Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

José Ortega y Gasset - Gilles Deleuze e Félix Guattari - Zygmunt Bauman

 

Natura umana e finanza
L’insocievole socievolezza nel secolo dell’economicismo è ormai la verità entro cui leggere e comprendere l’integralismo economico contemporaneo. Vi è la pressione all’individualizzazione di ogni comportamento, dietro cui si vela la riduzione di ogni rapporto alla sola categoria dell’utile economico. La reificazione si palesa nella forma seducente dell’immagine, della microfisica del controllo e della stimolazione al desiderio consumante. Si impedisce, in tal modo, alle personalità di fiorire secondo la celebre immagine di Aristotele. Lo sfruttamento non riguarda solo la forza lavoro, ma si concretizza nella forma della negazione dell’indole individuale. Il passaggio dalla potenza all’atto (ἐνέργεια) è inficiato con il concretizzarsi di nuove forme di sfruttamento e violenza.

 

L’amicizia filosofica contro l’economicismo
Nella Repubblica (Πολιτεία, Politéia) Platone ha dimostrato che giustizia è rispetto della natura di ciascuno, per cui l’ingiustizia totalitaria contemporanea consiste nella perenne negazione della natura universale dell’essere umano e della sua espressione soggettiva.
L’assedio alla vita, dapprima con le scienze sperimentali, oggi con l’economia finanziaria, opera attaccando frontalmente la Filosofia in quanto disciplina del pensiero, dell’ordine del senso. La Filosofia umanizza, poiché è educazione (dal lat. Educĕre trarre fuori, allevare), portar fuori la natura universale con le potenzialità del soggetto: essa è formatrice di comunità. Nel regno dell’economia, ma è preferibile dire della crematistica, nel caos del mercato, deve regnare il solo rumore delle transazioni finanziarie sempre più fitte, sempre più incontrollabili. Ortega Y Gasset ha ben descritto il senso di oppressione e limitazione a cui le vite sono sottoposte, sempre meno libere, sempre meno vitali, e sempre più oggetto dell’imperio della quantificazione. La negazione della filosofia coincide con la nientificazione dell’umano:

«La Filosofia restò schiacciata, umiliata dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori. Le scienze naturali dominavano l’ambiente e l’ambiente è un ingrediente della nostra personalità, come la pressione atmosferica è uno dei fattori che compongono la nostra forma fisica».[1]

Ovunque vi è Filosofia vi è amicizia. La dialettica filosofica è confronto tra eguali, è ascolto, poiché nessuno dei dialoganti possiede il sapere, ma lo ricerca per condividerlo. L’ostilità dell’economicismo nei confronti della Filosofia trova la sua ragione più profonda nella considerazione che la Filosofia è pratica di verità e di amicizia, mentre la parola d’ordine dell’economia della finanza (della crematistica) è competizione, plusvalore e controllo, pertanto è negazione del senso di comunità insito nella prassi filosofica:

«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”, diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[2]

L’economicismo ha, nel controllo, la sua essenza: esso deve addomesticare, ridisegnare comportamenti e gestualità. L’automa è l’ideale del nuovo integralismo: per controllare il lavoro deve sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. La Filosofia è emancipazione dalle ipostasi come dalla tradizione, si pone in un movimento opposto rispetto al potere dell’economicismo. Per Bauman la sostanza della Rivoluzione industriale è nel controllo, e tale matrice si storicizza e si trasmette fino all’attuale assetto economico:

«Così il problema cui si trovarono di fronte i primi imprenditori non era l’uomo preindustriale ostinatamente pigro, sordo all’appello della ragione economica; e la soluzione del problema da loro ricercata non consisteva nell’instillare una pia disposizione al lavoro nell’animo di gente non abituata a uno sforzo continuo. Il problema era piuttosto la necessità di costringere gente abituata a dare un significato al proprio lavoro, controllandolo, a spendere la sua forza e capacità nell’assolvere mansioni controllate da altri e pertanto prive di significato».[3]

 

Entificazione dell’umano
Se l’essere umano vive e progetta nelle comunità e nelle circostanze che gli sono date, Dasein, la pressione anomala a cui è esposto ne impedisce la progettualità autentica riducendolo ad ente tra gli enti, ed è studiato come un qualsiasi ente. La pressione alla quantificazione sviluppa il metodo della parcellizzazione, della divisione incapace di cogliere il fondamento del tutto. Le scienze, come l’economia, rinunciano in modo aprioristico alla verità per l’esattezza, per la misurazione. La superstizione scientista è il fondamento attuale del potere tecnocratico, non vi è riflessione collettiva sulla teleologia delle scienze come delle tecnologie, esse sono “il bene” senza che vi sia pubblica discussione: pertanto le si persegue con determinazione scevra da ogni dialettica. Esse producono conoscenze sicuramente utili, ma non migliorano necessariamente la qualità della vita. La Filosofia deve avere il coraggio dell’universale, dell’assoluto, non può supinamente adattarsi all’attitudine delle scienze, rinunciando a se stessa; senza la conoscenza dell’universale l’essere umano è straniero a se stesso ed al mondo, è consegnato all’atomistica delle solitudini, è potenza passiva:

«Per questa ragione propongo che, nel definire la filosofia come conoscenza dell’Universo, intendiamo un sistema integrale di attitudini, nel quale si organizza metodicamente l’aspirazione alla conoscenza assoluta».[4]

Filosofia e verità
Nessun dogmatismo, nessun integralismo. La Filosofia ha il compito di ricercare la verità, di fare appello alla sua inesauribile creatività e paziente attività filologica per ricercare il fondamento universale. La Filosofia è amica del concetto, è generazione di vita nella forma dell’universale condiviso, è processo di avvicinamento alla verità con le categoria della totalità, la rinuncia alla verità è rinuncia all’umanità. L’umanità, se abdica alla verità, si limita a vivere nella pochezza dei giorni, soddisfa desideri immediati, è travolta dalle circostanze a cui non riesce a dare il senso. In assenza di verità, tutto è possibile, tutto è ammesso.
La verità come problema è assunzione di consapevolezza e responsabilità di una sfida necessaria per umanizzarsi nella dialettica, nell’argomentare logico ed intuitivo. La verità in quanto totalità è cogliere con lo sguardo della mente. Non gli enti nella loro malinconica separazione atomistica, ma nel loro sorreggersi l’un l’altro, nel loro ritrovarsi in relazione al tutto che li accoglie per svelare l’eterno nella storia. La Filosofia unisce dove la scienza separa:

«Intendo per Universo tutto quanto è. Ciò significa che al filosofo non interessa ognuna di quelle cose che esistono per sé, nella loro esistenza particolare diciamo privata, ma invece gli interessa la totalità di quanto esiste e, conseguentemente, di ciascuna cosa che è di fronte o accanto alle altre, la sua posizione, il suo aspetto e rango nell’insieme di tutte le cose: diciamo pure la vita pubblica di ogni cosa, ciò che si rappresenta e vale nella superiore dimensione pubblica della coesistenza di tutti gli esseri».[5]

 

Verità relazione
La verità è dunque nella relazione. Ogni ente non vive la condizione dell’abbandono atomistico, ma la sua verità è la relazione con il suo contesto. Nella ricerca della verità l’essere si scopre come comunità, vive in modo consapevole la prassi della verità, il reale è razionale nella relazione veritativa, e l’essere umano è parte di tale realtà relazione, le dà voce, e dunque diviene creatore di comunità fondate nella verità dialogica con se stesso e la comunità.
La scienza circoscrive l’oggetto, lo soppesa, lo isola, lo approfondisce in una solitaria attività d’indagine, perché separata dalla relazione con la vita.
La Filosofia non nell’esattezza, ma nella vita, scopre la verità. Ogni astrazione dal tutto è astrarre linfa dalla vita, è un’esperienza che uccide per misurare. La verità della Filosofia è l’universale concreto:

«Che cos’è la vita? Non cercate lontano, non si tratta di ricordare conoscenze apprese. Le verità fondamentali devono essere sempre a portata di mano: solo in questo modo possono essere fondamentali. […] Vita è ciò che siamo e ciò che facciamo: è inoltre, fra tutte le cose, la più vicina a ciascuna».[6]

 

La Filosofia contro l’inerte
Vivere è dunque comprendersi, intuirsi, disporsi in quanto parte di un tutto, ma specialmente vivere in perenne relazione con il tutto. I nemici della Filosofia sono palesi nel loro intento: favorire l’inerte sulla vita, la separazione sulla totalità, la quantificazione sulla qualità. Senza il contatto con la vita non vi è dialettica, il logos si frantuma in scientismo integralista negando se stesso. L’epoca della negazione dell’umano è negazione del logos, dell’unità che integra le differenze ponendo le condizioni dell’incontro. Il logos come razionalità del controllo, del dividere per definire, stimolare e manipolare è solo razionalità calcolante senza la sostanza vitale della parola che approssima i dialoganti senza coincidenze, in quanto la prassi della parola senza sovrapposizione è la contraddizione vitale che permette il dialogo eterno nella comunità. I nemici della Filosofia, del logos sono i detrattori della vita, la vorrebbero chiudere in categorie, consegnarla alla fine della storia per eternizzare un presente senza futuro e senza passato.
Tra i nemici della Filosofia, vi sono i Filosofi analitici, coloro che riducono la Filosofia a pura imitazione dei metodi scientifici. Solo l’abituale relazione con la vita conduce alla domanda che scompagina le naturalizzazioni, gli stereotipi e gli universali sclerotizzati nella loro liturgia. Vivere è relazione con sé, il conoscersi per aprirsi al mondo con le nostre domande, con le nostre terribili aporie, anch’esse verità del nostro esserci:

«“Incontrarsi”, “informarsi di sé”, “essere trasparente” è la prima categoria della nostra vita, e, ancora una volta, non si dimentichi che a questo punto il non è solo il soggetto ma anche il mondo. Prendo coscienza di me nel mondo, di me e del mondo, questo è, in modo immediato, “vivere”».[7]

 

Fuga dall’agorà
Dunque siamo nel mondo, relazione con il mondo da ciò non può che conseguire il nostro impegno nel mondo. La fuga dal mondo, dal pubblico, per il privato godereccio, è “ideologicamente” voluto, organizzato. La pressione economica e scientifica sulle esistenze ha dunque una verità che la Filosofia può svelare: la separazione dell’io dal mondo, la fuga dall’agorà per consentire il trionfo scientista e finanziario. La responsabilità della Filosofia è nel testimoniare l’impegno per la qualità della vita. Vita e pensiero sono sincronici, la vita è trasformazione, prassi, solo se c’è pensiero; affinché ciò possa essere è necessario ristabilire l’universale, ovvero la relazione tra l’in sé ed il per sé:

«Né certamente il pensare è anteriore al vivere, poiché il pensare vede se stesso come parte della mia vita, come un suo atto particolare».[8]

Vivere è attività in cui il presente ed il passato sono forme plastiche per il futuro. Lo scientismo economico, il regno animale dello spirito con la logica della sola produzione è assenza della dimensione del futuro. Dove regna la separazione e la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile, nell’attimo senza prospettiva, nell’offesa alla dignità dell’essere umano divenuto sempre più mezzo, e sempre meno soggetto di relazione.

Salvatore Bravo

[1] José Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia?, Marietti, Torino1973, p. 38.

[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2010, p. 48.

[3] Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987, pp. 80-81.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, pp. 63-64.

[6] Ibidem, p. 184.

[7] Ibidem, p. 203.

