Maria Stella Rasetti – Nelle stanze dei libri, cittadelle della democrazia. La direttrice delle biblioteche e archivi della città di Pistoia racconta i luoghi che il Dpcm ha negato agli utenti, nonostante l’esperienza maturata durante il “lockdown”.

Maria Stella Rasetti - Biblioteca San Giorgio Pistoia

Il DPCM entrato in vigore venerdì ha vietato l’accesso al pubblico nelle biblioteche, senza neppure nominarle esplicitamente: inserendole nel contenitore generico degli “altri istituti della cultura”, le ha trattate come residui non identificati, al pari di spiccioli dimenticati in fondo a una borsa. Eppure le biblioteche non hanno nulla da invidiare a musei e mostre, sempre citati nelle infografiche, né sul fronte quantitativo né per l’impatto sociale e culturale sulle realtà territoriali.

Ed è proprio l’assenza di focalizzazione sulla specificità delle biblioteche che può spiegare una chiusura disallineata rispetto alle altre misure di prevenzione, visto che da maggio in poi le biblioteche avevano messo a punto sistemi di contingentamento degli accessi più che sicuri rispetto ai rischi di contagio. Una valutazione non approfondita delle pur evidenti differenze tra una mostra e una biblioteca dagli accessi già contingentati e rispettosi delle regole di distanziamento, unita forse alla fretta di chiudere un provvedimento di grande impatto sul Paese, può essere all’origine di una scelta che in molti hanno giudicato non sufficientemente riflettuta, o comunque sovradimensionata rispetto alle necessità reali: primi fra tutti gli utenti, che si sono ritrovati di nuovo privi delle opportunità di studio e consultazione in sede, nonché delle occasioni di incontro e approfondimento culturale che in tempi normali qualificano le proposte di servizio delle biblioteche. Con le scuole e le università chiuse, poi, per molti giovani gli spazi e gli strumenti delle biblioteche avrebbero rappresentato una risposta importante, anche se parziale, alle difficoltà nascenti dalla contrazione dell’offerta didattica in presenza e dall’accesso non paritario alle risorse tecnologiche.

Forti dell’esperienza maturata durante il lockdown, sono tanti i bibliotecari e le bibliotecarie che hanno messo a punto una serie di misure alternative al divieto di accesso agli spazi, nel rispetto di una norma che, a differenza di marzo, non ha decretato la chiusura degli istituti né ha prescritto per gli operatori l’obbligo di stare a casa: nelle ultime ore è stato un fiorire di soluzioni a volte anche curiose e fantasiose, ma sempre pratiche ed efficaci, per venire incontro alle esigenze del pubblico, prima di tutto offrendo la possibilità di ritirare su appuntamento i materiali prenotati on line o per telefono in punti prestito mobili, attivati presso spazi esterni, presso esercizi commerciali di prossimità, attraverso l’adozione di forme di drive-through, e soprattutto attraverso il prestito a domicilio, rivolto in modo particolare alle persone anziane, a basso livello di mobilità, o comunque impossibilitate a raggiungere la biblioteca.


Un nuovo slancio è stato dato ai servizi digitali, che da marzo in poi hanno rappresentato la risposta più resiliente delle biblioteche alla chiusura totale: eventi, incontri e presentazioni di libri trasmessi su varie piattaforme di videoconferenza, su YouTube o via Facebook, servizi potenziati di assistenza telefonica (spesso gestiti in smart working), e accessi moltiplicati alle piattaforme di prestito digitale, per la consultazione di giornali e banche dati, la lettura di e-book, l’ascolto di musica e la fruizione di film. Nel primo lockdown gli indici di accesso a queste piattaforme sono schizzati verso l’alto, facendo registrare indici di crescita anche del 600-700%, rappresentando una risposta efficacissima, sia pure non ancora alla portata di tutti, rispetto ai bisogni di lettura. Sono proprio di questi giorni i nuovi investimenti di molte biblioteche sull’acquisto di nuovi accessi e download da mettere a disposizione gratuita dei propri frequentatori.

Le biblioteche saranno fisicamente chiuse, dunque, ma saranno accessibili in tante modalità alternative. Certo, per quanto il prestito possa raggiungere i livelli degli anni precedenti, niente sarà come prima: ciò che non può essere pienamente ricostruito neppure nella più evoluta versione digitale è la speciale atmosfera che si respira in modo particolare nelle cosiddette “biblioteche sociali”, ovvero quelle biblioteche che, grazie anche a soluzioni architettoniche di particolare pregio, sono in grado non soltanto di offrire posti di studio e ricerca, ma di accogliere le famiglie, i bambini e i diversi gruppi di interesse in spazi dove svolgere attività differenziate, trascorrere il tempo libero in contesti belli e luminosi come i centri commerciali, ma – a differenza di questi ultimi – non segnati dall’esperienza del consumo: luoghi nei quali si ha diritto di accedere e stazionare liberamente perché si è esseri umani, e non già clienti disponibili a spendere denaro.  



