Alessandro Monchietto – Defatalizzare la realtà è il compito che ci attende
Intervista già pubblicata su:
Periodico di cultura, attualità e informazione del Centro Culturale ITALICUM
Anno XXX, Giugno 2015.
Nei giovani del XXI° secolo è ben visibile l’estinzione dell’eredità storico – culturale del ‘900. Nelle nuove generazioni sono assenti (tranne che in marginali minoranze), contrapposizioni e conflittualità ideologiche. Sono altresì scomparsi i pregiudizi ideologici e pertanto, è dato riscontrare nelle nuove generazioni una visione della realtà più razionale e disincantata rispetto ai giovani della seconda metà del ‘900. Non esiste tuttavia continuità storico – culturale tra le generazioni vecchie e nuove e quindi non esistono più nemmeno i necessari punti di riferimento politici e filosofici per la formazione di una nuova coscienza critica dinanzi alle problematiche della società capitalista globalizzata.
Spinoza ricordava che chi detiene il potere ha costantemente bisogno di raccontare a se stesso e agli altri che le persone sono affette da passioni tristi, nella consapevolezza che alimentare tali passioni serve a rendere sempre più passivi e assoggettabili gli uomini. Fedeli a tale assunto, gli attuali tutori dell’ordine simbolico continuano imperterriti a ricordare che, se dalla storia è lecito trarre ammaestramenti, uno di questi è sicuramente la certezza secondo cui i nostri strenui tentativi di “mettere le cose a posto” producono spesso ancor più caos e confusione, e che i nostri sforzi di eliminare contingenze e incidenti sono poco più che un gioco delle probabilità.
Ci viene dunque ripetuto che – come tutti gli abitanti del secolo breve hanno amaramente appreso – anche i piani più accurati e studiati nei minimi dettagli han l’odiosa tendenza ad andare storti e a sortire risultati ben diversi da quelli sperati. Davanti alle catastrofi mondiali, a quelle avvenute e a quelle incombenti, veniamo invitati ad abbandonare le “aggressività attivistiche” e a ritirarci nella confortevole sfera del lasciar stare. «Se non facciamo nulla – scrive a riguardo Peter Sloterdijk – non aizziamo neppure la tigre, dalla cui groppa non sarebbe poi agevole scendere; se si può “lasciar stare” non si verrà continuamente incalzati da progetti resisi autonomi. […] coltivando una prassi di sobria astensione, si eviterà di scatenare il circolo attivistico e vizioso della coazione a ripetere».
Stiamo vivendo in un periodo in cui la certezza che la storia avesse un senso (per dirla con Gaber «qualcuno era comunista perché noi siamo con la storia, perché la rivoluzione? …Oggi, no. Domani, forse… Ma dopodomani, sicuramente!»), un periodo in cui si era convinti che il capitalismo avesse “gli anni contati”, si è rovesciato dialetticamente nella sicurezza – tale da diventare un pilastro del senso comune – che il mondo che ci troviamo davanti è qualcosa di immodificabile e intrascendibile. Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e cui al massimo si può strappare qualche concessione.
Se dovessi cercare un punto di continuità tra generazioni vecchie e nuove, tenderei a rinvenirlo proprio in questo atteggiamento fatalista, il quale recide alla radice ogni prospettiva di emancipazione, di corto come di lungo respiro.
Gli artefici della seconda restaurazione (cfr. A. Badiou, Il Secolo, Milano 2006), agghindati ancora dai loro abiti cognitivo-mentali da sessantottini gaudenti, hanno assunto come principale mansione l’avvelenamento dei pozzi da cui avevano bevuto in gioventù, in modo che nessun altro possa più abbeverarsi. Parallelamente le giovani generazioni, abbagliate dai racconti dei padri e intrappolate nel cono d’ombra da questi generato, si limitano a riproporre l’anacronistico teatro di strada dei genitori e/o a metabolizzare di riflesso la delusione sociale per una sconfitta che non gli appartiene e che non hanno mai vissuto.
Quel che loro rimane – o, più giustamente, ciò che ritengono sia loro concesso – è l’auto-relegarsi in una sorta di opposizione di sua maestà, che al più sfonda porte aperte ed esibisce insolenze calcolate. I ragazzi che corrono con caschi e scudi di plexiglass per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle periferie e nelle banlieue dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano come la degenerazione della politica in una forma di spettacolo (G. Debord) ha non solo trasformato il fare politica in mera pubblicità (avvilendo il discorso politico e riducendo le elezioni a competizioni tra tifosi), ma ha anche reso sempre più arduo il compito di organizzare una reale opposizione politica.
