Alessandro Monchietto, Andrea Bulgarelli – RIVOLUZIONE NEOLIBERALE. PER UNA CRITICA CONSAPEVOLE

Tratti generali ed originali della prassi neoliberale
ed esempio tedesco

El Lisickij, Senza titolo (1919-1920)

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificaton. 37, luglio/agosto 2014

Tra le tante verità con cui la crisi ci costringe a fare i conti, una delle principali riguarda la forza delle idee, o meglio dell’ideologia.

La capacità di resistenza dell’ideologia dominante, la tenuta del “pensiero unico” si sono dimostrate tali che, persino entro la peggiore crisi del capitalismo dagli anni Trenta a oggi, tutti i luoghi comuni caratteristici di quella ideologia hanno continuato ad operare, fuori tempo massimo. La “razionalità dei mercati”, lo Stato “che deve dimagrire”, la “necessità” delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come “toccasana per la crescita”, la “deregolamentazione del mercato del lavoro” come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato.

Di slogan in slogan, di frase fatta in frase fatta, il distacco dalla realtà è aumentato sino a diventare patologico. Sino a far suggerire, come terapia per i nostri problemi economici, un potenziamento delle stesse misure che li avevano creati.

Il medico che ha peggiorato le condizioni del paziente incolpa il paziente dell’inefficacia della cura, e gli prescrive una dose maggiore. Mentre è evidente che il problema consiste in quelle misure e non in una loro maggiore o minore implementazione. Ovviamente, la soluzione sarebbe cambiare terapia. Ma per far questo ci si dovrebbe affrancare dal ricettario liberista.

L’attenzione rivolta alla sola ideologia del laissez faire ha distolto l’ordinaria critica antisistema dall’esame delle pratiche e dei dispositivi incoraggiati, o esercitati direttamente, dai governi. È stata la dimensione strategica delle politiche neoliberiste ad essere paradossalmente trascurata nella critica antiliberista standard, nella misura in cui tale dimensione strategica è inclusa in una “razionalità globale” che è passata inosservata.

Se infatti il liberismo classico faceva riferimento alla necessità per la politica di praticare nient’altro che un’astensione volta a favorire la spontaneità intrinseca ai processi economici, il neoliberalismo chiede alla politica (all’intera società) non tanto di star ferma, quanto di costruire artificialmente e attivamente le condizioni di possibilità affinché la dinamica economica possa fare il suo «corso naturale».

Non ci troviamo di fronte ad una semplice ritirata dello Stato, ma ad un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi. Il politico pertanto, lungi dallo sparire sopraffatto dall’economico, diventa la posta in palio, il terreno di gioco della razionalità neoliberale.

 

Il segreto dell’arte del potere –diceva Bentham– è fare in modo che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La strategia neoliberista – fedele a tale principio – consiste nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, nell’organizzare tramite privatizzazioni, messa in concorrenza dei servizi pubblici, “mercatizzazione” di scuole, ospedali, ecc. l’“obbligo di scegliere”, affinché gli individui accettino la situazione di mercato come “realtà”, come unica “regola del gioco”.

La “libertà di scelta” si identifica con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse.

Ogni soggetto è portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell’abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono tutti aspetti che hanno lentamente eroso le logiche della solidarietà.

Ciò che è stata chiamata “deregolamentazione”, un termine equivoco che potrebbe far pensare che il capitalismo non abbia più alcuna regolamentazione, non è in realtà altro che un nuovo ordinamento delle attività economiche, dei rapporti sociali e dei comportamenti. L’idea centrale di questo orientamento è che la libertà concessa agli attori privati che beneficiano di una maggiore conoscenza dello stato degli affari e del proprio interesse, sia sempre più efficace dell’intervento diretto e della regolazione pubblica.

Gli Stati hanno abbondantemente contribuito alla creazione di un ordine che li ha sottomessi a nuovi vincoli, che li ha portati a comprimere salari e spesa pubblica, a ridurre i “diritti acquisiti” giudicati troppo costosi, a indebolire i meccanismi di solidarietà, eccetera.

Il calo delle imposte sui redditi più elevati e sulle imprese è presentato come un modo di incentivare l’arricchimento e l’investimento. Riuscendo a far dimenticare che il calo dei prelievi obbligatori per gli uni aveva necessariamente una contropartita per gli altri, i governi neoliberisti hanno strumentalizzato i “buchi” scavati nei budget per denunciare il costo “esorbitante” e “insostenibile” della previdenza sociale e dei servizi pubblici. Il bilancio statale diviene così uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Questo vincolo è stato impiegato come disciplina sociale e politica per scoraggiare, a causa dell’inflessibilità delle regole stabilite, qualsiasi politica che cercasse di dare la priorità all’occupazione, che volesse soddisfare le rivendicazioni salariali o rilanciare l’economia e la spesa pubblica.

Il meccanismo è semplice: i governi abbassano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono così possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori dei titoli di debito.

 

Un gran numero di ricerche, rapporti, saggi, ecc. –finanziati da think tank di stampo liberal-conservatore– cercarono nel corso degli anni di effettuare un bilancio dei costi e dei vantaggi dello Stato, per concludere con un verdetto inappellabile: le indennità di disoccupazione e i redditi minimi sono responsabili della disoccupazione, il welfare sanitario approfondisce il deficit e provoca l’inflazione dei costi, la gratuità degli studi ne intacca la serietà e porta al nomadismo degli studenti, le politiche di redistribuzione del reddito non riducono le diseguaglianze ma scoraggiano gli sforzi, le politiche urbane non hanno messo fine alla segregazione ma hanno appesantito la fiscalità locale.

Si tratta di porre in tutti i campi il quesito dell’utilità dell’interferenza statale nell’ordine del mercato, e di dimostrare che, nella gran parte dei casi, le soluzioni apportate dallo Stato creano più problemi di quanti non ne risolvono.

Ma la questione del costo dello stato sociale non si limita affatto alla sola dimensione contabile. Secondo molti polemisti, è sul terreno morale che l’azione pubblica può avere gli effetti peggiori. Lo Stato previdenziale ha deresponsabilizzato gli individui e li ha dissuasi dal cercare lavoro, dal terminare gli studi, dal prendersi cura dei propri figli, dal premunirsi contro le malattie dovute a pratiche nocive. Il rimedio consiste dunque nel mettere in moto meccanismi del calcolo economico individuale in tutti i campi e a tutti i livelli, ed il bilancio statale diviene uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Il fatto è che l’intervento dello Stato previdenziale si basa su una concezione dell’individuo come “creazione dell’ambiente [ed esso non deve di conseguenza] essere ritenut[o] responsabile per il [suo] comportamento”(1). Si deve rovesciare questa rappresentazione e considerare l’individuo come pienamente responsabile.

Se l’individuo è il solo responsabile della propria sorte, la società non gli deve nulla. La vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé, una regolazione dei propri comportamenti che combini ascetismo e flessibilità.

La parola d’ordine della società del rischio è “autoregolazione”. Si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del “costo” che rappresentano.

La vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L’obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l’esclusione sono considerati conseguenze di “calcoli sbagliati”.

Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi.

Da qui il lavoro di “pedagogia” che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un “capitale umano” da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad “attivare” gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro.

La caratteristica del neoliberismo è proprio quella di pensare il modello della razionalità economica come solo parametro possibile con cui interpretare tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Gary Becker –Chicago boy divenuto Nobel per l’economia nel 1992– fu premiato precisamente per aver esteso l’analisi della microeconomia anche a quegli ambiti di comportamento che non rientrano nella logica di mercato (al non-economico potremmo dire).

