Epitaffi Greci. La «Spoon river» ellenica di W. Peek – Nulla è proprietà privata tra gli uomini: solo un segno di onore si procurò colui che, ancora vivo, costruì il sepolcro egli stesso per se stesso: infatti l’oblio del padre defunto prende i figli.

Epitaffi greci-Mosino-Guidorizzi-Lelli

Nulla è proprietà privata tra gli uomini: solo un segno di onore si procurò colui che, ancora vivo, costruì il sepolcro egli stesso per se stesso: infatti l’oblio del padre defunto prende i figli.

Epitaffi greci, 255, p. 103.


Un’anima che ha avuto un dio per carcere,
vene che a tanto fuoco han dato umore,
midollo che è gloriosamente arso,
 
il corpo lasceranno, non l’ardore;
anche in cenere, avranno un sentimento;
saran cenere, ma cenere innamorata.
 

Epitaffi Greci. La «Spoon river» ellenica di W. Peek, Traduzione di Franco Mosino. A cura di Emanuele Lelli. Prefazione di Giulio Guidorizzi. Testo greco a fronte. Bompiani, Milano 2019.

«Questo libro è un viaggio attraverso gli itinerari del dolore, del lutto, della separazione, e attraverso le forme con cui gli antichi sentivano la morte e concepivano il rapporto tra chi c’è e chi non c’è più. È la storia, che scavalca il tempo e arriva sino a noi, di migliaia di esseri umani posti di fronte alla barriera alzata dalla morte tra il defunto e chi gli sopravvive piangendolo e trova le parole per dire l’indicibile: l’angoscia davanti alla scomparsa di chi si ama, e perciò alla perdita irrimediabile di una parte di sé. Un pulviscolo di vite che si sarebbero annullate, se qualcuno non avesse scritto i loro nomi e talvolta raccontato qualcosa della loro storia. Nell’epigramma sepolcrale greco la parola appare infatti come la sola forma di opposizione alla morte, e anzi a qualcosa che terrorizza la mente umana forse ancora di più della morte, cioè l’assoluto nulla: perché se dopo questa breve vita sotto i raggi del sole un essere umano sprofonda nel buio da cui è venuto senza lasciare la minima traccia di sé, né un fatto che possa essere ricordato e neppure un nome o una traccia del suo passaggio nella vita, allora è come se quest’essere neppure fosse vissuto.
Questa visione della morte e del ricordo è un aspetto fondamentale dell’antropologia religiosa degli antichi, e, potremmo dire, della loro cultura. Parlare della morte infatti significa contemporaneamente parlare anche della vita e del suo senso. Quando si alza una tomba e si scrive un epitaffio, lo si fa perché resti almeno il nome di chi non esiste più e anche un’ombra dell’affetto di chi lo piange. A volte, solo il nome; come dice la più antica iscrizione funebre di cui si abbia notizia, graffita attorno al 700 a.C. su una roccia della città di Egìale, nell’isola di Amorgol […].
Talvolta, la cosa è resa esplicita; si chiede allo sconosciuto che passerà accanto al sepolcro un momento di attenzione, perché il nome del morto e il suo ricordo arrivino sino a lui e chi legge li possa portare almeno per qualche istante nella sua memoria. A ricordare il defunto è la parola incisa sulla pietra, molto di più che la statua o la stele tombale, perché solo la parola trasmette qualche segno della memoria del morto. […] Un epitaffio può essere considerato un discorso che si oppone al correre del tempo, anche se lo fa come un sassolino potrebbe opporsi a una cascata.

Giulio Guidorizzi, Prefazione, in Epitaffi Greci. La «Spoon river» ellenica di W. Peek, Traduzione di Franco Mosino. A cura di Emanuele Lelli. Prefazione di Giulio Guidorizzi. Testo greco a fronte. Bompiani, Milano 2019, pp. VII, X.