Non serve a niente frantumare cabine telefoniche o incendiare auto se non si persegue uno scopo che integri l’atto vandalico in una prospettiva storica. La collera del distruttore di cabine e dell’incendiario si consuma infatti nella propria espressione: si limita al tentativo di fracassare la nebbia con un bastone.
Come notavi, è completamente assente una critica ragionata e ad ampio raggio dell’“edificio capitalistico”: gli odierni contestatori si contentano di mettere a soqquadro per un po’ una singola stanza, senza poi essere in grado di avanzare alcunché che non si riduca banalmente ad un generico rifiuto di intaccare l’attuale stato di cose. L’utopia che ci guida non è più un sovvertimento radicale della realtà, ma l’idea che sia possibile mantenere uno stato sociale all’interno del sistema: «trenta o quarant’anni fa – nota Slavoj Žižek – sognavamo il socialismo dal volto umano. Oggi, invece, l’orizzonte più lontano, più radicale, della nostra immaginazione è il capitalismo globale dal volto umano. Le regole del gioco restano le stesse, però lo rendiamo un po’ più umano, più tollerante, con un po’ di welfare in più».
La crisi sistemica tuttora perdurante nell’occidente e il fenomeno della precarietà immanente (cioè, oltre che economica anche esistenziale), che investe soprattutto le nuove generazioni, viene vissuta dai giovani del XXI° secolo come un insieme di destini individuali. Non si riscontra in essi la visione di un comune destino, non si generano cioè, forme di socialità e solidarietà comunitarie idonee a costituire un pensiero unitario per la formazione di nuove classi sociali che si contrappongano alle oligarchie dominanti.
Se – riassumendo quanto detto sopra – dovessi esprimere in una frase la caratteristica più importante dell’attuale situazione psico-politica occidentale, direi che l’indignazione (in particolare giovanile) non sa più produrre nessuna idea del mondo.
In una situazione caratterizzata dalla disfatta, dalla dissoluzione e dal discredito delle istanze critiche che hanno dominato il Novecento, e in assenza di una teoria che renda possibile trasformare l’indignazione in argomentazioni che si pongano sul terreno della ribellione razionale, si è fatto strada negli ultimi decenni il profilo di una società “ringhiosa”, in cui si lotta sempre più duramente per conservare ciò che si ha e si rischia di perdere, attraverso strategie rigorosamente individuali.
Oscillando senza tregua tra colpevolizzazione di sé e demonizzazione del mondo, gli odierni figli di un io minore vedono nella loro posizione sociale il semplice riflesso delle proprie capacità; si limitano pertanto ad auto-incolparsi delle ingiustizie subite, senza mai scandagliare la linea che segna il confine tra istanze sistemiche e istanze biografiche.
Da quando Margaret Thatcher ha sentenziato che la società – per la politica – «è morta», demandando qualsiasi responsabilità agli individui e costringendo i nuovi cittadini globali a trovare – come suggerito da Ulrich Beck – «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche» (detto altrimenti, a non fare più affidamento su alcun interlocutore istituzionale, ma solo sulle proprie capacità), è tramontato il vecchio concetto di Società ed è nata una nuova immagine del “sociale” come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più soli nelle proprie vite.
Nella seconda età del capitalismo (l’epoca – definita da Preve “dialettica” – del compromesso fordista, dall’avvento dello Stato assistenziale, ecc.), l’attività padronale era inquadrata da dispositivi regolamentari, da legislazioni fiscali, da strutture sociali, da tradizioni culturali, da una certa legislazione sul lavoro ecc. Il sistema era fondato su rapporti gerarchici di dominio all’interno dei quali era ancora possibile una certa contestazione: in tale situazione «il dominio del capitale si manifestava in modo esplicito come un rapporto di dominio fra persone» (B. Perret). Paradossalmente il rapporto gerarchico permetteva la contestazione, mentre oggi il nemico diventa del tutto impersonale.