Costui scrive: «Ogni condotta che accetta la realtà, è soggetta alla razionalità economica»2. Ogni condotta che accetta la realtà vuol dire ogni condotta che non sia follia: in altri termini, se non siete matti, la logica dei vostri atti rientra –e deve rientrare– nella razionalità economica.

 

La strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell’orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. Le misure di “responsabilizzazione” dei soggetti non sono tuttavia state esclusivo appannaggio dei governi conservatori o dei partigiani della “libertà dei mercati” alla Friedman-Becker. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come prova la famigerata Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.

Per fare un esempio, la politica occupazionale portata avanti dall’allora ministro socialista Peter Hartz stabilì che l’aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell’accettare i lavori proposti. Secondo tale prospettiva la disoccupazione non sarebbe altro che un’inclinazione dell’agente economico all’ozio quando quest’ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque “volontaria”.

L’indennizzo dei disoccupati non farebbe altro che creare “trappole del welfare”. La soluzione proposta non fu tuttavia sopprimere qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l’aiuto conducesse ad una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego.

Tali politiche mirano ad “attivare” il mercato del lavoro (penalizzando il lavoratore disoccupato) affinché costui sia incoraggiato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.

 

L’individuo “in cerca di impiego” deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising che si prende carico di se stesso, ed i diritti alla previdenza divengono sempre più subordinati a dispositivi d’incentivazione e di penalizzazione (3).

Non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica. La lotta alle disuguaglianze, che era centrale nel vecchio progetto socialdemocratico, è stata rimpiazzata dalla “lotta alla povertà”, secondo un’ideologia dell’“equità” e della “responsabilità individuale” teorizzata ad esempio da alcuni intellettuali della “nuova sinistra” europea capeggiati dal blairiano Anthony Giddens.

Il programma politico neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan all’inizio si presentò come un insieme di risposte ad una situazione giudicata “ingestibile”. Questa dimensione è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy (4), un documento chiave che testimonia la coscienza dell’“ingovernabilità” delle democrazie.

La caratteristica prima del blairismo fu la ripresa dell’eredità thatcheriana, considerata non come una politica da invertire, ma come un fatto acquisito.

La missione che si attribuì il New labour fu portare risposte di centro-sinistra nel nuovo quadro imposto dal neoliberismo, considerato come un dato irreversibile. La parola chiave di tale linea politica era l’adattamento degli individui alla nuova realtà, piuttosto che la loro protezione contro gli azzardi di un capitalismo mondializzato e finanziarizzato. La politica della sinistra moderna dovrebbe aiutare gli individui ad aiutarsi da sé, ovvero a “cavarsela” in una competizione generale che non è mai messa in discussione in quanto tale.

 

Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa. È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate, manifestando in questo modo la loro estrema elasticità. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli ultimi anni. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista siano i soli efficaci, se non i soli praticabili (e in ogni caso gli unici che si possono immaginare), si capisce come risulti impossibile opporsi ai princìpi che ne costituiscono il fondamento, o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono.

Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta.

 

Se le cose stanno così, come si spiega l’assenza di movimenti di protesta significativi? Il motivo dell’assenza di reazione, come recitava un articolo del Financial Times di qualche anno fa, va ricercata nel fatto che «il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro» (5). Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (e a volte più) di prima.

Per decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dalla crescita del debito e della finanza. L’esplosione della finanza e del credito ha infatti svolto una triplice funzione:

1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi;

2) puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva;

3) fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero (6).

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata).

 

Tutte le politiche economiche e sociali hanno integrato come dimensione principale quest’adattamento alla globalizzazione, cercando di aumentare la reattività delle imprese, di diminuire la pressione fiscale sui redditi da capitale e sui gruppi privilegiati, di disciplinare la manodopera, di abbassare il costo del lavoro ed aumentare la produttività.

I dirigenti dei governi e degli organismi internazionali potranno così sostenere che la globalizzazione è “fatale” pur aprendosi continuamente alla creazione di questa presunta fatalità.

Si assiste così ad un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni Settanta la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, l’inflazione, l’alienazione, tutte le “patologie sociali” erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni Ottanta sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato.

Al contempo attori e oggetti della concorrenza mondiale, gli Stati sono sempre più soggetti alla ferrea legge di una dinamica della globalizzazione che in larga parte sfugge al loro controllo. La lotta contro l’inflazione diviene così la priorità delle politiche, mentre il tasso di disoccupazione si trasforma in semplice “variabile di aggiustamento”. Qualunque lotta per la piena occupazione viene perfino sospettata d’essere un fattore passeggero di inflazione.

La teoria friedmaniana del “tasso di disoccupazione naturale” viene largamente accettata dai responsabili politici di ogni colore.

 

Per chiarire la natura originale e rivoluzionaria del neoliberismo è utile analizzare un concreto caso, particolarmente significativo sia per la sua “purezza” paradigmatica che per la sua attualità: l’economia sociale di mercato. Questa espressione ricorre frequentemente nel dibattito politico odierno, di solito senza nessuna contestualizzazione storica e ideologica.

Spesso infatti la si utilizza in senso generico, per designare un ipotetico modello sociale a metà strada tra laissez-faire liberista e interventismo statalistico. Insomma, una “buona via di mezzo” che salvaguarda sia i meccanismi virtuosi del mercato sia le garanzie sociali del tradizionale Welfare State. Da questo punto di vista schierarsi a favore dell’economia sociale di mercato sembrerebbe quasi una questione di buon senso, cui sarebbero estranei solo i fondamentalisti del liberismo più anarchico e quelli della pianificazione spinta.

Ecco allora che una formula apparentemente vaga e “neutra” finisce addirittura nel Trattato di Lisbona, secondo il quale «lo sviluppo sostenibile dell’Europa» deve essere «basato (…) su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva» (7). Dal canto loro numerosi politici di tutti gli schieramenti hanno espresso la loro preferenza per questo modello; ad esempio Mario Monti è noto per esserne un convinto sostenitore, come ha avuto modo di ribadire in più occasioni (8).

 

In realtà le cose non sono così semplici. «Economia sociale di mercato» è un’espressione tecnica molto precisa, che designa le politiche neoliberiste varate in Germania a partire dall’immediato dopoguerra. A renderla celebre è infatti Ludwig Erhart, ministro dell’economia tedesco dal 1949 al 1963 nonché cancelliere dal 1960 al 1963 ed artefice, vero o presunto, del “miracolo economico tedesco” nella Repubblica federale di questi anni. Tuttavia, come vedremo, essa non è comparsa magicamente dal nulla, ma nasce nel contesto di una specifica corrente di pensiero, il cosiddetto ordoliberalismo.

Sorto intorno alla rivista Ordo nella Germania degli anni Trenta, l’ordoliberalismo è spesso usato come sinonimo di “Scuola di Friburgo”, la fucina del pensiero neoliberale tedesco. Sono inclusi in questa tendenza culturale economisti e filosofi quali Walter Eucken, Franz Böhm, Leonhard Miksch, Hans Großmann-Doerth e Wilhelm Röpke. Röpke e Eucken furono anche consiglieri personali di Ludwig Erhart, il quale rimase profondamente influenzato dal loro pensiero, tanto da essere a volte annoverato lui stesso tra gli ordoliberali.

