verità in Pavel Florenskij
Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa,  «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.
I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

 «”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]

 

Totalitarismo esiziale
Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]

 

L’ipertrofia della soggettività
La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]

 Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità
Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]

La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]

 

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».[7]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.

Salvatore Bravo

***

[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943.
[2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020.
[3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020.
[4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74.
[5] Ibidem, pag. 75.
[6] Ibidem.
[7] «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 01

«Il mondo sarà salvato dalla bellezza».*
Fedor Dostoevskij

«Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio.
La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza.
».
Pavel A. Florenskij

«Che cosa ho fatto io per tutta la vita?
Ho contemplato il mondo come un insieme».
Pavel A. Florenskij

 

«Il luogo nel quale incomincia la rivelazione della verità […]
è l’amicizia, come nascita misteriosa del “tu”».
Pavel A. Florenskij

Non dimenticatemi

Non dimenticatemi

 

Il rapporto realistico con il mondo è nella sua sostanza un rapporto di azione: è la vita nel mondo.Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. (da Il valore magico della parola)

 

«La visione della vita dell’antichità greca è di un ottimismo tragico. La vita non è affatto una festa e un divertimento continuo: nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla».

Pavel Aleksandrovič Florenskij, lettera del 7 dicembre 1935, in Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [1933-1937], a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, Mondadori, Milano 2000, p. 227.

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***
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  • Fedor Dostoevskij, L’idiota [1868], parte III, cap. V, tr. di Rinaldo Küfferle, Garzanti, Milano 19826, p. 478.

L'idiota

L’idiota


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.


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Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.

Pavel Florenskij

«[…] la mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane».

Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 1935

 

 

È davvero la «prospettiva» una immagine naturale della essenza del mondo?

[…] È proprio vero che la prospettiva, come sostengono i suoi fautori, esprime la natura delle cose e pertanto deve sempre e dovunque essere considerata come presupposto assoluto di veridicità artistica? O è piuttosto solo uno schema (e per di più uno dei possibili schemi di rappresentazione) che corrisponde non alla percezione del mondo nell’insieme, ma solo a una delle possibili interpretazioni del mondo, legata a un ben determinato modo di sentire e di comprendere la vita? O ancora: è forse la prospettiva, l’immagine prospettica del mondo, l’interpretazione prospettica del mondo, un’immagine naturale, della stessa essenza del mondo e da esso scaturita, autentica parola del mondo, o piuttosto è soltanto una particolare ortografia, una costruzione fra le tante, caratteristica di coloro che l’hanno creata, appartenente al secolo e alla concezione di vita di coloro che l’hanno inventata, e che esprime il loro stile, ma che non esclude affatto la possibilità di altre ortografie, di altri sistemi di trascrizione, che corrispondano alla concezione di vita e allo stile di altri secoli? E per di più, forse, sistemi di trascrizioni più legati alla sostanza più vera di questa, perché, in ogni caso, la trasgressione di quella trascrizione prospettica, alla fine turba così poco la verità artistica della rappresentazione, quanto gli errori di grammatica nella scrittura di un santo turbano la verità vitale dell’esperienza da lui riportata.[…] Gli appiattiti rilievi babilonesi ed egiziani non rivelano segni di prospettiva, come non rivelano del resto neppure ciò che propriamente conviene definire prospettiva rovesciata; la stessa policentricità delle raffigurazioni egiziane, come è noto, è estremamente ampia ed è canonica nell’arte egiziana; chiunque si ricorda che il volto e i piedi nei rilievi e nei murali egizi sono di profilo, mentre le spalle e il petto sono ruotati . Ma in essi non c’è comunque prospettiva diretta, mentre la stupenda veridicità delle sculture egizie di ritratti e di genere dimostra il grandissimo istinto di osservazione dei pittori egizi .
Se le regole della prospettiva veramente penetrano in modo così essenziale nella verità del mondo, come credono fermamente i loro fautori, allora non si potrebbe assolutamente capire come l’occhio raffinato del maestro egizio non si accorgesse della prospettiva e come avesse potuto non accorgersene. D’altra parte il noto storico-matematico Moritz Cantor rileva che gli egizi possedevano già le prime nozioni geometriche delle rappresentazioni prospettiche. In particolare, essi conoscevano il sistema di proporzioni geometriche ed inoltre da questo punto di vista si spinsero così lontano da poter applicare dove necessario una scala ingrandita o rimpicciolita. […]
La mancanza di una prospettiva lineare negli egiziani come, anche se in un altro senso, nei cinesi, è più una dimostrazione della fioritura, anzi della «sfioritura» senile della loro arte, che di inesperienza infantile; è la liberazione dalla prospettiva o il rifiuto a priori del suo potere […].

