Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.

Stefano Azzarà - Domenico Losurdo
Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo nell’aprile 2011

Domenico Losurdo

(1941-2018), in memoriam

di Stefano G. Azzarà

Università di Urbino

 

Sinistrainrete

 

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz’altro sbagliata. È un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi. A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in primo luogo di se stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell’oggettività. La volontà pervicace, cioè – radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della “via hegeliana” rispetto alla “via fichtiana” – di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell’oggetto, ovvero nella cosa stessa. L’idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall’attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell’oggettività. In un tessuto ontologico, cioè, che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all’appello la fatica del concetto.

Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c’è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunque richiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all’improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono la sue prime pubblicazioni); qualcosa cioè che può assumere un valore generale che vada al di là dell’esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un’intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il tramonto di un’epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti.

Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experimentum crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, spesso, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose.

Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l’ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso nient’altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heidegger nel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l’idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all’ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell’universalismo, nella cui esplosione si annunciava già all’epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient’altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludeva Losurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera».[1] Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell’ideologia raffinatissima ma di natura tutta reazionaria.

La politica come “dissacrazione” del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l’ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l’ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»;[2] il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale – e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali – a prendere posizione. Ebbene, poiché ha praticato in prima persona questo «engagement oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili – in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d’anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente –, a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle sue spalle – e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all’emancipazione del genere umano – si poteva riconoscere non il fragore di un’avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni.

Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un’epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l’accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l’angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere sul terreno accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico “puro”, e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali – sempre pronti a denunciare l’ideologia ovunque tranne che presso se stessi – si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava – e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili – poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una cultura sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell’Occidente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui.

Torniamo sul terreno dell’oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell’eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza.

Con Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»[3] consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all’ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente all’opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione».[4] Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere “giacobino” perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla trasformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach manchen Revolutionen der Umbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».[5]

Con saggi come Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua,[6] oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca[7] o ancora Fichte e la questione nazionale tedesca,[8] Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell’ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda […] come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell’assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una pace duratura o perpetua in Europa e nel mondo», ecco che con l’invasione napoleonica e i Befreiungskriege, al modificarsi della situazione concreta, si produce un mutamento netto. Un mutamento all’insegna della gallofobia e della teutomania, però; un mutamento che lo porterà lontano da ogni equilibrio critico e a respingere in toto, assieme all’inviso napoleonismo, anche lo spirito del 1789 in un primo momento esaltato. E a contestare dunque la rivoluzione politica ma soprattutto quell’universalismo filosofico che ne era alla base, e che dagli esiti della rivoluzione era stato tradito, dando vita in tal modo alla lunga stagione del particolarismo culturale tedesco, con le sue drammatiche ripercussioni tra le due guerre mondiali.

Ed eccoci a Hegel, infine, studiato in testi come Hegel, questione nazionale, Restaurazione,[9] Tra Hegel e Bismarck,[10] La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel,[11] Hegel e la libertà dei moderni[12] e infine Hegel e la Germania:[13] non solo per questo grande filosofo «La libertà della persona è un diritto inalienabile e imprescrittibile e non c’è positivo ordinamento giuridico che possa annullarlo»,[14] farà notare Losurdo, ma questa posizione andrà anche molto al di là del contrattualismo dell’epoca. Già nelle lezioni sulla Filosofia del diritto, per Hegel «Il Notrecht [era] diventato il diritto del bisogno estremo, dell’affamato che rischia ti morire d’inedia e che pertanto non solo ha il diritto, ma “il diritto assoluto”» di rubare il pezzettino di pane capace di assicurargli la sopravvivenza, “il diritto assoluto” di violare il diritto di proprietà, la norma giuridica che condanna comunque il furto».[15] Lungi dall’essere il difensore filosofico della Restaurazione e l’ispiratore del militarismo prussiano, dobbiamo riconoscere in lui, in questa prospettiva, lo scopritore di un continente filosofico e politico interamente nuovo, un continente che va molto al di là del liberalismo e che toccherà poi a Marx, non per caso, esplorare a fondo.

Ma proprio con il liberalismo, ossia con le posizioni culturali che sono risultate vincitrici alla fine di quella ulteriore guerra mondiale che è seguita alla Seconda guerra dei Trent’anni, Losurdo andava affrontando nel frattempo un corpo a corpo che si sarebbe rivelato ultracedennale. A metà degli anni Novanta ne Il revisionismo storico sottolineava l’emergere di una «gigantesca rilettura del mondo contemporaneo» il cui obiettivo era in realtà «la liquidazione della tradizione rivoluzionaria dal 1789 ai giorni nostri» e che rappresentava dunque una «svolta storiografica e culturale epocale»[16] che era al contempo anche una svolta interna al liberalismo stesso. Il quale, assorbito «il radicale mutare dello spirito del tempo nel passaggio dalla grande coalizione antifascista alla Guerra fredda» e maturata «la conseguente elaborazione di un’ideologia “occidentale”»,[17] si liberava adesso delle componenti democratizzanti acquisite nel corso del suo confronto storico con il movimento radicale e con quello socialista per tornare al proprio passato e riorientarsi in chiave nettamente conservatrice. Quando dieci anni più tardi questo percorso sarà compiuto, e cioè quando l’affermazione del neoliberalismo si sarà consolidata, ecco allora la Controstoria del liberalismo, un testo con il quale viene definitivamente confutata la classica definizione del liberalismo come teoria della libertà e dei diritti individuali: il liberalismo rappresenta semmai sul piano culturale «un’auto- designazione orgogliosa, che ha al tempo stesso una connotazione politica, sociale e persino etnica».[18] Con esso, cioè, «Siamo in presenza di un movimento e di un partito che intende chiamare a raccolta le persone fornite di un’”educazione liberale” e autenticamente libere, ovvero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la “razza eletta”[…] la “nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà”». La teoria liberale è dunque in primo luogo l’autocoscienza della comunità dei liberi, dei «ben nati»,[19] la quale crea uno spazio sacro che distingue uomini e sottouomini a partire da precise clausole d’esclusione fondate sul censo, sull’etnia, sul genere.

Ecco allora che proprio la tanto celebrata «limitazione del potere» consente alla società civile di sfuggire alla mediazione dello Stato o di neutralizzare quella sua universalità formale che, per quanto spesso posta a copertura di un blocco di interessi di classe, è comunque diversa dal mero nulla. E si configura perciò come la mossa politica che sollecita nel sistema dei bisogni l’«emergere di un potere assoluto senza precedenti», invitando a una delimitazione della comunità dei liberi che si contrappone a quella dei servi non solo sul piano filosofico ma anche sul piano concretamente materiale e geografico. E fungendo infine da legittimazione di una conquista coloniale che attraversa tutta l’età moderna e che con le sue pratiche di sterminio liquida ogni pretesa liberale di “individualismo”.

Proprio la volontà pervicace di limitare la dignità umana al solo Occidente e l’incapacità di pensare il concetto universale di uomo, tra l’altro, è il terreno filosofico che Losurdo mostrerà accomunare il liberalismo e il pensiero reazionario, del quale si è occupato una prima volta con La comunità, la morte e l’Occidente e una seconda con il suo monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Con la sua «polemica contro la modernità e il presente»,[20] il filosofo considerato a lungo “inattuale” si collocava in realtà inizialmente in tutto e per tutto sul terreno del liberalismo europeo e della sua denuncia, oggi ignorata o rimossa, dell’avanzata massificante dei movimenti socialisti e democratici, e si identificava con la concomitante esaltazione liberale del primato dei popoli europei sui sottouomini delle colonie, destinati ad essere sottomessi e a erogare lavoro servile. E saranno semmai la pavidità e la debolezza del liberalismo stesso, ormai in difficoltà e disposto al compromesso di fronte alla rivolta dei barbari proletari e alle loro grida rivoluzionarie, a spingerlo, sul finire della sua vita cosciente, al «radicalismo aristocratico» e all’ideazione di quel «partito della vita» che, per la salvezza della civiltà occidentale, arriverà ad auspicare l’«annientamento di milioni di malriusciti»[21] e delle «razze decadenti». Ma anche il pensiero di Heidegger, del resto, non può minimamente essere compreso senza far riferimento a quel «pathos dell’Occidente»[22] che all’epoca della Prima guerra mondiale si accompagnava all’esaltazione della Gemeinschaft, della Entscheidung e della morte e che era condiviso da entrambe le «ideologie della guerra» in campo. Né la sua duratura adesione al nazismo può essere spiegata senza tener conto di come quel movimento fosse anzitutto la prosecuzione, radicalizzata e proiettata sul continente europeo, della lunga avventura coloniale dell’Europa stessa, con le sue pratiche di de-umanizzazione e di sterminio fondate sulla riduzione del genere umano a una mera specie zoologica già su un piano che pretendeva di essere filosofico.

Non possiamo che ricostruire per sommi capi qui una produzione intellettuale gigantesca, che ha scandagliato i più diversi aspetti della tradizione filosofico-politica europea (31 sono le monografie pubblicate, altrettanti i volumi da Losurdo curati, 200 i saggi usciti su rivista, come attesta la bibliografia che egli stesso aveva approvato e che riportiamo in appendice a questo testo). Rimane però fermo – e ci sarà modo in futuro di precisarlo meglio – che in tutto questo lavoro l’impegno principale della sua esperienza intellettuale è stato dedicato a quel momento di questa tradizione che certamente più gli stava a cuore e cioè all’auto-critica e alla ricostruzione del materialismo storico. Se la storia del marxismo è la storia di un’ininterrotta catena di “crisi” che inizia già con Marx e che più volte si sono manifestate nel corso del Novecento, muovendo da posizioni e con intenzioni ed esiti diversi Losurdo e la sua generazione si sono scontrati infatti con la più importante di queste crisi, con la crisi ultima e forse definitiva. Perché la loro riflessione sulla tradizione storica e culturale del movimento operaio è avvenuta quando questo movimento e i suoi apparati intellettuali erano ormai a pezzi e non sembrava sensato né produttivo avventurarsi per quella via: dopo cioè la sconfitta di sistema intervenuta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento.

Losurdo lo ha fatto in numerosi libri: Marx e il bilancio storico del Novecento,[23] Utopia e stato d’eccezione,[24] Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico,[25] Fuga dalla storia?,[26] La lotta di classe[27] e infine Il marxismo occidentale,[28] oltre che in ancor più numerosi saggi. E lo ha fatto, soprattutto, evitando la strada consolatoria e auto-assolutoria di chi, la maggioranza, spiegava le ragioni di un fallimento scaricando le colpe su un unico individuo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera)[29] e scegliendo semmai – scandalosamente – di andare al cuore del problema, dissodando in maniera impietosa i limiti interni al marxismo stesso, senza risparmiarne i fondatori.