In un capitalismo post-borghese e post-proletario ciò che sembra essersi rotto è proprio il legame che rapporta la felicità del ricco all’infelicità del povero; le sventure (individuali e sociali) non appaiono più come crimini di un nemico contro cui puntare il dito e unire le proprie forze per contrastarlo e farlo retrocedere, ma come colpi del destino inferti da forze misteriose nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda.
Ogni soggetto è oggi portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: nell’attuale epoca neoliberale la vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose e il controllo permanente di sé. La vita pertanto si presenta unicamente come il risultato di scelte individuali: la malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico o l’esclusione sono considerati semplicemente conseguenze di “calcoli sbagliati”.
Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, fermezza di fronte ai rischi. L’individuo subisce così un addomesticamento delle proprie reazioni di indignazione, favorendo la rassegnazione o, in altri termini, la costruzione di una “predisposizione psicologica” a subire l’infelicità.
Secondo il dettato della “rivoluzione neoliberale” non si tratta semplicemente di trasformare tutti in tecnici o scienziati dell’economia, ma è in gioco qualcosa di più profondo: si può essere insegnanti, medici, editori, ma prima di essere questo si è economisti, nel senso che qualsiasi ambito professionale o persino personale comporta la gestione di ciò che si fa, delle risorse che si hanno e soprattutto di sé in quanto capitale, in quanto impresa da amministrare e che si auto-amministra. La funzione imprenditoriale appartiene al soggetto in quanto tale a prescindere da ciò che fa; tutto ciò che di specifico vuole essere può esserlo, ma a partire da il proprio amministrare, intraprendere, ecc.
La disoccupazione diffusa e l’emarginazione sociale vissuta dai giovani in questa contemporaneità capitalista producono un senso di estraneazione e rigetto nei confronti di questa società. Ma, mi chiedo, se è il disagio sociale a far sorgere nei giovani una coscienza critica, nei giovani che riescono poi ad accedere ad una condizione economica e professionale soddisfacente, tale coscienza critica viene meno. Anzi, per essi é del tutto naturale l’omologarsi all’ideologia delle classi dominanti. Lo stato di disagio sociale quindi, non determina forme di protesta interne al sistema capitalista considerato, seppure inconsciamente, immanente ed immutabile, data l’impossibilità di concepire un modello politico – sociale ulteriore e diverso?
A differenza di quanto viene continuamente ripetuto, non è tanto la scarsità di volontà politica che contraddistingue la gioventù flessibile e precaria di oggi, ma il fatalismo. Essa non soffre di uno scarso potenziale di ribellione, ma di un eccesso di gelo che si riflette nell’incapacità di catalizzare gli individui attorno a programmi di carattere generale: tale potenziale si dissipa immancabilmente in quel mosaico di movimenti costruiti attorno a una specifica causa ed una specifica occasione (diritto alla casa, lotta all’ennesima riforma del mercato del lavoro, TAV ecc.), in una forma di impegno che è sempre vulnerabile di interrompersi se non viene continuamente stimolata da fatti che la rendano attuale.
In assenza di una chiara nozione di sfruttamento e in assenza di speranze per un cambiamento sociale, il rifiuto dell’ingiustizia sociale è in un certo senso regredita al suo stimolo originario: la semplice indignazione. Oggi, di fronte ai rischi dell’esclusione, tutti sono partecipi di un sentimento di paura, per sé, per i famigliari, per gli amici o per i figli. Insomma, tutti sono consapevoli del fatto che ogni giorno in Europa aumenta il numero degli esclusi e si moltiplicano le minacce di esclusione, e nessuno può onestamente ripararsi dietro il velo di un’ignoranza che – in qualche maniera – lo assolverebbe.
Non tutti invece pensano che le vittime della disoccupazione, della povertà e dell’esclusione sociale siano anche vittime di un’ingiustizia. In altri termini, molti cittadini separano l’idea della sofferenza da quella dell’ingiustizia. Agli occhi di coloro che adottano tale dissociazione, la sofferenza patita è certamente una sfortuna, ma questa sfortuna non chiama necessariamente alla reazione politica. Può suscitare compassione, pietà, carità, ma non necessariamente rabbia o un appello all’azione collettiva.
Se è vero che negazione della realtà e percezione della possibilità sono due facce della stessa medaglia (P. Virno), l’incapacità di percepire il proprio ambiente come soltanto possibile e non necessario fa tutt’uno con l’incapacità di negarne in maniera esplicita la supposta naturalità, di negarne il carattere di inemendabilità e intrascendibilità, di negare che esaurisca tutti i modi possibili di essere della realtà, di negare che i suoi confini siano chiusi rispetto a ogni altro possibile diverso modo.