[8] Ibidem, p. 197.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Filosofiablog – Petite Plaisance: pensieri in movimento

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Coperta 295

indicepresentazioneautoresintesi

Le formi informi della cultura. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana. Si tratta di un excursus sul cinema western dalle origini allo stato attuale, in rapporto alle vicissitudini sociali e politiche degli Stati Uniti, dal mito di fondazione della frontiera alla rivalutazione della cultura e delle istanze dei nativi americani, per giungere fino ai giorni nostri con le influenza western più o meno nascoste anche in altri generi. Il western si mostra come il genere tipico e originale della cinematografia americana. Tuttavia, il saggio propone anche e soprattutto una visione d’insieme, una teoria sul cinema che parte dal western ma si estende alla settima arte in sé, offrendo al lettore una notevole quantità di note e riferimenti.

 

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Coperta Alfieri

indicepresentazioneautoresintesi

Dal simulacro alla storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino. Dalla presentazione del libro leggiamo: «Il presente volume è dedicato a quella che probabilmente è l’icona più celebre e influente dell’immaginario culturale contemporaneo, oltre che del cinema degli ultimi decenni. Quentin Tarantino infatti, attraverso una manciata di film, è riuscito da un lato a riflettere al meglio le tendenze caratteristiche della postmodernità, dall’altro però la sua grandezza sta nel fatto di essere riuscito a rinnovare il suo stile e la sua poetica in base alle esigenze che la nuova società ha imposto a partire da eventi di impatto gigantesco che hanno stravolto norme e convenzioni dei passati decenni. […] Tarantino ha dovuto in più occasioni mettere in discussione se stesso, tanto da passare dall’essere uno dei cavalieri più significativi del postmodernismo al recupero di una sensibilità tipicamente moderna: se infatti la pratica “citazionistica” della sua estetica simulacrale – simulacrale perché, come vedremo, tautologica nell’invenzione di un universo che si alimenta di cinema e all’interno dei confini del cinema si sviluppa – resta una firma distintiva dell’autore, è anche vero però che la seconda fase della sua produzione testimonia un’esigenza (dettata dalle condizioni socio-politiche attuali) di passare dal simulacro alla Storia, ovvero dal divertissment autoappagante capace di soddisfare le esigenze libidiche dello spettatore, al contenuto di matrice morale e critica.»

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Petite Plaisance: pensieri in movimento

In armonia con studiosi quali Rudolf Arnheim, che sostengono che il pensare esige immagini e le immagini contengono del pensiero [1], critici e appassionati da sempre ricordano come il cinema, inteso come spazio oltrenarrativo, come ambito in cui la modalità del senso si costituisce in una «intermediazione originaria tra qualcosa che è dato e qualcosa che ha senso» [2], come un’arte capace di mostrare un immediato “stadio estetico della materia”, possa costituire sia un oggetto della ricerca filosofica che, soprattutto, un suo necessario correlato. Si potrebbe addirittura affermare che se le speculazioni di filosofi quali Aristotele, San Tommaso, Kant, Schopenhauer, Nietzsche possono trovare nel cinema un linguaggio adatto e comprensibile (si pensi ai continui parallelismi tra l’astronauta di 2001: Odissea nello spazio e il Superuomo nietzschiano) è altrettanto vero che nel secolo scorso, come ci raccontano pensatori quali Walter Benjamin, Debord, Deleuze e Baudrillard, proprio la “settima arte” ha progressivamente trasformato i processi cognitivi e linguistici (e quindi le scelte morali, la percezione del mondo) di milioni di persone: compresi quelli di scrittori, artisti e filosofi. Partendo appunto da queste considerazioni, la casa editrice Petite Plaisance ha messo in piedi una collana che si propone di analizzare il cinema come un fenomeno che è stato in grado di influenzare stili di vita e ideologie politiche del cosiddetto “Secolo breve”, la quale, intitolata “Il pensiero e il suo schermo” e da me diretta, conta sulla partecipazione di noti studiosi della settima arte come Sergio Arecco, Giorgio Cremonini, Angelo Moscariello, Ornella Calvarese; di filosofi e docenti universitari come Alessandro Alfieri, Eusebio Ciccotti e Giangiuseppe Pili; di noti professionisti come lo psicoterapeuta Alessandro Studer (è opportuno ricordare che proprio in queste settimane altri importanti studiosi si sono detti interessati a prendere parte al progetto). Venendo, nello specifico, al mio testo (Le forme informi della frontiera. lo sguardo del cinema western sulla storia americana), si potrebbe dire che esso parte dalla considerazione che, nonostante in modo ciclico studiosi, scrittori e registi abbiano levato canti funebri sul mito del western, considerandolo molto spesso solo un genere della settima arte destinato all’obsolescenza o a mutare forma attraversando altre frontiere inter-filmiche, le cinéma américain par excellence, come lo definì lo studioso André Bazin, pur tra le difficoltà dei primi anni Dieci poi superate grazie a opere come Ombre rosse (Stagecoach, 1939) di John Ford, è arrivato in (relativa) buona salute sino ai primi anni ’70 raccontando eventi dall’incredibile impatto che hanno stravolto la vita americana. Tanto che i registi dell’ultima, grande stagione del genere come Arthur Penn, Sidney Pollack, Abraham Polonsky, Robert Altman e soprattutto Sam Peckinpah, hanno rappresentato in modo appropriato lo sterminio degli indiani e il brutale ridimensionamento dei pionieri bianchi del West, come un’allegoria della sempre più disperata condizione dell’homo americanus coevo (ormai globalizzato), il quale è tiranneggiato da un sistema che celandosi dietro a nomi impenetrabili quali mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda [3], rende serve di una logica mostruosa le persone (intralciandone in vari modi lo sviluppo culturale, morale e spirituale) e decide l’agenda di funzionari e politici. Un sistema che compie quello che Marx chiama «un genocidio delle culture viventi». Questi cineasti, se svelano la natura finzionale del western (Alberto Crespi definisce Tombstone, la nota città della sfida all’O.K. Corral, come «un parco a tema») [4], e ci dicono che dopo essersi inaugurato con The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter, il quale gira il suo film quando la memoria della frontiera è ancora fresca, il noto genere cinematografico, massimo propagatore di quel’’epica del “Wild West”, di quel manifest destiny cantati, tra gli altri, da politici e storici come Theodore Roosevelt e Frederick J. Turner [5], si è estinto perché ha consumato, attraverso una visione più realistica del periodo storico, la mitologia su cui si ergeva, ci rammentano pure che la Nuova Frontiera del paese considerato da Baudrillard la «versione originale della modernità» [6], una volta che sono franate le utopie di David Thoreau, di Ralph Waldo Emerson e di Josiah Royce (a partire dagli inizi del secolo scorso lo spazio terrestre è stato via via cartografato, recensito, indagato in ogni dettaglio e la wilderness, terra incolta, “selva oscura” dantesca eletta a simbolo di amoralità e disordine è stata domata) è, sostanzialmente, la “carne elettronica” di quegli esseri umani che, per usare le parole del professore di mediologia O’Blivion di Videodrome (1983) di Cronenberg, si comportano oramai come se «la televisione fosse diventata più che la vita». Oppure è, come metto in evidenza nel penultimo paragrafo del testo, l’Uomo meccanico, il Cyborg del Transumanesimo ben rappresentato sullo schermo cinematografico proprio dagli (anti) eroi del regista e scrittore canadese.
Note
[1] R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, 1974, p. 299.
[2] Pietro Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio narrativo, Guerini, Milano, 1999, p. 14.
[3] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 60. [4] Per Crespi, la nota città del Sud dell’Arizona che il 26 ottobre del 1881 fu teatro dello scontro a fuoco tra la banda Clanton-McLaury e la coppia Wyatt Earp-Doc Holliday, è la cosa «più profondamente, intrinsecamente, americana che esista», nel senso che il piccolo e davvero poco «spettacolare» luogo del duello più famoso del West, è stato riprodotto «all’interno di una finzione che rende Tombstone, simile ad un padiglione di Disneyland» (A. Crespi, America vera o falsa? Il paesaggio nel cinema hollywoodiano contemporaneo, in Franco La Polla (a cura di), Poetiche del Cinema Hollywoodiano Contemporaneo, Lindau, Torino, 2001, p. 191).

[5] Lo storico americano Frederick J. Turner (1861-1932), parlando dell’importanza della Frontiera nel formare il carattere dei suoi connazionali, considera la medesima come una realtà generatrice di sano individualismo, di democrazia, di vitale umanità non corrotta da pesanti eredità civili: «È alla frontiera che l’intelletto americano deve le sue caratteristiche più spiccate. La rudezza e la forza combinate con l’acutezza e la curiosità; la disposizione mentale, pratica, inventiva, rapida a trovare espedienti; il mordente magistrale sulle cose materiali, privo di senso artistico ma potentemente efficace per compiere grandi destini, l’energia inquieta, nervosa, l’individualismo dominante, all’opera per il bene e per il male, e al tempo stesso la gaiezza vivace e l’esuberanza che vanno di pari passo con la libertà», Frederick J. Turner, La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna, 1959, p. 30. [6] Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 64.

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Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