Losurdo ricorderà più volte, di fronte al nichilismo e alla autofobia che dilagavano a sinistra dopo la fine dell’Unione Sovietica – e che rendevano anche questo campo non meno ostile alle sue tesi di quanto non fosse il campo liberale –, quanto l’esperienza del marxismo e del comunismo storico avessero cambiato in profondità le sorti del mondo e dello stesso Occidente capitalistico, costringendo quest’ultimo a un percorso di democratizzazione che aveva in parte dovuto accogliere persino il programma del Manifesto comunista.[30] Tuttavia, non esitava a riflettere sulle ragioni di una sconfitta inequivocabile, le cui radici andavano individuate nell’incapacità del marxismo di farsi istituzione e di dar vita, nel consenso più ampio possibile, a quella stabilizzazione che sarebbe stata indispensabile per una normalità socialista e per un suo funzionamento rispettoso degli stessi diritti individuali. Animato da un insormontabile afflato messianico, desideroso di una palingenesi totale del mondo, il marxismo novecentesco non aveva in realtà tagliato i ponti sino in fondo con l’anarchismo. E, nel suo sogno di una società completamente “altra” rispetto a quella esistente, aveva immaginato la fine delle nazioni, del mercato, del denaro, del potere, lo svanire del conflitto stesso, rivelandosi – ogni volta che l’utopia sognata si scontrava infine con le durezze della storia e del conflitto – incapace di fuoriuscire da un perpetuo stato d’eccezione e di farsi Stato all’insegna del governo della legge, conciliando comunità e individuo. Non sarà sufficiente, in questo senso, la rivoluzione filosofica e politica operata da Lenin, il quale porterà per la prima volta il marxismo fuori dai propri limiti eurocentrici coniugando la lotta di classe del proletariato europeo con le lotte di emancipazione nazionale dei paesi colonizzati dall’Occidente e comprendendo al tempo stesso la complessità di un processo rivoluzionario che, in un mondo tanto ostile, continuava in forme nuove anche dopo la conquista del potere.

Da qui la scelta di Losurdo di andare controcorrente anche rispetto ai propri compagni, sfidando con caparbietà il rischio dell’isolamento fino, alla lunga, a sconfiggerlo. La scelta di criticare a fondo il marxismo occidentale, a partire da quella insuperata subalternità nei confronti del liberalismo che si esprimeva in maniera macroscopica nella sua crescente indifferenza verso la questione coloniale e che aveva costretto l’intera sinistra a rendersi ad un certo punto «assente». Da qui soprattutto, anche alla luce del diverso esito dell’esperienza del socialismo cinese (da lui sempre rispettato e osservato con attenzione simpatetica) rispetto a quello russo e occidentale, la necessità di ripensare integralmente i fondamenti del marxismo. A partire da una rilettura della lotta di classe che fosse capace di oltrepassare lo schematismo binario e economicistico di chi, ad ogni livello, vede un’unica e sola contraddizione, quella di un proletariato mai ben definito contro una borghesia non meno malintesa, per riproporla invece come una teoria generale del conflitto che presiede ad ogni processo di emancipazione (e che ha a che fare in primo luogo con la lotta per il riconoscimento della propria dignità umana da parte dei gruppi esclusi e discriminati). Una teoria in grado di illuminare le grandi crisi storiche, inoltre, quelle accelerazioni nelle quali non c’è mai un’unica dimensione ma sempre la compresenza di una pluralità di contraddizioni oggettive. E in grado di comprendere, da questa prospettiva, l’intreccio indissolubile tra questione sociale e questione nazionale, o questione di genere, come quello tra universale e particolare, alla ricerca di un universalismo concreto che consenta di pensare la comune umanità fuori da ogni astrattezza irenistica.

La durezza del conflitto di classe, ma anche quella della guerra civile europea o internazionale e dello stato di guerra mondiale permanente che aveva accompagnato il processo di decolonizzazione, avevano inevitabilmente esaltato e cristallizzato la dimensione religiosa e messianica del marxismo, quella componente che pure si era rivelata indispensabile nei processi di mobilitazione delle masse necessari in quella lunghissima fase. A lungo persuasi dell’imminenza di una rottura rivoluzionaria che sarebbe presto dilagata in tutto il pianeta a partire dai punti alti dello sviluppo industriale, e ancora più a lungo accerchiati sul piano geopolitico ma anche su quello culturale e psicologico dalla potenza egemonica del mondo capitalistico, i marxisti avevano perduto il senso della storia e disimparato la dimensione dei tempi lunghi che sono propri dei movimenti reali. Il fatto cioè che la trasformazione non ha la struttura temporale dell’attimo e non conduce a un’immediata coincidenza tra il corso degli eventi e il loro significato, a una totale riappropriazione, trasparenza e pienezza di senso, ma è essa stessa il percorso di una faticosa catena di contraddizioni, fatta di conquiste e retrocessioni legate ai rapporti di forza e in cui ogni tappa non è mai assicurata una volta per tutte. Negli auspici di Losurdo, alla luce del bilancio storico del XX secolo e delle sue tragedie, il marxismo doveva affrontare perciò un processo di secolarizzazione complicato e non indolore, per proseguire quel passaggio dall’utopia alla scienza (intesa come la Wissenschaft hegeliana) che era stato indicato da Engels ma si era interrotto per via delle urgenze del conflitto permanente dell’età contemporanea. Per riscoprire, cioè, quella forma di coscienza che al suo sorgere ne aveva rappresentato la radicale novità: quel peculiare e quasi miracoloso equilibrio tra critica e legittimazione del moderno che nessun’altra tendenza filosofico-politica è mai riuscita sinora ad elaborare.

Pensiero dialettico significa comprensione della processualità della storia e della conoscenza umana. Ma è anche comprensione della loro natura strutturalmente conflittuale e perciò è anche consapevolezza della totalità sempre lacerata alla quale il conflitto allude. È per questo che l’Aufhebung toglie e conserva a un tempo, integrando ad un nuovo livello e in una nuova posizione anche quella parte di verità che è sempre presente persino presso il nemico assoluto. Marxismo, alla luce di questa considerazione e cioè come materialismo storico, non significa rifiuto indeterminato della realtà ma, a partire dalla comprensione della dimensione strategica e razionale della sua struttura più profonda, è negazione sempre determinata. Enormi e a volte indicibili sono le contraddizioni della modernità e del progresso, a partire dal dominio totale espresso già nell’accumulazione originaria, passata per la brutale de-umanizzazione di intere classi sociali e di interi popoli e sfociata non di rado nello sterminio, e inaccettabile è ancora oggi l’ingiustizia dell’ordine borghese all’interno e al di fuori della metropoli. Tuttavia, questa stessa modernità è l’epoca che ha scoperto il concetto universale di uomo e che persino nel dolore del diventare-astratto di ogni rapporto sociale o persino semplicemente umano, ha saputo distillare quel progresso che consiste nel superamento dei vincoli di dipendenza personale e diretta dell’uomo sull’uomo, lasciandosi alle spalle il feudalesimo e mettendo in discussione la schiavitù. Quell’epoca che ha sviluppato le forze produttive materiali integrali del genere umano, spezzando la ristrettezza dei bisogni ma anche delle soggettività e dando vita a un’ininterrotta circolazione delle idee.

Non si torna indietro rispetto ad essa. La critica della modernità, come comprensione delle sue condizioni di possibilità e dei suoi limiti, è dunque possibile solo a partire dal riconoscimento delle sue conquiste. Dall’eredità, cioè, dei punti alti di una tradizione che ha certamente a che fare con l’orrore ma che è anche quella civiltà che, attraverso i suoi esponenti più lungimiranti, ha saputo vedere il proprio orrore e denunciarlo. Muovendo dalla conoscenza di queste contraddizioni, ma anche di quelle che accompagnano la storia del marxismo e del comunismo storico, bisogna perciò intraprendere un percorso di apprendimento che tagli definitivamente i ponti con il dogmatismo degli assoluti senza al contempo cadere nel relativismo del postmoderno e della sua impotente negazione ermeneutica di ogni oggettività e cioè della politica e della trasformazione del mondo.

Domenico Losurdo – al quale dobbiamo tra l’altro l’ispirazione iniziale che ha dato vita a questa rivista e che di “Materialismo Storico” presiedeva il Comitato scientifico – ci ha lasciati nel momento più difficile. Nel momento cioè in cui la crisi della democrazia moderna in Occidente e nel resto del mondo sembra piegare in direzione di una inquietante ridefinizione delle forme politiche che promuove nuove modalità di esclusione e discriminazione, all’interno di ciascun paese come su scala internazionale. In un’epoca nella quale la ricolonizzazione del pianeta, che parla nei termini di quel Linguaggio dell’impero[31] da lui così accuratamente decostruito e che ha fatto seguito alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale, fa svanire sempre più in lontananza le speranze di un’epoca di pace espresse in un libro come Un mondo senza guerre.[32] Ci ha lasciati però con gli strumenti migliori e più affilati per fronteggiare questo mondo a partire dai suoi conflitti cruciali e per criticarlo, ovvero per comprenderne le ragioni, le condizioni di possibilità. E per contrapporgli infine uno scenario diverso, per quanto sempre fondato nell’oggettività di ciò che è reale e e razionale non nei sogni e nei desideri di chi pensa di potersi permettere di ignorare la durezza del mondo: come scriveva Marx a Ruge – un’altra citazione molto amata da Losurdo –, «Noi non anticipiamo il mondo ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo».

C’era un’ultima cosa che Losurdo ripeteva spesso ai suoi allievi, citandola criticamente come esempio negativo di intimismo, di soggettivismo narcisistico e «ipocondria dell’impolitico».[33] È una celebre poesia scritta da Ungaretti nel 1916, in piena guerra mondiale, dal titolo San Martino sul Carso:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanto
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.[34]

Ebbene, il nostro cuore oggi è straziato ma, come già ai tempi del poeta, assai più gravi di quelli della nostra coscienza sono gli strazi che abbiamo attorno a noi: le guerre che continuano a dilaniare il pianeta, la sopraffazione imperialistica che non cessa, l’odio razziale che monta, il rischio di una crisi radicale di civiltà e del riemergere di pulsioni che ci eravamo illusi fossero state superate per sempre. Di fronte a questi pericoli non possiamo certo far rivivere Domenico Losurdo. Ma anche grazie a questa piccola rivista, alla quale tanto teneva, possiamo far durare ancora – e a lungo – il suo pensiero, cercando di esserne all’altezza.

Stefano Azzarà, Università di Urbino

[1] Domenico Losurdo, Le catene e i fiori. La critica dell’ideologia tra Marx e Nietzsche, «Hermeneutica» 6, 1987, p. 108.

[2] Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi, in G. M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Prassi. Come orientarsi nel mondo, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1991, p. 128.

[3]Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Bibliopolis, Napoli 1983, p. 14.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], tr. it.: Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. Testo tedesco a fronte, Mimesis, Milano 2015, citato in Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, op. cit., p. 27

[6] Domenico Losurdo, Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua, «Il Pensiero», pp. 131-78.

[7] Domenico Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, «Studi storici» 1/2, pp. 189-216.

[8] Domenico Losurdo, Fichte e la questione nazionale tedesca, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici» 1-2, pp. 53-79.

[9] Domenico Losurdo, Hegel, questione nazionale, Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Pubblicazioni dell’Università, Urbino 1983.

[10] Domenico Losurdo, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983.

[11] Domenico Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel, Guerini, Milano 1987.

[12] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997.

[14] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, op. cit., p. 74.

[15] Ivi, p. 115. Cfr. Domenico Losurdo, cura e trad. di G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Leonardo/Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1989.

[16] Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 242.

[19] Ivi, p. 238.

[20] Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 326.

[21] Friedrich Nietzsche, citato in Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, op. cit., p. 644.

[22] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 89.

[23] Domenico Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Bibliotheca, Roma 1993.

[24] Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del «socialismo reale», Laboratorio politico, Napoli 1996.

[25] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997.

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La Città del Sole, Napoli 1999.

[27] Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

[28] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma- Bari 2017.

[29] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

[30] Cfr. Domenico Losurdo, Introduzione e traduzione (in collaborazione con Erdmute Brielmayer) di K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999.