Come riattivare l’immaginazione e la speranza sociale dopo che il fallimento di un’esperienza storica enorme (il cosiddetto Socialismo reale), ma pur sempre limitata e puntuale, è stato trasfigurato in trauma politico assoluto?
La mia proposta (o meglio quello che non posso che definire un semplice “studio di fattibilità”) è avvicinarsi alla filosofia della storia – quel settore del pensiero che si occupa precisamente di ripensare il mondo come storia e dunque come possibilità – cercando di analizzarla attraverso la prospettiva della psicologia collettiva.
Partiamo da un presupposto: l’animale umano è storico, e tale termine va colto nel duplice senso per cui è aperto al processo storico e necessita di una storia in cui potersi inserire e riconoscere, vale a dire che ha bisogno di un contesto narrativo di cui prendere parte, tanto passivamente (sentirsi parte di) quanto attivamente (partecipare a). L’animale umano è un animale assetato di senso e di narrazione, che vive intrecciando storie e che costruisce la propria identità in maniera storico-narrativa.
In questo frangente la mia strategia – delineata in un breve saggio intitolato Per una filosofia della potenzialità ontologica – è di recuperare in modo consapevole, premeditato e provocatorio l’arma concettuale definita “filosofia della storia” (ritenuta da molti fuori corso, obsoleta, non più degna di plausibilità) cercando di sostituire alla prospettiva dell’«essere-secondo-necessità» la concezione dell’«essente-secondo-possibilità» (dynamei on).
I dispositivi di filosofia della storia sono dispositivi pesanti e anche pericolosi: la filosofia della storia nel momento in cui esce da un libro e diventa carne politica si ammanta di quella magica proprietà di dare un senso all’insensato; e l’insensato in politica è spesso la violenza. Un altro rischio è di arrivare all’idolatria del fatto, procurando una sorta di legittimazione “di alto livello” dei vincitori (come è stato spesso rimproverato a Hegel): l’ossessione del senso nelle vicende storiche porta infatti inevitabilmente alle grandi narrazioni e all’utilizzo (cosciente o meno) della quinta operazione, la quale fissa il risultato ancor prima di eseguire il calcolo. Tuttavia anche l’abbandono di ogni filosofia della storia implica dei prezzi da pagare, poiché comporta la difficoltà di immaginare un contesto in cui l’azione individuale possa essere riportata a forme di convergenza con l’agire degli altri.
Da una parte l’interpretazione della storia come continuum (come direzionalità) ha il grosso problema di poter saturare l’orizzonte della possibilità, dall’altra però lo sbriciolamento dell’accadere in contingenza – il totale sgretolamento di qualunque struttura collettiva di senso – abbandona l’individuo alla tragica percezione della propria impotenza e solitudine, ponendoci in condizioni di veri e propri ultimi uomini (cfr. D. D’Andrea, Etica e politica in Max Weber, Roma 2005).
Chi prende energicamente le distanze da ogni impostazione di filosofia della storia (magari salmodiando sulla “fine delle grandi narrazioni”), spesso si dimostra curiosamente pronto a riconoscere “tendenze macrosistemiche”, “logiche impersonali”, “imperativi funzionali”, nozioni che in definitiva sono il parente prossimo (secolarizzato, funzionalizzato) di quella stessa filosofia della storia tanto stigmatizzata.
Il discorso a mio modo di vedere andrebbe spostato sul tipo di filosofia della storia, ossia sulla tipologia, sul modo; una filosofia della storia costruita non per telos, non per “compimento” ma costruita per alternative, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove possibilità; in sostanza una filosofia della storia senza una “trazione anteriore”, senza un’attrazione del fine.
Non necessariamente filosofia della storia vuol dire definizione e descrizione di un itinerario che termina con una “fine” o con un “compimento”. È possibile pensare a filosofie della storia di tenore tutt’affatto diverso, dove ci sia spazio per la contingenza e per un “orizzonte di possibilità”.