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Z. Bauman,  Modus vivendi

La società dei cacciatori

L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
L’educazione all’imprenditorialità postulato e dogma della contemporaneità significa pratica della caccia, come in ogni attività venatoria i trofei sono esibiti al fine muscolare di intimorire e terrorizzare ogni altro cacciatore. L’esibizione avviene nella rete, dove persone e cose sono esposte dai momentanei cacciatori quali trofei che ritagliano una temporalità in cui sono stati cacciatori e non prede. L’immagine di Bauman si presta ad una pluralità di significati: in un pianeta globale nel quale la linea di demarcazione è tra vite da cacciatori e vite di scarto, in cui la paura liquida diviene vergogna di essere preda, il cacciatore esibisce il trofeo per mostrare di non essere stato predato, in tal modo mostra i denti e si rassicura. Si assiste all’ontologia della caccia: «La caccia è un’occupazione a tempo pieno, consuma una gran quantità di attenzione e di energie, non lascia quasi tempo per qualsiasi altra cosa; e perciò impedisce di rendersi conto che si tratta di un compito senza fine, e rinvia alle calende greche il momento in cui guardare in faccia il fatto che il compito non potrà mai essere portato a termine».[1] La deregulation in ogni campo – dall’economico alle relazioni – espone ciascuno di noi sull’abisso; in ogni momento il soggetto da ‘soggetto’ può divenire ‘oggetto’, per cui il timore di essere diventato vita di scarto, rifiuto urbano, spinge a mostrare che si è nella linea dei vincenti, dei globalizzanti. È la nuova vergogna della società dell’impresa: se non predi, sei colpevole; sei non ti trasformi in pescecane, fai parte delle vite di scarto. I perdenti sono e divengono il problema, sono le nuove streghe planetarie da cui difendersi, sono la causa di ogni male, per cui – se ci si trova dalla parte dei vincenti – si devono erigere palizzate fisiche e mentali contro le orde che minano il privilegio del vincente secondo il quale «la natura vuole che si lotti, si vinca o si perda»: «Il nuovo e sempre più diffuso folklore urbano assegna alle vittime dell’esclusione planetaria il ruolo dei “cattivi”, raccogliendo, combinando e riciclando la tradizione delle storie terrificanti, costantemente e sempre più largamente richieste, oggi come in passato, per effetto delle insicurezze della vita in città».[2]
Ogni possibilità è esclusa dal pensiero, per cui ci si muove per predare qualsiasi cosa: un’immagine da postare, un corpo da consumare, una proprietà da spogliare ad altri, una terra da saccheggiare. Tutto deve diventare trofeo da mostrare per “mostrare” che non si è caduti nell’abisso delle vite di scarto. Si è colpevoli se si perde, se il risultato – a prescindere dal mezzo – non è stato raggiunto, per cui ogni mezzo è moralmente legittimato dalle pressioni indebite alla violenza materiale. La sorpresa è verificare che nei mezzi di informazione ci si stupisca della violenza psicologica o fisica benché la struttura ideologica –nella quale si naviga sempre a vista –, sia ontologicamente violenta. Hobbes potrebbe assistere allo stato di natura in diretta, ovunque alberga il cacciatore che in modo ossessivo passa da un obiettivo all’altro. La capacità simbolica che umanizza, il pensiero che chiede il senso e riconfigura il suo presente all’interno dell’esperienza umana che si estende dal passato al futuro è censurata dall’azione continua, dal muoversi del predatore uomo all’interno delle giungle in cui in ogni attimo può divenire preda: è l’unica vergogna ammessa. Bauman utilizza un’immagine semplice e diretta, ovvero il gioco della sedia: «Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile».[3] In qualsiasi momento ci può essere sottratto ciò che si ha e la vergogna non risiede nel predatore ma nel predato, il quale ha meritato d’essere stato predato per cui nessuna solidarietà, nessun aiuto di stato o istituzionale; la colpa è pagata con l’esposizione mediatica. Il fallito, lo scarto umano messo alla gogna e umiliato, introietta la vergogna per cui non ha la forza mentale di mettere in atto quei processi mentali per difendersi, per capire, per trasformare il fatto in esperienza condivisa e di rielaborazione di pensiero.
Siamo chiamati a rompere il ciclo che nutre il fascismo finanziario. Riportare il concreto nell’astratto per la prassi trasformatrice. Il pensiero di Hegel, Marx e Gramsci ci devono indurre a trasformare il fato dei colpevoli in un’esperienza pensata, immanente per liberarci dei fantasmi a cui non sappiamo dare ‘il nome’ e dunque depredano le esistenze. Il conflitto da interiore dev’essere verticalizzato, ma ancor più necessita di una grammatica della comprensione che tarda ad apparire poiché anche gli intellettuali sono i nuovi cacciatori vassalli che depredano le coscienze in nome dei neofeudatari delle finanze. Non possiamo semplicemente scandalizzarci ma si deve mettere in atto una prassi trasformatrice per porre le condizioni per una Koinè senza la quale potremmo dichiarare persa la condizione umana al cui posto il cacciatore-imprenditore-banchiere come archetipo del nuovo modello umano, nuova idea platonica, potrebbe divenire il demiurgo di nuovi ed infiniti micro-cacciatori che si spingono vicendevolmente sull’abisso delle vite di scarto. I profughi che non vogliamo guardare sono la carne del mondo, ci mostrano il mondo nella sua verità. Sono bersaglio delle violenze dei cacciatori e delle prede costrette a pura sopravvivenza e pertanto portatrici di ogni violenza e redenzione per tutti: «I profughi si trovano in mezzo ad un fuoco incrociato; più esattamente in un doppio vincolo. Da un lato sono espulsi con la forza o indotti col terrore a fuggire dal loro paese d’origine, ma dall’altro si vedono rifiutare l’ingresso in qualsiasi altro paese».[4]

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017, p. 122.

[2] Ibidem, p. 48.

[3] Ibidem pp. 10-11

[4] Ibidem, p. 49


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Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017

Risvolto di copertina

«Non sono rimasti molti terreni solidi su cui gli individui possano edificare le loro speranze di salvezza. Non possiamo più sperare seriamente di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere; non possiamo neppure rendere veramente sicuro quel posto migliore nel mondo che, forse, siamo riusciti a ritagliare per noi stessi. L’insicurezza c’è e resterà, qualunque cosa accada».
Rendere l’incertezza meno terribile, la felicità più permanente. Ecco la grande utopia inseguita dagli abitanti del mondo liquido. Zygmunt Bauman rapisce la nostra attenzione e affronta la paura più inconfessabile: che futuro ci aspetta?

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Leggi un brano del libro «Modus vivendi»


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Claudio Lucchini – Carrelli e moduli: i problemi dell’etica umana nell’intreccio di biologia e storicità concreta.

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«Se la felicità è vista in termini aristotelici come un libero sviluppo delle proprie facoltà, e se l’amore è quel tipo di reciprocità che fa sì che ciò accada nel modo migliore, non esiste alcun conflitto ultimo tra loro. E nemmeno vi è un conflitto fra felicità e moralità, dato che trattare gli altri in maniera giusta e compassionevole è, in una visione generale delle cose, una delle condizioni per il proprio sviluppo». Terry Eagleton

Il modo, poi, nel quale l’auspicabilità di una tale condizione – il cui razionale concetto è il portato dell’interagire riflessivo concretamente situato delle comuni facoltà cognitive ed emozionali della specie, a sua volta sottoponibile alla prova della riflessione filosofica, etica e politica – si possa tradurre in una quotidianità realmente funzionante e tendenzialmente umanizzata, spetta alle nostre capacità conoscitive, progettuali, pratiche e poietiche determinare e attuare, affinché la prefigurazione marx-engelsiana di una società di libere individualità non resti un nobile desiderio ma divenga realtà esperita e goduta, tanto quanto può consentirlo la nostra costitutiva finitezza materiale-naturale. Claudio Lucchini

 

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Claudio Lucchini

 

Carrelli e moduli

I problemi dell’etica umana

nell’intreccio di biologia e storicità concreta

 


Claudio Lucchini,
Carrelli e moduli:
i problemi dell’etica umana nell’intreccio di biologia e storicità concreta

Il complesso e controverso dibattito sviluppatosi attorno al cosiddetto «dilemma del carrello» – dibattito recentemente esaminato nelle sue posizioni più rilevanti da David Edmonds –[1] offre il destro per chiarire alcuni degli elementi costitutivi essenziali del campo problematico proprio dell’etica, colta nella sua specifica interazione tra determinazioni biologiche e alternative umano-sociali. Queste ultime si definiscono all’interno di una dialettica storica il cui divenire coinvolge sia le capacità specie-specifiche di proiezione autoriflessiva verso una gamma di differenti possibilità di condotta a partire dalla determinata situazione nella quale le corporeità umane si radicano, sia quelle di astrazione generalizzante. È solo all’interno di questo intreccio di relazioni, come si verrà ripetutamente sostenendo, che i problemi etici effettivamente significativi possono essere adeguatamente tematizzati e compresi nella dialettica di senso che vengono aprendo.
La prima classica formulazione dell’esperimento mentale succitato risale al 1967, quando la filosofa Philippa Foot propose lo scenario seguente, così sintetizzato da Edmonds nella sua drammatica e lacerante problematicità morale: «Vi trovate accanto a un binario quando vedete un treno in corsa che sfreccia verso di voi: chiaramente i suoi freni non hanno funzionato. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari. Se non fate niente, i cinque saranno travolti e uccisi. Per fortuna siete accanto a uno scambio: azionando quello scambio manderete il treno fuori controllo su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova appena davanti a voi. Purtroppo, c’è un intoppo: sulla linea secondaria notate che c’è una persona legata sui binari; cambiare la direzione del treno si tradurrà inevitabilmente nell’uccisione di questa persona. Che cosa dovreste fare?».[2]

 

Uccideresti l'uomo grasso?

David Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso?

 