[31] Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] Domenico Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016.

[33] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001.

[34] Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso, in Id., Vita d’un uomo. 106 poesie 1914-1960, Mondadori, Milano 1992, p. 36; ed. orig. In II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916.



Alcuni libri
di Domenico Losurdo

 

La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel

La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel

Editore: Guerini e Associati, 1988

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Editore: Bollati Boringhieri , 1991

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Democrazia o bonapartismo

Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale

Editore: Bollati Boringhieri, 1993

Descrizione

Tormentata è la storia del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno Novecento, dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di più consolidata tradizione liberale. Un nuovo modello di democrazia sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. Gli Stati Uniti costituiscono il privilegiato paese-laboratorio del “bonapartismo-soft” che ora si affaccia anche in Italia e di cui ci parla Losurdo.

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La seconda Repubblica

La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo

Editore: Bollati Boringhieri, 1994

Descrizione

Nonostante i toni spesso trionfalistici, la Seconda Repubblica è l’espressione di una crisi profonda: se revisionismo storico e postfascismo cancellano l’identità nazionale del nostro paese, le riforme elettorali e istituzionali in atto, sancendo il peso immediatamente politico della grande ricchezza e del potere multimediale, bandiscono ogni idea di democrazia intesa come partecipazione di massa. L’odierna crociata neoliberista mira a liquidare i “diritti economici e sociali”, promuovendo in pratica una sorta di redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi. Nei paesi a forti squilibri regionali tale redistribuzione passa attraverso l’autonomia “federale”. Liberismo, federalismo e postfascismo si mescolano così in una miscela esplosiva.

 

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Antonio Gramsci, dal liberalismo al ...

Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico»

Editore: Gamberetti , 1997

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Dai Ffatelli Spaventa a Gramsci

Dai fratelli Spaventa a Gramsci.
Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia

Editore: La Città del Sole, 1997

 

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1997 - Nietsche e la critica della modernità

Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica

Editore: Manifestolibri, 1997

 

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2006 - Controstoria derl liberalismo

Controstoria del liberalismo

Editore: Laterza, 2006

 

Descrizione

Il liberalismo sottolinea il valore positivo della libertà individuale, l’autonomia del singolo, l’opposizione al conservatorismo sociale. Sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, il liberalismo non è però riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Come per ogni movimento storico, si tratta di indagare sì i concetti ma anche in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si è espresso. E la storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde risulta inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento.

 

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2007 - Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Editore: Bibliopolis, 2007

Descrizione

Considerato da non pochi dei suoi contemporanei come un “democratico radicale “, Kant è stato in seguito stilizzato da una radicata e composita tradizione interpretativa a teorico dell’obbedienza all’autorità costituita, e questo a causa della sua negazione del diritto di resistenza. Punto di partenza della presente ricerca è proprio tale negazione: essa, mentre rassicurava le corti tedesche, al tempo stesso permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese. Emerge qui con chiarezza la ricercata “ambiguità “, la ” doppiezza” di Kant, costretto ad un logorante esercizio di autocensura, ad una continua dissimulazione, tormentosa anche sul piano morale, per sfuggire al controllo delle autorità di censura e del potere politico. In questo quadro si procede ad una rilettura del pensiero politico di Kant; che, se è sufficientemente noto il difficile rapporto del filosofo con la censura, non sembra sia stata finora indagata la connessione tra “persecuzione e arte dello scrivere”; ma forse è solo questa indagine che può permetterci di sbarazzarci dell’oleografia tradizionale, per collocare Kant in una luce nuova, più umanamente drammatica e inquietante.

 

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2007 - Il peccato orginakle del Novecento

Il peccato originale del Novecento

Editore: Laterza, 2007

 

 

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2010 La non-violenza

La non-violenza. Una storia fuori dal mito

Editore: Laterza, 2010

 

Descrizione

Dopo un secolo tragicamente carico di violenza e di terrore, l’ideale della non-violenza esercita un fascino crescente sulle coscienze di donne e uomini. Ma quali sono stati i primi movimenti ad agitare questo ideale e quali difficoltà essi hanno dovuto affrontare in un periodo storico particolarmente ricco di guerre e rivoluzioni? Dalle organizzazioni cristiane che nei primi decenni dell’Ottocento si propongono negli Usa di combattere congiuntamente e in modo pacifico i flagelli della schiavitù e della guerra, fino ai protagonisti della non-violenza: Thoreau, Tolstoj, Gandhi, Capitini, Dolci, M.L. King, il Dalai Lama o i più recenti ispiratori delle ‘rivoluzioni colorate’. Costante è il confronto tra il movimento non-violento e il movimento anticolonialista e antimilitarista di ispirazione socialista e sono prese in considerazione anche le posizioni di illustri teologi cristiani (R. Niebuhr e D. Bonhoeffer) e filosofe di diverso orientamento ma entrambe autrici di importanti contributi sul problema della violenza, come Simone Weil e Hannah Arendt.

 

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2011 - Hgel e la libertà dei moderni

Hegel e la libertà dei moderni

Editore: La Scuola di Pitagora, 2011

 

Descrizione

Hegel legittima le rivoluzioni che hanno segnato la nascita del mondo moderno e rende omaggio alla rivoluzione francese quale “splendida aurora”; nel momento in cui la schiavitù fiorisce negli Usa e nelle colonie, egli condanna tale istituto come il “delitto assoluto”. Da un lato il filosofo sottolinea la centralità della libertà individuale, dall’altro teorizza i “diritti materiali” e il “diritto alla vita”, paragona ad uno schiavo l’uomo che rischia la morte per inedia ed esige l’intervento dello Stato nell’economia, in modo da porre fine a questa nuova configurazione del “delitto assoluto”. Alla luce di tutto ciò come appare ridicola la lettura di Hegel quale teorico della Restaurazione. Tradotto in più lingue e apparso anche negli Usa e in Cina, il libro di Losurdo analizza il contributo decisivo che il grande filosofo tedesco fornisce alla comprensione della libertà dei moderni e, misurandosi con le interpretazioni di Bobbio, Popper, Hayek, mette in evidenza i limiti di fondo del liberalismo vecchio e nuovo.

 

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2012 -Fuga dalla storia?

Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi

Editore: La Scuola di Pitagora, 2012

 

Descrizione

Nel 1818, in piena Restaurazione e in un momento in cui il fallimento della rivoluzione francese appariva evidente, anche coloro che inizialmente l’avevano salutata con favore prendevano le distanze dalla vicenda storica iniziata nel 1789: era stata un vergognoso tradimento di nobili ideali. In questo senso Byron cantava: “Ma la Francia si inebriò di sangue per vomitare delitti/ Ed i suoi Saturnali sono stati fatali/ alla causa della Libertà, in ogni epoca e per ogni Terra”. Dobbiamo oggi far nostra questa disperazione, limitandoci solo a sostituire la data del 1917 a quella del 1789 e la causa del socialismo alla “causa della libertà”? Confutando i luoghi comuni dell’ideologia dominante, Losurdo analizza e documenta l’enorme potenziale di emancipazione scaturito dalla rivoluzione russa e dalla rivoluzione cinese. Quest’ultima, dopo aver liberato prima dal dominio coloniale e poi dalla fame un quinto dell’umanità, mette oggi in discussione al tempo stesso l'”epoca colombiana” e il modo tradizionale di intendere la lezione di Marx.

 

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2014 - La sinistra assente

La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Editore: Carocci , 2014

Descrizione

Le promesse del 1989 di un mondo all’insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una “piccola guerra” (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un’altra. Per di più, all’orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l’esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la “società dello spettacolo” riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l’alternativa? A queste domande l’autore risponde con un’analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.

 

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2015 - Il revisionismo storico

Il revisionismo storico. Problemi e miti

Editore: Laterza , 2015

 

Descrizione

Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest’opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l’analisi critica del revisionismo storico – a cominciare dalle tesi di Nolte sull’Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese – si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com’è confermato dall’omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall’altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il “secolo delle umiliazioni”. Sarà in grado l’Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l’incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?

 

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2015 - La lotta di classe

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica

Editore: Laterza, 2015

 

Descrizione

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche “sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”, come denunciava Marx, e l’oppressione “del sesso femminile da parte di quello maschile”, come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

 

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2015 - Rivoluzione d'Ottobre e democrazia nel mondo

Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo

Editore: La Scuola di Pitagora, 2015

Descrizione

“Se per ‘democrazia’ intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni (di genere, censitaria e razziale), è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla rivoluzione d’ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale”.

 

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2015 - Stalin

Stalin. Storia e critica di una leggenda nera

Editore: Carocci , 2015

Descrizione

C’è stato un tempo in cui statisti illustri – quali Churchill e De Gasperi – e intellettuali di primissimo piano – quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski – hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un “mostro”, paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell’identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.

 

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2016 - Un mondo senza guerre

Un mondo senza guerre.
L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente

Editore: Carocci , 2016

Descrizione

Nel 1989, la realizzazione di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano; oggi, oltre al terrorismo e ai conflitti locali, torna a incombere il pericolo di una terza guerra mondiale. Come spiegare tale parabola? Losurdo traccia una storia inedita e coinvolgente dell’idea di pace dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Da questo racconto, di cui sono protagonisti i grandi intellettuali (Kant, Fichte, Hegel, Constant, Comte, Spencer, Marx, Popper ecc.) e importanti uomini di Stato (Washington, Robespierre, Napoleone, Wilson, Lenin, Bush Sr. ecc.), emergono i problemi drammatici del nostro tempo: è possibile edificare un mondo senza guerre? Occorre affidarsi alla non violenza? Qual è il ruolo delle donne? La democrazia è una reale garanzia di pace o può essa stessa trasformarsi in ideologia della guerra? Riflettere sulle promesse, le delusioni, i colpi di scena della storia dell’idea di pace perpetua è essenziale non solo per comprendere il passato ma anche per ridare slancio alla lotta contro i crescenti pericoli di guerra.

 

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2017 - Il marxismo occidentale

Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere

Editore: Laterza, 2017

 

Descrizione

Nato nel cuore dell’Occidente, con la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

 

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2018 - Marxismo e comunismo

Marxismo e comunismo

Editore: Affinità Elettive Edizioni, 2018

Descrizione

“La storia del movimento comunista è stata un grande capitolo di storia per abolire la schiavitù coloniale e per l’affermazione di un’autentica morale capace di rispettare ogni uomo”.



Alcuni libri
di
Stefano G. Azzarà

 

2006- Pensare la rivoluzione conservatrice

Pensare la rivoluzione conservatrice.
Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar

Editore: La Città del Sole, 2006

 

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2011 - L'imperialismo dei diritti universali

L’ imperialismo dei diritti universali.
Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa

Editore: La Città del Sole, 2011

 

La fine della Prima guerra mondiale si accompagna alla perdita del potere per l’establishment liberalconservatore in Germania, nonostante il fallimento in extremis della rivoluzione comunista. In condizioni politiche ed economiche molto difficili, segnate dal forte condizionamento del Paese da parte delle potenze vincitrici, si tratta adesso di fronteggiare l’affermazione definitiva della società di massa e l’avvento del metodo democratico nella sfera pubblica. Comincia una riflessione tormentata, che costringerà le classi dirigenti e intellettuali tradizionali ad una rottura “rivoluzionaria” con il proprio passato e con ogni nostalgia verso la monarchia e la società agraria. Poco noto in Italia, Arthur Moeller van den Bruck è stato tra i principali ispiratori di un rinnovamento di categorie e forme politiche che porterà la destra tedesca – ma anche quella europea – a contendere alle sinistre rivoluzionarie come a quelle riformiste il terreno della politica di massa.