Data l’assenza di prospettive lavorative ed il degrado istituzionale endemico dell’Italia dei nostri giorni, l’emigrazione in altri paesi dell’occidente è divenuta per un giovane, oltre che una prospettiva, un’aspirazione legittima ad un destino diverso, quasi un mito di emancipazione collettivo. E’ però assente qualsiasi problematica riguardo il futuro del nostro paese, privato delle migliori risorse umane ed ostaggio delle oligarchie corrotte della politica, subalterne alla Nato ed alla BCE. L’emigrazione, in tale contesto non mi sembra dunque una opportunità, ma semmai un sintomo di rassegnazione, il simbolo di quel nomadismo produttivo prodotto dalla globalizzazione. Inoltre, nutro seri dubbi circa le possibilità per i giovani di oggi di affermazione professionale all’estero nel lungo termine. Nel sistema capitalista il lavoro precario è una condizione permanente ed imprescindibile. La forma merce è infatti estensibile anche alle risorse umane, destinate al consumo immediato ed alla rapida obsolescenza.
Purtroppo quello a cui stiamo assistendo è un processo di “mezzogiornificazione” dell’Europa così come definita dal Premio Nobel Paul Krugman, il quale evidenziava già nel 1991 che con la moneta unica l’Europa sarebbe stata investita da intensi processi di concentrazione della produzione e dell’occupazione nei paesi economicamente più forti, mentre le aree periferiche del continente europeo sarebbero state colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e di migrazione verso l’estero.
Si assiste così ad un fenomeno – definito dagli esperti brain drain – per cui lavoratori qualificati, che non riescono a trovare lavoro nelle poche realtà italiane ancora produttive, finiscono per spostarsi in Paesi industrialmente più evoluti; e per converso, in Italia, alla scarsità di manodopera, si supplisce con il ricorso a stranieri, spesso non altrettanto qualificati, con la conseguenza che tale processo accelera la formazione di Paesi di serie A e di serie B anche all’interno della tanto acclamata eurozona.
I flussi migratori attuali hanno dunque effetti particolarmente perversi: lungi dal contribuire a guarire il mondo dai problemi scaturiti dall’esplosione demografica degli ultimi secoli, essi concorrono a mantenere strutture d’ineguaglianze di sviluppo su scala mondiale. Essi sono certamente una valvola di sfogo, calmano temporaneamente il male, ma non guariscono affatto il malato.
Nella storia del mondo, l’emigrazione ha sempre comportato una sconfitta e un dramma per chi se ne va e per la propria comunità. La novità dell’epoca attuale – a dispetto della retorica del cosmopolitismo – è tuttavia quella di apparire come la forma di società più dispendiosa e prodiga nello sprecare talenti umani che l’umanità abbia mai visto.
A fuggire oggigiorno sono quasi sempre giovani di alto profilo, ma essi non sempre riescono a svolgere all’estero il lavoro sperato. Come tu sottolineavi, sono sempre di più gli italiani che emigrano non per coronare il sogno professionale di una vita ma per fare lavori anche molto umili, spesso mansioni che in Italia – come si usa dire – “gli italiani non vogliono più fare”. Essi rifiutano, in patria, di assumere lavori da loro ritenuti ingrati (spazzino, cameriere, domestico, fruit picker), giungendo poi a svolgere le stesse attività lontano dagli sguardi della propria comunità di appartenenza.
Nella puntata di Ballarò del 22 ottobre 2013 la trasmissione di Giovanni Floris fece quello che probabilmente sarà ricordato come il primo servizio giornalistico della sua storia: un’inchiesta sulla diffusione dei mini-jobs, il contratto più frequente tra i giovani italiani emigrati nel nord Europa. La giornalista descrisse quello dei mini-jobs come un «meccanismo infernale», una specie di tunnel «dal quale è difficile uscire». Avendo diversi amici emigrati all’estero, posso garantire che la retribuzione prevista da tali contratti è talmente ridicola (nella maggior parte dei casi sotto i 500 euro al mese) da non garantire la sussistenza del lavoratore che la riceve; conseguentemente, per vivere, questi lavoratori hanno assoluto bisogno di percepire tutta una serie di aiuti e sussidi, che comprendono redditi di integrazione del salario, aiuti per il pagamento dell’affitto, buoni per il mantenimento dei figli ecc.