Vitruvio attribuisce ad Anassagora l’invenzione della prospettiva

È notevole che proprio ad Anassagora Vitruvio attribuisca l’invenzione della prospettiva e per di più nella skigraphia (così chiamata dagli antichi), cioè nella pittura delle scenografie teatrali. Secondo la notizia di Vitruvio, quando, più o meno attorno al 470 a.C., Eschilo rappresentò le sue tragedie in Atene, e il noto Agatarco gli allestì le scenografie e vi scrisse un trattato, il Commentarium, proprio per questo Anassagora e Democrito furono stimolati a scrivere scientificamente sullo stesso argomento: la pittura delle scenografie. […]
Quindi, la prospettiva non nasce all’interno dell’arte pura e non rappresenta affatto, come era il suo scopo iniziale, una viva percezione artistica della realtà; viene invece scoperta nel campo dell’arte applicata, o più esattamente nel campo della tecnica teatrale che assume al suo servizio la pittura e la sottomette ai suoi scopi. Corrispondono questi fini al fine dell’arte pura?
È questa una domanda che non ha bisogno di risposta.

La scenografia vuole sostituire la realtà con la sua apparenza

Il fatto è che la pittura ha il compito non di duplicare la realtà, ma di offrire la più profonda comprensione della sua «architettonica», del suo materiale, del suo significato; e la comprensione di questo significato, di questo materiale della realtà, della sua «architettonica», viene offerta all’occhio contemplativo del pittore nel «contatto vitale» con la realtà, nell’immedesimazione e nella empatia con la realtà. Fra l’altro la scenografia vuole, per quanto possibile, sostituire la realtà con la sua apparenza […].

La scenografia è «inganno», l’arte pura è  innanzi tutto, verità della vita

La scenografia è «inganno», anche se seducente; mentre l’arte pura è, o per lo meno vuole essere, innanzi tutto, verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita ad indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà. La scenografia è uno schermo che coglie la mondanità dell’essere, mentre la pittura pura è una finestra spalancata sulla realtà. […] Fino a quel momento la scena greca era contrassegnata solo da «quadri e drappi»: poi cominciò a farsi sentire il bisogno di illusione. Ecco, supponiamo che lo spettatore, oppure lo scenografo-pittore, sia veramente incatenato, come il prigioniero della spelonca di Platone, alla poltrona teatrale, e non possa o comunque non debba avere un immediato rapporto vitale con la realtà, come se fosse separato dalla scena da una barriera di vetro ed esistesse un unico occhio immobile che guarda, senza penetrare nell’essenza stessa della vita […]: questi metodi di rappresentazione prospettica hanno realmente un loro significato, per un’illusione ottica così morbosa e priva, in gran parte, di umanità, nel senso più ampio.

Nel V secolo a.C. la «prospettiva» era nota

Perciò dobbiamo riconoscere come un fatto stabilito che, perlomeno, nella Grecia del V secolo a.C., la prospettiva era nota, e se in qualche caso, nonostante tutto, non veniva applicata, non si trattava evidentemente di una ignoranza dei suoi princìpi, ma di altre e più profonde motivazioni derivanti da «superiori esigenze artistiche» […]. Sarebbe molto difficile mettere in dubbio il fatto che, quando essi non applicavano le regole della prospettiva, era semplicemente perché non volevano applicarle, perché le ritenevano inutili e antiartistiche.
[…] È possibile immaginare che […] fossero sconosciuti i semplici metodi di prospettiva lineare? E, in effetti, dove abbiamo a che fare con le illusioni scenografiche, usate per estendere ingannevolmente lo spazio della scena teatrale […] ci imbattiamo necessariamente in un uso della prospettiva lineare corrispondente allo scopo stabilito. Lo si può osservare soprattutto nei casi in cui la vita, allontanandosi dalle sue sorgenti profonde, scorre attraverso le acque poco profonde del facile epicureismo, scorre nell’atmosfera del superficiale spirito borghese degli […] omuncoli che avevano perso la profondità del noumeno del genio greco […].

La radice della «prospettiva» è il teatro

La radice della prospettiva è il teatro, non solo per la ragione storico-tecnica, delle origini necessariamente teatrali della prospettiva, ma anche in virtù di un impulso più profondo: la teatralità della rappresentazione prospettica del mondo. In questo impulso coesiste anche una percezione inerte del mondo, priva della sensazione della realtà e del senso di responsabilità, cioè che, per essa, la vita è solo spettacolo […].
Tuttavia la questione è seria. Significa forse […] che le leggi della prospettiva realmente erano sconosciute agli antichi? […]
Non è questo il luogo per definire o semplicemente spiegare il legame tra le dolci radici del Rinascimento e gli amari frutti kantiani.
[…] tutti gli spauracchi che ci hanno divisi dal Medioevo sono stati inventati dagli storici stessi; abbiamo capito che nel Medioevo scorre copioso e pregnante il fiume della vera cultura, con la sua scienza, la sua arte, il suo apparato statale, in genere con tutto quello che appartiene alla cultura, ma appunto con ciò che è suo, non solo, ma prossimo allo spirito autentico dell’antichità.