Dunque è possibile parlare di una dottrina neoliberista tedesca, sebbene il neoliberismo sia tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago e a quella di Vienna. Anzi, secondo il Michel Foucault delle splendide lezioni poi confluite nel volume Nascita della biopolitica (vedi bibliografia), l’ordoliberalismo esprime le caratteristiche peculiari del neoliberalismo ancor meglio del suo corrispettivo anglosassone, che per ragioni storiche conserva molti tratti del liberalismo classico. In ogni caso le due correnti si sono influenzate a vicenda, e si attribuisce a Friedrich von Hayek e a Ludwig von Mises il merito di avere agito da “ponte”. La teoria ordoliberale ha avuto in impatto decisivo sulle politiche economiche del dopoguerra, cedendo però il passo di fronte al fascino dello Stato “keynesiano” negli anni Sessanta. È solo con la svolta degli anni Ottanta che il neoliberalismo tedesco ha recuperato il suo antico prestigio, tanto da far parlare alcuni commentatori di “ombra lunga” dell’ordoliberalismo sulla gestione della crisi dell’eurozona da parte della Germania.

Nonostante la varietà di posizioni espresse dagli ordoliberali, possiamo individuare un nocciolo duro ricorrente, che per comodità sintetizziamo in tre punti:

1) Riduzione di tutti i possibili modelli socio-economici a due paradigmi fondamentali, quello basato sulla libera concorrenza e quello basato sulla pianificazione.

2) Necessità di preservare il regime di libera concorrenza attraverso opportune “politiche di cornice” da parte dello Stato.

3) Centralità della responsabilità individuale e dell’azienda nello sviluppo armonico della società.

Di seguito analizzeremo ognuno di questi tre punti.

La riflessione degli ordoliberali prende le mosse dalla storia recente del loro Paese e dell’Occidente in generale. Pur essendo inflessibili sostenitori del libero mercato quale unico ordinamento economico razionale, i neoliberali tedeschi degli anni Trenta devono prendere atto che la linea liberale non ha riscosso molto successo, soprattutto in Germania. A partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono susseguiti una serie di modelli economici fondati sull’ingerenza sistematica dell’apparato statale nella sfera economica: il “socialismo” di Stato bismarkiano, l’economia centralizzata di guerra nel periodo 1914-1918, la social-democrazia e infine la dittatura nazional-socialista. Come se non bastasse, con il passare del tempo nei Paesi limitrofi alla Germania hanno preso volto due nuovi nemici: il comunismo sovietico e lo Stato assistenziale “keynesiano”.

Secondo gli ordoliberali esiste una costante che accomuna tutte le forme politico-sociali elencate: la pianificazione, ovvero l’intervento dello Stato nell’economia. Gli esiti nefasti di una simile “invasione di campo” sono la fissazione arbitraria dei prezzi, l’inflazione, la sottomissione della libera attività economica ai capricci di un apparato burocratico soffocante, la trasformazione del cittadino in suddito e così via; in una parola, la pianificazione uccide la vita materiale e spirituale della società, e per questo si configura come una vera e propria forma di totalitarismo. Si badi bene, questa diagnosi si applica a tutte le forme di pianificazione, tanto allo Stato democratico assistenziale quanto allo Stato-partito nazista o comunista. Le rispettive differenze sono secondarie. La radicalità di questa lettura arriva al paradosso di identificare i provvedimenti di Welfare del piano Beveridge con l’anticamera dell’autoritarismo e perfino del nazismo [9], dal momento che secondo gli ordoliberali il totalitarismo hitleriano è stato un effetto delle precedenti politiche “socialiste” della guerra 1914-1918 e della Repubblica di Weimar [10].

Fin qui, la “statofobia” ordoliberale non sembra scostarsi molto da quella comune a tutta la tradizione liberale. In realtà i dottrinari tedeschi giungono a conclusioni originali.

Innanzitutto sganciano la categoria di libero mercato da quella di capitalismo. Il libero mercato di per sé coincide con i meccanismi della concorrenza e non con un particolare tipo di società. Ispirandosi al pensiero di Max Weber gli ordoliberali sottolineano l’influenza determinante dell’“ambiente” culturale, politico, sociale sui meccanismi economici. Se l’“ambiente” non è adeguato, i meccanismi del libero mercato finiscono per essere distorti o neutralizzati. Questo non vale solo per per il “totalitarismo” della pianificazione, ma perfino per il “capitalismo”, che nella particolare accezione ordoliberale non è il marxiano “modo di produzione capitalistico”, ma solo una società di mercato degenerata. Il «capitalismo non è altro che quella forma guasta e arrugginita che l’economia di mercato ha assunto nella storia economica degli ultimi cent’anni» [11]. I suoi tratti fondamentali sono la formazione di monopoli privati in stretta alleanza con la burocrazia statale, la standardizzazione del consumo e della produzione, la “massificazione”, l’assorbimento del libero individuo in gigantesche compagini anonime, tutte caratteristiche che non a caso richiamano le società pianificate. Per inciso un simile “anti-capitalismo” neoliberista non è privo di importanti conseguenze ideologiche.

La degenerazione della società di mercato non va però attribuita ai meccanismi economici della libera concorrenza, che di per sé sono oggettivi, neutrali e quindi privi di contraddizioni di qualsiasi tipo. La colpa va attribuita piuttosto alla mancanza di adeguate politiche che intervengano sul contesto sociale in cui il libero mercato è incastonato.

Ecco allora in cosa risiede la peculiarità dell’ordoliberalismo, ed in generale del neoliberalismo, rispetto al liberalismo classico: la presa di coscienza che, senza un intervento attivo dello Stato, la logica della concorrenza e del mercato non può plasmare la società a propria immagine e somiglianza. L’efficacia del semplice laissez-faire è stata smentita dalla storia recente dell’Europa e riproporlo sarebbe una ingenuità. Questo perché le leggi della concorrenza non sono un “dato di fatto” che basterebbe assecondare, bensì un principio formale “ideale” che bisogna sforzarsi di raggiungere, sebbene non sia possibile realizzarlo nella sua purezza. In che modo?

 

La nozione di “politica di cornice” è una diretta conseguenza del rapporto che si instaura tra economia e “cornice” sociale. Infatti è proprio attraverso questo concetto che esso intende superare la contraddizione tra “statofobia” e consapevolezza che senza l’apporto attivo dello Stato ogni progetto liberale è destinato a fallire. Ecco allora che lo Stato liberale non dovrà adottare politiche qualsiasi, ma solo quelle che intervengono sul “quadro” della società senza alterare i meccanismi della concorrenza, che sono il vero fulcro del libero mercato, molto più dello scambio mercantile.

Quale è la differenza tra un intervento “buono” (di cornice) e uno “cattivo” (di pianificazione economica)? Come spiega Hayek [12] (ancora una volta in completa sintonia con i neoliberali tedeschi), un piano economico ha una finalità, ad esempio la potenza nazionale, il soddisfacimento di determinati bisogni ritenuti essenziali, eccetera; al contrario una politica liberale si limiterà a definire un quadro puramente formale, all’interno del quale gli attori della competizione economica possono muoversi liberamente, decidendo in autonomia quale priorità vogliono porsi o quali bisogni vogliono soddisfare.

Quando auspicano un simile ordinamento sociale, gli ordoliberali si situano nella tradizione tedesca del Rechtsstaat, che potremmo tradurre con “Stato di diritto”, in contrapposizione al Polizeistaat, lo “Stato di polizia”. In senso stretto lo Stato di diritto è quell’ordinamento istituzionale che prevede la separazione tra intervento legislativo e intervento amministrativo, dove cioè esiste una differenza tra le leggi, che sono universalmente valide, e le decisioni particolari della potenza pubblica, che invece sono legittime solo se si inscrivono nel quadro formale delle leggi. Gli ordoliberali si propongono di applicare il concetto di Rechtsstaat all’economia, stabilendo che gli interventi statali nell’economia potranno consistere solo nell’introduzione di princìpi formali. In una simile visione la dimensione giuridica assume un ruolo fondamentale e infatti Röpke scrive che «è opportuno fare dei tribunali (…) gli organi dell’economia» [13].