Per continuare a percepire tali sussidi, il lavoratore deve tuttavia dimostrare di meritarseli: in pratica, non può permettersi di rifiutare alcuna offerta di lavoro, qualsiasi essa sia, pena perdita del sussidio; e lo Stato, dal canto suo, può permettersi di esercitare un controllo invasivo e paternalista sui percettori dei sussidi, con un monitoraggio costante sulla loro situazione patrimoniale, sui movimenti di capitale, addirittura sulle loro abitudini di vita. Ritroviamo così, sotto una nuova forma, una politica (definita elegantemente Welfare to Work) che mira a penalizzare il lavoratore disoccupato, affinché sia per così dire incitato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.
Sia detto tra parentesi: il lavoratore, che vede ridotto al minimo il suo potere contrattuale e anche la sua dignità, non rappresenta più un grande costo per l’azienda: attraverso questa nuova regolamentazione del mercato del lavoro (che viene percepita in Italia come un “modello da imitare”) le imprese ricevono, di fatto, un finanziamento pubblico, tanto che il giurista Luciano Barra Caracciolo ha parlato di indebiti aiuti di Stato, che potrebbero costituire una violazione dei Trattati europei da parte della Germania.
In conclusione, l’obiettivo delle élite non è più sopprimere in modo puro e semplice qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma fare in modo che l’aiuto statale conduca a una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego. Si tratta di fare del mercato del lavoro un mercato molto più conforme al modello della pura concorrenza, non per un semplice scrupolo dogmatico, ma per meglio disciplinare la manodopera sottomettendola agli imperativi della redditività.
I giovani vengono in tal modo rinserrati dietro le sbarre di un precariato dal quale non emergeranno i migliori, ma quelli della spina dorsale più flessuosa.
I giovani non rappresentano più l’avvenire della nostra società. Il ricambio generazionale è assente, il dominio delle geronto-oligarchie è evidente a tutti. La contestazione giovanile, fenomeno naturale e necessario per il rinnovamento della società è ormai un relitto storico del ’900. La giovinezza è una condizione naturale e temporale dell’uomo, così come la maturità e la vecchiaia. Oggi, la moda, la cultura, i costumi impongono un giovanilismo mediatico, artificiale, perpetuo. Questa società ha prodotto un individuo ibrido, senza età e senza personalità definita. Infatti si può essere solo giovani, o diversamente giovani, come diceva Costanzo Preve. Tu cosa ne pensi?
Gli uomini hanno sempre temuto la morte e insieme desiderato di vivere in eterno. Nondimeno, la paura della morte diventa più intensa in una società che ha abbandonato ogni ambizione emancipativa e che dimostra scarso interesse per la posterità.
Una società che teme di non avere un futuro non può infatti essere molto attenta ai bisogni delle nuove generazioni. La retorica giovanilistica che pervade la nostra società evidenzia l’indifferenza di chi ha ben poco da trasmettere alla generazione successiva e vede come prioritario il proprio diritto alla realizzazione di sé. Vivere per il presente – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri – è infatti l’ossessione dominante. Poiché il futuro si fa minaccioso e incerto, soltanto gli sciocchi rimandano a domani il divertimento che possono avere oggi.
La convinzione che la nostra società sia senza futuro, se da un lato si basa su una visione realistica dei pericoli che ci attendono, dipende simmetricamente da una incapacità narcisistica di identificarsi con le generazioni future o di sentirsi inseriti nel corso della storia. Stiamo perdendo rapidamente il senso della continuità storica, il senso di appartenenza a una successione di generazioni che affonda le sue radici nel passato e si proietta nel futuro. È la perdita del senso del tempo storico a generare l’indifferenza cui accennavi per le generazioni future, la quale si coniuga all’utopia tecnologica di un futuro liberato dal flagello della vecchiaia.
Come evidenziato da Christopher Lasch, il narcisismo emerge come forma tipica di strutturazione del carattere di una società che ha perso interesse per il futuro. Da un lato le coppie di sposi che rimandano o rifiutano la maternità e la paternità (spesso anche per indiscutibili ragioni pratiche), dall’altro i riformatori sociali che auspicano una “crescita di popolazione zero”, testimoniano il lento dissolversi di qualsiasi interesse per la posteriorità e l’incertezza diffusa rispetto all’interrogativo se la nostra società debba riprodursi o meno.