Marc D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male

Marc D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male

Le risposte fornite a questo interrogativo da significativi campioni statistici di individui – differenti per età, sesso, cultura, professione, nazionalità – acquistano il loro più autentico interesse solo quando vengano confrontate con quelle formulate di fronte ad uno scenario largamente simile e tuttavia diverso dal primo per alcuni fondamentali aspetti. La descrizione di un tale scenario – elaborato compiutamente nel 1985 da una filosofa del MIT, Judith Jarvis Thomson, sulla scorta della logica di esempi analoghi concepiti dalla stessa Foot – mostra, nelle parole di Edmonds, i seguenti contorni: «Siete su un cavalcavia che si affaccia sul binario. Vedete il carrello ferroviario che sfreccia fuori controllo e, poco più avanti, cinque persone legate sui binari. È possibile salvare questi cinque? Ancora una volta, il filosofo morale ha abilmente organizzato le cose in modo che sia possibile. C’è un uomo molto grasso che sta guardando il treno appoggiato alla ringhiera. Se lo spingeste oltre la balaustra, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari. È così obeso che la sua massa farebbe fermare bruscamente il carrello. Purtroppo, in questo modo verrebbe ucciso l’uomo grasso. Ma si potrebbero salvare gli altri cinque. Si dovrebbe dare una spinta all’uomo grasso?».[3]
Le opinioni di coloro cui sono stati sottoposti i quesiti in discussione, in varie occasioni, da differenti istituzioni e in modo – come accennato – da soddisfare corretti standard statistici, paiono largamente convergere verso una risposta positiva alla prima domanda e una risoluta negazione nel secondo caso; per esempio, dalla Harvard University e dalla BBC sono stati condotti dei sondaggi in proposito, coinvolgenti rispettivamente più di 200.000 e 65.000 partecipanti: «I risultati di questi vari [rilevamenti] non sono marcatamente diversi. La BBC ha trovato che circa quattro persone su cinque erano d’accordo che il treno dovesse essere deviato lungo il ramo laterale. Contemporaneamente, solo uno su quattro pensava che l’uomo grasso dovesse essere buttato giù dal cavalcavia. Altri studi [poi] hanno suggerito che quasi il 90 per cento azionerebbe lo scambio nel Ramo deviato, e fino al 90 per cento non spingerebbe l’uomo grasso».[4] Nonostante non manchino alcune divergenze legate al genere, alla professione o alle credenze religiose e politiche, «queste differenze non sono marcate, e nel complesso non c’è una differenza significativa tra ricchi e poveri, colti e ignoranti, chi proviene da Paesi sviluppati e chi dal mondo meno sviluppato».[5]
Lo psicologo e neuroscienziato di Harvard Joshua Greene, assieme ad alcuni collaboratori, ha successivamente applicato le tecniche di neuroimaging a numerosi soggetti alle prese coi problemi del carrello, apportando inoltre talune significative variazioni al caso ipotetico dell’uomo grasso. Nella grande maggioranza degli individui, constata Greene, agisce istintivamente, per probabile retaggio evolutivo, una reazione emotiva assai tenace – supportata dall’attivazione di aree cerebrali (amigdala, corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale) coinvolte nei sentimenti di compassione – di fronte alla componente «vicino-e-personale» dell’esperimento implicante la possibilità di uccisione dell’obeso: «c’è qualcosa – commenta Edmonds – nella fisicità dello spingere, nell’impatto muscolare diretto con un’altra persona, che ci fa trasalire».[6]
Greene ha allora proposto una non trascurabile modificazione all’esperimento, supponendo che l’azione bloccante dell’uomo grasso possa essere provocata girando un interruttore che apra una botola posta sul ponte, proprio sopra i binari. «Ora, – osserva ancora Edmonds – mentre neppure il più capzioso degli avvocati sarebbe in grado di stabilire una qualsiasi distinzione morale sostanziale tra l’uccidere con un interruttore e l’uccidere con una spinta, i soggetti interrogati sul carrello sono più disposti a mandare a morte l’uomo grasso quando si ha a che fare con il primo scenario che con il secondo».[7] Il che, se apre inquietanti interrogativi sulla (relativa) maggior disponibilità ad uccidere comandando a distanza dei droni simili a quelli largamente usati in Pakistan e in Afghanistan dagli Stati Uniti,[8] non sembra però compromettere, in definitiva, il risultato emerso dalla forma originaria del dilemma: «Comunque, che si tratti di un interruttore o di un pulsante, la maggior parte delle persone continua a credere che uccidere l’uomo grasso sia peggio che cambiare la direzione del treno nel Ramo deviato».[9]
Insomma, nonostante la pletora di ulteriori complicazioni poste nel corso degli anni ai problemi concepiti dalla Foot e dalla Thomson – complicazioni che tuttavia non mutano la sostanza della questione –, sembra che agisca in noi, in maniera irriflessa e istintiva,[10] un’intuizione morale conforme a quella che, razionalmente definita dall’analisi filosofica, viene comunemente chiamata, sulla scia di Tommaso d’Aquino, «dottrina del duplice effetto».[11] Questa tesi, come spiegano tra gli altri lo stesso Edmonds o lo psicologo, biologo evolutivo e antropologo biologico Marc D. Hauser, opera un’essenziale distinzione tra gli scenari proposti, sostenendo il seguente fondamentale principio: «danneggiare un altro individuo è lecito se la conseguenza prevista [corsivo mio] di un atto comporta un bene maggiore; invece danneggiare qualcun altro come mezzo deliberato [corsivo mio] per un bene maggiore non è lecito».[12] In definitiva, manovrare lo scambio è moralmente accettabile in quanto l’uccisione di un innocente è soltanto un effetto collaterale prevedibile ma non consapevolmente scelto dell’attuazione di un’intenzione volta a salvare delle vite umane; al contrario, quando si decide di far precipitare l’uomo grasso dal ponte, si utilizza scientemente una persona quale strumento per fermare il carrello ferroviario, ossia si degrada la sua umanità a mezzo per un fine, in contrasto con una delle forme dell’imperativo categorico kantiano, che sembra in effetti dar voce ad alcune intuizioni etiche largamente ed istintivamente diffuse tra gli esseri umani. Nel primo caso, è l’azione del tirare la leva dello scambio a costituire il mezzo che consente di salvare gli altri individui; nello scenario dell’uomo grasso, invece, è proprio l’uccisione deliberata di quest’ultimo – avvenga ciò con una spinta o premendo un interruttore – ad impedire che cinque persone muoiano.[13]
In verità, se queste conclusioni sono tutt’altro che trascurabili, individuando alcune delle componenti antropologiche universalistiche che intervengono nella strutturazione dinamica dei giudizi morali, paiono tuttavia peccare di un’evidente astrattezza – come si avrà del resto modo di osservare dettagliatamente più avanti – rispetto alla concreta processualità storicamente situata delle decisioni etiche davvero rilevanti. Edmonds si avvede meritoriamente di tali complessi problematici, tuttavia non approfondendoli adeguatamente nell’insieme di mediazioni reali che li costituiscono, quando, a proposito della menzionata dottrina del duplice effetto applicata a situazioni storico-politiche, rileva: «[…] c’è la preoccupazione pratica che la DDE possa essere utilizzata come una scusa per eludere o scuotersi di dosso l’assunzione di responsabilità, soprattutto quando le azioni sono compiute in nome di uno Stato. Dovremmo essere soddisfatti del ministro della difesa che ordina un raid molto efficace contro un nemico malvagio, ma che dice: “Avevo compreso che gli abitanti dei villaggi sarebbero stati uccisi nel bombardamento: questo effetto collaterale della nostra operazione è deplorevole”?».[14]
Si riprenderanno successivamente tali questioni; recuperando invece per ora il filo dell’analisi relativa agli esperimenti mentali del carrello, si deve notare che Peter Singer ha svolto interessanti considerazioni filosofiche concentrando la sua attenzione su coloro che, affrontando il dilemma, assumono un’ottica utilitaristica contraria a quella della maggioranza, finendo coll’ammettere la liceità dell’uccisione dell’uomo grasso. «È il caso di ripensare – egli scrive rifacendosi alle ricerche sopra ricordate di Greene – ai soggetti che sono giunti alla conclusione, dopo qualche riflessione, che se è giusto azionare una leva per deviare un carrello, uccidendo così una persona ma salvandone cinque, è altrettanto giusto spingere una persona giù da un ponte, uccidendone una per salvarne cinque. Questo è un giudizio a cui altri mammiferi sociali non sembrano in grado di arrivare. Però è anche un giudizio morale. Esso sembra derivare non dalla eredità evolutiva che abbiamo in comune con gli altri mammiferi sociali, ma dalla nostra capacità di ragionare. Come gli altri mammiferi, noi disponiamo di risposte automatiche ed emozionali a certi tipi di comportamento, e queste risposte costituiscono un’ampia porzione di quella che è la nostra moralità. Ma a differenza degli altri mammiferi sociali, noi possiamo riflettere sulle nostre risposte emozionali e scegliere di rifiutarle».[15] Richiamandosi, invero con un eccessivo schematismo, ai modelli etici paradigmaticamente contrapposti di David Hume ed Immanuel Kant, Singer commenta che indubbiamente la nostra moralità non può basarsi esclusivamente sui responsi di una razionalità pura e incondizionata di stampo kantiano, e tuttavia, egli continua, «è altrettanto sbagliato considerare la moralità unicamente come una questione di risposte emozionali e istintive, non padroneggiata dalla nostra capacità di ragionare in modo critico. Non dobbiamo accettare come un dato scontato le risposte emozionali impresse nella nostra natura biologica nel corso di milioni di anni vissuti all’interno di piccoli gruppi tribali. Siamo capaci di ragionare, di fare delle scelte e possiamo respingere quelle risposte emozionali. Forse lo facciamo soltanto sulla base di altre risposte emozionali, ma questo processo comporta la ragione e la capacità di astrazione, e può condurci […] a una moralità più imparziale di quanto la nostra storia evolutiva di mammiferi sociali – in mancanza di quel processo raziocinante – ci consentirebbe».[16]

Peter Singer, Salvare una vita si può

Peter Singer, Salvare una vita si può


Se queste considerazioni di Singer ci permettono di fare un passo avanti lungo la strada di una definizione maggiormente concreta dei processi cognitivi, emozionali ed esperienziali implicati nella capacità umana di valutazione ed azione etico-sociale, esse però non determinano con una sufficiente acribia filosofica la natura del rapporto dinamico intercorrente tra le varie facoltà impegnate nella strutturazione delle nostre reazioni morali di fronte alle differenti alternative che il decorso dell’esistenza ci presenta. Si ponga mente, per un primo approccio a tali questioni, alla differenza essenziale che intercorre tra i vari scenari del dilemma del carrello e altri casi, affatto diversi, presentati dallo stesso Singer, tutti comportanti un riferimento al rapporto intercorrente tra schemi comportamentali dettati da risposte emozionali automatiche e riflessione razionale. Non può sfuggire che l’interazione tra la dimensione emozionale e il “calcolo” deliberativo delle facoltà ragionative conduce, nel complesso di tali esempi, ad un diverso atteggiarsi di tale rapporto rispetto alla validità assiologica dei comportamenti conseguenti. In un suo libro dedicato alle azioni che si possono effettivamente mettere in atto, già a livello individuale, per contribuire a sconfiggere la povertà (libro invero assai deludente nella capacità di analisi delle cause di fondo delle spaventose sperequazioni esistenti nella distribuzione mondiale della ricchezza),[17] il filosofo australiano indica alcuni fattori psicologici originari che possono in considerevole misura tendenzialmente ostacolare o comunque limitare le donazioni rivolte da cittadini del (relativamente) benestante Occidente agli abitanti di paesi lontani devastati dalla piaga della miseria. Egli ne evidenzia in particolare cinque, tra i quali, per gli scopi della nostra argomentazione, può bastare menzionare i primi due, assai perspicui, ossia l’«effetto della vittima identificabile» e il «provincialismo». Entrambe queste reazioni emotive di fronte a chi è in difficoltà tendono a privilegiare chi è personalmente riconoscibile o incluso per definizione nel proprio gruppo di appartenenza – più o meno largo che sia – rispetto a coloro che costituiscono una massa anonima e distante.

Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati

Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati

Si deve ricordare, a tal proposito, che le matrici evolutive di queste spinte comportamentali, sottolineate da Singer, corrispondono in effetti ad alcuni dei meccanismi ipotizzati dallo stesso Darwin, nell’ambito di una spiegazione plurale e multifattoriale del sorgere dei prodromi dei sentimenti altruistici e cooperativi: a tal proposito, il filosofo delle scienze biologiche Telmo Pievani afferma che, secondo uno dei processi esplicativi adottati dal grande naturalista britannico, «la selezione può agire anche tra famiglie e tribù, favorendo al contempo la cooperazione e l’altruismo all’interno del gruppo (in group) e l’aggressività e la violenza fra gruppi (out group), anticipando quell’idea di ambivalenza del comportamento umano oggi sottolineato da Wilson e da altri autori, come Samuel Bowles su “Nature” nel 2008».[18] Ovviamente, continua Pievani, Darwin è ben lungi dal trascurare quelle «capacità di raziocinio e di giudizio morale tali da permettere [alla specie umana] di alimentare (o di contrastare) queste attitudini evolutive»,[19] anticipando così, almeno a grandi linee, quella linea di ragionamento che stiamo esaminando in Singer. Quest’ultimo, a proposito degli effetti generati del principio della «vittima riconoscibile», rammenta il seguente episodio, che ben chiarisce quali problemi etici sorgano da talune risposte emozionali non vagliate da un più approfondito ed esaustivo ragionamento morale: «[…] Jessica McClure, nel 1987, a diciotto mesi, è caduta in un pozzo a Midland, in Texas. Nei due giorni e mezzo durante i quali i suoi soccorritori furono impegnati nell’opera di salvataggio, la Cnn seguì in diretta l’accaduto trasmettendo le immagini di fronte a milioni di spettatori in tutto il mondo. I telespettatori inviarono così tanto denaro che oggi Jessica è in possesso di un capitale pari a un milione di dollari. Secondo le cifre dell’Unicef, nel resto del mondo in quei due giorni e mezzo sono morti 67.500 bambini per cause evitabili legate alla povertà, privi di attenzione da parte dei media e senza l’aiuto del denaro inviato a Jessica. Ciò nonostante era chiaro a tutti che Jessica dovesse essere salvata a ogni costo».[20]
I limiti e le inerzie di modalità di risposte emozionali istintive – talvolta d’ostacolo ad una più retta condotta – possono tuttavia per Singer essere trascesi – almeno parzialmente – dalle facoltà raziocinanti degli esseri umani, cosa che se da un lato attenua la spinta emotiva immediata che conduce ad agire, dall’altro la radica in un più comprensivo e solido orizzonte etico: «Determinati schemi comportamentali che hanno garantito ai nostri antenati di sopravvivere e riprodursi, in circostanze molto diverse, quali quelle attuali, potrebbero non recare alcun beneficio a noi e ai nostri discendenti. Se anche alcune intuizioni o alcuni modi di agire particolarmente evoluti fossero ancora utili per la nostra sopravvivenza e riproduzione, ciò non significa, come lo stesso Darwin ha riconosciuto, che siano giusti. […] Certo concludere razionalmente che i bisogni degli altri debbano contare quanto i nostri non è la stessa cosa che sentirlo con il cuore, ed è questo il vero motivo per cui non rispondiamo ai bisogni delle popolazioni più povere del mondo come risponderemmo a qualcuno che davanti a noi si trova in difficoltà», sebbene ciò non implichi affatto, come Singer stesso testimonia con probanti esempi, che la comprensione razionale o l’argomentazione non possano mai in misura più o meno ampia riorientare l’agire delle nostre tendenze simpatetiche e altruistiche.[21]
Un tale rinvio al rapporto dinamico che intercorre tra facoltà razionali e predisposizioni emotive della specie umana consente indubbiamente di cogliere con maggior profondità la processualità che origina i giudizi morali; nonostante ciò, tale relazione deve essere meglio specificata sia rispetto al suo vario atteggiarsi, sia in riferimento alla dialettica storico-sociale che mette alla prova nelle sue più significative forme la nostra concreta eticità. Non può sfuggire, quanto al primo aspetto della questione, che i casi elencati da Singer a proposito delle azioni riguardanti l’aiuto alle popolazioni povere pongono in gioco un rapporto sostanzialmente conflittuale tra riflessione razionale e intuizioni morali di stampo emozionale, le quali debbono essere in qualche modo limitate e superate per consentire al comportamento di accedere ad un più vasto orizzonte etico. Al contrario, la disamina razionale del dilemma del carrello non solo non contrasta con la risposta istintiva data dalla stragrande maggioranza degli interpellati, ma anzi, attraverso la dottrina del duplice effetto, la legittima, mostrando come un ragionamento piattamente utilitaristico concorrerebbe a giustificare una forma di convivenza in cui, in ragione di un calcolo meramente numerico, si ammetterebbe il degrado a semplice mezzo dell’umanità delle persone, facendo incombere su chiunque il pericolo di essere utilizzato come strumento inconsapevole per fini (spesso solo sedicenti) più alti e rendendo giustificabile il massacro di mille persone per salvarne, per esempio, duemila. Certamente, come si è già accennato, anche la dottrina del duplice effetto può subire una manipolazione che legittimi intollerabili nefandezze in nome dei «danni collaterali solo previsti», ma ciò riguarda – e tra pochissimo lo si esaminerà con più cura – la distorsione ideologica del suo uso, il che rimanda alla storicità concreta dei più rilevanti problemi etici cui fin dall’inizio del presente saggio ci si è richiamati. Per quanto attiene, quindi, alla formulazione dei giudizi morali, essi si originano da un’interazione concretamente situata di molteplici potenzialità emozionali e cognitive, interazione che può comportare tra esse, di volta in volta, collaborazione, conflitto, rimodulazione, ecc.
Di essenziale importanza appare, in particolare, il carattere socialmente e storicamente situato, determinato, del ventaglio di alternative cui devono rapportarsi le ideazioni e le posizioni etico-sociali dotate di maggior rilievo e concretezza, in quanto soltanto il confronto con questa dimensione consente di verificare in qual misura il giudizio e l’agire morali siano condizionati dall’ideologia, intesa come fattore legittimante, in vario modo, sia le estraniazioni vigenti sia quelle potenzialmente intrecciate a momenti ideali e atti del porre teleologico che rappresentino sé stessi come liberatori rispetto alle differenti modalità dell’oppressione sociale esistente. Lo stesso Singer, per esempio, affrontando il problema della povertà e della nostra reazione ad essa, non s’avvede di ricalcare schemi pesantemente ideologici, quando, senza definire ulteriormente la dialettica storico-sociale dalla quale i fenomeni da lui evidenziati in gran parte scaturiscono, si limita ad osservare che «il divario fra il tenore di vita nei paesi sviluppati e nei paesi in via di sviluppo è spaventosamente aumentato, al punto che gli abitanti delle nazioni industrializzate hanno più possibilità di aiutare chi è lontano e maggiori ragioni per concentrare su di essi il loro buon cuore: è nei paesi lontani che vive la maggioranza di coloro che si trovano in povertà estrema».[22] La modulazione dell’agire intrecciato delle diverse facoltà concorrenti alla determinazione delle risposte ai problemi etici che ci si impongono con valenze umane di differente ma reale pregnanza, non può perciò prescindere, nei casi moralmente più significativi, dalla natura dei processi sociali riproduttivi dati, dai conflitti ad essi immanenti e dalle possibilità alternative che questi ultimi consentono di prefigurare. Se dilemmi quali quello del carrello, di conseguenza, manifestano una loro parziale validità in virtù del gioco di predisposizioni cognitive e di automatismi emozionali che permettono di illuminare, peccano tuttavia gravemente per la loro astrattezza, riducendo drasticamente il tempo e le scelte dell’azione, a causa di scenari da cui è cancellato ogni riferimento a quella densa problematicità storico-sociale rispetto alla quale le alternative si complicano e si infittiscono, richiedendo processi decisionali assai più articolati.

Simon Baron-Cohen, La scienza del male

Simon Baron-Cohen, La scienza del male

In realtà, se si analizza, ad esempio, il decorso effettivo dell’attività simpatetica, ci si imbatte assai facilmente in una dinamica in cui le predisposizioni empatiche, la dimensione razionale-riflessiva e le influenze dell’esperienza sociale interagiscono variamente – a seconda delle circostanze individuali e storiche – per dar vita a comportamenti differenziati. Si pensi, in tal senso, ai casi eclatanti di violenza e malvagità collettive citati da Simon Baron-Cohen in un suo studio sulle origini della crudeltà, da lui ravvisate in un processo di «erosione dell’empatia», di cui sono evidenti le componenti psicologiche e socio-culturali, almeno che non entrino in gioco lesioni permanenti del circuito cerebrale legato alle attitudini empatiche.[23] Definita l’empatia come «la nostra capacità di identificare ciò che qualcun altro sta pensando o provando, e di rispondere a quei pensieri e sentimenti con un’emozione corrispondente»,[24] Baron-Cohen afferma che il male deriva appunto da un’«erosione empatica», la quale «può svilupparsi a causa di emozioni corrosive, come il portare risentimento, il desiderio di vendetta, l’odio cieco o anche il desiderio di proteggere».[25] Tutte emozioni, come è facile arguire, che, a partire dal loro radicamento biologico, possono poi venir plasmate, nelle loro concrete espressioni, da una trama complessa di condizionamenti sociali e culturali, non risultando quindi affatto necessariamente impermeabili all’influenza dell’agire situato della dotazione autoriflessiva e logico-razionale della specie.

Michael S. Gazzaniga, La mente etica

Michael S. Gazzaniga, La mente etica

Frans de Waal, La scimmia che siamo

Frans de Waal, La scimmia che siamo

Esaminando alcuni meccanismi di memorizzazione delle informazioni in entrata, Michael Gazzaniga ci mostra più in dettaglio in qual maniera il pregiudizio ideologico può incidere sulle nostre capacità di rispondenza empatica, elaborando – sulla base di precise potenzialità neurobiologiche – i nostri ricordi in conformità con un sistema stereotipato di aspettative e reazioni. Il cervello – spiega l’eminente neuroscienziato, che menziona il ruolo coerentizzante dell’«interprete dell’emisfero sinistro» contrapposto alla rilevazione di «anomalie» da parte dell’emisfero destro –[26] tende a distorcere le informazioni ricevute affinché si incastrino con le credenze sul mondo attualmente possedute, incasellandole in categorie specifiche da memorizzare.[27] «Queste divisioni – continua Gazzaniga – sono spesso associate a sensazioni e credenze particolari, e da quell’associazione deriva il fondamento dello stereotipo. [Come intuito originariamente da Gordon Allport,] una persona di pelle scura [per esempio] attiverà qualsiasi concetto di [afroamericano] dominante nella nostra mente. Se la categoria dominante è composta da atteggiamenti e credenze negative, noi automaticamente lo eviteremo, o adotteremo qualsiasi atteggiamento di rifiuto più confacente per noi».[28] E proprio questo sembra essere quello che accade, beninteso prescindendo da quella molteplice serie di circostanze che possono innescare un processo, almeno in parte razionale ed autoriflessivo, di revisione più o meno profonda delle nostre convinzioni: «In una ricerca, ad alcuni soggetti fu sottoposto un elenco di tipici nomi “bianchi” (come Franck Smith o Adam McCarthy) mescolati ad altri tipicamente “di colore” (come Tyrone Washington o Darnell Jones). Nessuno di loro era un criminale. Eppure alla richiesta di identificare dai nomi dell’elenco i criminali citati dalla stampa, il soggetto medio «ricordava» di aver sentito 1,7 volte di più i nomi “di colore” rispetto a quelli “bianchi”. Probabilmente questa distorsione da stereotipo contribuisce alla maggior falsa identificazione di uomini di colore come criminali rispetto a persone dalla pelle di colore diverso».[29]
Da parte sua, parzialmente differenziandosi dalle definizioni offerte da Baron – Cohen, il grande primatologo Frans de Waal sostiene che la sensibilità empatica per la situazione altrui, pur essendo una condizione ineludibile di legame altruistico, non coincide affatto con la spinta simpatetica ad operare per il benessere dell’altra persona, potendo anzi, in virtù di fattori simili a quelli testé elencati, originare comportamenti crudeli e brutalmente estranianti: «[…] questa stessa capacità di capire gli altri rende possibile anche far loro del male di proposito: sia la compassione sia la crudeltà dipendono dalla capacità di immaginare come il proprio comportamento abbia effetto sugli altri».[30]
Proprio l’ambivalenza dell’empatia riconosciuta da de Waal riconferma dunque come l’agire morale, inserito nella concretezza di situazioni e processi prefiguranti molteplici alternative possibili, si nutra di una combinazione intrecciata di facoltà, non potendo basarsi soltanto su alcune generali intuizioni di fondo o sulla semplice predisposizione empatica, testimoni tuttavia di una comune consonanza emozionale su cui possono agire, in reali circostanze storico-sociali, le facoltà raziocinanti e autoriflessive della specie, modulando le reazioni etiche più conformi al miglior operare della tensione eudemonistica umana, seppur al di fuori di ogni meccanica necessità. In tal senso, non sembra essere del tutto convincente ciò che scrive Eugenio Lecaldano quando, concordando sostanzialmente con l’etica di stampo humeano, riconduce la valutazione morale ultima alla struttura sentimentale del nostro essere, riducendo indebitamente lo spazio della riflessione autocosciente. Individuato in Hume un primo livello di azione della simpatia, corrispondente all’automatismo del contagio emozionale, Lecaldano mostra come esso non possa elevarsi, per il grande filosofo scozzese, all’imparzialità propria del giudizio morale, portandoci «a simpatizzare più facilmente e più intensamente con ciò che è più vicino nello spazio e nel tempo e con coloro che sono più simili a noi».[31] Tuttavia, continua Lecaldano, secondo Hume la simpatia opera anche ad un secondo livello, in cui la comprensione partecipata ai dolori e ai piaceri altrui si nutre di un certo grado di immaginazione e riflessione, permettendoci di operare una distinzione tra noi e l’altra persona, di metterci nei suoi panni e di ricostruire con maggior precisione i suoi comportamenti e i loro effetti.[32] Perché venga formulato un vero e proprio giudizio etico, tuttavia, è indispensabile che gli esiti di questa «simpatia riflessiva» vengano integrati «da quei sentimenti morali che spingono a trovare accettabili o rifiutabili le azioni e le qualità delle persone che abbiamo ricostruito […] E questo – conclude Lecaldano seguendo la teorizzazione humeana – può essere spiegato con semplicità, tenuto conto che la nostra struttura sentimentale (si badi bene: non la nostra simpatia) è fatta in modo da trovare il male in quelle situazioni in cui degli esseri subiscono, per le azioni di altri, sofferenze o danni che non vogliono».[33] La qual cosa sembrerebbe indiscutibile, se non fosse che l’agire dell’ideologia tende proprio ad innalzare ad universale validità umana le dinamiche riproduttive estranianti che legittima, negando l’oppressione e la sofferenza, sminuendole o, comunque, relativizzandole alla luce delle presunte necessità del buon funzionamento dell’ordine sociale dominante o, addirittura, dell’ordine delle cose. È ovvio, allora, che solo un’accurata problematizzazione razionale può cercare di fornire alla nostra dotazione emozionale i mezzi più adeguati per esprimersi in una reazione etico-politica credibile e realmente disalienante.
Un ulteriore chiarimento di queste tematiche può venirci dalla discussione circa importanti elementi analitici che emergono dal dilemma del carrello, elementi da tempo oggetto di accese controversie filosofiche. La risposta utilitaristica di chi ucciderebbe l’uomo grasso trascura, tra le altre cose, di porre in adeguato rilievo il ruolo spettante alle intenzioni nella valutazione delle scelte morali umane; come ben sintetizza Edmonds – alla fine di una lunga rassegna di posizioni tra le quali va citata almeno quella di Bernard Williams, decisamente critica nei confronti dell’eccessiva schematicità dell’utilitarismo –,[34] «al cuore [della DDE] c’è la differenza tra l’intenzione e la semplice previsione: nel Ramo deviato prevediamo ma non intendiamo procurare una morte, nell’Uomo grasso lo facciamo», assecondando «la potente risonanza intuitiva» di ripulsa che una simile distinzione genera nella stragrande maggioranza degli individui e che la ragione filosofica riesce, da Tommaso d’Aquino almeno, a legittimare.[35]