Gli interventi statali quindi dovranno necessariamente prendere la forma di leggi e non dovranno porsi altri fini se non l’adeguamento del quadro sociale al principio della concorrenza, che a sua volta è un principio formale e non un contenuto. Concretamente questi interventi di cornice alternano obiettivi cari alla tradizione liberale classica (ad esempio la stabilità monetaria) e misure che da allora sono diventate il “cavallo di battaglia” del neoliberalismo tedesco, in particolare la lotta ai monopoli e ai cartelli, ed in generale la regolazione della concorrenza. Un altro esempio molto importante, la previdenza sociale, sarà trattato nel prossimo punto.

Il taglio giuridico adottato dall’ordoliberalismo rischia di creare due malintesi. Il primo porterebbe a pensare che il “Rechtsstaat economico” sia sostanzialmente uno Stato che “interviene poco” in contrapposizione ad uno Stato che “interviene troppo”. In realtà la differenza tra ordinamento neoliberale e pianificazione è di carattere qualitativo e non quantitativo. Anzi, a conti fatti, lo Stato liberale potrebbe rivelarsi perfino più interventista di quello “totalitario”. Questo perché «più la legge lascerà gli individui liberi di comportarsi come vogliono (…) più, nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno (…) e più aumenteranno le occasioni di conflitto. (…) Di conseguenza, quanto più i soggetti economici saranno liberi (…) tanto più si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici» [14]. Man mano che la logica concorrenziale si estende a tutti gli ambiti della società, lo Stato dovrà aumentare il suo intervento regolativo.

In secondo luogo non bisogna pensare che il progetto ordoliberale sia “neutro”, puramente formale. Al contrario esso punta a stabilire un preciso tipo di società, che trova nella centralità dell’individuo e nell’impresa la sua ragione d’essere.

 

In accordo con la tradizione liberale classica, l’ordoliberalismo individua nell’autonomia dell’individuo la sorgente e la meta di ogni politica responsabile ed avversa ogni forma di assistenzialismo proprio in quanto sostituirebbe la sua responsabilità con la mano di uno Stato-provvidenza. L’argomento è già stato affrontato esaustivamente nei paragrafi 7 e 8, e qui si vuole solo sottolineare in che modo si inserisce nel progetto complessivo del neoliberalismo tedesco.

In Germania la previdenza sociale è un tema caldo già negli anni Cinquanta, quando il notevole livello di benessere raggiunto fa domandare a molti se non sia possibile costruire un sistema di protezioni esteso a tutti i cittadini. Gli ordoliberali, con in testa Ludwig Erhard [15] (allora ministro dell’economia), si opposero fermamente a questa ipotesi, ammettendo però contemporaneamente che un certo livello di protezione era necessario. La loro posizione è sintetizzata nella formula di “politica sociale individuale”.

Se si parte dal presupposto che ogni cittadino è chiamato ad essere un imprenditore, anzi una vera e propria azienda, allora è chiaro che lo Stato non può sostituirsi al cittadino-impresa nella gestione della sua vita e dei relativi rischi (infortuni, malattia, vecchiaia…). Tuttavia non si può ignorare che l’attività economica comporta una serie di incognite (prime tra tutte il licenziamento o il fallimento) verso le quali anche l’individuo più lungimirante potrebbe non essere tutelato. Il timore verso queste incognite minaccia di scoraggiare i cittadini comuni, non dotati di capitali o risorse eccezionali, a partecipare al gioco economico, a essere loro stessi “aziende” sul mercato; al limite il sistema della libera concorrenza potrebbe perfino incepparsi per mancanza di partecipanti. Quindi lo Stato è chiamato a soccorrere l’individuo-azienda, non per garantire il suo benessere, compito questo che non gli spetta, ma unicamente per spingerlo a rientrare nell’arena della concorrenza il prima possibile. In altre parole il fattore “sociale” è rigorosamente subordinato ad obiettivi economici: siamo sempre nell’ambito della “politica di cornice”.

Al contrario delle forme più unilaterali di liberalismo, i pensatori della Scuola di Friburgo si sono sforzati di valorizzare la dimensione comunitaria della natura umana, ritenendola compatibile con la loro visione generale della società. Gli ordoliberali attaccano l’atomizzazione egoistica come sintomo del “capitalismo” (ovvero della società di mercato degenerata) ed auspicano una società organica, dove lo spazio tra l’individuo e il mercato e lo Stato sia occupato da una serie di corpi intermedi: la famiglia, il quartiere, la regione e, soprattutto, l’azienda. Infatti l’individuo trova la sua realizzazione proprio nell’azienda, l’istituzione che meglio di ogni altra condivide i suoi valori e le sue finalità: autonomia, intraprendenza, libera iniziativa.

La società ideale degli ordoliberali è caratterizzata da una imprenditorialità diffusa a tutti i livelli, senza che l’onnipresente principio della concorrenza ne vada ad intaccare l’armonia. Le loro simpatie vanno all’azienda di dimensioni medio-piccole piuttosto che ai “colossi” del capitalismo degenerato, ai centri urbani decentrati piuttosto che alle megalopoli terreno di coltura del socialismo e delle “classi pericolose”, alle autonomie locali invece che alle amministrazioni centralizzate.

Questo progetto è perfettamente compatibile con un umanismo dai lineamenti incerti (Röpke definisce il proprio pensiero «umanesimo economico»), spesso di matrice cattolica (quasi tutti gli ordoliberali erano vicini al cosiddetto cristianesimo democratico del Zentrum e della CDU). La retorica della “dignità della persona”, della società “a misura d’uomo”, dei diritti umani ricorre continuamente, senza che la sua compatibilità con i princìpi economici liberisti venga messa mai in discussione. Viceversa si osserva una curiosa e spesso virulenta ostilità nei confronti del razionalismo, in particolare quello della Rivoluzione francese. L’idea di modificare la realtà in base ai princìpi astratti della ragione (giustizia, uguaglianza, trasparenza dei rapporti sociali) ripugna agli ordoliberali. Anche questa parte del pensiero neoliberale, che è probabilmente la meno interessante, non è però priva di importanti conseguenze ideologiche.

 

Ritornando alla formula «economia sociale di mercato», abbiamo imparato che essa è meno generica di quanto non appaia a prima vista. L’attributo “sociale” non va inteso nella sua accezione comune, che indica politiche tese a favorire il benessere della popolazione, di solito “risarcendola” dei danni che una economia capitalistica inevitabilmente provoca (insicurezza del posto di lavoro) o prevenendoli (erogazione dei servizi fondamentali da parte dello Stato). Invece le politiche “sociali” dei neoliberali tedeschi sono semplicemente interventi sull’ambiente sociale per renderlo compatibile con la massima diffusione del principio di concorrenza.

In secondo luogo il peculiare “anti-capitalismo”(16) ordoliberale ci insegna che la critica di aspetti superficiali (e non sempre attuali) del capitalismo spesso, come la massificazione, il consumismo, i monopoli (oggi diremmo “multinazionali”), la standardizzazione della produzione, di per sé non esclude l’adesione entusiasta al capitalismo stesso. Non a caso la demonizzazione della burocrazia statale, percepita come un leviatano ingombrante e corrotto tout court, lo slogan “piccolo è bello”, il “decentramento” amministrativo, sono tutti cavalli di battaglia delle sinistre ex-socialdemocratiche ed ex-comuniste riciclate in apparati neoliberisti e, a volte, perfino delle loro stampelle elettorali “radicali”.

