Charles Spencer Chaplin (1889-1977) – «La mia autobiografia», Mondadori

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« Con un fischietto? Con una filosofia? Chaplin ha fatto quel che ha fatto lavorando con un fischietto; ma dentro il fischietto c’era anche una filosofia. Di ceppo ebraico, cittadino di Kennington Road, Londra, Chaplin nasce nel 1889 da un “magnifico” attore-amatore, sempre ubriaco e in bolletta, e da una geniale soubrettina per un mucchio di ragioni (non ultima la denutrizione) predisposta alla debolezza di nervi e alla follia. La prima volta che Charlie mette piede sul palcoscenico ha cinque anni. Canta e mima (Tutti quanti conoscono Jack Jones). Così incomincia, tra un crampo (da fame) e una capriola, la storia di un ragazzo, poi uomo, poi grand’uomo, che tiene sempre sulla corda un ometto da tre soldi, piccolo-borghese fallito, a suo modo inappuntabile, che però ha scelto di vivere aiutando a vivere monelli, fioraie cieche, vagabondi, sfruttati, perdigiorno, aspiranti-suicidi, ecc. E’ Charlot: Don Chisciotte in sedicesimo, senza nessun Sancio Panza che lo tiri per le maniche e che, invece di trovarsi addosso la Spagna dei mulini a vento, si trova addosso l’America dei grattacieli, dei piedipiatti, dei magnati del petrolio e dello stagno. I suoi gusti? Non gli piace, per esempio, Shakespeare (eppure gli ha insegnato un mucchio di cose): gli preferisce forse Schopenhauer; tuttavia con uno sgambetto si ritrova a credere nella felicità, nella vitalità, nella gioia di vivere. Può mettersi a piangere davanti a u fiore e scrollare le spalle davanti a una catastrofe. Ama le donne, ma è felicissimo quando riesce a far scivolare un gelato nella scollatura di una matrona. Può tener prediche per ore (ed è un predicatore di razza), ma poi fa finire tutto in una risata. Eccetera. E’ Charlot? E’ Chaplin? Distinguere quel che c’è di Charlot in Chaplin e di Chaplin in Charlot è assurdo. L’America e il mondo, li conquistano tutti e due. Il comico cinematografico (ma con dentro lame e lame di tragico) lo inventano tutti e due. La sfida, ai benpensanti da un lato e al potere dall’altro, la lanciano tutti e due. Quando si tratta di presentarsi davanti alla commissione per le attività antiamericane in tempi di feroce maccartismo, sono ancora insieme (anche se l’America ufficiale non lo intuisce). Poi lascia gli Stati Uniti e si ritira in Svizzera. Da allora – salvo le notizie di Un re a New York – non ne sappiamo più nulla. È anche questo nulla che la sua Autobiografia viene a popolare di cose, fatti, notizie. Chaplin non è più “Sua Maestà il Bambino” (la definizione è di S.M.Ejzenstein); è venuto per lui il momento della riflessione e della confessione. L’ Autobiografia è, in fondo, l’opera che ci si aspettava da lui dopo Luci della ribalta. Tutt’altro che una filippica, tutt’altro che un quaderno di doléances, c’è dentro quel che aspettavamo di sapere da almeno vent’anni. Le sue idee anzitutto e il senso di tutto il suo lavoro, i suoi scontri e incontri, le sue donne (mogli e no, compresi i cosiddetti scandali), i suoi nemici, i suoi amici, le sue avventure in un’America divorata dalla propria crescita, i suoi affetti. E infine una ricchissima galleria di personaggi: uomini politici, comici del tempo eroico del cinema americano, registi, eccetera: dall’ormai leggendario Mack Sennett a Gandhi, da Einstein a Roosvelt, da Krusciov a Stravinskij… E sempre con quell’aria di lotta contro i guasti della morte nella vita che è la punta di diamante di tutto ciò che chiamiamo chapliniano».