Noam Chomsky, La scienza del linguaggio. Interviste con James McGilvray

Noam Chomsky, La scienza del linguaggio. Interviste con James McGilvray

Noam Chomsky, Capire il potere

Noam Chomsky, Capire il potere

Ancora una volta, però, l’assenza di un’adeguata contestualizzazione ontologico-sociale di siffatte distinzioni semplifica arbitrariamente la reale problematicità connessa al giudizio sugli scopi e sui mezzi di linee di condotta etica, sociale e politica, storicamente concrete. Conversando con il grande linguista e pensatore Noam Chomsky, James McGilvray si sofferma sulla questione della eventuale esplicita negazione del carattere universale dei principi morali sostenuti dalla propria parte politica. Chomsky, implicitamente richiamandosi a quella dotazione mentale innata che spinge a disegnare le divergenze etiche entro uno stesso terreno morale condiviso,[36] osserva che anche chi – come, per esempio, Henry Kissinger – ammette senza remore «che il dominio morale non può essere universalizzato», non può poi non giustificare questa sua affermazione sulla base di principi che pretendono di valere universalmente, come per esempio quello secondo cui «gli Stati Uniti agiscono sempre nel miglior interesse dell’umanità, e addirittura negli interessi di coloro che vengono aggrediti».[37] È proprio la tendenza umana a concepire e coerentizzare riflessivamente un ventaglio di possibili modalità alternative di modulazione dei rapporti etico-sociali, a partire da una comune dotazione cognitiva ed emozionale, empatico-simpatetica, a rendere necessaria, insomma, la legittimazione ideologica delle vigenti logiche riproduttive, quali che siano le forme – ontologico-naturali, teologiche, pragmatiche, ecc. – mediante cui ciò avviene. Così, per fare solo alcuni significativi esempi, gli Ateniesi, nel V secolo avanti Cristo, potevano giustificare la loro politica aggressiva nei confronti dei Meli, sostenendo «che nel cosmo divino, come in quello umano (vale l’opinione per il primo, ma per l’altro è una sicurezza nitida) urge eterno, trionfante, radicato nel seno stesso della natura, un impulso: a dominare, ovunque s’imponga la propria forza. È una legge, che non fummo noi ad istituire, o ad applicare primi, quando già esistesse. L’ereditammo che già era in onore e la trasmetteremo perenne nel tempo, noi che la rispettiamo, consapevoli che la vostra condotta, o quella di chiunque altro, se salisse a tali vertici di potenza, ricalcherebbe perfettamente il contegno da noi tenuto […]».[38] A sua volta, secoli dopo, per coerentizzare le atroci pratiche colonialistiche con la sua accanita difesa della libertà umana (intesa peraltro nei temini dimidiati del liberalismo), John Stuart Mill affermava l’inderogabile esigenza di proteggere «dalle proprie azioni quanto dalle minacce esterne […] coloro che ancora necessitano dell’assistenza altrui. Per la stessa ragione, possiamo tralasciare quelle società arretrate in cui la razza può essere considerata minorenne. […] Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l’obbedienza assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno se sono così fortunati da trovarlo».[39]

Amartya Sen, La democrazua degli altri

Amartya Sen, La democrazua degli altri

Danilo Zolo, Terrorismo umanitario

Danilo Zolo, Terrorismo umanitario


Negli ultimi decenni, poi, in nome di «ragioni etiche», di un sedicente «interventismo umanitario e democratico», la «comunità internazionale», ossia «in realtà le grandi potenze occidentali, Santa Alleanza del nostro tempo “globale”», guidata dagli Stati Uniti, ha giustificato, tra le altre, le spedizioni militari contro l’Iraq del 1990-91 e del 2003, e la guerra contro l’Afghanistan del 2001: «Ispirati – commenta Danilo Zolo – alla strategia del Broader Middle East – il progetto di convertire alla democrazia l’intero mondo islamico con la forza delle armi – questi interventi «umanitari» hanno mirato a controllare militarmente l’intero Medio Oriente, e cioè il cuore della tradizione religiosa e della civiltà islamica e, nello stesso tempo, il centro di un immenso bacino di risorse energetiche. Si è trattato di conflitti asimmetrici, nei quali gli strumenti di distruzione di massa sono stati usati dalle potenze occidentali per fare strage di civili inermi, per diffondere il terrore, per distruggere le strutture civili e industriali di intere città e di interi paesi».[40] Infine, lo stesso relativismo intrinseco alla «modernità liquida» baumaniana,[41] presuppone quale suo sostrato ontologico-sociale l’assolutizzazione etico-umana, tendenzialmente universale, della categoria della merce capitalisticamente prodotta e consumata, come mirabilmente spiega Günther Anders formulando il concetto di «pluralismo interiorizzato» e chiarendone le matrici onto-antropologiche: «I prodotti che non possono essere smerciati a chiunque sono cattive merci. Se si vuole rendere allettante e smerciabile un prodotto appartenente originariamente a una determinata «religione» o concezione del mondo, la sua forza di attrazione non deve più derivare dalla sua pretesa di verità (che risulta sempre limitata o elitaria o vincolante). La sua forza di richiamo e d’attrazione deve piuttosto consistere in qualcosa di non impegnativo: nella sua bellezza, o nella sua presunta idoneità formativa o nel suo valore di intrattenimento o nel suo essere interessante – in ogni caso in una qualità che si potrebbe semplicemente confare a un prodotto qualunque: idoli lignei congolesi come dischi di cori gregoriani, riproduzioni di “Guernica” di Picasso o mini-bikini – tutti questi prodotti possono, anzi devono in egual misura diventare merci che abbiano pari diritti e che godano di pari indulgenza. La tolleranza attuale [limitata, beninteso, a ciò che non costituisce intralcio alla mercificazione universale e alla sua parziale destrutturazione delle identità individuali] non deriva solo dalla storia religiosa o dalla politica ecclesiastica, ma anche dal mondo del commercio. Tutte le religioni, le concezioni del mondo, tutti gli stili artistici, i fenomeni e i “valori culturali” hanno lo stesso diritto alla tolleranza, perché hanno lo stesso diritto di comparire come merci».[42]

Keith Tester, Società, etica, politica.

Keith Tester, Società, etica, politica.


In definitiva, sono esattamente le stesse strutture mentali, le stesse facoltà cognitive aperte alla prefigurazione del possibile, le stesse predisposizioni emozionali, le quali, nella loro interazione in situazione, consentono di perseguire riflessivamente e dialetticamente la progettazione universalizzante di ciò che realmente contribuisce all’umanizzazione dell’uomo e alla migliore estrinsecazione della sua tensione eudemonistica, a costituire il terreno da cui sorge la falsa universalizzazione ideologica, l’esigenza di difendere i rapporti sociali dominanti non solo con la pratica repressiva diretta ma anche attraverso la tendenziale introiezione delle vigenti forme estraniate di esistenza individuale e collettiva, esperite quali modelli di vita umana autentica o migliore o, comunque, come gli unici positivamente praticabili. Dovrebbero ormai essere chiari, perciò, i motivi per cui dilemmi schematici e legati a scelte immediate comunque dolorose, quali quelli del carrello, non possano, da soli, render conto della complessità di processi tanto più ricchi di alternative, tanto più problematici nella identificazione degli effettivi obiettivi e intenzioni degli agenti coinvolti, richiedendo invece un’accurata tematizzazione onto-assiologica che, senza disperdere il patrimonio di acquisizioni di tali studi scientifico-filosofici, li precisi e li valorizzi in una più consona e comprensiva sintesi concettuale.

Jonathan Haidt, Menti tribali

Jonathan Haidt, Menti tribali

La stessa assenza di una concreta determinazione dell’interconnessione tra il ventaglio delle nostre facoltà specie-specifiche e le reali dinamiche storico-riproduttive quale terreno oggettivo di possibile universalizzazione delle più alte acquisizioni etico-sociali dell’umanità, la si ritrova anche nella teoria dei fondamenti della morale elaborata dallo psicologo e filosofo Jonathan Haidt per render conto di quali siano le essenziali matrici da cui traggono vita i molteplici contrasti politici ed etici interumani.[43]
Anzitutto, nei suoi studi condotti assieme a Craig Joseph, egli applica all’indagine del mondo morale della nostra specie il concetto di «modulo», riprendendolo dagli antropologi cognitivi Dan Sperber e Lawrence Hirschfeld. I moduli sono circuiti neuronali innati, altamente specializzati, che elaborano certi tipi di stimoli o input, i quali, nell’ambiente ancestrale, hanno creato problemi o opportunità; quando vengono attivati dai fenomeni che ad essi competono, i moduli innescano reazioni intuitive e, probabilmente, emozioni specifiche (per esempio l’istintiva cautela timorosa che si prova di fronte ad un animale potenzialmente pericoloso). Tutto ciò non comporta, però, la negazione della varietà culturale, in quanto «Sperber ed Hirschfeld [distinguono] tra fattori scatenanti (triggers) originari e attuali di un modulo. I fattori scatenanti originari sono le categorie di oggetti per cui il modulo [si è formato mediante selezione naturale] (in altre parole, la categoria composta da tutti i serpenti è la causa scatenante originaria di un modulo di rilevazione di serpenti). I fattori scatenanti attuali comprendono invece qualsiasi altra cosa accidentalmente in grado di attivare il modulo (come serpenti veri o finti, bastoncini ricurvi o funi, tutte cose che possono spaventarci se le vediamo all’improvviso nell’erba). I moduli commettono errori, e molti animali hanno sviluppato con l’evoluzione dei trucchi per approfittare degli errori di altri animali. Per esempio, i sirfidi hanno sviluppato strisce gialle e nere che li rendono simili a vespe, in modo da innescare in alcuni uccelli, potenziali loro predatori, il modulo che li induce a evitare le vespe».[44]
Proprio questa distinzione tra il dominio ontologico costitutivo di un modulo e il suo dominio attuale consente ad Haidt di rendere almeno parzialmente conto delle variazioni culturali della morale, in quanto «le culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il numero di fattori scatenanti attuali di un qualsiasi modulo. Per fare un esempio, negli ultimi cinquant’anni in molte società occidentali le persone hanno sviluppato un senso di compassione molto più ampio che in passato nei confronti di vari tipi di sofferenze degli animali; al tempo stesso, il disgusto avvertito nei confronti dell’attività sessuale si è ristretto a un numero più piccolo di varianti. I fattori scatenanti attuali possono cambiare nell’arco di una generazione, mentre modificare il progetto del modulo e i suoi fattori scatenanti originari richiede molte generazioni di evoluzione genetica».[45]
Stabiliti i limiti e i modi secondo cui i codici morali culturalmente definiti possono variare, Haidt aggiunge poi che «nell’ambito di qualsiasi cultura si può notare come parecchie controversie morali implichino modalità alternative di collegare un determinato comportamento a questo o quel modulo morale».[46] In altri termini, se per qualcuno può essere «un atto crudele e oppressivo» dare «scappellotti ai bambini che disubbidiscono», per altri è invece un comportamento giustamente volto a sanzionare inaccettabili trasgressioni alle regole, «come quella del rispetto dovuto ai genitori e agli insegnanti».[47] Così, conclude l’autore, «anche se abbiamo tutti lo stesso ristretto set di moduli cognitivi, le modalità per agganciare delle azioni a questi moduli sono talmente varie e numerose che si finisce per costruire, sugli stessi principi morali, una varietà di matrici addirittura in conflitto tra loro».[48]
Sulla base di questi presupposti, Haidt cerca dunque di individuare quali siano «i migliori candidati a diventare i moduli cognitivi universali su cui le culture costruiscono matrici morali»,[49] finendo con l’elencare le seguenti sei coppie fondamentali di termini oppositivi, selezionate da originarie sfide adattative, rispetto alle quali si declinano in forme molteplici i differenti codici morali culturalmente determinati: protezione/danno, correttezza/inganno, lealtà/tradimento, autorità/sovversione, sacralità/degradazione, libertà/oppressione.[50]

