Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.
Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore,
priva di raccoglimento
– di abitudine al raccoglimento presso di sé –
e dunque tutta consegnata all’esteriorità,
irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso?
«Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. Gli era venuto in capo che i suoi timidissimi tentativi di ribellione a ciò che la gente altolocata stimava il bene, tentativi che subito aveva soffocato in sé – che essi soli potessero essere gusti, e tutto il resto essere sbagliato. Il suo ufficio, il suo modo di vivere, e la famiglia, e gli interessi mondani e professionali, – tutto poteva essere sbagliato. S’era provato a difendere davanti a se stesso quelle cose. E a un tratto sentiva tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere.
“E se così è, – s’era detto – e se lascio la vita colla coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?”. S’era così disteso supino e aveva ricominciato a considerare tutta le sua vita sotto un nuovo aspetto. E quando al mattino venne il domestico, e poi la moglie, e poi la figlia, e poi il dottore, – ogni loro gesto, ogni loro parola gli avevano confermato l’orribile verità che gli si era aperta la notte. In loro vedeva se stesso, le cose di cui aveva vissuto; e chiaramente intendeva che tutto ciò non era quello che avrebbe dovuto essere, ma solo un enorme, uno spaventoso inganno che nascondeva la vita e la morte».Lev Nikolàevič Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, trad, di Tommaso Landolfi, Rizzoli, 1989, pp. 85-86.
Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità,
totalmente assorbito in essa.
Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento,
alimentato in sé un dialogo con se stesso,
ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare
è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.
«Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore, priva di raccoglimento – di abitudine al raccoglimento presso di sé – e dunque tutta consegnata all’esteriorità, irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso? Un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, mette in scena questo incontro dell’uomo esteriore con la figura estrema che nega ogni mondanità, ogni sociale convenzione, cioè la morte. Il giudice Ivan Il’ič: ha costruito le sue giornate, e il suo pubblico apparire, la sua sociale identità comme il faut, cioè così come occorre essere, come davvero ci si attende che uno sia, quando la vita è pensata come adeguazione piena ai costumi, alle convenzioni sul piano pubblico e alle convenienze sul piano privato. In tribunale, nei salotti, in famiglia Ivan Il’ič: è sempre all’altezza della situazione. Il suo stesso matrimonio è stato piegato alle convenienze, ma per essere all’altezza non è stato separato da quel tanto di amore che è pur necessario secondo le convenzioni sociali. Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità, totalmente assorbito in essa. Nessun turbamento, nessuna esitazione, nessuna debolezza in questa identità riuscita e sicura. Ma a un certo punto l’irruzione della malattia, e con essa, il rivelarsi della morte, del suo profilo, della sua attesa, comincia a sgretolare i contorni dell’esteriorità. Rivela, di colpo, l’inautentico di un’esistenza, la quale ha cancellato, o almeno rimosso, il rapporto con la morte, l’essere per la morte. Si mostra, per la prima volta, il disegno di un’interiorità come possibile spazio di un dialogo con l’altro, con la sua misteriosa presenza. Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento, alimentato in sé un dialogo con se stesso, ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione. Il racconto di Tolstoj si può leggere come una sorta di drammaturgia della coscienza: lo spazio della coscienza, riempito dai richiami delle sociali abitudini, si ritrova vuoto quando la malattia impone una nuova estrema relazione, quella con la morte. Il personaggio, nella sopravvenuta solitudine, percepisce che tutto continua al di fuori di lui, senza di lui, la moglie e la figlia continuano a uscire, a incontrare un mondo, forse quello che era il suo mondo, mentre lui è prigioniero di un nuovo ospite che implacabilmente, giorno dopo giorno, lo spoglia di ogni legame con gli altri, e persino con se stesso. Ivan Il’ič cade nel gelo di un’attesa che non può né riconoscersi come attesa né stemperarsi in un dialogo, un’attesa priva di pensieri. Estraneo all’esteriorità di un tempo, estraneo all’interiorità che il nuovo tempo esige».
Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 50-52.
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