La «prospettiva» dell’uomo rinascimentale costruisce una realtà fantasmagorica

[…] Il pathos dell’uomo nuovo [rinascimentale] è di sfuggire ad ogni realtà, perché l’«io voglio» detti di nuovo legge attraverso la ricostruzione di una realtà fantasmagorica, anche se imprigionata in uno schema grafico. Invece, il pathos dell’uomo antico, come quello dell’uomo medioevale, è l’accettazione, il generoso riconoscimento, l’affermazione di ogni genere di realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere. Il pathos dell’uomo medioevale è l’affermazione della realtà in sé è fuori di sé, e perciò è l’obiettività. Al soggettivismo dell’uomo nuovo [rinascimentale] appartiene l’illusionismo: al contrario non c’è niente di tanto lontano dai pensieri e dalle intenzioni dell’uomo medioevale, le cui radici risalgono all’antichità, come la creazione di simulacri, e la vita tra i simulacri. Per quanto riguarda l’uomo nuovo, dalla bocca dei filosofi della Scuola di Marburgo prendiamo la sincera dichiarazione che la realtà esiste soltanto quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di autorizzarne l’esistenza, dando questo permesso nella forma di uno schema fittizio […]. Il brevetto sulla realtà viene legittimato solo nella cancelleria di H. Cohen ed è nullo senza la sua firma e il suo timbro. Ciò che a Marburgo viene affermato apertamente costituisce l’essenza del pensiero rinascimentale […].
Ma è degno di attenzione e di un profondissimo riso interiore il fatto che l’uomo nuovo contrabbandi con insistenza come un ritorno alla realtà naturale e come una liberazione dalle pastoie impostegli da qualcuno, questo travisamento, questo deterioramento della naturale capacità umana di sentire e pensare, questa rieducazione nello spirito del nichilismo. Perciò, in effetti, quando si sforza di raschiare via dall’anima umana i caratteri della storia, strappa via l’anima stessa.

L’uomo antico e medioevale sa che per volere è necessario essere

L’uomo antico e medioevale, invece, sa innanzi tutto che per volere è necessario essere, essere una realtà e stare dentro la realtà a cui bisogna appoggiarsi: egli è profondamente realistico e sta ben saldo sulla terra, a completa differenza dell’uomo nuovo, che considera soltanto se stesso e i suoi desideri e quindi, inevitabilmente, i mezzi più diretti per realizzarli e soddisfarli. Di qui si capisce che le premesse di una concezione di vita realistica sono state e saranno sempre le seguenti: esistono delle realtà, cioè esistono dei centri dell’essere, dei grumi di essere, soggetti a leggi proprie, e perciò aventi ciascuno la propria forma; perciò nulla di ciò che esiste può essere considerato come materiale indifferente e passivo, utilizzabile per riempire un qualsiasi schema […]; infatti le forme devano essere comprese secondo la loro vita, devono essere rappresentate attraverso se stesse, conformemente a come sono concepite, e non negli scorci di una prospettiva predisposta in anticipo. […]

Ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica

La nostra tesi […] consiste in questo, che in quei periodi storici della creazione artistica in cui non si nota l’uso della prospettiva, gli artisti figurativi non è che ‘non sappiano’, ma non vogliono usarla, o più precisamente, vogliono servirsi di un altro principio di rappresentazione che non sia la prospettiva, e vogliono così perché il genio del tempo comprende e sente il mondo in un modo cui è immanente anche questo mezzo di rappresentazione. Invece, in altri periodi, si dimenticano il senso e il significato della raffigurazione non-prospettica, si perde decisamente l’intuizione di essa, perché la concezione di vita del tempo, diventata completamente diversa, porta a un quadro prospettico del mondo. E in un caso e nell’altro c’è una consequenzialità interiore, una propria logica rigorosa, in sostanza primaria, e, se questa logica tarda ad apparire in tutta la sua forza, questo avviene non per la sua complessità, ma per l’ambigua incertezza dello spirito del tempo tra le due autodefinizioni che si escludono a vicenda.
In definitiva, ci sono solo due esperienze del mondo: l’esperienza umana in senso lato e l’esperienza ‘scientifica’, cioè ‘kantiana’, come ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.

 

Pavel Aleksandrovič Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di Nicoletta Misler, Edizione Casa del Libro Editrice, Roma, 1983; di nuovo pubblicato nel 2005 da Gangemi Editore.

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