Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

Preve Costanzo 026

Il convitato di pietra

Il convitato di pietra

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Ieri ero triste.
Pensai:
forse il nostro movimento tramonta
per cento anni, non per sempre, ma
per cento anni sì, ed
è proprio qui che noi viviamo.
Oggi lo so: io
ero triste
soltanto ieri.

Bertolt Brecht

 

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Recensione di Salvatore Bravo

Il nichilismo è una pratica,
è la condizione del quotidiano
senza la mediazione della coscienza,
senza la fatica del concettualizzare

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L’ospite inquietante, il nichilismo, è raffigurato da Costanzo Preve, nel suo libro Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, con la metafora della statua che nel Don Giovanni di Mozart è muta, non risponde, e avvolta nella sua indifferenza non proferisce parola: è un’inquietante presenza che suscita terrore. Nell’opera di Mozart la statua si presenta da don Giovanni: lo invita a confessare i suoi peccati per poi sprofondarlo all’inferno con sé. Il convitato di pietra solo alla fine svela la sua terrifica realtà senza speranza. A giochi fatti, quando ormai il pensiero è arretrato, ogni corrispondenza tra significato e realtà ha lasciato il posto semplicemente al nulla. Parla, ma le sue parole sono inutili, hanno perso valore e realtà: ogni confessione senza la solidità dei significati, è puro virtuosismo lessicale, mera posa interna al silenzio delle domande e delle risposte.

Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza. La fatica del concettualizzare, in questo caso, è la porta stretta attraverso cui è possibile l’uscita senza fuga dalla pratica del nichilismo. La premessa maggiore che ha consentito al nichilismo di radicarsi e radicalizzarsi, di essere parte della carne di tutti, fino a renderci “convitati di pietra” – creature atomizzate e dunque irreali – trova nella caduta di ogni teleologia storica una delle ragioni più profonde ed ultime. “La morte di dio” si ripete e si rafforza con la caduta delle storicistiche verità-certezze. La pratica nichilistica ha la sua profondità nei disincanti che hanno rafforzato il trionfo degli automatismi. La ragione-coscienza, dinanzi alla caduta degli dei, è arretrata a pura dimensione procedurale: al pari di qualsiasi automatismo essa ripete se stessa nel sistema produzione capitalistico ed ex-comunista, per rendere l’essere umano parte dell’ingranaggio senza alcuna difesa. Si diventa di pietra nella pratica del nichilismo e si è estranei al dolore del mondo: ogni responsabilità politica arretra per lasciare spazio all’ingranaggio, ad un mondo disabitato dagli esseri umani, ma abitato dai consumatori nella attuale globalizzazione. Weber ha ben descritto l’automatismo nichilistico, declinabile in modo polimorfo:

«È questo automatismo l’elemento strutturale essenziale per comprendere la nozione weberiana di disincanto, che non è dunque mai una semplice “visione del mondo” fra le altre. Weber scrisse a suo tempo che chi aveva bisogno di visioni del mondo non aveva che andare al cinema, e fu in questo un buon profeta, se pensiamo che oggi l’automatismo televisivo cui è sottoposto per molte ore al giorno l’individuo contemporaneo non ha più lo scopo di veicolare attivamente delle forme di etica sociale conformistiche e repressive (come opinavano ancora i francofortesi), ma semplicemente di autoriprodurre una forma di consumazione passiva dell’immaginario».[1]

L’automatismo nichilistico non conosce sponde ideologiche o steccati, esso è comune alla pluralità dei sistemi vigenti nel Novecento. Non ne era esente il comunismo storico (socialismo cosiddetto “realizzato”) novecentesco con il suo capitalismo di Stato. La forma era differente, ma la sostanza era (ed è) identica in entrambi i sistemi. Per strappare il comunismo dalla caduta nichilistica, è necessario, secondo Preve, far saltare la distinzione tra comunismo e socialismo, in quanto – all’interno di questa dicotomia – il socialismo è il momento piegato all’economicismo mentre il comunismo è rimandato ad un futuro senza tempo, alla falsa e degenerata utopia (distopia invero) di una liberazione-emancipazione oscillante tra messianesimo e scientismo. L’esodo nel cattivo infinito del tempo che verrà, si ripiega su stesso divenendo semplice attualità dell’economicismo burocratico senza speranza:

«Proponiamo dunque di abolire la parola (ed il concetto) di “socialismo”, e di mantenere soltanto la parola “comunismo”, in modo che il termine comunismo possa perdere le connotazioni religiose e nichilistiche che inevitabilmente assumerebbe se fosse impiegato per connotare l’esito messianico e salvifico della storia».[2]