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(dalla nota editoriale presente ai risvolti di questa edizione)

Charles Spencer Chaplin, La mia autobiografia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Mondadori, 1964.

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1998-1948) – Ieri ho pensato molto a «Il Capitale». Alla sua struttura, che nascerà dal metodo del linguaggio cinematografico, all’immagine …

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Ieri ho pensato molto a Il Capitale.
Alla sua struttura,
che nascerà dal metodo del linguaggio cinematografico,
all’immagine

PROSPETTIVE

«[…] Quando ci imbattiamo nella definizione di un determinato concetto, facciamo male a trascurare il metodo ddl ‘analisi meramente linguistica della stessa denominazione. Le parole che pronunciamo, talvolta sono molto più “intelligenti” di noi. Ed è affatto irrazionale la nostra ostinazione nel non volerci orientare in quella definizione depurata e ridotta a formula, che è, in rapporto al concetto, la sua denominazione. Bisogna dunque analizzare questa formula dopo averla sbarazzata dal bagaglio estraneo del materiale associativo “corrente”, quasi sempre tolto a prestito, che deforma la sostanza della questione. Naturalmente prevalgono le associazioni che corrispondono alla classe dominante nell’epoca della formazione o del massimo impiego di un dato termine o di una data denominazione. Noi abbiamo ricevuto tutto il nostro patrimonio “razionale” verbale e terminologico dalle mani della borghesia, con la comprensione e la lettura borghese predominanti di questo patrimonio, e con la struttura e il contesto associativi che le accompagnano, corrispondenti all’ideologia e all’impostazione borghesi.

Eppure, qualsiasi denominazione, come qualsiasi fenomeno, dispone di una duplicità della propria “lettura”, io direi della “lettura ideologica”: statica e dinamica, sociale e individualistica. Eppure il carattere tradizionale dell’“accerchiamento” associativo, corrispondente alla precedente egemonia di classe, riesce soltanto a confonderci. E, anziché procedere a una “differenziazione di classe” intraverbale, noi scriviamo, intendiamo e impieghiamo la parola-concetto in un senso tradizionale che non corrisponde affatto a noi sul piano classista …

La nostra concezione tradizionale e la poca voglia di ascoltare attentamente le parole, la nostra ostinazione nel voler ignorare questo settore di studio, è fonte di molte afflizioni e causa di un inutile dispendio di energie da parte dei vari temperamenti polemici! Ad esempio, quante baionette si sono spuntate contro la questione della “forma e del contenuto” ! Soltanto perché l’atto dinamico, attivo ed efficace del “contenuto” (con-tenuto, quale “trattenere fra loro”) veniva sostituito dall’interpretazione amorfa, statica, passiva del contenuto in quanto tale […]. Quanto sangue d’inchiostro si è sparso a causa del veemente desiderio di intendere la forma soltanto come derivante dal greco formos: canestro di vimini, con tutte le “conclusioni di carattere organizzativo” che ne derivano!

Un canestro di vimini, nel quale, ondeggiando sui torrenti di inchiostro della polemica, galleggiava questo disgraziato “contenuto” in quanto tale. Eppure sarebbe bastato guardare il dizionario, e non quello greco, ma semplicemente quello delle “parole straniere” in cui risulta che “forma” in russo vuoi dire immagine. Ora, l’immagine si trova all’incrocio tra i concetti di obrez e obnaruzenie (taglio e palesamento). […] Due termini che caratterizzano brillantemente la forma da ambedue i punti di vista: da quello statico-individuale (an und fuer sich), quale “obrez” – separazione di un determinato fenomeno da altri concomitanti […] lo “obnaruzenie”, palesamento, distingue invece l’immagine anche dall’altro aspetto dello “obnaruzenie”, cioè dal punto di vista dello stabilire un nesso sociale tra un dato fenomeno e quanto lo circonda. Il “contenuto” – atto del trattenere – è un principio di organizzazione, diremmo noi, in termini più semplici. Il principio dell’organizzazione del pensiero rappresenta per l’appunto il “contenuto” effettivo dell’opera. Un principio, che si materializza in un complesso di stimoli socialfisiologici, mentre la forma rappresenta appunto un mezzo per rivelarlo […].