 

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2011 - Un Nietzsche italiano

 

Un Nietzsche italiano.
Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario

Editore: Manifestolibri, 2011

 

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra. Il volume ripercorre criticamente la storia dell'”oltreuomo” dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso. Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico. Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi il più grave rischio per la democrazia moderna. Con un’intervista a Vattimo su “Nietzsche, la rivoluzione, il riflusso”.

 

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2014 - Friedrik Nietzsche

Friedrich Nietzsche.
Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice.
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck

Editore: Castelvecchi, 2014

 

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e leggerlo quando la lotta di classe cede il passo al conflitto tra la Germania e le altre potenze europee? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la guerra, quando una sconfitta disastrosa ha mostrato la fragilità del Reich? Questo libro ricostruisce le interpretazioni nietzscheane di Arthur Moeller van den Bruck, padre della Rivoluzione conservatrice e precursore di Spengler, Heidegger e Junger. Moeller ridefinisce la filosofia di Nietzsche adattandola ai salti della storia europea tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la fine della Prima guerra mondiale. Il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce così nel passaggio di secolo come il filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi diventare, nella Repubblica di Weimar, l’improbabile teorico di un socialismo mistico e spirituale. Tre diverse letture emergono perciò da tre diversi momenti della storia europea e stimolano il passaggio dal pensiero liberalconservatore alla Rivoluzione conservatrice. In appendice, la prima traduzione italiana dei quattro saggi di van den Bruck su Nietzsche.

 

 

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2014- Democrazia cercasi

i

Democrazia cercasi.
Dalla caduta del muro a Renzi:
sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia

Editore: Imprimatur, 2014

Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno favorito una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e hanno relegato molti cittadini nell’astensionismo o nella protesta rabbiosa. In nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

 

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2017- Nonostante Laclau

Nonostante Laclau.
Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna

Editore: Mimesis, 2017

È il populismo di sinistra la risposta giusta alla crisi della democrazia? La decostruzione postmoderna delle identità storiche apre una nuova stagione di libertà e pluralismo oppure finisce per accettare un terreno di gioco regressivo, nel quale viene già precostituita l'”egemonia” delle tendenze più particolaristiche e la produzione di appartenenze naturalistiche? Stefano G. Azzarà si interroga sui conflitti del nostro tempo, tra neoliberalismo e ricerca di un nuovo orizzonte di progettualità politica.

 

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2018- Comunisti, fascisti e questione nazionale

Comunisti, fascisti e questione nazionale.
Fronte rossobruno o guerra d’egemonia?

Editore: Mimesis, 2018

Dopo decenni di entusiasmo per la globalizzazione e l’unificazione europea, l’emergere dei movimenti sovranisti e populisti in un’epoca di crisi organica sembra rendere di nuovo attuale la questione nazionale ed evoca la suggestione di un blocco trasversale di contestazione del capitalismo neoliberale e apolide che unisca tutti i “ribelli” della società borghese, lasciandosi alle spalle l’alternativa tra destra e sinistra. Anche nella Germania degli anni Venti, ai tempi delle riparazioni di guerra e dell’occupazione della Ruhr, questi temi erano all’ordine del giorno. L’appello di Karl Radek per un fronte unito dei lavoratori, aperto ai ceti medi e alla piccola borghesia patriottica e capace di difendere l’indipendenza del Paese dall’imperialismo straniero, non era però la proposta di un’alleanza totalitaria degli opposti radicalismi estremistici ma la dichiarazione di una furibonda guerra d’egemonia. Uno scontro ideologico che puntava semmai a bruciare il terreno sotto i piedi al fascismo nascente e a candidare la classe operaia tedesca, sulla scorta dell’esperienza bolscevica e del dibattito aperto nel Komintern da Lenin, alla guida della nazione e della sua rinascita. La disputa dei comunisti con Arthur Moeller van den Bruck e la Rivoluzione conservatrice tedesca sfata il mito dell’estraneità del materialismo storico agli interessi nazionali. Tuttavia, al contrario degli odierni equivoci eurasiatisti e socialsciovinisti, attesta l’insuperabile incompatibilità filosofica – prima ancora che politica e morale – tra il particolarismo naturalistico delle destre, con le loro persistenti pulsioni discriminatorie di stampo coloniale, e l’universalismo concreto del marxismo e del suo sogno di un mondo senza guerre.

 


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Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.

Ivan Illich 002
La convivialità

La convivialità

Austerità, eutrapeìa e libertà conviviale

di Salvatore A. Bravo

 

Ivan Illich non è un pensatore rintracciabile nelle gabbie ideologiche. Esemplificando, lo si potrebbe collocare a “sinistra”, ma innumerevoli sono le motivazioni parallele che potrebbero espungerlo dalla “sinistra”. Non è un marxista, in primis, benché abbia riconfigurato nella sua prospettiva sociale e filosofica il senso della libertà, la critica come modalità costruttiva, l’alienazione come obiettivo primario, la quale per essere trascesa necessita che si scinda dai processi di valorizzazione. È stato un cattolico anomalo, da Monsignore della chiesa cattolica non ha mai abdicato alla sua fede, ma ha fortemente contestato l’istituzione distinguendola dal messaggio del Vangelo. È stato un uomo che ha cercato di testimoniare la sua ricerca alternativa alla tecnocrazia medica, rifiutando le cure per un tumore al volto, che battezzò “la mia mortalità”, col quale si confrontò con cure alternative, e accettando la morte quale limite invalicabile e rispettoso della vita. La sua esistenza fu improntata all’autonomia, per cui ogni schema e messa in scena dei poteri costituiti, anche culturali, erano aborriti da Illich: allo spettacolo prediligeva l’impegno e la ricerca. La sua vita è stata nel segno della linea di confine, sfuggente ad ogni rassicurante categoria.

La convivialità è stato il suo progetto politico ed economico disorganico al capitalismo liberista come al capitalismo di stato. La convivialità è in sintesi l’autonomia del pensare come del fare, che si oppone alle forme di dipendenza tecnocratiche che proliferano in ogni sistema. In Illich la libertà del Vangelo si coniuga con la libertà di Marx dell’Ideologia tedesca, che nel Capitale ha quale punto di riferimento il senso della misura. Non è un caso che nel Capitale l’autore più citato sia Aristotele. La libertà conviviale di Illich è austerità ed eutrapelìa: [1] la prima è si coniuga con la seconda. È possibile la comunità solo se i soggetti in modo autonomo discernono tra l’essenziale e l’inessenziale per lasciare spazi a tutti, perché l’austerità è nel segno del limite, affinché anche l’altro possa esserci, essere riconosciuto. Senza il senso del limite, non vi è che sopraffazione e dipendenza:

«Parlando di “convivialità” dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all’uomo austeramente anarchico. L’uomo che trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce Mitmenschlichkeit. L’austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia».[2]

 

 

Il dono

Per Illich l’economia liberista dell’acquisizione proprietaria non esprime che una possibilità della condizione umana. Gli esseri umani sono esseri significanti e simbolici, come hanno dimostrato nel corso della loro storia. Il baratto non è la natura dell’uomo, è sicuramente una potenzialità che fa appello ai bisogni inautentici, la sua forza è nel rivolgersi al cavallo nero (istinti nel mito della biga alata di Platone) presente in ogni essere umano, ma esso è una parte, non è un tutto.

La cultura del dono riposiziona l’essere umano nella razionalità conviviale e comunitaria. Il dono è l’irruzione dell’inutile, del gesto fine a se stesso che riannoda le relazioni liberandole dal calcolo utilitaristico. Nel dono si è guardati, si è riconosciuti e si guarda l’altro nella sua singolarità irripetibile sottratta al meccanicismo della produzione seriale al fine acquisitivo. Nel dono l’altro appare nel suo splendore, il legame di ordine emozionale e razionale attraversa il tempo, per restare nella memoria, e si magnifica l’anima umana, la si disaliena dalla violenza acquisitiva che riduce l’essere umano ad un contabile senza il senso del limite:

«L’uomo non vive soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull’uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità. Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci».[3]

 

 

 

Il monopolio radicale

La convivialità è tanto più necessaria tanto più si afferma il monopolio radicale, il quale è finalizzato ad impedire la scelta, a rappresentarsi l’alternativa, per naturalizzare il fare come il pensiero unico. Il totalitarismo capitalistico lavora con la propaganda per lobotomizzare, per trasformare la persona in consumatore di un prodotto unico, in modo da impedire il pensiero dell’alternativa al prodotto. Il monopolio radicale minaccia la libera scelta, come lo sviluppo delle personalità: è finalizzato a produrre un’umanità seriale asservita alla catena del capitale. Si soffocano sul nascere l’immaginazione e il pensiero divergente così che il mercato possa essere padrone assoluto delle vite e possa sostituirsi alle Chiese come allo Stato:

«Gli strumenti sovrefficienti possono estinguere l’uomo distruggendo l’equilibrio tra lui ed il suo ambiente. Ma certi strumenti possono essere sovrefficienti in tutt’altro modo: alterando il rapporto tra ciò che uno ha bisogno di fare da sé e ciò che può attingere bell’e fatto dall’industria. In questa seconda dimensione di possibile squilibrio, la produzione sovrefficiente dà luogo a un monopolio radicale. Per monopolio radicale intendo un tipo di dominio di un prodotto, che va molto al di là di ciò che il termine solitamente indica. Generalmente si intende per monopolio il controllo esclusivo, da parte di una ditta, sui mezzi di produzione o di vendita di un bene o d’un servizio. Si dirà che la CocaCola ha il monopolio delle bibite analcoliche del Nicaragua in quanto è l’unica produttrice di simili bevande, in quel paese, che disponga di mezzi pubblicitari moderni. La Nestlé impone la propria marca di cioccolato controllando il mercato della materia prima, una fabbrica di automobili controllando le importazioni dall’estero, una compagnia televisiva assicurandosi una licenza esclusiva. I monopoli di questo tipo, è da un secolo che lo si riconosce, sono dei pericolosi sottoprodotti dello sviluppo industriale; e si sono anche emanate delle leggi nel tentativo, pressoché vano, di tenerli a freno. Normalmente la legislazione con cui si cerca di ostacolare la formazione di monopoli ha mirato a impedire che, tramite loro, s’imponesse un limite alla crescita economica; non c’era alcun intento di proteggere l’individuo».[4]

 

 

Linguaggio e monopolio radicale

Il monopolio radicale e la società “dell’insocievole socievolezza” – per poter destabilizzare il soggetto e ridurlo ad un ente che fa parte del e che vuole il sistema – atomizza e manipola l’essere umano controllando il linguaggio. Illich fa notare come nella società acquisitiva senza comunità, il linguaggio è curvato nella forma sostantivata, in tal modo si riduce il movimento, la prassi che corrispondono alla forma verbale, per orientarsi verso i sostantivi ed il linguaggio sostantivato con una duplice finalità: dirigere l’attenzione verso le merci, inibire il processo di trasformazione, il quale per disporsi alla prassi dev’essere formato alla trasformazione: solo i verbi possono indicare il trascendimento attivo, mentre i sostantivi sono prescrittivi della passività. I verbi esprimono l’autonomia con il movimento dialettico del pensiero, i sostantivi formano all’acquisizione delle merci, alla dispersione del soggetto nel naufragio delle merci:

