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I sommersi e i salvati
Per molto tempo non ci siamo occupati di Primo Levi. Poi, un giorno è morto. Più esattamente, si è ammazzato. Cinque minuti dopo lo abbiamo scoperto uno dei più importanti scrittori italiani. Abbiamo fatto con Levi come con le nostre coscienze: non appena scopriamo di averne una siamo pronti a giurare di esserne gli unici possessori. Così, dall’11 aprile 1987 sono andati via via aumentando amici, lettori, estimatori di Primo. Quasi tutti affermarono di averlo conosciuto, capito, analizzato. Financo di sapere le ragioni del suo suicidio. La critica è cresciuta di pari passo alla morbosità, non c’è dubbio, e in particolare un ristretto (ma agguerrito) gruppo di “esegeti” – che per lo più ruota intorno alla Einaudi e al “Centro Studi Primo Levi” di Torino – si distingue per purismo e settarismo culturale. La casa editrice che fu di Pavese e Ginzburg, di Calvino e Vittorini, e che oggi non esiste più, livellata dalla mediocritas del mercato, si è autoproclamata manutentrice della memoria del chimico scrittore dopo averlo non solo ignorato ma originariamente rifiutato quando il giovane reduce presentava timidamente in via Biancamano il manoscritto del futuro Se questo è un uomo. Era il 1946. Storia vecchia, discussa, demitizzata. Ma storia, appunto. E tale resta. Sopravvalutati che si ergono a portavoce postumi di un sottovalutato. Molta critica primoleviana è infatti composta da libri fotocopia e interpretazioni pretestuose, come a dire che nihil sub sole novum, sed renovata vides, il che non sarebbe affatto male se non fosse che a rompere le uova nel paniere ci ha pensato Levi stesso, con la sua continua opera autoermeneutica. La straordinaria edizione critica di Se questo è un uomo a cura di Alberto Cavaglion ne è l’esempio più concreto e completo. «Il critico», ammetteva Cesare Segre, «non può sbagliare molto con Levi, che si è già spiegato benissimo da solo»[1].
Non stupisce, dunque, che le riflessioni dell’intellettuale piemontese Costanzo Preve (1943-2013) intorno a Levi siano state snobbate dalla storiografia. Che questo filosofo, cresciuto come un fungo nella “sinistra-sinistra” italiana e volutamente ignorato – meglio sarebbe dire “evitato” – dall’accademia poiché «nel bene e nel male unico e non incasellabile»[2], incontrasse il concetto di zona grigia, come venne elaborato dall’autore di I sommersi e i salvati (1986), era fatale. Tra i due poli dello sfruttato e dello sfruttatore esiste, cinerina ed inevitabile, la sfera di collaborazione tra vittime e carnefici, tra bene e male, tra responsabilità opposte, non solo in Lager, ma in tutte le organizzazioni umane create al fine di dissanguare una parte maggioritaria a vantaggio dell’altra quasi sempre minoritaria.
Ptimo Levi
«Solo una retorica schematica», affermava Levi, «può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale»[3].
Accade lo stesso, vien fatto di pensare, negli ambienti culturali che fanno della filosofia un «chiacchiericcio esibizionistico da caffè letterario» mentre, ricordava Preve, «essa è un campo di battaglia, come ha giustamente detto Kant (Kampfplatz)»[4]. Grigio era anche quello spazio ideologico che si crea quando le due dottrine storicamente dicotomiche destra-sinistra, nel mondo attuale ormai prive di senso, vengono mantenute vive accanitamente e artificialmente per meri interessi di bottega, vale a dire la geminazione capitalistica. Formulazione mai perdonata a Costanzo Preve[5].
Nella sua mitezza, anche Primo Levi non era certo uno che le cose le mandava a dire. Ad esempio che non fosse un grande lettore di filosofia poiché, ritenendola un affare molto serio, dichiarava la sua difficoltà innanzitutto a padroneggiarne il linguaggio. Un primo parallelismo tra i due si potrebbe fare a partire dal concetto di complessità e comunicazione. Secondo Levi l’essere umano non è una monade e «salvo casi di incapacità patologica comunicare si può e si deve»[6], anche e forse soprattutto comunicare la complessità. In Lager questa era la prima lezione e la prima discriminante tra coloro che avrebbero avuto una minima possibilità di sopravvivenza e il resto, la gran massa anonima dei votati a morte certa. Costanzo Preve guardava alla realtà con lo stesso atteggiamento critico (diremmo analitico e combattivo) pur spostando il tutto sul piano filosofico. «“Complessità”», scriveva, è quella «paroletta che sta al posto di qualsiasi tentativo di interpretazione» della realtà storica e sociale e dunque della sua comunicabilità[7].