In conclusione possiamo affermare che il neoliberismo, lungi dall’essere un semplice proseguimento del liberalismo del XIX secolo, presenta tratti originali, che spesso sfuggono anche a chi si pone in un’autentica ottica anti-capitalistica. Per questo è assolutamente necessaria una revisione di tutte le analisi datate e fuorvianti, poiché senza una adeguata “bussola” teorica anche la prassi politica più benintenzionata rischia di porsi falsi problemi, o di scagliarsi contro muri già da tempo abbattuti dallo stesso capitalismo.

Il neoliberalismo ambisce a rappresentare la nuova ragione del mondo, di fronte alla quale qualsiasi critica è, ancor prima che inutile, impensabile, irrazionale. Il progetto neoliberale consiste in una serie di strategie che hanno come scopo la riconfigurazione della società, la sua trasformazione radicale. Se le cose stanno così, è inutile contrapporre ad un astratto laisser-faire liberista un altrettanto astratto interventismo statale, come se il problema fosse di natura prettamente quantitativa (intervenire tanto o intervenire poco?).

Al contrario chi ritiene che il capitalismo non sia l’ultima parola nella storia umana ha il compito di mettere al centro proprio la dimensione strategica, decisionale e, in una parola, politica. Anche una (auspicabile) rivalutazione della pianificazione e delle alternative al sistema della merce non può eludere questo nodo cruciale.

 

Alessandro Monchietto,
Andrea Bulgarelli

 

 

Bibliografia essenziale

Becker Gary, The Economic Approach to Human Behavior, University of Chicago Press, 1976.

Boltanski Luc; Chiapello Eve, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, 1999 (tr. it. di prossima pubblicazione per le edizioni Mimesis).

Crozier Michel; Huntington Samuel; Watanuki Joji, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975.

Dardot Pierre, Laval Christian, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 2013.

Donaggio Enrico (a cura di), C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, Mimesis ed, 2014.

Erhard Ludwig, La politica economica della Germania, Garzanti, 1962.

Friedman Milton e Rose, La tirannia dello status quo, Longanesi, 1984.

Foucault Michel, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005.

Giacché Vladimiro, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Roma 2012.

Giddens Anthony, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, 1999.

Leghissa Giovanni, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis ed., 2012.

Michéa Jean-Claude, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, 2004

Röpke Wilhem, Democrazia ed economia, Il Mulino, 2004.

 

 Note

1) M. Friedman, R. Friedman, La tirannia dello status quo, p. 138.

2) G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, p. 167.

3) Nel 2005 in Francia è stato istituito un sistema di penalizzazione che abbassa l’indennità di disoccupazione del 20% al primo rifiuto di una proposta di impiego, del 50% al secondo e del 100% al terzo.

4) I tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l’«eccesso di democrazia» comparso negli anni 60, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egualitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado «di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure i limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica» [cfr. M. Crozier, S. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy].

5) J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, Financial Times, 8 aprile 2008.

6) «La finanza ha offerto un’ultima via di fuga alle imprese con problemi di redditività: consentendo loro di fare profitti non più con le attività tradizionali, ma attraverso operazioni finanziarie, ossia attraverso attività speculative. […] Se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che negli ultimi decenni la proporzione dei profitti derivanti da attività finanziarie è progressivamente cresciuta, sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi» [V. Giacché, Titanic Europa, pp. 34-35].

7) Trattato di Lisbona, Articolo 2, Paragrafo 3, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

8) Particolarmente significativa è l’intervista per il Sole 24 Ore del 22 Agosto 2008. L’ex-premier osserva lucidamente che «oggi, il richiamo all’economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l’impressione di essere pronunciato con un’ispirazione opposta. Si è un po’ insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si “rivendica”, in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (…), la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica». In queste poche frasi è racchiuso il senso profondo dell’economia sociale di mercato e della sua contrapposizione a qualsiasi assistenzialismo, per quanto moderato. Altro che “terza via” tra liberismo e socialismo!

9) Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp. 157-158. Scrive Hayek, in sintonia con la diagnosi ordoliberale: «Stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine della Germania [nazista, nota mia]» (cit. da Foucault). Beveridge come alter ego di Goering!

10) In realtà oggi l’equazione tra “statolatria” e nazismo appare un pregiudizio. Al proposito possiamo trovare interessanti riflessioni in H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Notevole è la formulazione dello storico Kershaw, che ha parlato di «anarchia feudale» in riferimento all’hitlerismo.

11) W. Röpke, Democrazia ed economia, p. 82.

12) Cfr. Nascita della biopolitica, pp. 145-146.

13) Cit. in Nascita della biopolitica, p. 149.

14) Ivi, pp. 148-149.

15) Cfr. L. Erhard, Previdenza individuale per i rischi sociali, in La politica economica della Germania.

16) È interessante notare come molti neoliberisti possano vantare un discreto curriculum “anti-capitalista”. Ad esempio Hayek fu per un breve periodo membro del movimento fabiano (che nonostante le posizioni moderate era pur sempre di ispirazione marxista).

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate,

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884.

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificatoN. 38, novembre/dicembre 2015

Per oltre un secolo la sinistra si è pensata come lo spazio politico che per eccellenza incarnava l’idea di progresso e gli interessi del popolo. Il matrimonio tra una sinistra rivoluzionaria o riformista e l’ideologia del progresso è durato così a lungo perché si fondava su una particolare interpretazione della storia e del presente. Quali erano i suoi assunti? In un’epoca dominata da mutamenti senza precedenti, da una nuova concezione dell’individuo, del lavoro e della società stessa, il binomio progresso-emancipazione appariva solido e la lotta tra forze della conservazione e forze del progresso strutturava il dibattito politico e culturale. Nella misura in cui i nemici del “progresso” erano interessati non solo a ostacolare questi mutamenti ma anche a mantenere le classi popolari in uno stato di ignoranza e di miseria, l’esistenza di un “partito del progresso e del popolo” sembrava perfettamente legittima. La nostra tesi è che tale equazione, assai discutibile già in partenza, oggi sia totalmente insostenibile, e tra la causa della lotta contro l’oppressione e l’ideologia del progresso si sia scavato un fossato incolmabile, di cui bisogna prendere atto.

