Max Pohlenz (1872-1962) – Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco. Il Socrate platonico sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità. La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino.
«L’insegnamento essenziale dell’uomo greco è l’impulso ad autodeterminarsi, lo stimolo a forgiare la vita secondo una propria misura. L’avvedersi, quindi, che se la sua volontà può subire interferenze improvvise dall’esterno, rappresenta per lui un’esperienza particolarmente viva e inquietante. Egli parla allora di una “parte” di una moira che gli viene assegnata. […] Certo i Greci possiedono una forte tendenza a universalizzare […]. Dappertutto, nel mondo come nel proprio essere, essi sentono la vita, e vi ravvisano qualcosa di divino, la contemplano in un gran numero di forme plastiche di cui l’uomo è incessantemente circondato» (p. 19).
«Anche di fronte agli dèi, come dinanzi al destino, l’uomo greco avverte la propria deficienza, ma si pone di fronte ad essi in un atteggiamento del tutto diverso da quello dell’ebreo o del cristiano dinanzi al suo Dio trascendente. Certo gli dèi possono distruggerlo, ma sono soltanto “i più forti”, vivono nel suo stesso mondo e provengono dalla medesima sorgente da cui egli proviene. […] Non vi è “prodigio”, ossia rottura delle leggi naturali da parte di una forza superiore, poiché i Greci conoscono il soprasensibile, ma per esprimere il “soprannaturale” la loro lingua non ha termini adeguati. Conoscono sì l’orrore e la reverenza dinanzi al numinoso, ma il brivido e la paura degli spiriti s’incontrano solo negli strati inferiori; così come estranea ai Greci è quella segreta irritazione dei nervi che il moderno uomo “illuminato” avverte quando abbandona la sua fede nelle forme concrete sovrasensibili, per rifugiarsi nel mondo dell’irrazionale e del “demonico”» (pp. 19-20),
«Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco o da una divinità capricciosa. Seguivano il loro impulso ad autodeterminarsi; non v’era riflessione che potesse infiacchire in loro tale istinto. […] Il Socrate platonico […] sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità» (p. 21).
«La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino, l’umile accettazione di una volontà divina, ma esige l’affermazione e la libera determinazione di lui stesso. […] I Greci non erano tali da appagarsi di sensazioni istintive: la loro aspirazione a conseguire chiarezza in tutto quanto riguardava la loro vita, li condusse infine alla filosofia socratica. Ma ancor prima che questa si desse a risolvere i problemi della vita umana avvalendosi del puro intelletto, già s’era sviluppata quella forma artistica che associando mytos e logos affrontava e rappresentava la problematica della esistenza» (p. 22).
«L’anima della tragedia è il logos: interiormente come virtù spirituale che determina l’azione, ed esteriormente, come parola, idonea ad esprimere tutti i sentimenti umani, i più disparati atteggiamenti dell’animo e i pensieri profondi. Non soltanto in se stesso l’uomo greco avverte la presenza del logos. È un’esigenza radicata in lui rintracciarlo anche nel mondo che lo circonda, intende il “senso” delle cose. Ciò vale a svelarci il valore incomparabile e insostituibile del coro nella tragedia greca» (p. 31).
«Non v’è lode, che la tragedia potesse tributare, più alta di quella di possedere una mente nobile. […] Il poeta non parlava al suo ceto, ma al suo popolo. Parlava come cittadino ai cittadini, ma questi cittadini erano abbastanza lungimiranti e magnanimi per interessarsi di chi non era cittadino, e per riconoscere il valore dell’animo umano anche nella donna, nello straniero, nello schiavo. Si allargava così l’orizzonte; lo sguardo spaziava all’universale umano» (p. 42).
Max Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, 1978.
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