In questa situazione, il pensiero della nostra sostituzione definitiva e della nostra morte diventa assolutamente insostenibile e produce tentativi di abolire la vecchiaia e di prolungare la vita indefinitamente. Quando gli individui si scoprono incapaci di provare alcun interesse per quello che succederà nel mondo dopo la loro morte, aspirano a restare eternamente giovani e per la stessa ragione non desiderano più riprodursi. Quando la prospettiva di essere sostituiti da altri diventa insopportabile, il generare dei figli, garanzia di questa sostituibilità, viene visto come una forma di autodistruzione.
La personalità narcisistica non ha dunque alcun interesse per il futuro e non fa niente per procurarsi le tradizionali consolazioni della vecchiaia, la più importante delle quali consiste nel credere che le generazioni future continueranno la propria opera. Come scrive Lasch, questa era la situazione in cui in passato «amore e lavoro si fondevano nella sollecitudine per i posteri e in particolare nel tentativo di fornire alla generazione più giovane gli strumenti per poter portare avanti i compiti assunti da quella precedente. Il pensiero di continuare a vivere vicariamente nei nostri figli (più in generale, nelle generazioni future) ci aiutava a rassegnarci alla nostra sostituzione». Questa sollecitudine per i posteri è orientata a soddisfare il bisogno umano di trovare un senso all’esistenza e conseguentemente è in grado di mobilitare positivamente le energie delle persone. Gli uomini, l’unica specie che sa di dover morire, sono infatti anche, per compensazione, gli unici ad aspirare a una “compensazione postuma”.
Avviluppati in un orizzonte culturale che ha rinunciato al futuro, gli individui sembrano oggi privati degli stimoli a sacrificarsi per il bene dei figli e della società, regredendo a comportamenti infantili anziché applicarsi a raggiungere determinati obiettivi, e rinunciando all’atto maturo per eccellenza, che è quello della trasmissione.
Il totale sgretolamento di qualsiasi principio o forma di organizzazione degli eventi caratteristico di questo periodo storico ci pone – come dicevamo – in condizioni da ultimi uomini, abbandonati fatalisticamente all’alito gelido di una realtà che siamo stati istruiti ad accogliere come immodificabile.
Dal punto di vista di un’interrogazione storico-filosofica dell’oggi, questo immiserimento prospettico può essere combattuto comprendendo che il senso critico deriva necessariamente dal senso storico, che è in ultima istanza il senso della continuità.
La posizione umana nel mondo è a mio modo di vedere il prodotto di una immagine del mondo (Weltbild) o un immaginario sociale: la definizione del rapporto tra essere umano e mondo (che sia esso di adattamento, rifiuto, fuga, coinvolgimento e via discorrendo) passa attraverso immagini, o – più precisamente – il medium rappresentato da una qualche immagine del mondo che articola rappresentazioni, pratiche, percezioni, immaginari. Gli immaginari sociali rappresentano il luogo a partire da cui e in cui l’individuo si auto-interpreta, definendo i propri bisogni, aspettative e possibilità, organizzando le proprie strategie politiche e le prestazioni di cui può essere capace.
La cosiddetta “fine delle grandi narrazioni” è una grande frottola che ci si è voluti raccontare in questi ultimi decenni: il pensiero critico deve al contrario iniziare a proporne di nuove, smettendola di lasciare questo campo in mano ad altri.
Quella qui proposta è una modalità di ragionamento che parte dal presupposto secondo cui le immagini del mondo perimetrano un orizzonte di possibilità, e dall’idea che – come rilevato da Georges Sorel già a inizio Novecento – senza una credenza che dia senso ad una compagine di individui, non può darsi alcun tipo di associazione e dunque alcuna lotta. L’uomo è un essere narrante, e può rispondere alla domanda «Che cosa devo fare?» soltanto se riesce a trovare la risposta a una domanda antecedente: «Di quale storia o quali storie mi trovo a far parte?» (A. MacIntyre).
La filosofia ha dunque prima di tutto il compito di mettere in moto il movimento “a ritroso” e straniante per cui ciò che è o appare come reale viene colto come possibile, come concrezione più o meno felice di una precedente possibilità, che non era dunque certo l’unica e che non era perciò in grado di esaurire la ricchezza del possibile.
È a partire da tale aspetto che il pensiero critico deve muovere al fine di far vacillare l’ecosistema della rassegnazione: defatalizzare la realtà e immaginare un rapporto soggetto-storia aperto e problematizzante (che non si risolva cioè in una passiva accettazione del dato) è il compito che ci attende.