Gabriel Marcel (1889-1973) – La tecnica si rivela incapace di salvare l’uomo da se stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto.

GabrielMarcel 01
Edvard Munch, Melanconia.

Salvatore Bravo

Il postulato della malinconia

 

L’epoca delle passioni tristi ha le sue ragioni. La malinconia esistenziale è stata ontologizzata: essa accade semplicemente. Dinanzi a tale constatazione ideologica è necessario smascherare il misticismo esistenziale-positivistico, il quale ha come fondamento il postulato della malinconia. Il capitalismo assoluto favorisce il diffondersi e l’affermarsi di filosofie da integrare col sistema vigente, che possano valere da sgabello-pseudofondamento per giustificare il clima di umor nero dello stato presente. Scienze e filosofie di tal genere – con l’arretrare della speranza – favoriscono la gabbia d’acciaio del sistema capitale. L’esistenza defraudata, saccheggiata delle sue possibilità di senso e di speranza – ed omologata sull’impersonale – diviene la giustificazione al consumo illimitato e consolatorio. Il capitalismo ha trovato nel ciclo produzione-consumo il balsamo alle passioni tristi, presentandosi come il consolatore degli afflitti, ma in realtà ne è la causa sottesa.
La filosofia dev’essere radicale nella sua critica sociale, nella prassi della consapevolezza. Gabriel Marcel lo è stato. Nella contingenza attuale il pensiero radicale deve includere nell’orizzonte critico filosofi di differente orientamento di pensiero per costruire processi plurali di critica. Gabriel Marcel, nella sua archeologia della tristezza esplicita, coglie lo strato profondo della tristezza e della disperazione: esse sono determinate dalla riduzione dell’essere umano a sola funzione. In tal modo la persona è presa in un vortice siderale di mortificazione ed alienazione, poiché è resa ente inerte che deve sottostare alle leggi del capitalismo alleato con la tecnocrazia e con la psicologia adattiva che rappresentano l’essere umano come un ente fisico che deve sottostare alle sole funzioni di natura fisico-biologica iscritte nel corpo vissuto.
Le funzioni vitali delineano l’essere umano come rispondente ad apparati e movimenti anatomici che devono solo consumare per vivere; le funzioni sociali sono curvate sullo scambio, sulla compravendita ed il plusvalore; la funzione psicologica media l’attività anatomica con le funzioni sociali.
L’io minimo è già in Gabriel Marcel, è l’elemento di congiunzione tra le funzioni vitali e sociali e specialmente il mezzo attraverso il quale il dio capitale si perpetua. Si è in tal modo appendice del sistema, atomo che si muove nello spazio predefinito dal capitale. La prigione è ovunque, nella lingua, nei messaggi che sollecitano risposte stereotipate, nella libertà tradotta nel solo significato mercantile, nella circolazione di idee rispondenti ai “bisogni capitali”:

 

«L’individuo tende ad apparire non solo a se stesso ma anche agli altri come un semplice fascio di funzioni. Per ragioni storiche estremamente profonde e che senza dubbio comprendiamo ancora soltanto in parte, l’individuo è stato sempre più portato a trattare se stesso come un aggregato di funzioni, la gerarchia delle quali gli appare d’altronde problematica, soggetta in ogni caso alle più contraddittorie interpretazioni. Funzioni vitali in primo luogo; è appena sufficiente indicare il ruolo che in questa direzione hanno potuto svolgere da una parte il materialismo storico, dall’altro il freudismo. Funzioni sociali, in secondo luogo: funzione consumatore, funzione produttore, funzione cittadino, ecc. Tra le une e le altre v’è certo teoricamente posto per le funzioni psicologiche. Ma si vede subito che le funzioni propriamente psicologiche tenderanno ad essere sempre più interpretate sia in rapporto alle funzioni vitali, sia in rapporto alle funzioni sociali, la loro autonomia sarà precaria, come sarà contestata la loro specificità».[1]

 

La struttura economica si palesa nella cultura della funzione per poter dominare e riprodursi. Il corpo è funzione del consumo e del produrre, la psiche deve orientarsi all’individualizzazione del piacere, dell’apparire che separa, le funzioni sociali sono orientate alla competizione crematistica. Ogni possibilità altra è censurata mediante la pletora di stimoli e messaggi unidirezionali. L’orizzonte vitale ed esistenziale è così compresso sul presente, sull’immediato, sulla soddisfazione delle funzioni prestabilite, pena la marginalità sociale ed il silenzio dell’escluso.