In questa occasione non ci interessa dare una definizione di “progresso”. Desideriamo solo offrire qualche spunto di riflessione per rendere la complessità di un concetto contraddittorio e scivoloso. Tuttavia, se dare una definizione “obiettiva” del concetto di progresso è una impresa forse impossibile, molto più fecondo è un esame della sua genesi storica. Ricostruzioni di questo tipo sono di solito appannaggio dei critici dell’ideologia del progresso, dal momento che per i suoi sostenitori l’immagine di un cammino che procede gradatamente dall’oscurità dell’ignoranza e del passato alla luce della ragione è più un dato di fatto che qualcosa da decostruire. Le interpretazioni più diffuse sono sostanzialmente due, anche se spesso si presentano mescolate e con numerose “variazioni sul tema”. La prima pone l’accento sulla tecno-scienza[1], e collega l’ideologia del progresso con la capacità sempre maggiore dell’uomo di manipolare la natura, con un aumento prodigioso della produzione di beni, nonché della soddisfazione (e creazione) di una gamma sempre più vasta di bisogni. In un contesto simile, che corrisponde grossomodo alla rivoluzione industriale, si può comprendere la nascita di una vera e propria fede nel miglioramento ineluttabile delle condizioni di vita dell’umanità, che però negli ultimi decenni si scontra con i limiti oggettivi dell’ecosistema terrestre, rendendola quantomeno discutibile. La seconda si concentra sulla cosiddetta secolarizzazione dell’escatologia cristiana e sulla sua visione della storia, che progredisce secondo un disegno divino dalla caduta del peccato originale alla gloria del Regno di Dio. Una volta perso il suo riferimento trascendente la tradizione escatologica avrebbe dato vita all’utopismo moderno (comunismo in testa) e al suo sogno di un “lieto fine” pre-determinato della storia, nei confronti del quale ogni epoca rappresenterebbe un gradino ascendente. Entrambe le interpretazioni sono a nostro avviso insoddisfacenti. La prima critica una visione meccanica e determinista del progresso industriale, stabilendo però un nesso causale altrettanto meccanico e determinista tra lo sviluppo tecnologico e la capacità dell’umanità di padroneggiarlo e di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Questo tipo di argomentazione spesso sembra accettare, rovesciandolo, proprio lo scenario che desidera negare, ovvero quello di una determinazione della storia ad opera delle forze impersonali della tecnica, di fronte alla quale l’uomo non è che un burattino inerme. Ciò non toglie, ovviamente, che oggi i rischi di una catastrofe ambientale siano reali e non immaginari; non si spiega però quale sia il nesso necessario tra l’ideologia del progresso, che nasce in un contesto storico preciso, e la natura sempre potenzialmente “ecofaga” e distruttiva dell’uomo[2]. Allo stesso modo la seconda non mostra in che modo un’unica dottrina religiosa, quella cristiana, non più “escatologica” di molte altre (da importanti branche del buddismo all’Islam, soprattutto sh’ita, all’ebraismo), abbia portato allo sviluppo dell’ideologia del progresso dopo quasi duemila anni, un arco di tempo così vasto da indebolire qualsiasi ricostruzione di “catene” causali. Senza contare che l’escatologia cristiana prevede non un miglioramento indefinito dello status morale dell’umanità, ma un suo graduale deterioramento, che rende necessario l’intervento divino diretto e il Giudizio finale.

Una terza vulgata ha elaborato una soluzione radicalmente diversa al problema. Ben lungi dall’essere l’inevitabile portato nefasto della tecno-scienza o della teologia cristiana, l’ideologia del progresso affonda le sue radici in un contesto storico ben preciso, quello della borghesia europea del Settecento, la classe che per prima volle emanciparsi dagli “errori” delle precedenti generazioni e soprattutto dai loro pregiudizi. Le tradizioni classica, cristiana e umanistico-repubblicana, per il resto così diverse, condividevano una concezione tragica della storia, dominata dalla consapevolezza della decadenza che attende ogni civiltà e dal prezzo che ogni miglioramento inevitabilmente richiede. «L’idea di progresso non ha mai fatto perno sulla promessa di una società ideale»[3] sostiene Christopher Lasch, che al tema ha dedicato un’importante opera, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica. La sua autentica cifra sarebbe piuttosto “l’aspettativa di un miglioramento indefinito e illimitato”, secondo la quale tutto è incerto, tranne la certezza che il futuro sarà in qualche modo migliore del passato. La fiducia nel futuro rende obsoleta l’enfasi tradizionalmente posta dalla cultura europea (e non solo) sull’autocontrollo, sul senso del limite, sulla dignità della cultura e sull’arte, intese come luoghi privilegiati della riflessione sui problemi ultimi dell’esistenza e non come passatempi o divertimenti. «Il suo fascino originale e la sua duratura credibilità derivano dallo specifico assunto che gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica»[4]. Il capolavoro di Georges Sorel Le illusioni del progresso si concentra proprio sul passaggio dalla cultura “alta” del Seicento francese dei giansenisti, di Bossuet e di Pascal, dominata in modo ossessivo dal senso del peccato ma anche dal senso di serietà dell’attività letteraria e scientifica, alla società neo-aristocratica del Settecento, desiderosa soprattutto di svagarsi senza dover riconoscere la propria responsabilità nei confronti delle generazioni passate e di quelle future. Sorel affronta l’enigma del progresso partendo da un incipit apparentemente astruso, cioè “la disputa degli antichi e dei moderni”, un dibattito occorso nei primi decenni del XVII tra gli eruditi sostenitori della tradizione classica e chi invece propugnava la superiorità della letteratura moderna su quella antica. Secondo Sorel, originale interprete del metodo di Marx, dietro questa relativamente oscura diatriba si nasconde l’ascesa dell’assolutismo reale francese e il notevole miglioramento delle condizioni generali della società francese dell’epoca. I francesi dell’epoca «erano soprattutto colpiti dal vedere fino a che punto la maestà regale aveva potuto elevarsi al di sopra degli eventi contingenti» (p. 455) e si erano convinti che tale progressivo miglioramento non sarebbe mai finito, dispensando gli uomini e le donne dal pagare un tributo simbolico al passato. Per la prima volta si afferma l’idea che era legittimo «abbandonarsi alla felicità senza cercare di giustificare la propria condotta». Idea che per Sorel non avrebbe più abbandonato la cultura occidentale nei secoli successivi alla Querelle des Ancientes et des Modernes, insieme con la certezza della superiorità del futuro sul passato e l’insofferenza verso qualsiasi limite posto all’arbitrio individuale.

L’ipotesi capitalista non è che una delle molteplici varianti della metafisica del Progresso, così come sopra delineata. Alla stregua delle altre varianti, pretende anch’essa che la Storia abbia un senso e che il percorso prescritto agli uomini li porti inesorabilmente – per usare il vocabolario di Saint-Simon e di Comte – dallo stato teologico-militare allo stato scientifico-industriale. Quel che costituisce la differenza specifica dell’ipotesi capitalista è unicamente l’idea che il principio determinante della Storia sia, in ultima istanza, la dinamica dell’economia e, di conseguenza, il progresso tecnologico, in quanto condizione materiale fondamentale di tale dinamica.
Tutto ciò che intralcia la spinta in avanti di una società attraverso il movimento modernizzatore dell’economia, deve inevitabilmente essere percepito come un arcaismo inaccettabile, al quale ci si può aggrappare solo se si ha la sfortuna di essere uno spirito “conservatore”, o peggio ancora, “reazionario” (nel linguaggio saint-simonista, “retrogrado”).

A differenza dei liberali, i primi socialisti non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, né di attaccare le fondamenta del “legame sociale”. Il progetto socialista è infatti orientato, fin dalla nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere – contro gli effetti disegualitari e disumanizzanti del liberalismo industriale – un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuiscono essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.

Possiamo farci un’idea di un simile stato d’animo leggendo il monumentale studio di E. P. Thompson “Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra”. Secondo lo storico inglese, all’alba della rivoluzione industriale, i lavoratori manuali «avevano il senso di una posizione sociale perduta, correlata al perdurare di ricordi della “età dell’oro” [pre-industriale, nota mia]» (p. 297). Lunghi dall’essere assimilato con una visione reazionaria, esso era caratterizzato da un «profondo senso di egualitarismo» legato a «nozioni elementari di condotta umana e di solidarietà cameratesca». Il ricordo del “tempo perduto” della “Vecchia Inghilterra” (senza dubbio almeno in parte idealizzata) in cui era possibile guadagnarsi tranquillamente da vivere con il sudore della fronte, senza passare attraverso le tortuose mediazioni del capitale e la disciplina di fabbrica, conviveva però con un grande interesse per la cultura moderna. Thompson documenta con efficace e a tratti commovente dovizia di particolari la cultura parallela delle classi operaie, dove accanto al lavoro al telaio fiorivano lo studio delle scienze della natura, della matematica, della meccanica, oltre che dell’attualità politica. Questa convivenza di nostalgia – o perlomeno di rivendicazione – del passato e di passione per il presente minaccia al cuore il teorema del progressismo, basato sulla contrapposizione rigida tra passato e futuro.