Risvolto di copertina
La civiltà greca, forse più di ogni altra cultura antica, sembra aver avuto una particolare predisposizione a iscrivere quasi qualunque oggetto, prodotto, spazio utili a contenere lettere, frasi, veri e propri testi articolati, finanche componimenti poetici di altissima fattura. Centinaia di migliaia sono le testimonianze di epigrafi che la Grecia antica ci ha lasciato. Fra queste, un posto di rilievo occupano le epigrafi di carattere sepolcrale, e, fra queste, le epigrafi in versi. Commissionate soprattutto dalle famiglie più colte e facoltose, queste testimonianze aprono un orizzonte tutto da scoprire sulla civiltà antica: greca, ma non solo, visto che in lingua ellenica, sentita come la lingua della cultura e della poesia, sono realizzati anche epitaffi per uomini e donne romani, italici, o di altre aree del mondo antico. Sfogliare le “pagine di pietra” di questo affascinante repertorio mette di fronte il lettore a migliaia di individui: uomini e donne, bambini e anziani, che vissero e morirono nelle più diverse situazioni. Mette di fronte il lettore, in una parola, alla vita. I casi che ci rivelano colpiscono, a volte per la drammaticità degli eventi, altre volte per la serenità di chi ha saputo affrontarli, spesso per la disarmante attualità di tante sventure, di allora e di oggi. Testi reali, composti da poeti sconosciuti, per uomini e donne che hanno lasciato in tal modo il loro ricordo nei secoli: anziani che hanno concluso la vita con una vecchiaia serena e giovani morti prematuramente; naufraghi sfortunati e soldati gloriosi; fanciulle appena sposate che Ade ha strappato agli affetti e medici che, dopo aver curato altri, non hanno potuto curare se stessi. Il quadro che emerge dalle oltre duemila testimonianze è quello di una società multiforme e, per molti aspetti, simile alla nostra: una vera e propria Spoon River dell’antichità. Nel 1955 il grande epigrafista tedesco Werner Peek pubblicò la più importante raccolta, a tutt’oggi, di epigrammi sepolcrali greci, dall’età arcaica all’epoca cristiana. In oltre dieci anni di lavoro, Franco Mosino, grecista e linguista scomparso nel 2015, tradusse e commentò, per la prima volta al mondo, la raccolta del Peek. Emanuele Lelli, in collaborazione con un gruppo di studenti del Liceo Tasso di Roma, ne ha curato la revisione, l’aggiornamento e l’introduzione. La Prefazione di Giulio Guidorizzi poi apre orizzonti di lettura suggestivi, antropologici e letterari. Un’opera, dunque, che rende finalmente disponibile al pubblico italiano un materiale imponente per quantità, e particolarissimo per contenuti: un insostituibile strumento per ogni studioso di antichità classiche, ma anche un affascinante viaggio nel quotidiano dei greci, per il lettore curioso di oggi.
 

Franco Mosino

Franco Mosino (1932-2015) è stato grecista e linguista, candidato Premio Nobel per la Letteratura nel 2013 grazie alle sue tesi sull’autore del poema epico noto come Odissea. Ha studiato i poemi omerici (L’Odissea scritta a Reggio, Reggio Calabria 2007) e la poesia arcaica greca; si è occupato di linguistica greca antica e di dialettologia dell’area grecanica. Ha dedicato particolare interesse alla storia, alla cultura e agli aspetti linguistici della Calabria (Storia linguistica della Calabria, Reggio Calabria 1989). Ha animato numerosi circoli culturali, riviste e iniziative.


Giulio Guidorizzi

Giulio Guidorizzi è grecista e antropologo del mondo antico. Ha studiato i percorsi del mito in Grecia antica e la tragedia greca; gli aspetti nascosti dell’interiorità dell’uomo greco (la follia, il sogno, le passioni) e la magia nel mondo antico. Ha ripercorso la tradizione culturale e iconografica antica e modema dell’Iliade (Il grande racconto della guerra di Troia, Bologna 2018) e ha “riletto” le vicende dei due protagonisti dei poemi omerici, Agamennone e Odisseo (Io, Agamennone, Torino 2016; Ulisse, Torino 2018).


Emanuele Lelli

Emanuele Lelli è studioso di poesia ellenistica e di letteratura scientifica e tecnica antica, dei proverbi e della cultura popolare antica e moderna (Folklore antico e moderno, Pisa-Roma 2014; Sud antico, Milano 2016; Pastori antichi e moderni, Hildesheim 2017). Coordina da anni gruppi di giovani studiosi in iniziative editoriali sul mondo antico (per Bompiani: Quinto di Smirne, Il seguito dell’Iliade; Ditti di Creta, L’altra Iliade; Erasmo da Rotterdam, Adagi; Plutarco, Tutti i Moralia). Sta coordinando, sempre per Bompiani, un Dizionario della cultura popolare degli antichi.


Werner Peek (1904-1994), filologo tedesco.
Werner Peek, Greek Verse Inscriptions.
Werner Peek, Griechische Grabgedichte.

 

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Sonetti amorosi e morali

Amore costante al di là della morte

Gli occhi miei potrà chiudere l’estrema
ombra che a me verrà col bianco giorno;
e l’anima slegar dal suo soggiorno
un’ora, dei miei affanni più sollecita;
 
ma non da questa parte della sponda
lascerà la memoria dove ardeva:
nuotar sa la mia fiamma in gelida onda
e andar contro la legge più severa.
 
Un’anima che ha avuto un dio per carcere,
vene che a tanto fuoco han dato umore,
midollo che è gloriosamente arso,
 
il corpo lasceranno, non l’ardore;
anche in cenere, avranno un sentimento;
saran cenere, ma cenere innamorata.
 
 
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Amor constante más allá de la muerte
Cerrar podrá mis ojos la postrera
Sobra que me llevare el blanco día,
y podrá desatar esta alma mía hora
a su afán ansioso lisonjera;
 
mas no, de esotra parte, en la ribera,
dejará la memoria, en donde ardía:
nadar sabe mi llama la agua fría,
y perder el respeto a ley severa.
 
Alma a quien todo un dios prisíon ha sido,
venas que humor a tanto fuego han dado,
medullas que han gloriosamente ardito,
 
su cuerpo dejarán, no su cuidado;
serán ceniza, mas tendrá sentido;
polvo serán, mas polvo enamorado.
 
                                                  Francisco De Quevedo

 

Francisco De Quevedo, Sonetti amorosi e morali, Einaudi, Torino 1971.