Dinanzi all’inarrestabile deserto che avanza, al nichilismo che come sabbia occupa ogni spazio, anche il più recondito, non si può certo piegarsi alla soluzione heideggeriana: dinanzi all’ineluttabile forza della tecnica, Gestel, non resterebbe che sperare in un impossibile dio che porti la salvezza. L’operazione intellettuale di Preve è invece quella di rivolgersi a Marx per far riemergere aspetti non sufficientemente codificati dal semplicismo della critica filosofica del Novecento. Si tratta di immergersi nei testi per trarne aspetti che sono d’ausilio nel confronto e nella lotta contro l’avanzante deserto del nichilismo. La terra sommersa da far emergere del pensiero di Marx – di ascendenza hegeliana – è il rapporto tra genere ed individuo, nel quale lo stesso Marx era rimasto impigliato:

«La teoria sommersa di Marx rimane dunque tale perché Marx teme da un lato che un’esplicita affermazione della centralità del tema del “genere” possa sembrare troppo filosofica e troppo poco scientifica, e non ha risolto dall’altro il problema della determinazione delle forme di coscienza (che invece Hegel aveva saputo risolvere). Il comunismo diventa allora necessariamente un’utopia, perché tipico della proiezione ideologica utopica è lo spostamento infinito di un futuro che si allontana mano a mano che si avvicina».[3]

Il cattivo infinito è l’effetto dell’assenza di chiarezza tra genere, individuo e, dunque, processo di emancipazione. Il cattivo infinito si ripiega su se stesso – e dunque evita gli effetti collaterali – mediante forme di ontogenesi, rassicuranti ma destinate al fallimento ed a facilitare gli esiti nichilistici. Il genere produce forme di vita sempre nuove (essenza generica dell’essere umano), ma è esposta all’esito nichilistico, perché ogni determinazione rischia di cadere in forme di alienazione, in forme di soddisfazione circoscritte nel presente. Il comunismo, quale condizione emancipata e disalienata, si pone in un tempo indeterminato quale luogo in cui tale processo all’involgarimento è reso impossibile: di qui la necessità di utilizzare categorie scientifiche per ordinare la teleologia materialista. Costanzo Preve – senza cadere in forme tradizionali di umanesimo – fa appello al comunismo della finitudine, il cui centro è la responsabilità attiva della coscienza. Il comunismo della finitudine non fa appello ad ideali baconiani, a prometeiche certezze: esige l’attività della coscienza in relazione alla comunità, non subisce le condizioni storiche, elabora piuttosto modelli di partecipazione storicamente fondati:

«Definiremo questa interpretazione “comunismo della finitudine” (o della “finitezza”, se lo si vuole, ma preferiremmo mantenere questo latinismo), per sottolineare la necessità di liberarsi da ogni concezione titanica e prometeica del “genere umano”, premessa per una ricollocazione dell’orizzonte comunista in un agire che deve essere inevitabilmente singolarizzato per riacquistare un senso non troppo “metafisico”».[4]

Il comunismo a cui guarda Costanza Preve è l’autogoverno dei liberi lavoratori associati, i quali determinano la produzione in funzione dei bisogni reali. La produttività avanzata consente la vigile libertà delle coscienze:

«In secondo luogo, il comunismo è l’autogoverno dei produttori divenuti finalmente capaci di scegliere liberamente e democraticamente dei bisogni sociali da soddisfare, sviluppando nel tempo libero le loro forze umane creatrici. Il “regno della libertà”, in cui la coltivazione delle facoltà umane diventa un “fine in sé”. In questo modo l’intersoggettività dei produttori associati si costituisce in istanza realizzatrice delle possibilità create sulla base “alienata” del modo di produzione capitalistico, ed occupa congiuntamente i ruoli di destinatario e di soggetto della teoria critica rivoluzionaria».[5]

Preve legge Marx attraverso la lezione lucacciana: non è sufficiente che vi siano le condizioni storiche per la rivoluzione, è necessario che la coscienza – in un atto di autoriflessione – diventi il veicolo consapevole e comunitario della Rivoluzione, di un altro modo di esserci e produrre. Il nichilismo nega la mediazione umana, ente tra gli enti. L’irrilevanza comporta il trionfo della tecnica sull’umano, la sua ipostatizzazione. Il comunismo – come categoria ideologica antinichilistica – deve lavorare per l’agere in una prospettiva storica non infetta dal cattivo infinito, ovvero rinunciando ad ogni velleità previsionale di tipo messianico (Bloch) o tipo scientifico (positivismo). Il comunismo della finitudine rinuncia alla previsione introducendo il possibile e con esso la responsabilità umana nel presente. La storia non fluisce fatalmente verso il comunismo con il presunto inevitabile passaggio dal capitalismo al comunismo secondo la inesistente cosiddetta ferrea legge della storia, ma nella storia è presente la variabile umana che sola può pensare e realizzare il rivoluzionario mutamento strutturale.

Salvatore Bravo

 

[1] Costanzo Preve, Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, Vangelista, 1991, pp. 110-111.

[2] Ibidem, p. 143

[3] Ibidem, p. 152

[4] Ibidem, p. 220

[5] Ibidem, p. 224


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

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