«L’individuo che impara qualcosa leggendo un libro dice di aver acquisito educazione. Lo slittamento funzionale dal verbo al sostantivo sottolinea l’impoverimento della immaginazione sociale. L’uso nominalistico della lingua esprime dei rapporti di proprietà: la gente parla del lavoro che ha. In tutta l’America Latina solo i salariati dicono che hanno (o non hanno) lavoro, a differenza dei contadini che invece lo fanno: “Van a trabajar, pero no tienen trabajo”. I lavoratori moderni e sindacalizzati reclamano dall’industria non soltanto più beni e servizi, ma anche più posti di lavoro. Non soltanto il fare ma anche il volere è sostantivato. L’“abitazione” è più una merce che un’attività; l’alloggio diventa un prodotto che ci si procura o si rivendica perché si è privi del potere di dargli forma da se stessi. Si acquista sapere, mobilità, persino sensibilità o salute. Si ha lavoro o salute, come si hanno divertimenti. Il passaggio dal verbo al sostantivo rispecchia l’impoverimento del concetto di proprietà. Termini come possesso, appropriazione, abuso non servono più per definire il rapporto dell’individuo o del gruppo con una istituzione come la scuola: nella sua funzione essenziale, infatti, un simile strumento sfugge a ogni controllo. Le affermazioni di proprietà nei riguardi dello strumento passano a indicare la capacità di disporre dei suoi prodotti, si tratti dell’interesse sul capitale o delle merci, o anche del prestigio d’ogni sorta legato all’una o all’altra di queste operazioni. Il consumatore-utente integrale, l’uomo pienamente industrializzato, non ha infatti altro di suo se non ciò che consuma. Dice: la mia educazione, i miei movimenti, i miei divertimenti, la mia salute. Man mano che l’ambito del suo fare si restringe, egli richiede dei prodotti di cui si dice proprietario».[5]

 

 

Cosa può mettere in crisi il sistema?

Per Illich il sistema non è che una danza di morte, velocemente il disastro umano ed ecologico ci portano verso la catastrofe, verso l’apocalisse. Solo l’avvicinarsi della catastrofe può mettere in crisi il sistema e condurre a serie riflessioni partecipate sulla trasformazione del sistema. Al momento, malgrado il disastro climatico e l’atomismo conflittuale dell’homo oeconomicus, nulla si profila all’orizzonte, anzi più si avvicina il disastro, più il sistema per congelare se stesso ripudia ogni riforma. Forse l’unica spia ipotizzabile dell’estrema minaccia a cui l’integralismo economico si sottopone ed è posto, è l’avversione verso ogni cambiamento, il tentativo di perpetrare se stesso con ogni mezzo: la paura del cambiamento a volte fa mettere in campo forme di resistenza che paiono invincibili, ma che celano solo la notte verso cui il sistema si è avviato.

Salvatore A. Bravo

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[1] Virtù del comportarsi piacevolmente e del divertirsi con modo. Dal greco eutrapelìa, composto da eu bene e trepò volgere. Se il vivere civile ha dei cardini, uno di questi è l’eutrapelìa. Si tratta di una vera e propria virtù, per come è descritta nell’Etica di Aristotele e nel Convivio di Dante. Essa consiste nella capacità di vivere il divertimento in maniera piena e moderata, specie in compagnia, e di porsi con gli altri in maniera piacevole e ridente. Aristotele la pone come giusto mezzo fra boria e buffoneria, e Dante la rimarca come inclinazione a godere convivialmente con cordialità e affetto. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. Certo la satira più graffiante e la più dignitosa serietà hanno le loro funzioni; ma nell’ottica della vita sociale è l’eutrapelìa ad assicurare il più piacevole risultato. Passa per la capacità di trarre un piacere contento dalla situazione in cui ci si trova, e per una profonda comprensione degli altri, e di come tenere lo spirito leggero, senza macigni. Di per sé è un carattere splendido; ma se identifichiamo l’eutrapelìa come virtù – etimologicamente, una virtù di ‘volgere al bene’ -, allora implichiamo che possa e anzi debba essere esercitata. Ad esempio, si può nascere con un’inclinazione all’onestà, ma l’onestà è una virtù che va allenata per tutta la vita – e tale è l’eutrapelìa. È un muscolo morale. Il saper trarre e offrire un piacere moderato, senza frigidità e sgangheratezze, è una base solida su cui costruire la propria vita. Testo originale pubblicato su unaparolaalgiorno.it: https://unaparolaalgiorno.it/significato/E/eutrapelia

[2] Ivan Illich, Convivialità, Red Edizioni, 2013, pp. 4-5.

[3] Ibidem, p. 11.

[4] Ibidem, p. 32.

[5] Ibidem, pp. 51-52.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

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Salvatore A. Bravo – La neuroeconomia è ipertrofia delle merci, e sottrae all’essere umano la sua essenza e le sue potenzialità da concretizzare in atti di senso. L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

Nuoroeconomia–Neuroscienze

La neuroeconomia

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

G.W.F. Hegel

Salvatore A. Bravo

La neuroeconomia

 

 

La neuroeconomia

L’economicismo integralista negli ultimi decenni sta compiendo un salto qualitativo. Dalla propaganda mediatica continua ed ossessiva, ma ancora debolmente controllabile dagli utenti e dai popoli, si sta gradualmente strutturando una nuova strategia di mercato: entrare nella mente, controllare il cervello, per disporlo al baratto.

Brainfluence

Brainfluence

Si tratta di un intervento radicale e discreto, l’economia trasforma gli esseri umani, i popoli, in stabili consumatori per il mercato, ambisce a forgiare la natura umana. Il mercato – novello Demiurgo – vuole plasmare i circuiti cerebrali per rendere la persona non solo consumatore, ma specialmente, dipendente in modo assoluto dal mercato, anzi ad esso organico. Si tratta di una forma di totalitarismo, assolutamente nuova, che non trova precedenti nella storia umana.

Digital Neuromarketing

Digital Neuromarketing

Il mercato ipostatizza se stesso, mediante l’asservimento globale all’economia con una strategia assolutamente nuova: entrare nella mente, fessurare la mente ed incidere in essa la logica del mercato. Le neuroscienze, la psichiatria e la psicologia divengono lo sgabello dell’economia, mettono a disposizione le loro ricerche per rafforzare l’espansione del mercato e contribuire alla trasformazione dei popoli in pubblici dipendenti del valore di scambio, inconsapevoli e nel contempo complici.

 

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Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

 

La neuroecomia

La neuroecomia

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience01

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Bradley R. Poste, Neuroscienze cognitive. L'essenziale

Neuroscienze cognitive

Gli strumenti

La neuroeconomia si avvale delle neuroscienze, queste ultime portano a compimento un processo iniziato con David Hume ed Adam Smith.
David Hume ha destrutturato il soggetto rendendolo un fascio di emozioni in entrata ed in uscita senza nessuna consistenza ontologica, funzionale, in tal modo, alle logiche del baratto, dei desideri che lo attraversano e poi si dileguano, per poi ripresentarsi, come se il soggetto fosse un ciclo meccanico che puntualmente si riempie di desideri, li consuma, li svuota per ricominciare il ciclo.
Adam Smith ha ipostatizzato il mercato, affermando che l’essenza del soggetto umano è il baratto, lo scambio: tutta la storia umana è letta da Smith secondo la logica dello scambio e dell’utile.
Le due tesi – complementari l’una con l’altra – si possono facilmente smentire. Gli studi di Karl Polany, di Ivan Illich e di molti antropologi contraddicono l’integralismo economicistico ed il servidorame del turbocapitalismo: l’essenza dell’uomo è un’essenza generica (Gattugswesen), l’essere umano è simbolico, dà senso alla propria esistenza nelle circostanze che gli sono date.

Neuroeconomia

Neuroeconomia

Il fine attuale è smantellare ogni dubbio, ridurre le conoscenze, elidere la formazione critica ed umanistica in modo che la neuroeconomia e le neuroscienze possano agire senza ostacoli, glorificando il mercato ed i suoi crimini. Il primo di questi crimini è di ordine filosofico, si smantella un’intera tradizione, la si riduce a pochi autori funzionali alla logica del mercato. La neuroeconomia è ipertrofica nelle merci, ma sottrae all’essere umano la sua essenza, le potenzialità da concretizzare in atti di senso.

 

 

Neuroeconomia01

Neuroeconomia

Le neuroscienze, per entrare nella mente e decodificarla, per comprenderne i processi che favoriscono, hanno utilizzato dapprima la PET (Tomografia per emissione di positroni), che è uno strumento di registrazione indiretta dell’attività cerebrale, e successivamente l’fMRI (Risonanza Magnetica Nucleare funzionale) la quale è, invece, basata sul fenomeno della risonanza magnetica nucleare, che utilizza le proprietà nucleari di alcuni atomi in presenza di campi magnetici. I risultati della PET non sono immediati, per cui gradualmente è stata sostituita dall’fMRI, la quale invece riesce a dare risultati veloci. L’fMRI consente di visualizzare su una scala temporale quantificabile al dettaglio le alterazioni dell’ossigenazione delle regioni corticali, variazioni che si considerano siano in stretta relazione con il grado di attività delle regioni cerebrali.

 

Neuroeconomic Analysis

Neuroeconomic Analysis

La neuroeconomia è stata definita come la condizione in cui conoscenza ed utilizzazione dei processi cerebrali consentono di trovare dei nuovi fondamenti per le teorie economiche (Colin Camerer, La neuroeconomia. Come le neuroscienze possono spiegare l’economia [2004], Il Sole 24 Ore, 2008). Gli esperimenti di Platt e Paul Glimcher [Platt e Glimcher, 1999] sulle scimmie sono stati finalizzati a capire per comparazione la reazione degli esseri umani. Secondo l’esperimento di Platt è sufficiente l’inalazione di un ormone, l’ossitocina, per avere comportamenti generosi. La coscienza è così sostituita da ormoni, da agenti ormonali che possono indurre ad assumere comportamenti pro-comunitari o pro-mercato.

Neuroscienze cognitive

Neuroscienze cognitive

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

 

Le conoscenze e la formazione che dovrebbero essere al servizio dell’umanità, per favorirne i processi di emancipazione, sono ora la gabbia d’acciaio, la caverna, in cui l’essere umano è sospinto per essere allevato in funzione del mercato come un animale da batteria. L’animalizzazione dell’essere umano non potrebbe essere più palese.

