Oliver Sacks (1933-2015) – Sono riuscito a considerare la mia vita come da una grande altezza quasi fosse una sorta di paesaggio, e con una percezione sempre più profonda della connessione fra tutte le sue parti.

Sacks Oliver 03
La storia individuale del malato
 e l'intera vita del malato
 non devono mai passare in secondo ordine.

Salute, malattie e reazioni non possono essere capite in vitro, da sole;
 possono essere capite solo se riferite a noi,
 quali espressioni della nostra natura,
 del nostro vivere, del nostro esser-ci (Da-sein).

L'anima è armonica.

O. Sacks

 

Gratitudine

 

«Negli ultimi giorni sono riuscito a considerare la mia vita come da una grande altezza quasi fosse una sorta di paesaggio, e con una percezione sempre più profonda della connessione fra tutte le sue parti […]. Non posso fingere di non aver paura. A dominare, però, è un sentimento di gratitudine. Ho amato e sono stato amato; ho ricevuto molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Più di tutto sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura».

Oliver Sacks, Gratitudine (2015), tr. it. Adelphi, Milano, 2016, pp. 27-29.

 

Risvolto di copertina
I quattro scritti qui raccolti sono la lettera di congedo che Oliver Sacks ha voluto indirizzare ai suoi lettori, dapprima rendendoli partecipi delle proprie sensazioni di fronte alla soglia degli ottant'anni, e più tardi informandoli, con perfetta sobrietà, di essere affetto da un male incurabile. Ma non ci si inganni: sono pagine vibranti di contagiosa vitalità quelle che Sacks ci regala, dove più che mai si respirano freschezza, passione, urgenza espressiva. Come quando, riflettendo sulla vecchiaia, rivela di percepire «non una riduzione ma un ampliamento della vita mentale e della prospettiva»; o quando si ripromette, nel breve tempo che gli resta, di «vivere nel modo più ricco, più intenso e più produttivo possibile»; o quando racconta di aver visitato, fra una terapia e l'altra, il centro di ricerca sui lemuri della Duke University: «... mi piace pensare che, cinquanta milioni di anni fa, uno dei miei antenati fosse una piccola creatura arboricola non troppo dissimile dai lemuri odierni»; o quando, pochi giorni prima della morte, contemplando la sua vita dall'alto «quasi che fosse una sorta di paesaggio», ne rievoca i momenti essenziali: del tutto simile, in questo, a un filosofo da lui molto amato, David Hume, il quale, appreso di avere una malattia mortale, scriveva nella sua breve autobiografia: «È difficile essere più distaccati dalla vita di quanto lo sia io adesso».

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Anna Maria Ortese (1914-1998) – Una delle azioni peggiori è il corrompere, il far morire la fiducia e la speranza.

Ortese Anna Maria

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Domanda
Quale è per lei la cosa peggiore?

A. M. Ortese
Certamente sono tante: l’inganno, pe resempio, il mentire, il tradire. Ma una delle peggiori è il corrompere, il far morire la fiducia e la speranza. Questo oggi si fa con i giovanissimi, con i bambini stessi; [poi adulto] nessuno ricorda se stesso, da bambini, o da ragazzo e cosa si aspettava, a buon diritto dalla vita.

Risvolto di copertina
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell'uomo «contro la Terra», la sua «cultura d'arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d'allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l'uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l'universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull'unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.

 


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