Questa è appunto la speciale atmosfera che fino al 9 marzo si respirava presso la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, collocata in un manufatto industriale oggetto di rigenerazione urbana, che si sviluppa su tre piani di 6.500 mq, contornato da un’area esterna di altri 3.000 mq: uno spazio molto grande, differenziato in base alle diverse funzioni, che prima della pandemia era in grado di accogliere in media 1.500 persone al giorno: persone di tutte le età, provenienze ed estrazione sociale, sottoscrittrici silenziose di un implicito patto sociale che le abilitava alla prossimità fisica (sedute nello stesso divanetto, accanto al bancone del bar, in coda per restituire i libri al bancone, davanti alle opere d’arte in mostra negli spazi espositivi) come testimonianza materiale della reciproca accettazione, di un reciproco riconoscimento del diritto di utilizzare uno spazio pubblico, non soltanto perché istituzionalmente finanziato da un ente pubblico, ma perché primariamente res publica, cosa di tutti.

In una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il “miracolo” va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi ad uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della “conversazione”, per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative. Conversare significa per lui costruire assieme la conoscenza, elaborarla e farla propria, in un contesto di relazioni in cui la semplice trasmissione del sapere non funziona più: in una biblioteca come la San Giorgio (ma gli esempi sono ovviamente anche altri) l’accesso ai libri e alle altre fonti di conoscenza, fisiche o remote, si arricchisce con l’offerta di una miriade di appuntamenti gestiti gratuitamente da utenti esperti, che mettono a disposizione la propria professionalità per condividere momenti di approfondimento sui più disparati argomenti, che diventano occasioni per la tessitura di una fitta rete di relazioni personali all’insegna dell’educazione permanente.    

Non sarà facile trasferire nel mondo digitale questo ricco universo di relazioni che fa della biblioteca un vero e proprio laboratorio di attivismo civico e di cittadinanza consapevole: il digital divide ha avuto in questi mesi effetti devastanti nell’allargare la forbice tra gli haves e gli haves not sul fronte delle competenze tecnologiche e dell’accesso materiale alle tecnologie.

La tenuta di tali relazioni non sarà facile, né le biblioteche da sole potranno farsi carico di colmare gli effetti dell’attuale deprivazione culturale e tecnologica. Ma è certo che saranno in molte a impegnarsi in tal senso, cercando alleanze con tutte le forze in campo, per riconfermare il proprio ruolo di cittadelle della democrazia.

 

Maria Stella Rasetti,

direttrice delle biblioteche e degli archivi della città di Pistoia

 

L’intervento di Maria Stella Rasetti è stato anche pubblicato su il manifesto, 8-11-2020, p.10.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Per non dimenticare Costanzo Preve (1943-2013) – Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo. Non indossate l’abito del «Politically correct». Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera.

Costanzo Preve - Politically correct
Costanzo Preve

Elementi di Politicamente Corretto

Studio preliminare su un fenomeno ideologico sempre più invasivo.

indicepresentazioneautoresintesi
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo.
Non indossate l’abito del «Politically correct».
Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera

Politicamente corretto
Ogni organizzazione sociale ha le sue interdizioni: senza di esse non vi è comunità che regga. Il capitalismo assoluto cela le sue interdizioni pur rappresentandosi come la società più libera che la storia umana abbia conosciuto.

Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo assoluto.