In che cosa consiste dunque l’errore nell’uso del termine “conoscenza”? Il suo nesso radicale con il Kna (posso) da qui l’inscindibilità, nella lingua tedesca, di konnen (potere) da kennen-erkennen (conoscere) degli antichi germani del nord, con il “biknegan” dell’antico sassone – prendo parte – viene eliminato interamente dal concetto unilateralmente contemplativo di “conoscenza” quale funzione astrattamente contemplativa, di “pura conoscenza delle idee”, cioè si tratta di un concetto profondamente borghese. Noi non riusciamo a compiere dentro di noi un riorientamento della percezione dell’atto della “conoscenza” quale atto di una risultante direttamente efficace […]. Il distacco del processo conoscitivo da quello produttivo non può aver posto per noi. […] Per noi colui che conosce è colui che partecipa. In questo ci atteniamo al termine “biblico”: “E Mosé conobbe la moglie sua Sara […]”, e questo non significa affatto che egli fece la sua conoscenza! Colui che conosce è colui che costruisce! La conoscenza della vita è indissolubilmente costruzione della vita, la sua ri-creazione […].

Non esiste arte senza conflitto. Arte quale processo […]. Dappertutto c’è lotta. Una creazione suscitata dallo scontro fra le contraddizioni, e la cui presa di possesso cresce d’intensità per l’inserimento di sempre nuove sfere della reazione sensoriale di colui che le percepisce. Per ora, all’apogeo, egli non è implicato per intero. Non quale unità, quale individuo, ma come collettivo, come pubblico […]. Il libro. La parola stampata. Gli occhi. Occhi-cervelli. Va male. Il libro. La parola. Gli occhi. Il camminare da un angolo all’altro. Va meglio … Chi non ha sgobbato, correndo da un angolo all’altro di un recinto chiuso tra quattro mura, con un libro in mano? Chi non ha battuto il tempo con il pugno cercando di ricordare … “il plusvalore è … ?”. Cioè chi non ha aiutato lo stimolo visivo inserendo un movimento nel tentativo di ricordare delle verità astratte?

L’autoritario-teologico “così è” va a farsi’ friggere. Il carattere assiomatico di ciò che si deve credere salta per aria! “All’inizio era il verbo …” o, forse, non “era”. Il teorema nelle sue contraddizioni, che esigono una prova, implica il conflitto dialettico. Implica l’essenza del fenomeno che si può afferrare in maniera dialetticamente risolutiva nelle sue contraddizioni […]. Con un massimo di intensità. Avendo mobilitato per questo scontro interiore fra punti di vista contrapposti gli elementi risolutivi della logica e del temperamento personali […]».

Sergej Michajlovič ĖjzenštejnTeoria generale del montaggio, Marsilio Editori, 1985, ried. 2004.

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto

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«Io non parlo dei piaceri carnali, anche se in proposito ci sarebbe molto da dire, né dell’innamoramento, su cui c’è meno da dire. Con questi due fenomeni il mondo tirerebbe avanti, ma l’amore deve essere considerato separatamente […]. Esso modifica l’amante e l’amato, che sia in meglio o in peggio. Già dall’esterno gli amanti appaiono […] come produttori di un ordine elevato. Essi rivelano la passione e l’irrefrenabilità, sono molli senza esser deboli, sono sempre in cerca di atti cortesi che potrebbero compiere (nella forma compiuta dell’amore non soltanto verso l’amato). Essi costruiscono il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. Per loro la differenza tra nessun errore e un solo errore – una differenza che il mondo può tranquillamente ignorare – è enorme. Se fanno del loro amore qualche cosa di straordinario, lo devono solo a se stessi, se falliscono possono tanto poco scusarsi con gli errori dell’amato quanto, ad esempio, i capi del popolo con gli errori del popolo.
Gli impegni che si assumono sono impegni verso se stessi; nessuno potrebbe giungere alla severità cui essi giungono di fronte alle trasgressioni degli impegni. È essenziale per l’amore […] che gli amanti prendano sul serio molte cose che altri trattano alla leggera, gli infimi contatti, le sfumature meno avvertibili. I migliori riescono a armonizzare pienamente il loro amore con altre attività produttive; allora la loro cortesia diventa universale, il loro spirito inventivo diventa utile a molti, ed essi favoriscono tutto ciò che è produttivo.