Ines Adornetti, Buone idee per la mente

Ines Adornetti, Buone idee per la mente

Terry Eagleton, Perché Marx aveva ragione

Terry Eagleton, Perché Marx aveva ragione

Sebbene non sia da trascurare affatto il rilievo dato a termini oppositivi universali che orientano i giudizi morali in ogni cultura, evidenziando interessi sostanzialmente identici per tutta la specie umana,[51] è nuovamente la fitta rete di mediazioni storico-sociali che interviene a definire mediante un’ampia gamma di varianti i contenuti culturali effettivi dei parametri di base, a complicare le cose, rendendo vano qualunque rigido automatismo specialistico di impronta modulare. Un conto, infatti, è appellarsi all’agire istintivo di uno o più moduli per valutare, per esempio, chi imbroglia in casi praticamente privi di rilevanti complicazioni dovute alla processualità storico-sociale, un altro è formulare giudizi etico-politici riguardanti ideazioni e posizioni teleologiche che si generano nel concreto di processi riproduttivi implicanti un gran numero di determinazioni e mediazioni storico-umane. È probabile, dunque, che semplici test quali quelli elaborati da Wason e da Cosmides possano effettivamente indurci a concludere, secondo le parole di Ines Adornetti, che «la mente sembra essere munita di un dispositivo, dotato di una logica tutta sua, che permette di individuare chi prende i benefici di uno scambio sociale senza pagarne i costi», rilevando piuttosto facilmente gli autori di un imbroglio.[52] Ma nella concretezza della dialettica storica è soltanto l’agire intrecciato, autoriflessivo e proiettivo delle nostre comuni facoltà cognitive ed emozionali a permetterci di elevarci ad una valutazione ed un giudizio etico-politici tanto più ricchi di tratti universalizzabili quanto più profonda è la loro individuazione dei meccanismi sociali che impediscono l’equilibrato esplicarsi sociale delle migliori potenzialità della specie e della tensione eudemonistica che l’accompagna. Proprio una tale profondità sembra invece far difetto ad Haidt, il quale ritiene di poter indicare una via per superare una relativistica considerazione delle differenti specificazioni culturali delle matrici originarie, limitandosi genericamente a suggerire, con ideologica superficialità ed unilaterale empirismo, «di guardare ai progressisti e ai conservatori come allo yin e allo yang: sono entrambi “necessari a una vita politica prospera”, per usare le parole di John Stuart Mill».[53]
Alla pensatrice che per prima ha concepito, in alcuni dei suoi tratti più significativi, il dilemma del carrello, la filosofa Philippa Foot, si deve un’analisi della natura del bene, nella quale ella ha compendiato la sua accanita riflessione sull’etica umana. I risultati a cui la Foot giunge rivestono un non trascurabile interesse filosofico, come vedremo, sebbene anche ad essi faccia difetto un’accurata e precisa disamina della dialettica storica di estraniazioni e processi umanizzanti, senza la quale è difficile elevarsi alla comprensione della dimensione ontologico-sociale che conferisce autentica concretezza ai problemi etici più rilevanti dell’umanità.

Philippa Foot, La natura del bene

Philippa Foot, La natura del bene

Anzitutto, la prima mossa filosofica dell’autrice consiste nel rivendicare fermamente il carattere integralmente naturalistico dell’etica, contrapponendosi all’asserita radicale irriducibilità del piano dei valori al piano dei fatti (alla base della nota critica mooriana alla «fallacia naturalistica»), la quale, in modi differenti, connota tanto la perdurante convinzione di George Edward Moore circa la possibilità di arrivare comunque ad una conoscenza etica oggettiva, quanto il non-cognitivismo di empiristi logici quali Alfred Jules Ayer o Charles Stevenson. Tale netta distinzione tra valori e fatti, spiega assai bene Luca Fonnesu, «ha per conseguenza […] che le possibilità di argomentazione razionale in etica siano limitate, sia che si assuma una posizione cognitivistica di tipo intuizionistico (come Moore), sia che se ne assuma una non-cognitivistica. Nel caso di Moore, l’argomentazione rimanda da ultimo all’intuizione di una proprietà valutativa oggettiva, indefinibile e non-naturale, la bontà, nel caso dei non-cognitivisti l’argomentazione si arresta di fronte alle diverse espressioni di emozioni e attitudini [del soggetto] che stanno a fondamento dei giudizi morali».[54]
Rifiutando recisamente l’oggettivismo etico «non-naturale» mooriano, così come il soggettivismo degli «emotivisti» – cui si apparenta, secondo lei, il «prescrittivismo» di Richard Hare –,[55] la Foot, chiaramente influenzata da Aristotele e Tommaso d’Aquino, afferma invece che il tratto distintivo della sua spiegazione «consiste nel collocare la valutazione dell’azione umana in un contesto più ampio, che comprende non solo la valutazione di altri aspetti della vita umana, ma anche i giudizi di valore relativi alle caratteristiche e alle operazioni di altri esseri viventi».[56] È sua ferma convinzione, infatti, che «nonostante tutte le differenze che ci sono fra la valutazione delle piante, degli animali e delle loro parti e caratteristiche, da un lato, e la valutazione morale degli esseri umani dall’altro, [si possano trovare] in esse una struttura logica di base e uno statuto in comune. La tesi [proposta] è che il difetto morale è una forma di difetto naturale non differente da quello che si può riscontrare in esseri viventi subrazionali».[57]
Il primo passo da compiere in questa direzione, continua la Foot, è allora quello di chiarire in che cosa consista la «bontà naturale» negli esseri viventi non umani.[58] Richiamandosi ad alcune tesi di Michael Thompson, ella sostiene che la descrizione dello sviluppo di una singola pianta, di un singolo animale, o di alcune loro parti, in termini di buona o difettosa realizzazione, dipende «dalla natura della specie, a cui appartiene l’individuo in questione».[59] Ovviamente le specie viventi sono soggette ad evoluzione naturale, la cui lentezza tuttavia consente di fissare «in un certo periodo storico […] le [loro] caratteristiche generali».[60] In tal modo, grazie a tale “fermo immagine”, è possibile la formulazione di un enunciato di storia naturale «che afferma che gli S sono F», per cui «se un certo individuo S (qui e ora, oppure là e allora) non è F, allora non è come dovrebbe essere: è debole, malato o ha comunque un difetto».[61] Così, per esempio, «supponiamo di voler valutare le radici di una quercia in particolare, e diciamo che ha delle buone radici, perché sono resistenti e profonde come devono essere le radici di una quercia. Se fossero state esili e superficiali sarebbero state cattive radici, ma così sono buone. Le querce devono stare erette perché, diversamente dai rampicanti, non potrebbero vivere altrimenti, e sono alberi alti e pesanti. Le querce hanno bisogno di radici profonde e resistenti, altrimenti hanno qualcosa che non va: è così che possiamo derivare la proposizione normativa».[62]
Ora, è difficilmente contestabile che gli uomini non siano ovviamente querce o qualsivoglia altra pianta o animale, ma ciò non muta essenzialmente, secondo la Foot, la struttura logico-ontologica del giudizio concernente la bontà o il difetto della realizzazione individuale umana, poiché semplicemente la adegua alle nostre caratteristiche specie-specifiche. Le facoltà razionali che caratterizzano la specie umana nell’animalità e socialità che le sono proprie, consentono agli uomini di sottoporre le loro possibili linee di condotta all’esame delle ragioni che le motivano, permettendo loro di interrogarsi sulla natura degli scopi e dei mezzi posti in opera in una dimensione riflessiva cosciente e non più meramente istintuale.[63] La maggior o minor moralità di un comportamento dipendono quindi dal grado maggiore o minore di attuazione che grazie ad esso ottengono le potenzialità costitutive della specie. Si consideri a tal proposito, esemplifica la Foot, quali siano la natura e le origini delle motivazioni che si possono ragionevolmente addurre per agire in un caso come quello che segue. «N ha un brutto raffreddore con febbre, ma sfortunatamente deve depositare un assegno in banca, altrimenti andrà in rosso».[64] Ora, stando così le cose, «N ha ragioni per uscire e ragioni per stare a casa»; poste queste circostanze, il suo «dovere» è qui relativo a due considerazioni di diverso tipo, entrambe tali da giustificare comportamenti opposti. Ipotizziamo tuttavia di aggiungere all’esempio, continua la Foot, «il fatto che N scopre di avere la febbre a trentanove: sicuramente ha l’influenza, e se esce rischia di ammalarsi più seriamente. In una situazione simile l’unica cosa razionale da fare è rimanere in casa. Se ci saranno inconvenienti a causa del suo conto in rosso, pazienza: N dovrebbe stare in casa, questa è la cosa razionale da fare. Potrà dire che è un male per lui andare in rosso, ma questo significa solo che è una situazione spiacevole, deplorabile. Se resta a casa, N agisce come dovrebbe (il “si dovrebbe” definitivo), e ciò implica che, così facendo, non agisce male. Agirebbe male invece – cioè in modo imprudente – se uscisse di casa nelle circostanze che abbiamo descritto ora, anche se si potrebbero sempre aggiungere altri elementi che la renderebbero la cosa giusta da fare, ad esempio si potrebbe supporre che se N si alza dal letto potrà evitare un incidente. In assenza di una nuova condizione di questo tipo, nel nostro esempio c’è un «si dovrebbe» predominante o definitivo che si impone sugli altri».[65]
È piuttosto evidente che la intelligente impostazione footiana del problema etico, correttamente oggettivistica e non disgiunta dalla naturale determinatezza dell’uomo, evidenzia in esempi siffatti la sua affatto lacunosa considerazione della logica che regge il funzionamento e la riproduzione della totalità sociale storicamente determinata entro la quale il «si dovrebbe, tutto considerato», nelle sue espressioni più rilevanti, si definisce. Solo innalzandosi ad una considerazione ontologico-sociale del movimento del tutto, con i suoi conflitti e le sue estraniazioni, si può infatti giudicare la natura di scelte che, apparentemente razionali secondo quella data dinamica e in quel dato contesto, non lo sono affatto rispetto ad alternative maggiormente umanizzanti che la riflessione autocosciente esercitata nel concreto della dialettica storica permette di prefigurare. Deve certamente essere ascritto a merito della Foot il fatto che ella faccia opportunamente riferimento all’intervento sempre possibile di ulteriori circostanze, ma tale opportuna avvertenza resta largamente inespressiva sul piano assiologico se ci si limita a qualche immediata costatazione empirica senza connettersi ad un più comprensivo inquadramento ontologico-storico.