 

Funzione e disperazione
Un buon osservatore non può non cogliere la disperazione del consumo compulsivo come della solitudine di coloro che sono disfunzionali rispetto alle richieste del mercato. L’essere umano è valutato per le prestazioni tradotte in linguaggio matematico, i mezzi di misurazione sempre più precisi “nanometrici” spingono ad una competizione senza limiti, c’è sempre un record da battere. Come nello sport, l’asticella è spostata sempre in più in alto, sempre più irraggiungibile e tagliente. Si è vincenti, nella società liquida, per un tempo sempre minore, si è esposti alla marginalità con una facilità e una velocità non sempre razionalizzabile. Il pensionato è la punta dell’iceberg della insocievole socievolezza del capitalismo assoluto, è l’immagine percettiva evidente della violenza della riduzione dell’essere umano a funzione la cui durata è ad obsolescenza programmata.
Il pensionato è riammesso tra i vivi solo se può essere parte di un nuovo mercato. Per entrarvi deve imitare e concorrere con il giovanilismo, aggiungendo alla disperazione la frustrazione di un traguardo impossibile e della negazione della propria identità:

 

«Non c’è bisogno di insistere sopra l’impressionante di soffocante tristezza che sale da un mondo così regolato sulla funzione. Mi limiterà qui ad evocare l’immagine penosa del pensionato, o anche quella strettamente connessa delle domeniche cittadine, quando la gente a passeggio dà precisamente la sensazione dei pensionati della vita. In un mondo di tal genere la tolleranza, che si concede al pensionato, ha qualcosa di derisorio e di sinistro. Ma non c’è solo la tristezza di chi guarda questo spettacolo; c’è anche il sordo, intollerabile malessere avvertito da colui che si vede ridotto a vivere come se si confondesse effettivamente con le proprie funzioni; e questo malessere dimostra a sufficienza che esiste un errore o un abuso d’atroce interpretazione, che un ordine sociale sempre più disumano e una filosofia ugualmente disumana (la quale, se ha performato questo ordine, si è in seguito su di esso modellato) hanno nella stessa misura contribuito a radicare nelle intelligenze senza difesa. […] La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto, perché suona vuoto, se resiste alla disperazione, ciò avviene unicamente nella misura in cui giocano, in seno a tale esistenza e in suo favore, certe forze segrete che essa non ha la capacità di pensare o di riconoscere».[2]

 

L’essere umano resta tale malgrado il vuoto siderale in cui si muove. La resistenza è possibile, in quanto la profondità di ciascuno, il pensiero, ha la possibilità di raccogliersi per concettualizzare. Il pensiero è la forza metafisica che non si lascia cancellare dalla violenza del capitale. La disperazione è il sintomo attraverso il quale si può uscire dalla caverna che imprigiona, indica la presenza di una insoddisfazione metafisica che può essere il percorso che porta all’emancipazione.

 

Il pericolo
La tecnica, malgrado i suoi risultati, non riesce a salvare l’essere umano dalla disperazione, dalla dolorosa constatazione esistenziale che l’essere umano non è una funzione. Dinanzi a tale condizione vi sono opzioni, vie che si possono percorrere: compromesso con la tecnocrazia che diviene complicità, mentre la prassi nelle sue forme plurali riumanizza ciò che la tecnocrazia ha svuotato con il suo dogmatico incedere:

 

«È qui la ragione per cui può sembrare che oggi siamo entrati nell’epoca stesa della disperazione: non abbiamo smesso di credere alla tecnica, cioè di considerare la realtà come un insieme di problemi, e nello stesso tempo il fallimento globale della tecnica è tanto chiaramente visibile quanto lo sono i suoi trionfi parziali. Alla domanda: cosa può l’uomo? Rispondiamo di nuovo: l’uomo può ciò che può la sua tecnica; ma nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che questa tecnica si rivela incapace di salvarlo da lui stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. Abbandonato alla tecnica (“livrè à la technique”), ho detto: cioè nel senso che l’uomo è sempre più incapace di dominarla, o meglio di dominare la propria maestria (“maîtriser sa propre maîtrise”)». [3]