[…]

Me-ti disse a Lai-tu: “Ti ho visto accendere il fuoco. Se non ti conoscessi, mi sarei certo offeso. Avevi l’aria di qualcuno che è costretto ad accendere il fuoco, e siccome ero presente soltanto io, dovevo supporre di essere io quello sfruttatore”. Lei disse: “Volevo scaldare la stanza il più presto possibile”. Me-ti disse sorridendo: “Quel che volevi, io lo so. Ma tu lo sai? Tu volevi che io, il tuo ospite, me ne stessi a mio agio, al calduccio; si doveva fare alla svelta, perché si potesse cominciare a conversare; io dovevo amarti; il legno doveva cominciare a bruciare; l’acqua del tè doveva bollire. Ma di tutto questo riuscì appunto solo il fuoco. Lattimo andò perduto. Si fece alla svelta, ma la conversazione dovette aspettare; l’acqua del tè bollì, ma il tè non fu pronto; ogni cosa fu fatta per l’altra, ma nessuna per se stessa. E quante cose si sarebbero potute esprimere nell’accendere il fuoco! Vi è dentro un antico costume, l’ospitalità è qualche cosa di bello. I gesti con cui la bella legna viene accesa possono essere belli e suscitare amore; l’attimo può essere sfruttato, e non ritorna. Un pittore che avesse voluto dipingerti mentre accendevi il fuoco al tuo maestro avrebbe avuto ben poco da dipingere. Non c’era gioia in questo modo di accendere il fuoco, era solo schiavitù”».

 

Bertolt Brecht, Me-Ti. Libro delle svolte, Einaudi, 1975, pp. 176-178.

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Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) – Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda

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“Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda”.

“La nostra destinazione nella società è un perfezionamento comunitario, un perfezionamento di noi stessi grazie all’uso della libera azione degli altri su di noi e un perfezionamento degli altri mediante l’influenza della nostra azione su di essi come enti liberi”.
                                           J.G. Fichte, La missione del dotto.

“Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi”.
                                         J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca

“L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fine assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera”.
                                         J.G. Fichte, Sistema di etica
J.G. Fichte

Marcel Proust (1871-1922) – Leggere è comunicare

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«Ho cercato di sostenere che la lettura non dovrebbe essere assimilata ad una conversazione, sia pure con l’uomo più sapiente; la differenza essenziale tra un libro e un amico, non consiste nella loro maggiore o minore saggezza, ma nel modo in cui comunichiamo con loro; la lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ognuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando in pratica a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali».

Marcel Proust, Sur la lecture.

Rudolf Nurejev (1938-1993) – L’essenza della vita è nel suo divenire e non nell’apparire: si ama perché si sente il bisogno di farlo.

Rudolf Nurejev

«[…] dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.

Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica […].
Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.

Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi.

Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi.

Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.

Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta.

Era questa la differenza tra me e lei.
Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.

Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi.
Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso.

La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare.
Ero pittore, poeta, scultore.

Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte.
Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza.

Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso.
Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere.

Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore.

Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire.

Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.

Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera.

È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità.

Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita…».

Rudolf Nurejev, Lettera alla danza.

Primo Levi (1919-1987) – Ogni tempo ha il suo fascismo

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«Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti».

Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, in: Corriere della sera, 8 maggio 1974.

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