Nel 1833 compare per la prima volta la parola «socialismo» in un articolo intitolato De l’individualisme et du socialisme, in cui il teorico socialista Pierre Leroux precisa: «…ci si è abituati a chiamare socialisti tutti i pensatori che si occupano di riforme sociali, tutti coloro che criticano e disapprovano l’individualismo, tutti quelli che parlano, in diversi termini, di provvidenza sociale e di solidarietà che riunisce non solo i membri di uno Stato ma l’intera Specie umana». Leroux afferma non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

Se questi pensatori si oppongono all’ideologia liberale, è soprattutto perché quest’ultima si fonda su una concezione della libertà individuale che conduce necessariamente, ai loro occhi, a dissolvere l’idea di una “vita comune”[5].

Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali e che l’universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari. Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive a riguardo Jean-Claude Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista».

Il socialismo operaio si configura pertanto fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico verso la modernità e soprattutto verso il suo individualismo devastante e rappresenta prima di tutto la traduzione in idee filosofiche delle prime proteste popolari contro i disastrosi effetti sugli uomini e sulla natura della modernizzazione liberale. Esso, così come il comunismo, non coincide dunque con la cultura della sinistra progressista, anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergenze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Lo studio di questo filone sotterraneo della storia europea (e non) può essere un prezioso antidoto non solo verso l’ideologia del progresso, ma anche verso interpretazioni che rovesciano il teorema progressista e idealizzano in blocco il passato, irrigidendolo in una sorta di utopia retrospettiva, senza peraltro chiarire a quale dei molti “passati” al plurale ci si debba conformare. La nostra proposta è radicalmente diversa. Essa parte non dall’idealizzazione di un passato veramente “tradizionale”, cui sarebbe doveroso tornare, contrapposto agli ultimi secoli di “modernità”. Come Lasch argomenta correttamente, il giusto approccio al passato non è quello della convenzione tradizionalistica, che si circonda di una «quieta atmosfera di venerazione», bensì quella della memoria, che «si circonda di oratoria, di dialettica, di dispute» (p. 121). Per noi si tratta quindi di mettere al centro la nozione di vita comune e le virtù (nel senso elementare e non moralistico di “capacità”) che la rendono possibile. In una simile ottica il passato non è un calderone indistinto da respingere o da accettare in blocco, ma una posta in gioco, un serbatoio di esperienze, di intuizioni e di forme di vita potenzialmente universali, germi di autentica “vita comune”. Significa anche essere coscienti che questi germi, lungi dall’essersi realizzati compiutamente nel passato o di essere scomparsi in epoca “moderna”, al contrario hanno continuato a svilupparsi, pur in mezzo a mille contraddizioni. Nel bellissimo 45° pensiero dei Minima moralia Adorno nota come nella dialettica di Hegel sopravvivesse qualcosa del «sano spirito di contraddizione» e «della testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti feudatari». Allo stesso modo noi riteniamo che molti degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza degli ultimi secoli siano debitori di quel passato che per l’ideologia del progresso non è altro che oscurità e ignoranza.

 

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto

 

 

Note

[1]   Evitiamo di usare il termine “tecnica”, filosoficamente più denso.

[2]  Ricordiamo che numerose catastrofi ambientali sono state causate dall’uomo molto prima della rivoluzione industriale. Ad esempio l’arrivo degli antenati degli attuali abitanti della Polinesia 8.000 anni fa sembra abbia portato all’estinzione di circa metà delle specie indigene. Allo stesso modo le popolazioni mesoamericane ricorrevano a pratiche agricole talmente impattanti da minare la sopravvivenza stessa delle loro civiltà. Chiaramente gli sviluppi tecnologici successivi mettono nelle nostre mani strumenti più potenti e quindi più pericolosi di quelli a disposizione dei nostri predecessori.

[3]  C. Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Feltrinelli 1992, p. 42.

[4]  Ibidem, p. 46.

[5] Questo perché per un liberale «tutte le forme di appartenenza o d’identità che non sono state liberamente scelte da un soggetto, sono potenzialmente oppressive e discriminanti» (Benjamin Constant); così anche la nozione di famiglia, di lingua materna o di paese d’origine.

Antonio Bonacchi – Che lavoro fai? …IL VIOLINISTA! Sì, ma di lavoro? Arte, mestiere, misteri del suonare il violino

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In copertina: Pietro Gargini, violino – Giovanni Lucchi, arco (cb). Foto Lucio Ghilardi


 

Antonio Bonacchi

Babbo a giorni alterni, scrittore della domenica, editor e grafico quasi per caso, violinista per passione, liutaio e archettaio per diletto, tornitore autodidatta, informatico per necessità, imprenditore per divertimento, inventore per passatempo, cuoco per amicizia.

WHAT IS HE (D. H. Lawrence)

Che cos’? è
– Un uomo, naturalmente.
Si, ma cosa fa?
– Vive, ed è un uomo.
Certo, ma deve pur lavorare. Avrà una qualunque occupazione.
– Perché?
Perché si vede che non appartiene ad una classe agiata.
– Non so. Ha molto tempo per sé, e fa delle bellissime sedie.
Qui ti volevo! Allora è un ebanista.
– No, No!
Insomma un falegname.
– Nient’affatto.
Ma l’hai detto tu.
– Che cosa avrei detto io?
Che faceva sedie, era un falegname.
– Ho detto che faceva sedie, non che è un falegname.
Va bene. Allora le fa per diletto?
– Forse! Secondo te, un tordo è un flautista di professione, o solo un dilettante?
Direi che è soltanto un uccello.
– E io dico che lui è solo un uomo.
Ho capito! Cavilli sempre.

Alcune pagine dal libro

Origini

Il capitolo si apre con le due pagine relative alla nomenclatura.

la nomenclatura del violino

La nascita del violino

Per mia praticità parlerò del violino, ma quanto segue è per buona parte consono agli altri strumenti della famiglia: viola, violoncello, contrabbasso.

Per quanto si cerchino documenti e fonti è ancora difficile attribuire un luogo ed un momento esatto per la comparsa del violino, quindi più che di “nascita” parlerei di un suo “divenire” dalla progressiva evoluzione e trasformazione di strumenti simili per forme, numero di corde e modo di produrre il suono (come il rebeb, la gigua, la ribeca, la viola da braccio, la viella ed altri), sicuramente influenzato dalle dirompenti idee del Rinascimento fiorentino¹ incentrate sulla ricerca di proporzioni, armonia di linee, rapporti geometrici. Sulla sua oggettiva paternità, su forme, varianti e misure ideali, sono stati scritti fiumi di parole e si trovano eccellenti ed esaustive pubblicazioni; le ipotesi più accreditate vedono la sua comparsa intorno al 1530, probabilmente a Cremona ad opera di Andrea Amati, altre, ugualmente valide, a Brescia per mano di Gasparo da Salò. Alcuni documenti riguardanti l’acquisto di violini cremonesi da parte di Carlo IX di Francia fanno ipotizzare che la liuteria di Cremona abbia avuto più tempo per propagare la sua notorietà e sia quindi antecedente a quella bresciana, ma niente toglie che in entrambi i casi si possa aver ottenuto parimenti lo stesso risultato: nel bresciano, Zanetto da Montichiari veniva registrato nel 1527 come Joannettus de li violettis. In quegli stessi anni gli Amati avevano nel cremonese botteghe liutarie già avviate, ma non erano gli unici ad operare intorno agli strumenti, sto infatti trascurando del tutto la contemporanea e fervente attività liutaria […] tutto il resto lo trovate nel libro!

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1 I toscanacci son sempre in mezzo! Per altro il M° Fiorenzo Copertini Amati scrive in un intrigante articolo, nel n° 2/2009 di Liuteria Musica Cultura, sul “violino raffigurato nel bassorilievo del Palazzo Scala a Firenze (1480). E chissà che pure Leonardo da Vinci non ci abbia messo del suo!