György Lukács, Ontologia dell’essere sociale

G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale

Tali difetti dell’elaborazione teorica della pensatrice inglese si riverberano, almeno in parte, anche sul modo in cui la Foot affronta il problema del rapporto tra agire virtuoso – ossia conforme alle più alte potenzialità della specie – e felicità. Ella si avvede giustamente, in effetti, della «vera tragedia che la scelta morale può comportare», rifiutando quindi un’immediata identificazione «fra felicità e vita virtuosa», citando il caso «di alcuni uomini coraggiosi che si opposero al nazismo», per i quali la resa alle presenti circostanze fattuali e i benefici conseguenti non si sarebbero in alcun modo potuti considerare felicità ma un’abdicazione alle migliori possibilità del loro essere.[66] Ciò nondimeno, in assenza di una teoria complessiva dell’estraniazione, determinata mediante un globale quadro di riferimento ontologico-sociale, restano del tutto indefinite, nel pensiero della Foot, le condizioni generali che consentirebbero alle tendenze mediamente operanti nella vita della totalità sociale di agire proprio al fine di permettere, nei limiti del possibile, lo sviluppo umanamente ricco e armonioso della personalità dei singoli e la profonda ed equilibrata attuazione della tendenza eudemonistica che ne conseguirebbe; come scrive magistralmente György Lukács, infatti, il potenziamento storico-sociale di singole capacità «non produce obbligatoriamente quello della personalità umana. […] l’antitesi di fondo tra sviluppo delle capacità e sviluppo della personalità sta alla base [degli] svariati modi di presentarsi [dei fenomeni di estraniazione]», costituendone proprio il loro aspetto comune e, dunque, l’ostacolo principale da abbattere nella concreta realizzazione di una quotidianità realmente e autenticamente democratizzata.[67]

Terry Eagleton, Il senso della vita. Una introduzione filosofica

Terry Eagleton, Il senso della vita. Una introduzione filosofica

La decisiva influenza marx-engelsiana presente in queste considerazioni lukácsiane, agisce fortemente, assieme ad una matrice aristotelica e ad una cristiana, anche sul modo in cui Terry Eagleton tratta lo stesso problema affrontato dalla Foot, concernente il nesso tra bene e felicità. Essendo per natura animali sociali, scrive lo studioso britannico, non possiamo aspirare ad un’attuazione il più possibile compiuta delle nostre più significative facoltà specie-specifiche se non per il tramite delle forme di relazione storicamente determinate che caratterizzano la società nella quale viviamo. Depurato da ogni immediata passionalità erotica o sentimentale e assunto nella sua valenza di legame interumano auspicabile, l’amore (agape) sembra essere per Eagleton la modalità di interazione sociale più consona alla nostra ricerca di un compimento individuale: esso, infatti, «significa creare per l’altro lo spazio in cui egli possa svilupparsi, mentre contemporaneamente l’altro fa lo stesso per noi», evitando quindi ogni forma di reciproca estraniazione che aliena, al contempo, ciascuno dalle sue migliori possibilità d’essere.[68] In tal senso, amore, felicità e bene umano possono armonizzarsi senza alcuna contraddizione: «Se la felicità è vista in termini aristotelici come un libero sviluppo delle proprie facoltà, e se l’amore è quel tipo di reciprocità che fa sì che ciò accada nel modo migliore, non esiste alcun conflitto ultimo tra loro. E nemmeno vi è un conflitto fra felicità e moralità, dato che trattare gli altri in maniera giusta e compassionevole è, in una visione generale delle cose, una delle condizioni per il proprio sviluppo».[69]
Il modo, poi, nel quale l’auspicabilità di una tale condizione – il cui razionale concetto è il portato dell’interagire riflessivo concretamente situato delle comuni facoltà cognitive ed emozionali della specie, a sua volta sottoponibile alla prova della riflessione filosofica, etica e politica – si possa tradurre in una quotidianità realmente funzionante e tendenzialmente umanizzata, spetta alle nostre capacità conoscitive, progettuali, pratiche e poietiche determinare e attuare, affinché la prefigurazione marx-engelsiana di una società di libere individualità non resti un nobile desiderio ma divenga realtà esperita e goduta, tanto quanto può consentirlo la nostra costitutiva finitezza materiale-naturale.

Claudio Lucchini
Note

[1] Cfr. David Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore [2014], Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014. Cfr. anche, a titolo di esempio, su tali dilemmi morali, l’analisi di Marc D. Hauser contenuta nel suo Menti morali. Le origini naturali del bene e del male [2006], il Saggiatore, Milano, 2007, pp. 118-125.

[2] D. Edmonds, ivi, p. 8.

[3] Ivi, p. 39.

[4] Ivi, p. 90.

[5] Ivi, p. 91.

[6] Cfr. ivi, pp. 134-135.

[7] Ivi, p. 136.

[8] Cfr. ivi, p. 137.

[9] Ivi, p. 136.

[10] Cfr. M. D. Hauser, Menti morali, cit., per esempio, p. 118.

[11] Cfr. ivi, pp. 121 – 125. Si vedano altresì, nel testo ripetutamente menzionato di Edmonds, le pp. 28 -31 o la p. 173.

[12] M. D. Hauser, ivi, p. 121.

[13] Cfr. ivi, pp. 123-125. Cfr., poi, in D. Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso?, cit., le pagine 172 – 173, particolarmente chiare e pregnanti.

[14] D. Edmonds, ivi, pp. 31-32.

[15] Peter Singer, Moralità, ragione, diritti degli animali, in Frans de Waal, Primati e filosofi [2006], Garzanti, Milano, 2008, p. 180.

[16] Ivi, p. 181. Cfr. anche dello stesso Singer i saggi contenuti in Scritti su una vita etica [2000], Net, Milano, 2004, per esempio le pp. 288-297.

[17] Cfr. Peter Singer, Salvare una vita si può [2009], il Saggiatore, Milano, 2009.

[18] Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati, Einaudi, Torino, 2014, p. 112.

[19] Ibidem.

[20] P. Singer, Salvare una vita si può, cit., p. 55.

[21] Cfr. ivi, pp. 67-68.

[22] Ivi, pp. 59-60.

[23] Cfr. Simon Baron-Cohen, La scienza del male [2011], Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, pp. 7-11 e pp. 13-17.

[24] Ivi, p. 14.

[25] Ivi, p. 5.

[26] Cfr. Michael S. Gazzaniga, La mente etica [2005], Codice edizioni, Torino, 2006, pp. 132-133 e 143-148.

[27] Cfr. ivi, p. 131.

[28] Ivi, p. 131.

[29] Ivi, pp. 131-132.

[30] Frans de Waal, La scimmia che siamo [2005], Garzanti, Milano, 2006, p. 11.

[31] Eugenio Lecaldano, Simpatia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013, p. 51.

[32] Cfr. ivi, pp. 48-49 e 168-169.

[33] Ivi, pp. 168-169.

[34] Cfr. D. Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso?, cit., pp. 80-81.

[35] Cfr. ivi, pp. 172-173.

[36] Cfr., su tali questioni, dello stesso Chomsky, Capire il potere [2002], Net, Milano, 2007, pp. 440-445.

[37] Cfr. Noam Chomsky, La scienza del linguaggio. Interviste con James McGilvray [2012], il Saggiatore, Milano, 2015, pp.155 e 382.

[38] Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione dal greco di Ezio Savino, Garzanti, Milano, 1992, pp. 377-378 (V, 105).

[39] John Stuart Mill, Saggio sulla libertà [1858], Net, Milano, 2002, p. 13. Quanto tali posizioni di Mill siano gravate di stolidi pregiudizi può essere ben evidenziato da un confronto con il libro di Amartya Sen – pur carente sul piano dell’analisi delle dinamiche estranianti dei diversi modi di produzione –, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente [1999, 2003], Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2010.

[40] Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, pp. 15-16.

[41] Cfr., tra gli innumerevoli testi di Zygmunt Bauman dedicati allo studio di tali complessi problematici, l’importante libro-intervista curato da Keith Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman [2001], Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

[42] Günther Anders, Uomo senza mondo [1984], in “Millepiani” n. 16, Mimesis Eterotopia, Milano, 2000, pp. 17-18.

[43] Cfr. Jonathan Haidt, Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione [2012], Codice edizioni, Torino, 2013.

[44] Ivi, pp. 157-158.

[45] Ivi, p. 158.

[46] Ibidem.

[47] Cfr. ivi, p. 158.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem.

[50] Cfr. ivi, pp. 158-162 e 213-221.

[51] Si vedano, a tal proposito, le considerazioni in parte simili del pensatore marxista Terry Eagleton, seppur argomentate con diversa e più alta consapevolezza filosofica, contenute nel suo Perché Marx aveva ragione [2011], Armando Editore, Roma, 2013, pp. 80-83.

[52] Cfr., su tali questioni, Ines Adornetti, Buone idee per la mente. I fondamenti cognitivi ed evolutivi della cultura, CUEC Editrice, Cagliari, 2011, pp. 42-48.

[53] Cfr. J. Haidt, Menti tribali, cit., p. 400.

[54] Luca Fonnesu, Presentazione a Philippa Foot, La natura del bene [2001], il Mulino, Bologna, 2007, p. IX.

[55] Cfr. ivi, pp. 14-15.

[56] Ivi, p. 37.

[57] Ivi, p. 39.

[58] Cfr. ivi, p. 39.

[59] Cfr. ivi, p. 39.

[60] Cfr. ivi, p. 41.

[61] Cfr. ivi, pp. 41 – 42.

[62] Ivi, p. 60.

[63] Cfr. ivi, pp. 67 -72.

[64] Ivi, p. 72.

[65] Ivi, pp. 73-74.

[66] Cfr. ivi, pp. 112-115.

[67] Cfr. György Lukács, Ontologia dell’essere sociale [pubblicata postuma nel 1976], vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 562-563.

[68] Cfr. Terry Eagleton, Il senso della vita. Una introduzione filosofica [2007], Ponte alle Grazie, Milano, 2011, pp. 130-133.

[69] Cfr. ivi, p. 133.


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Claudio Lucchini, Il cervello e il bene

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Claudio Lucchini, Scritti su democrazia, comunismo e materialismo.

Claudio Lucchini, Il Bene come possibile processo concreto. Natura umana e ontologia sociale.


Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

 


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Michel Foucault

 

 

Introduzione

Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.

L’ Enunciato

L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.

Gli interdetti

Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).

In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)

La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).

La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.

Un’etica possibile

Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).

Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.

La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.

Chi ha paura della totalità?

Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.