 

Il mito del pastore
Bisogna sottrarsi al mito dell’abbandono e del “pastore”. Non si può che evadere rispetto a tale pericoloso ed insidioso bisogno: la tecnica è il pastore che muove le greggi, le compatta nel sogno della deresponsabilizzazione. La tecnocrazia assolve il compito del pastore che guida con sicurezza i suoi armenti. La prassi non può che iniziare con l’abbandono del mito del pastore che scorre nelle tecnologie, in ogni atto quotidiano. Pertanto la prassi necessita di una cesura, prima ed imprescindibile, rispetto al bisogno di una età dell’oro in cui il pastore guidava ed ogni necessità politica era inesistente e sconosciuta. Si deve dire addio all’archetipo di Crono, divinità che nell’età dell’oro guidava il cosmo senza l’intervento e la responsabilità umana:

 

«STRANIERO: Hai seguito bene il discorso. Quanto alla tua domanda sul fatto che tutto veniva generato spontaneamente per gli uomini non riguarda affatto il ciclo che c’è ora, ma anche questo si verificava in quello anteriore. Allora il dio guidava innanzitutto la stessa rotazione, prendendosene totalmente cura, e cosa che avviene allo stesso modo anche adesso in alcuni luoghi tutte le parti del cosmo venivano ripartite dagli dèi che le governavano: e dei demoni divini come fossero pastori avevano ripartito anche gli animali viventi secondo i generi e i gruppi, e ciascuno bastava in tutto a ciascun gruppo essendo esso stesso pastore, sicché non vi era nessun essere selvatico e nessuno procurava cibo all’altro, e non esisteva affatto guerra né rivolta. Ma vi sarebbe molto altro da dire riguardo a quel che segue a tale assetto dell’universo. Quanto si dice degli uomini e della loro vita in cui tutto si generava spontaneamente, si è detto per questo motivo. Il dio li guidava ed era loro capo, come adesso gli uomini, che sono animali più vicini alla natura divina, portano al pascolo le altre specie a loro inferiori: quando il dio li portava al pascolo non vi erano forme di governo, né acquisti di donne e di figli. Tutti ritornavano in vita dalla terra, e non vi era alcun ricordo delia situazione precedente: questi beni allora mancavano, però avevano abbondanza di frutti dagli alberi e da molta altra vegetazione, senza esser generati mediante l’agricoltura, ma offerti spontaneamente dalla terra. Nudi e senza coperte vivevano trascorrendo la maggior parte del tempo all’aria aperta: le stagioni erano temperate perché non provassero dolore, e avevano confortevoli letti costituiti dall’erba abbondante che cresceva di continuo dalla terra. La vita di cui stai ascoltando il racconto, Socrate, è quella di coloro che vissero al tempo di Crono: questa di adesso, invece, che il discorso indica come del tempo di Zeus, tu stesso la stai sperimentando di persona. Saresti in grado e vorresti giudicare la più felice fra queste due esistenze?». [4]

 

Per trascendere la disperazione si deve affrontare la dialettica, il conflitto con il desiderio regressivo di essere liberi da colpe come da responsabilità. Solo il ritorno del politico e del metafisico possono inaugurare un’esistenza che sia a dimensione di esseri umani e non di semplici enti. La disperazione è l’effetto di un’umanità oggetto di logiche che manipolano per devitalizzare il potenziale creativo e politico della persona e della comunità. Per trascendere la depressione delle passioni tristi è necessario ribaltare la passività in attività, affinché ciò accada bisogna attraversare la caverna mediante un non facile riorientamento gestaltico. Le modalità di tale prassi sono plurime, certamente senza mettere in epochè il consumo per contemplarlo ed ascoltare ciò che cela, tale processo non può iniziare. Le istituzioni dedite alla formazione possono ritrovare il loro senso divenendo luoghi comunitari del logos che emancipa con l’esame critico dei modi di produzione, elaborando, così, processi antiadattivi.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Gabriel Marcel, Manifesti metodologici di una filosofia concreta, Minerva italica, 1972, p. 69.

[2] Ibidem, p. 72.

[3] Ibidem, p. 96.

[4] Platone, Politico, Ousia, p. 10.