Neuroeconomics

Neuroeconomics

 

Gli studi di Dondres e più tardi di Robert Stenberg (psicologo cognitivo) Michael Posner (psichiatra clinico) e Amos Tversky e Daniel Kanheman (psicologi dell’economia comportamentale), hanno poi contribuito a studiare mediante sperimentazione e quantificazione i tempi di reazione ad uno stimolo, le aree interessate e la conseguente reazioni. Gli studi sul sonno sono tesi a piegare il ciclo naturale della sospensione del consumo e della produzione in direzione dell’attività continua. Le neuroscienze offrono il fianco ideologico non solo all’economia, ma anche al ridimensionamento del pensiero: senza sonno non vi è pensiero, ma solo un essere sempre più vicino alla condizione di MUSULMANO: tali erano chiamati nei campi di sterminio le persone non più tali, o quasi, più simili ad oggetti con il soffio vitale, in loro non albergava pensiero o volontà personale:

«Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono, i ricercatori di varie accademie stanno conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno […]. Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato […]. I passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni dal sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone. I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastrutura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo».[1]

 

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Neuromarketing

Neuromarketing

In questo modo le neuroscienze, spesso finanziate da potentati economici, sono al servizio del mercato. Cade il mito, se qualcuno ci credeva, della neutralità della scienza, e del suo essere al servizio dell’umanità. Neuroscienze, psichiatria e psicologia sono così alleate in funzione adattiva, lavorano per ridurre l’essere umano a poche leve da stimolare secondo i bisogni del mercato. L’uomo macchina non più per la produzione, ma per il consumo. Si installano nell’essere umano l’abitudine a comprare, a vendersi, a desiderare l’inautentico agendo nella carne, stimolando alcuni settori dell’area corticale prevedendone gli effetti. Il biopotere non deve gestire la vita, ma il consumo, necessario è solo la vita del mercato, gli esseri umani non sono che comparse che animano il mercato. Si potrebbe definire l’attuale periodo storico come biomercato.
Il Regno animale dello Spirito descritto da Hegel e l’alienazione marxiana trovano nella contemporaneità, e probabilmente in un futuro prossimo, la loro massima realizzazione. L’atomizzazione dell’essere umano passa per una sorta di lobotomia: si elimina la creatività, la cura di sé e della comunità, per ridurre la mente a cervello, a poche parti di esso da stimolare secondo piani di investimento, offrendo in cambio l’illusione della libertà, della scelta.

 

Le condizione per la neuroeconomia

Il successo della neuroeconomia è possibile, perché si concretizza in un contesto storico sociale in cui l’essere umano è debilitato, reso debole e dunque indifeso da una serie di fattori: la cultura filosofica ha abbracciato il pensiero debole (G. Vattimo), la natura umana è dichiarata inesistente (M. Foucault). I diritti sociali tra cui la formazione sono nell’agenda finanziaria al fine di essere smantellati, i corpi medi (partiti, sindacati, associazioni) sono una presenza più formale che sostanziale.

Il soggetto, abbandonato ai flutti delle manipolazioni, non ha difese di ordine culturale, sociale e politico. L’intero sistema spinge a rendere il soggetto suddito ubbidiente della ipostasi mercato. Nei fatti si nega la democrazia in modo radicale, e con essa la Costituzione degli stati democratici e il Manifesto di Ventotene (1941) che teorizzava l’Europa dei popoli liberi ed emancipati. L’ordito economico che si sta delineando ha il fine di disegnare l’uomo ad una dimensione, sogno di ogni totalitarismo.

La Logica hegeliana per sottrarsi alla neuroeconomia

La tragedia dei nostri giorni è il vuoto politico. La pervasività della neuroeconomia ha un nuovo alleato: l’assenza delle sinistre, il silenzio sulla favola triste del libero mercato nella società dei diritti individuali.
La speranza vive nella concretezza dell’umanità che – malgrado il regno della chiacchiera mediatica – vive l’esperienza dell’alienazione e dell’infelicità collettiva. Il travaglio del negativo di tanti è l’humus per il pensiero, per la riorganizzazione teorica contro l’economicismo integralista. La resistenza è ancora possibile ed appare nei luoghi più impensabili: nelle istituzioni, nelle chiese, nei singoli isolati che conservano la nostalgia per l’unità come nel mito dell’androgino nel Simposio di Platone.
Al momento tutto è nebuloso, fosco, ma il tempo presente non è tutto, la storia a volte ha svolte improvvise. Malgrado ciò, l’essere umano è portatore potenziale della sua salvezza, reca con sé la possibilità sua più autentica: il pensiero quale attività concettualizzante, che riporta le rappresentazioni, gli stimoli, i desideri ad un ordine unitario di senso. Ripensare Hegel contro la neuroeconomia, ripensare il pensiero, reimparare l’attività del pensiero per difendersi dall’invasità dell’illimitato.
Soggettività e limite sono due capisaldi imprescindibili della natura umana senza di essi non vi è pensiero. Concludo ricordando cos’è il pensare secondo Hegel, perché solo il pensiero filosofico può salvarci dalla catastrofe dell’illimitato scientemente organizzato:

 

 

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

 

«È vero che ciascun uomo ha tuttavia una logica, una logica naturale; pensiamo in modo immediato, e per pensare non dobbiamo studiare la logica. Ci si appella per questo al fatto che la logica non sarebbe necessaria. Tuttavia, in primo luogo, conoscere il pensare è già un oggetto degno di per sé; e in secondo luogo, solo così impariamo in che misura quel che pensiamo è vero.
L’utilità della logica consiste perciò nel farci padroni di questo pensare.
Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.
Perciò, l’uomo reca con sé il diritto al pensare; ma sapere in cosa veramente consista tale diritto è qualcosa di più. Non esiste alcuna logica artificiale, come si usa dire, ma esiste senz’altro una logica conscia. I pensieri, per così dire, li riceviamo nelle nostre teste; pensieri che sono il vero. Apprendiamo poi a tener fermo qualcosa di universale, ed è in ciò che consiste la nostra formazione [Bildung], mediante cui impariamo a far emergere l’essenziale. Le considerazioni di utilità, qui, non vanno disdegnate. Si deve voler conoscere il vero per se stesso, si afferma, e tuttavia anche l’utile costituisce un altro lato della cosa. Dio si sacrifica nella natura a beneficio del mondo individuale; quel che è in sé e per sé il più eccellente è anche il più utile».[2]

Salvatore A. Bravo

 

[1] J. Crary, 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015, pp. 5-6.

[2] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Logica [1831], ETS, Pisa 2018, p. 14.

 

 

 

 


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Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta 006

Tommaso Moro

 

 

«L’utopia, in quanto ou-topia (“non-luogo”) si genera da un non ed è protesa su un altro non. Solo che il non da cui essa si genera è il negativo, la distopia, esprime cioè la coscienza critica, la carenza d’essere, l’insufficienza fattuale del reale, la sua non rispondenza ai bisogni umani. Mentre il non su cui l’utopia è protesa si configura come eu-topia (“buon luogo”), ossia come il “luogo felice” che non c’è».

Cosimo Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’Utopia, Bari 1990, p. 68.

 


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.

Preve Costanzo 031

«Una prospettiva di lunga durata.
Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà,
non possiamo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno,
se resterà a lungo minoritario e marginale oppure se si diffonderà in tempi non biblici.
Non lo sappiamo.
Teniamo però la barra del timone diritta,
se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi
e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”.
La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti
ha già caratterizzato la generazione del Sessantotto.
Direi che ne basta ed avanza una».

Costanzo Preve (Torino, ottobre 2007)

 

***

«La “passione durevole” per il comunismo, o se si vuole per la critica al capitalismo, presuppone per esistere e per essere coltivata e sviluppata che ci si renda per conto che essa da un lato coincide con il percorso della nostra vita umana e concreta, necessariamente e fatalmente breve, ma che dall’altro essa è ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita umana».

Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia., Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 461.

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«Da tempo sono disceso dalla sella dei nobili cavalli di pensatori di riferimento grandissimi (Spinoza, Hegel, Marx) o semplicemente grandi (Adorno, Bloch, Sartre, Gramsci, lo stesso Lukàcs, ecc). Mi sono comprato un asinello, che però è mio, che nutro, mantengo e di cui sono responsabile. Meglio essere proprietario di un asinello, che essere costretto da altri a scendere da cavallo, o meglio dal cammello, perché l’appartenenza ideologica è un fenomeno da cammelli nel senso preciso dato a questa parola da Nietzsche».

Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia., Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 454-455.

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«Non abbiamo bisogno di un pensiero ”post-metafisico”, che infatti c’è già, e non è altro che l’affermazione incontrastata dell’utilitarismo economico non solo nelle scienze sociali ma nell’intera vita quotidiana del capitalismo contemporaneo, ma abbiamo invece bisogno proprio di una “metafisica”, che tenga ovviamente conto delle obiezioni serie ed intelligenti alla metafisica stessa».

Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 49.

 

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«Chi scrive è un “mutante” (per usare il termine di Isaac Asimov), oppure un “dissidente” radicale (per dirla con Solženitcin). Non mi riconosco infatti in quasi nessuno dei comandamenti del Politicamente Corretto, la nuova teologia di riferimento della società in cui vivo (che personalmente definisco come la terza età del capitalismo, un ipercapitalismo assolutistico largamente post-borghese e post-proletario). Soprattutto, rifiuto radicalmentele due dicotomie classificatorie Ateismo/Religione e Destra/Sinistra. Potrei argomentarlo analiticamente, e l’ho fatto».

Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 33.

 

***

«L’idea che un pensatore abbia capito tutto e non vi siano nel suo pensiero incoerenze, incertezze, illusioni ecc., è un’idea superstiziosa. Il soffocante abbraccio di questi fanatici amici di Marx ha a lungo impedito la naturale applicazione dello stesso metodo critico di Marx al suo proprio pensiero marxiano e soprattutto al marxismo successivo. È infatti del tutto assurdo che il geniale scopritore del metodo della critica alle ideologie fosse, egli solo nella lunga storia del mondo, del tutto immune da un condizionamento ideologico nell’elaborazione della propria dottrina. È anche assurdo che egli sia stato l’unico pensatore della storia del mondo ad avere conseguito una perfetta ed assoluta trasparenza sull’uso critico delle proprie fonti ideologiche, scientifiche e filosofiche. Il culto di Marx ha impedito per quasi un secolo un’analisi critica del suo pensiero. Naturalmente, vi era una ragione per spiegare questa follia. Marx doveva essere infallibile in tutte le cose che diceva, perché magicamente la sua infallibilità potesse essere trasmessa e trasferita ai dirigenti politici del movimento comunista burocratizzato».

Costanzo Preve, I secoli difficili. Introduzione al pensiero filosofico dell’Ottocento e del Novecento, Petite Plaisance, Pistoia 1999, pp. 76-77.

 

***

«Quando parliamo di alienazione, cioè di cessione e di perdita, bisogna subito dire chi è che aliena e che cosa aliena. Chi aliena è l’uomo, e non l’uomo naturale sebbene l’uomo già storicamente costituito (e non c’è dunque nessuna paura di cadere nel naturalismo astorico o nell’umanesimo astratto interclassista), e ciò che aliena è la sua essenza umana generica (Gattungswesen). Egli non aliena dunque solo la sua essenza umana, che è l’insieme dei rapporti di produzione, e non comprende l’elemento naturale e biologico della sua costituzione antropologica complessiva, ma aliena qualcosa di più, la sua essenza umana generica, in cui ciò che conta veramente è la parola ‘generica’. La parola ‘generico’ si contrappone alla parola ‘specifico’. Le termiti non si alienano assolutamente nel loro termitaio, così come le api non si alienano assolutamente nel loro alveare. Come si vede, il concetto di essenza umana non deve essere confuso con quello di natura umana, che è più ampio, e comprende una sintesi di naturale e di storico, mentre l’essenza umana è solo storica, e chi si ferma ad essa sbocca in un povero sociologismo. Anche la natura è ovviamente storica, ma la sua storicità è più lenta, e dunque l’uomo antropologicamente è l’unione di due temporalità distinte anche se interconnesse. Proprio perché l’uomo è un ente naturale generico il capitalismo lo aliena, perché lo strappa alla sua genericità e lo rende specifico, cioè specifico ai soli rapporti capitalistici di produzione, che vengono appunto specificati, nel senso di animalizzato».

Costanzo Preve, Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità., Petite Plaisance, Pistoia 2002, pp. 105-106.