In un bel libro del 2000, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Preve si proponeva di analizzare «lo scandaloso atteggiamento di indifferenza o di complicità verso le decisive guerre imperiali del 1991 e del 1999»[8], vale a dire la prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo, le prime ad essere presentate con l’ossimoro di “umanitarie”, servendosi di una premessa storico filosofica che ne conteneva anche l’enigma:
«il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima, o meglio, l’intreccio scandaloso di pentimento e di non-pentimento»[9].
Costanzo Preve
Non entreremo nel vivo del libro, che affronta una serie di problemi filosofici e politici anche slegati dal nostro contesto, e ci soffermeremo su Auschwitz poiché è qui che entrano in ballo Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Nel primo, che Preve ricorda e sottolinea come libro inizialmente rigettato dal “politicamente corretto”, vale a dire dai grigi, vi era «già quasi tutto ciò che ci serve per inquadrare razionalmente quello che è avvenuto mezzo secolo fa»[10], mentre nel secondo, per l’esattezza l’ultima opera di Levi, il chimico compie un salto notevole dalla letteratura memorialistica alla filosofia suo malgrado (non certo alla maniera dell’altro grande testimone, Jean Améry), ripensando il Lager e l’urgenza della sua riconoscibilità. La chiave interpretativa era quella zona grigia in cui i confini del bianco e nero sfumano in una tragica e tristemente uniforme mistura.
Lo sterminio pepetrato dai nazifascisti ha dato origine, da parte dei vincitori del conflitto, all’amministrazione del pentimento collettivo – quando sappiamo che esso è un moto spontaneo che riguarda le singole coscienze – su scala quasi glabale. Lo sapeva bene Primo Levi quando rispondeva ad Améry che lo aveva accusato di essere un perdonatore:
Jean Améry
«Non la considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo»[11].
Costanzo Preve, si badi bene, non giustifca in nessun modo il genocidio né cerca pretesti per sminuirne la portata storica. Egli si limita ad osservare come l’orrore di Hiroshima e il suo consapevole doppio a Nagasaki siano stati globalmente assolti con la motivazione di un male necessario, anzi, “etico”. La presunta “salvezza dei nostri ragazzi” è stato il pretesto col quale il governo degli Stati Uniti ha inaugurato l’era atomica, per la quale non è esistito pentimento alcuno.
Ma tornando ad Auschwitz. Qual è dunque la funzione filosofica che, secondo Preve, il racconto di Levi avrebbe avuto? Anzitutto che Shoah e Olocausto, già fuorivianti a partire dai termini impropri con cui sono stati usati, non sono eventi sacrificali mistico-religiosi o satanici ma un momento (il più terribile, probabilmente) di un progetto di dominio imperialista e gerarchico che in un dato arco cronologico ha previsto lo sterminio – non solo degli ebrei – come strumento essenziale al suo coronamento[12]. In secondo luogo, l’attenzione (o la denuncia) di Levi a quella cospicua parte di essere umani che «si lasciano invischiare nella doppia rete dell’inganno ideologico e del meccanismo aziendale di trasmissione degli ordini»[13]. Da qui, il monito: è accaduto, può riaccadere. Le guerre del Golfo e del Kosovo, che – lette con gli occhi di oggi – chiudevano barbaramente il Novecento e aprivano altrattanto disperatamente il nuovo secolo, ne sono diretta filiazione: non del Lager, non del pikadon su Hiroshima, ma del loro differenziato e regolamentato trattamento.
Primo Levi, non-filosofo, ci metteva in guardia contro simili derive. Preve carpiva l’essenza di quel messaggio e l’applicava alla contemporaneità geopolitica e militareEntrambi inascolati, quando era tempo di farlo. Smascherati tali meccanismi, ora che le profezie sembrano, da molti signa, avverarsi, alla politica, se non fosse composta da grigi, andrebbe il compito di fare proprie certe lezioni e vigilare.
Ma, appunto, andrebbe.
Daniele Orlandi
04-12-2015
Note
[1] C. Segre, I romanzi e le poesie, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, p. 92.
[2] G. Pezzano, Presentazione, in P. Zygulski, Costanzo Preve: la passione durevole della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2012, p. 5.
[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1997, pp. 27-28.
[4] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2013, p. 456.
[5] Cfr. Idem, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Pistoia, C. R. T., 1998.
[6] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. p. 68.
[7] C. Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Pistoia, C. R. T., 2000, p. 95.
[8] Ivi, 93.
[9] Ivi, p. 97.
[10] Ivi, p. 98.
[11] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 110.
[12] C. Preve, Il Bombardamento Etico, cit. p. 100.
[13] Ibidem
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