 

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Ernst Chladni – pag. 12

figure di Chladni in liuteria

[…]

Negli anni Cinquanta Carleen Maley Hutchins, oltreoceano, inizia e porta avanti interessanti ricerche partendo dalle teorie del Savart il quale affermava che i migliori violini presentano una tavola armonica che se percossa, emette una nota di un semitono più alta del fondo. L’ausilio di strumentazioni elettroniche rivoluzionarie per l’epoca ed i suggerimenti nonché le collaborazioni con liutai, chimici e ricercatori (Karl a. Berger, alvin S. Hopping, fernando Sacconi) la portano a scoprire ed applicare alla liuteria le figure di Ernst Chladni. Grazie alla Hutchins la costruzione del violino si può avvalere di una nuova tecnica scientifica […]

*****

 

Chiamato frequentemente anche archetto, dal francese archet specialmente se da violino o viola, fino al ’600 era realizzato con legni comuni quali acero, noce, pioppo, faggio; un arco piuttosto grossolano e poco efficace. La necessità di allungarlo e la modifica radicale della curva portarono alla scelta di legni più compatti ed elastici quali il legno ferro ed il legno serpente¹ ancora oggi utilizzati per gli archi barocchi. Un tassello di legno, che diventerà il moderno nasetto, veniva incastrato nella zona “al tallone” tra crine e bacchetta per mettere in tensione il crine.

A partire dall’arco “curvo” (con i crini semplicemente fissati in cima ed in fondo), possiamo definire l’evoluzione dell’arco in Italia in quattro periodi:


Non esistono ancora la punta d’avorio², la slitta in madreperla³, l’anello, la coulisse, il ginocchio e la fasciatura, propri dell’arco moderno che deve probabilmente la sua evoluzione al trinomio Corelli-Tartini-Viotti, musicisti virtuosi, teorici geniali e “girelloni”. Dai loro incontri con i vari costruttori di Cremona, Parigi, Mirecourt, Londra, per assecondare teorie ed esigenze personali, si origina l’evoluzione dell’arco barocco fino alle forme e caratteristiche che a tutt’oggi mantiene. Se vogliamo cercare una data per la nascita dell’arco moderno possiamo pensare al 1785-86 quando Louis Spohr lo descrive minuziosamente (pubblicandolo nel 1832 nel suo Violinschule) o al 1792 circa quando Tourte aveva oramai definite con Viotti le misure e le caratteristiche che perfezionerà in seguito con Kreutzer. Anche se in Italia i liutai cremonesi avevano già dato il via diversi anni prima all’evoluzione dell’arco, Tourte fu il primo ad utilizzare il legno di pernambuco8 e la tecnica della piegatura a caldo: la bacchetta veniva tagliata praticamente dritta (o quasi, seguendo la venatura del legno) e piegata dopo una parziale lavorazio- ne; in questo modo la fibra della bacchetta ha una continuità che consente migliore elasticità e maggiore resistenza anche alle rotture.

[…] tutto il resto lo trovate nel libro!

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1 Il nome scientifico è Piratinera Guianensis o Brosimum Guianensis e proviene dalle Guiane (Brasile ai confini con le Guiane-Venezuela). Il suo peso specifico è 1,05-1,30, il colore è bruno rossastro o rosso cupo maculato nero. Conosciuto anche come Snake wood (Ingl.) Pau tartarugo o Amoretta.
2 O scarpetta, voluta da Tartini.
3 Introdotta da Vuillaume.

 

 


 

 

INDICE DEL LIBRO

Scritto con un entusiasmo contagioso da un cultore della materia, arricchito di un prezioso apparato iconografico di oltre 360 immagini, IL VIOLINISTA è un libro indispensabile per gli strumentisti di tutti i livelli (studenti, professionisti, amatori) ma per la varietà degli argomenti trattati e lo stile quasi narrativo è godibile anche dagli appassionati di musica e dello strumento.

Puoi virtualmente sfogliare tutto il libro per avere un’idea panoramica di tutto il volume.

da pag 1 a pag 100

 

da pag 101 a pag 224

 

 

Alcuni commenti

 

Luca Rinaldi

Una splendida lettura per chi si occupa di strumenti ad arco e di musica in genere. Mi congratulo con l’amico Antonio per l’interessante libro, in cui si trovano notizie molto utili, curiosità e aneddoti tratti da una vita dedicata alla musica, scritti in maniera simpatica e leggera.

Complimenti e grazie

https://www.facebook.com/luca.rinaldi.526

 


Angelo Andrulli

Angelo Andrulli

Non è un semplice libro ma, un MERAVIGLIOSO TRATTATO artistico/formativo, di facile lettura e comprensione. Ho trovato numerose informazioni e illuminanti argomenti che mi hanno regalato infiniti stimoli artistici. Non sfugge l’entusiasmo e la passione con cui l’opera è stata creata. Nei miei seminari rivolti ai ragazzi “Il Bonacchi”  lo porto ormai sempre con me, come se fosse una bibbia… Con tanta stima e affetto rivolgo al caro Maestro Bonacchi i miei complimenti… e un grazie per gli insegnamenti trasmessi.

Angelo R. Andrulli

http://www.angeloandrulli.it


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Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano

Coperta La vita accanto

Maura Del Serra

Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano

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http://www.petiteplaisance.it/libri/201-220/214/int214.html

Se non ci fossero specchi, resterebbero gli occhi a dire ad una donna brutta che è brutta. Gli occhi degli altri sono uno specchio. Sono il giudice che decreta se esistiamo o no. Se siamo belli o brutti.

Possiamo ignorare il giudizio, cercare di esserne indipendenti, ma tutti desideriamo che qualcuno nel mondo si accorga e guardi la nostra bellezza. La ricononosca.  Non essere guardati equivale a non essere amati.

Crescere storti, rinchiusi, evitati dallo sguardo degli altri, provoca dolore. Ma la possibilità di trasformare il dolore genera a volte una nuova inaspettata bellezza.

La bellezza della musica, della poesia, la bellezza che sta nelle mani di questa bambina brutta. L’atto scandaloso di una bellezza che ha bisogno di orecchie e di anima per essere vista, più che di occhi.

Questa storia sfida il tempo in cui è stata scritta: un’epoca in cui l’apparire ha seppellito l’essere, in cui “photoshoppare” visi e corpi è la regola che si impone per correggere e falsificare ogni minima imperfezione del corpo umano.

Mettere in scena la bruttezza come metafora, conservarne il mistero, non banalizzarlo rendendo realisticamente “mostruosa” la protagonista, è un compito non piccolo poiché tutto quello che accade nel romanzo di Mariapia Veladiano e nella efficace riduzione teatrale di Maura Del Serra, ruota intorno a questa condizione.

La letteratura e la poesia possono far vedere solo dicendo, il teatro deve far vedere anche agli occhi.  L’invenzione della bruttezza sarà dunque il nostro punto di partenza, il cambio dello sguardo del pubblico alla fine del racconto; ci auguriamo sia il punto di arrivo.

Cristina Pezzoli, la regista

Cristina Pezzoli

Monica Menchi, l’interprete

Monica Menchi, l'interprete

A Pistoia “La vita accanto” debutta a teatro

di Laura Montanaro

“La vita accanto” a teatro a Casalguidi

di Laura Montanaro

 

Il viaggio di Monica Menchi nel mistero della bruttezza

“La Vita Accanto” – Intervista a Monica Menchi e Cristina Pezzoli

 

Monica MenchiMonica Menchi, l’interprete