Alcuni libri di

Costanzo Preve

Preve in rosso

 

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Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale

Individui liberati, comunità solidali. Sulla questione della società degli individui

Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea.

Marxismo, Filosofia, Verità.

I secoli difficili. Introduzione al pensiero filosofico dell’Ottocento e del Novecento

L’educazione filosofica. Memoria del passato – Compito del presente – Sfida del futuro.

Un secolo di marxismo. Idee e ideologie.

Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi.

Il bombardamento etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente.

Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali.

Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità.

Verità filosofica e critica sociale. Religione, filosofia, marxismo.

Marx e gli antichi Greci.

Storia della dialettica.

Storia dell’etica.

Storia del materialismo.

La questione nazionale alle soglie del XXI secolo. Note introduttive ad un problema delicato e pieno di pregiudizi.

Le stagioni del nichilismo. Un’analisi filosofica ed una prognosi storica.

Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile.

Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi.

Scienza, Politica, Filosofia. Un’interpretazione filosofica del Novecento.

L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica. [Nuova edizione riveduta e corretta].

Il marxismo e la tradizione culturale europea.

Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík.

Lettera sull’Umanesimo.

Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia.

Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofia



Altri scritti di

Costanzo Preve

 

Preve in rosso

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Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante

Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione

Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.

Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.

Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.

Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

 


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Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.

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La filosofia del volto

La filosofia del volto

 

La proiezione scelta

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Su di un selciato,
al centro dei lati,
si tuffano i sogni
del giovane adulto.

 

 

La chioma, nel liscio,
leviga lo sguardo
rivolto alla setola,
che beve tra i colori
mescolati all’acqua.

 

luna

Il Bene ed il Male
si incontrano al centro
del piede in direzione,
baciato dalla luce,
rivolto alla speranza.

 

 

Nel passo protetto,
la sapienza giace ferma:
è l’immagine del volto,
sotto lacrime nei colori,
privato dal grigiore
plasmato sulla stoffa.

 

 

                             Giovanni Foresta

Ἁρμονία

Cadmo e Armonia sul carro, vaso attico, V se. a.C.

Cadmo e Armonia sul carro, vaso attico, V sec. a.C.

 

Armonia, per gli antichi Greci, era una dea, figlia di Ares e Afrodite. Il mito narra che Zeus diede Armonia in sposa al fondatore di Tebe, Cadmo, come ricompensa per averlo liberato dal mostro Tifeo. Tutti gli dèi scesero a Tebe dall’Olimpo per celebrare il matrimonio. In queste che furono, stando al mito, le prime nozze della storia, c’è un dono, ricevuto dalla sposa, prezioso ed emblematico come pochi altri. Si tratta della collana, forgiata da Efesto, che Afrodite mise al collo della sposa, dotandola del potere di dare eterna giovinezza e perenne bellezza a chiunque la indossasse.
Da sempre, dunque, armonia e bellezza vanno insieme.

 

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La collana di Armonia

Armonia, infatti, significa consonanza, accordo (harmonia deriva da harmozo, che significa, appunto, accordo), e indica quella concordia fra le parti in grado di realizzare un intero ovvero «un insieme ordinato di parti ordinate», bello a vedersi, armonico, appunto. Questo, forse, spiega perché «ciò che ci delizia in una bellezza visibile è l’invisibile» (Marie von Ebner-Eschenbach).
L’«invisibile», nella bellezza del volto come in ogni altro accordo armonico, non è altro che quell’ordine, quella logica sottile ma profonda, che innerva e sostiene i nessi fra le parti e fra le parti e l’intero. L’armonia, in questo senso, è prima di tutto ordine, misura, equilibrio di rapporti numerici.
Non a caso le fonti attribuiscono a Pitagora (fondatore, di quel termine kosmos da cui deriva, anche se non ci si pensa mai, la nostra “cosmetica”) il pensiero secondo cui «grazie ai numeri tutto diventa bello».
L’armonia, però, oltre ad essere «ciò che si vede», è anche ciò che «si sente», nel senso di «ciò che si ascolta». L’armonia, infatti, è anche – anzi forse prima di tutto – un concetto musicale, visto che indica «consonanza di voci o di strumenti in accordo tra loro».
L’armonia, pertanto, come dal pensiero di Foresta emerge molto chiaramente, costituisce l’anello di congiunzione tra occhi e orecchie; è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia.
E […] tornando alla meraviglia, che se da un lato è la vera origine della filosofia («Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia», ricorda Aristotele nella Metafisica), dall’altro è ciò che, da quel particolarissimo modo di «stare al mondo» rappresentato dalla «postura filosofica», deriva. Joseph Brodsky, Nobel per la letteratura nel 1997, scrisse una cosa molto bella, in cui si intrecciano molti dei fili tessuti, qui e altrove, dai pensieri di Giovanni Foresta: «Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, la lacrima è il modo con cui la retina – come la lacrima stessa – ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza».

Arianna Fermani, in Arianna Fermani e Giovanni Foresta, La filosofia del volto. Dal pensiero di Giovanni Foresta al commento filosofico di Arianna Fermani, Chiaredizioni, 2017, pp. 61-62.


Coperta 307

 Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano
Riflessioni sulla paideia in Aristotele
 ***
*
Coppa di Duride, V secolo a.C. Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, Vienna.

Coppa di Duride, V secolo a.C.

Contrariamente ad un certo filone interpretativo che ritiene Aristotele scarsamente interessante dal punto di vista pedagogico, l’Autrice ritiene che il tema della paideia, nella riflessione dello Stagirita, rappresenti un elemento cruciale a molti livelli, avendo egli fornito imprescindibili elementi – di assoluto interesse e attualità – sul tema dell’educazione. Aristotele dunque come uno dei momenti fondamentali del pensiero pedagogico: la sua riflessione infatti mette a tema, in molti modi e su più piani, la questione della formazione del soggetto, che costituisce uno dei pensieri aurorali della filosofia occidentale.
Più nello specifico, l’Autrice ha cercato di esplorare i molteplici nessi fra etica ed educazione, mostrando come, nel discorso dello Stagirita, il tema della paideia costituisca, insieme e a livelli diversi, uno snodo cruciale. L’educazione, cioè, si configura per il filosofo greco come una nozione intrinsecamente ricca e polivoca, che instaura con l’etica una complessa serie di legami.
Particolare della coppa di Duride, lato alto.

Particolare della coppa di Duride, lato alto.

Particolare della coppa di Duride, lato basso

Particolare della coppa di Duride, lato basso.

 

Sommario

Osservazioni preliminari
Originalità e attualità della riflessione aristotelica sull’educazione
Primo scenario educativo: l’educazione precede l’etica
L’insegnabilità della virtù: limiti e caratteristiche
L’emotional training e l’educazione “delle” passioni
Ulteriori articolazioni del modello educativo
Secondo scenario educativo: l’educazione è l’etica
Educazione e metodo della ricerca
Riflessioni conclusive



Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano

Riflessioni sulla Paideia in Aristotele

in Educação e filosofia, 31, n. 61 (2017)

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 «Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).

 

 

Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio

paideia

Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.


Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani

 

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Editore: eum, 2006

 

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

***

L'etica di Aristotele

L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana

Editore:Morcelliana, 2012

 

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

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Le tre etiche

Le tre etiche. Testo greco a fronte

Editore:Bompiani, 2008

 

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l'”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

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Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

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Interiorità e animae

Interiorità e anima: la psychè in Platone

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l'”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

 

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

Il ‘simposio’ di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

 

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

 

 

 

 


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Ilaria Rabatti – «Ricrescite», il libro di Sergio Nelli. Prezioso, straordinario incontro con una voce poetica che ha la forza – “contro le fiatate del vuoto” – di far respirare i muri e di muovere desideri.

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Ricrescite01

Ricrescite

Sergio Nelli, Ricrescite, tunué, 2018.

 

 

«Fumo al buio, di notte. Non so che tempo faccia. Ho a un passo una stella cometa brillantata, sbilenca, in vetta all’alberello natalizio. Quando tiro, il tizzone della sigaretta risplende […]. Credo si possa dire: ormai ce la faremo».

 Sergio Nelli, Ricrescite, tunué, 2018.

 

 

Torna in libreria per le edizioni tunué, nella collana Romanzi diretta da Vanni Santoni, il bel libro di Sergio Nelli, Ricrescite, scritto nel 2000 e pubblicato per la prima volta nel 2004 da Bollati e Boringhieri. Più che la riscoperta di “una perla sepolta”, per me che non conoscevo Sergio Nelli e, credo, anche per altri lettori, la preziosa occasione di un incontro straordinario con un libro (ed una voce poetica) che ha il merito e la forza – “contro le fiatate del vuoto” – di far respirare i muri e di muovere ancora, disperatamente, desideri (“Nel giardino della casa di Fucecchio, i miei zii hanno segato fin quasi all’attaccatura del tronco coi rami: un cachi, un nespolo (sano), due oleandri e due piante d’alloro. Soprattutto guardando il nespolo, con le sue ricrescite e i suoi ributti, ho fantasticato che potesse avere qualcosa in comune con questo diario”).

Come conferma Antonio Moresco nella breve, empatica, prefazione, Ricrescite è un “libro magico”, “eccentrico”, “sotterraneo”, sempre in bilico con la sua “disperata grazia” tra narrazione e pensiero, tra ricordi recuperati e sguardo allargato sul mondo, tra somatizzazione e autobiografia. Già dopo poche pagine, come in un dormiveglia vigile, seguendo il flusso di pensieri (sensazioni, frasi prese qua e là, tracce di sogni, sferragliare di treni, voci di bambini, boati di traffico) ci scopriamo nel vivo tremante di una vita, “che dà del tu alle pietre” e che tra sole e vento, nella “attesa di un sereno non contrastato” è ingoiata dal tempo. La scrittura solo sembra un argine, forse … e allora il racconto di Nelli cerca di pacificarsi con il tempo dando alla narrazione la forma di diario; i capitoli hanno il nome dei mesi che passano scandendo le stagioni inquiete dell’esistere, scavando sempre, talvolta in modo impietoso, intorno a sé e dentro di sé, nei dettagli delle giornate passate (o perdute) tra il lavoro come insegnante, il rapporto con il figlio di quattro anni Federico, l’impegno umano e intellettuale in una comunità di recupero per alcolisti, l’attrazione per i vulcani ed i lori misteriosi crateri, che sembrano freddi ed indifferenti e che all’improvviso esplodono… È sullo scampato pericolo (forse), contro gli spettri dell’autolesionismo e la stanchezza dei “giorni inerti” che Nelli ragiona con pazienti (infantili) elenchi di cose (“sole, marmo, comignoli che fumano, montagne, giardinetti ventosi, sassi, acqua increspata, file di tegole, piccioni, anziani guardinghi”). Con pensieri semplici ma affilati (Nei loro simposi i greci chiamavano le coppe per il vino crateri), sigaretta dopo sigaretta, in modo asciutto ma sempre emozionale, l’autore procede inserendo “nel dialogo delle voci che lo assedia” nomenclature da trattato di vulcanologia, ingenue epifanie (Fuori stagione, una lucertola sulla strada, di fronte a un portone. E siamo dentro una favola) e ricordi (Il caffè scaldato in un pentolino: odore di tovaglie, di ferri da stiro, di menù inernali, di antiche fiere d’uccelli, di cioccolato…)

Colpisce anche la lingua usata da Nelli, familiare, fortemente comunicativa, intrisa di una fisicità umorale che tende alla propria liberazione (“Al giardinetto tutto il pathos bilioso che si era addensato al chiuso, dopo un litigio, si è svuotato come una gonfia vescica da un’urina fumante”) E il racconto tra scarti umorali, “illuminazioni e affondi”, si muove, si alza, si abbassa, respira forte, facendosi sempre, come i libri che contano davvero, ascoltare e rileggere (“Mentre il giorno ci lascia, la bassura è nella nebbia. Striscio, salto, cammino, guido. Postazioni diverse, trincee improvvisate, giacigli. Al buio, tasto, annuso, mando avanti la bocca, le mani, la lingua. Inn discesa arretro, in salita mi incurvo. Nei corpo a corpo c’è sempre un po’ di luce che si accende, che brilla. Poi, resta uno scintillio, nell’assenza”).

Ilaria Rabatti


Alcuni libri di Sergio Nelli

Rcrescite, Einaudi 2000

Ricrescite, Einaudi 2000

Dopopasqua, Castelvecchi 2000

Dopopasqua, Castelvecchi 2000

Prima dell'estinzione, Effigie 2008,

Prima dell’estinzione, Effigie 2008

Segnavento Pontormo, Titivillus 2008

Segnavento Pontormo, Titivillus 2008

Orbita clandestina, Einaudi 2011

Orbita clandestina, Einaudi 2011

Il primo mondo, Gaffi editore 2014

Il primo mondo, Gaffi  2014

Albedo, Castelvecchi 2017

Albedo, Castelvecchi 2017

 

 


 

 

4066

un “giornale di sconfinamento” per guardare il mondo con occhi diversi

 

Il primo amore

Sergio Nelli, Più del tuo mancarmi

 

 


Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci

Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

 


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Marcel Proust (1871-1922) – La saggezza non si riceve, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci.

MARCEL PROUST 06
ALL'OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

La saggezza non si riceve,

bisogna scoprirla da sé

dopo un percorso che nessuno può fare per noi,

né può risparmiarci.

 

 

MARCEL PROUST

ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Edizione italiana a cura di P.Pinto e G.Grasso, prefazione e traduzione di Maura Del Serra, NEWTON COMPTON, Roma, 1997, p. 325


Marcel Proust – La lettura ci insegna ad accrescere il valore della vita
Marcel Proust – «Ogni lettore, quando legge, legge se stesso»
Marcel Proust (1871-1922) – Il libro essenziale esiste già in ciascuno di noi
Marcel Proust (1871-1922) – Leggere è comunicare

 


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Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.) – Occorre un’educazione seria e un’istruzione corretta. La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità. Bisogna assegnare un ruolo preminente alla filosofia.

Plutarco 001

Plutarco, Moralia

Nel De liberis educandis, Plutarco sottolinea che
 il fine dell’educazione
è quello di formare l’individuo nel pieno delle sue capacità
Per fare questo, l’educazione dovrebbe condurre l’uomo alla virtù,
e quindi alla felicità.

 

«Riassumendo, io ribadisco che nella vita il punto unico, primo, centrale e ultimo, è costituito da un’educazione seria e un’istruzione corretta, e sostengo che il concorso di questi due fattori è efficace per acquisire la virtù e la felicità».

«Gli altri non sono che beni umani, insignificanti e indegni di considerazione. La nobiltà è una bella cosa, ma è un bene proprio degli antenati; la ricchezza è preziosa, ma appartiene alla sorte, che spesso la toglie a chi ce l’ha e la dona a chi non lo sperava. La gloria è meravigliosa, ma instabile; la bellezza ambita, ma caduca; la salute preziosa, ma fragile. La forza fisica è invidiabile, ma comoda preda della malattia e della vecchiaia. L’educazione è l’unico nostro bene immortale e divino».

 

 

«La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come un fuoco da ardere, ha bisogno solo di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità».

 

 

«Rivestono grande importanza i principi educativi, gli insegnamenti e gli orientamenti di vita, e ve lo dimostrerò subito con assoluta chiarezza»

.

 

 

«Bisogna assegnare un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un’immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell’intero processo educativo».

***

Ecco alcuni brani del libro di Plutarco

***

«Passiamo ora ad occuparci dell’educazione. In generale, anche per la virtù si devono ribadire i concetti che abitualmente enunciamo a proposito delle arti e delle scienze, e cioè che per pervenire a una condotta impeccabile si richiede il concorso di tre fattori: natura, parola e abitudine. Per parola intendo l’istruzione, per abitudine l’esercizio. Le basi sono offerte dalla natura, i progressi dall’istruzione, le acquisizioni dall’applicazione, la perfetta riuscita dalla concomitanza di tutte queste condizioni. Se ne viene a mancare una, la virtù risulta inevitabilmente zoppa da quella parte: la natura senza l’istruzione è cieca, l’istruzione senza la natura è insufficiente, e l’esercizio, se difettano le altre due, è inconcludente. […] Tutte queste condizioni, posso affermarlo decisamente, si incontrarono e cospirarono per dar vita alle anime, universalmente celebrate, di Pitagora, Socrate, Platone e di quanti hanno conseguito una gloria che non tramonterà mai. Segno dunque di felicità e di predilezione celeste è ricevere da un Dio tutti questi doni. Se qualcuno invece pensa che chi è scarsamente dotato, nonostante un’istruzione e un’applicazione correttamente indirizzate alla virtù, non possa compensare, nei limiti del possibile, la propria naturale pochezza, sappia che si sta sbagliando di molto, anzi del tutto. Se l’indolenza guasta le buone qualità naturali, l’insegnamento ne corregge i difetti; le mete facili sfuggono ai negligenti, ma con l’impegno si conquistano quelle difficili. Si può comprendere quanto efficaci e determinanti siano impegno e fatica osservando molti fenomeni. Le gocce d’acqua incavano le pietrei; il ferro e il bronzo si consumano al continuo contatto delle mani; le ruote dei carri, una volta curvate dal tornio, non potrebbero mai, in nessun caso, riacquistare la forma rettilinea d’un tempo; è impossibile raddrizzare i bastoni ricurvi degli attori, ma ciò che è contro natura diventa con la fatica migliore di ciò che è secondo natura. Sono forse questi i soli esempi che dimostrano l’efficacia del l’impegno? No, ce ne sono infiniti altri. Un terreno è di per sé fertile, ma se lo si trascura isterilisce e anzi, quanto migliore è per natura, tanto più incuria ed abbandono lo traggono a rovina. Un altro, invece, è duro e accidentato più del dovuto, ma se lo si coltiva produce subito messi rigogliose. Quali piante, se poco curate, non crescono storte e non diventano infruttifere, mentre con un’adeguata coltivazione danno frutti e riescono a portarli a maturazione? Quale robusta costituzione non s’infiacchisce e consuma per trascuratezza, mollezza e cattiva condizione fisica? Quale natura fiacca non ha compiuto, invece, decisi progressi in robustezza, sottoponendosi a duri e faticosi allenamenti? […]

L’educazione è l’unico nostro bene immortale e divino. Nella natura umana due sono in assoluto gli elementi più importanti: intelletto e parola.
L’intelletto è signore della parola e la parola è al servizio dell’intelletto: è inespugnabile dalla sorte, inattaccabile dalla calunnia, indenne dalla malattia, al riparo dai guasti della vecchiaia, perché solo l’intelletto invecchiando ringiovanisce e il tempo, che porta via ogni altra cosa, alla vecchiaia aggiunge invece la saggezza. […] È bene non dire né fare niente a caso e, come dice il proverbio, «il bello è difficile». I discorsi improvvisati sono pieni di molta sciatteria e superficialità, e tipici di chi non sa da dove cominciare né dove finire. Senza contare le altre stonature, è fatale che chi parla improvvisando cada in una tremenda dismisura e verbosità. La riflessione, invece, non consente al discorso di eccedere la giusta simmetria. […] Con questo, però, non intendo sostenere la condanna assoluta dell’improvvisazione o proibirne l’impiego anche nei casi che la richiedono, ma piuttosto la necessità di adoperarla come si fa con una medicina. Fino all’età adulta ritengo che non si debba mai parlare improvvisando, ma una volta radicate le proprie capacità, allora è bene, se le circostanze lo esigono, godere di piena libertà nell’esprimersi. Perché uno rimasto a lungo in ceppi, anche se riacquista la libertà, per la lunga abitudine alle catene non riesce a camminare spedito ma zoppica, e così pure chi per molto tempo ha avuto sotto chiave la parola, anche se un giorno si trova a dover improvvisare un discorso, fatalmente conserva nel modo d’esprimersi lo stesso sigillo. Comunque, consentire ai ragazzi di parlare improvvisando diventa causa del peggiore vaniloquio. […]

Ma desidero, finché ancora tratto di questo aspetto dell’educazione, esprimere la mia idea al riguardo: un discorso monocorde è anzitutto, a mio modo di vedere, un non trascurabile indizio di povertà culturale, e in secondo luogo, anche ai fini pratici, lo giudico noioso e assolutamente privo di incisività. La monotonia è sempre stucchevole e antipatica: la varietà, invece, è gradevole, come avviene anche in tutti gli altri campi, negli spettacoli musicali, ad esempio, o in quelli teatrali. […] Si deve dunque consentire a un ragazzo libero di ascoltare e conoscere anche tutte le altre discipline, che formano la cosiddetta educazione di base: queste, comunque, le dovrà apprendere di corsa, limitandosi, per così dire, a un assaggio (raggiungere la perfezione in ogni campo è impossibile), e assegnando invece un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un’immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. […] Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell’intero processo educativo. Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigoria. Il solo rimedio alle malattie e alle passioni dell’anima è dato, invece, dalla filosofia. Per essa e con essa è possibile capire in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, quello che, in breve, si deve ricercare o evitare. […]

Tre sono i modelli di vita possibili: l’attivo, lo speculativo e il gaudente. Quest’ultimo, che s’abbandona e si fa schiavo dei piaceri, è animalesco e meschino; quello attivo, se non è assistito dalla filosofia, è goffo e stonato; quello speculativo, se fallisce sul piano pratico, inutile.

Si deve cercare dunque, con il massimo impegno, di occuparsi degli affari pubblici e dedicarsi alla filosofia per quanto le circostanze consentano. […] Sostengo anche questo, che bisogna guidare i ragazzi a comportarsi bene ricorrendo a consigli e parole, e non, per Zeus!, a percosse o maltrattamenti».


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Jeroen van Busleyden (1470-1517) – Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia, nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato.

Tommaso Moro Utopia 01

utopia 05

utopia-more-4

 

«Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia: il che non avresti potuto ottenere per via migliore e più giusta di quella che consiste nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato, una tale struttura dei comportamenti e un modello così perfetto, che non se n’è mai visto al mondo uno più sodamente istituito, più accurato nei particolari, più desiderabile, tanto che esso supera e sopravanza di un bel tratto le tanto celebrate e decantate repubbliche degli Spartani, degli Ateniesi e dei Romani.
Perché, se quest’ultime fossero state instaurate con gli stessi princìpi che ispirano questo tuo Stato, se fossero state regolate con le stesse istituzioni, leggi, decreti e costumi, certo non sarebbero ormai rovinate e rase al suolo, non giacerebbero estinte – ahimè! – senza speranza alcuna di poter risorgere».

Lettera di Jeroen van Busleyden scritta a Thomas More poco dopo la pubblicazione di Utopia, in Tommaso Moro, Utopia, a cura di L. Firpo, Torino 1970, p. 51.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

 


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