Per necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera si opera secondo modalità plurali. La chiacchiera è il distrattore di massa del capitale: l’etere è occupato dal continuo flusso di informazioni, e di gossip, che funzionano per distrarre i popoli, che si vogliono plebi, dalla durezza del reale e trasportarlo in un mondo onirico di desideri e sogni derealizzanti. La chiacchiera è la nuova religione del capitalismo assoluto, religione nichilista in cui mediocri personaggi di nessun talento raccontano il loro privato. Il dispositivo opera per sostituire il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede). I santi, i letterati e gli scienziati che nella fase precedente del capitalismo erano i modelli dialettici e critici del capitalismo, sono sostituiti dalla mediocrità dei narcisi dello spettacolo, dai loro racconti “tutti simili” come le loro fisicità e che convergono sulla cultura del privato e dell’indifferenza verso il pubblico. Sono vere armi per veicolare il capitalismo assoluto nella forma infantile ed innocente del narcisismo incentrato sul corpo da esporre e della parola da annichilire. La differenza, e l’identità dialettica sono respinte, poiché qualsiasi intelligenza media può ben rendersi conto che le storie e le aspirazioni raccontate sono tutte “drammaticamente” eguali. L’attenzione è volta unicamente al proprio privato che riproduce mediante gli automatismi della chiacchiera i modelli socialmente imposti.
La gabbia d’acciaio ha le sbarre invisibili, perché costruite con gli atti fonatori senza prospettiva e senza logos. Il potere non cala dall’alto, ma si diffonde mediante le stesse vittime: è nella loro carne, vi si installa per renderli automi nei quali convive la vittima con il carnefice. I diritti individuali sono negati, benché siano la bandiera ideologica e violenta del grande capitale. Il diritto alla parola non è il diritto alla chiacchiera, ma al concetto, alla riflessione; pertanto la chiacchiera interdice il pensiero e neutralizza il diritto alla parola, al libero concetto e alla pratica del logos. Il dialogo decade a pura emissione di dati e di immagini, nega se stesso, è sostituito con un suo surrogato. Il circo mediatico, mentre spinge a parlare di tutto, ad usare un linguaggio senza filtri opera per impedire l’esperienza critica comunitaria, la quale non può che concretizzarsi con il linguaggio significante.
La chiacchiera è veicolo della reazione, della conservazione senza speranza e senza pensiero. La chiacchiera allarga i suoi spazi per occupare la temporalità delle menti. È associata all’immagine fino a confondersi con essa, dato che la semplicità lessicale diviene la copia dell’immagine, l’una non aggiunge nessuna informazione all’altra, ma entrambe destabilizzano l’attenzione, attaccano il pensiero nella sua genealogia. Gli automatismi irriflessi divengono la forza del capitale che desoggettivizza, e riduce le identità a semplici presenze gettate nella ridda degli stimoli senza mediazione concettuale. L’interdizione è tanto più violenta tanto più è occultata dall’ideologia della chiacchiera, la quale è l’arma con cui si conquistano “le nuove colonie” per il capitale. Ogni vivente è un regno da usare e da occupare. Il politicamente corretto è la forma del nuovo dispositivo di controllo. La tragedia attuale è il passaggio della sinistra sconfitta nell’impero della chiacchiera degli pseudo diritti individuali. La frontiera del politicamente corretto con le sue interdizioni ha trovato nella “sinistra” il mezzo di consolidamento del capitale. Dopo la caduta del comunismo ed il dissolvimento del partito comunista, la “sinistra” di potere ha ritrovato un suo nuovo ruolo nell’ideologia dei soli diritti individuali, appare come il salvagente a cui aggrapparsi per salvarsi, ma che in realtà l’ha fatta affondare. Il naufragio ed il timore di perdere posizioni di potere hanno favorito un ribaltamento tanto veloce quanto opportunistico. Il nichilismo rende adattivi, per cui la “sinistra” recava in sé tale matrice che ora si svela nella sua verità. Il nuovo mantra della nuova “sinistra”, come rileva Costanzo Preve, è l’acquisizione dogmatica e preconcetta della liberalizzazione dei costumi e dei consumi:

«In primo luogo, la genesi vera e propria. Si tratta di un episodio interno alla cultura radicale di estrema sinistra negli USA, dalla Vecchia Sinistra (old left), ancora socialista e comunista di tipo europeo, alla Nuova Sinistra (new left), postsocialista e postcomunista, sconfitta a livello di “struttura”, e che cerca una rivincita al livello del costume, dei modi di pensare e della “sovrastruttura”, in particolare per quanto concerne i quattro punti del sessismo maschilista, dell’omofobia, dell’antisemitismo antiebraico e del razzismo contro i “diversamente colorati” (neri, amerindi eccetera). In secondo luogo si tratta di una generalizzazione dell’intera società “ufficiale” di questo movimento, generalizzazione resa possibile e necessaria da un mutamento di natura dell’intera società capitalistica globale, r cioè caratterizzata dalla dicotomia Borghesia/Proletariato, ad una fase speculativa, e cioè post-borghese e post-proletaria, deve far cadere e rendere obsoleti i vecchi modelli razzisti, sessisti ed omofobi».[1]

 

Semplicismo del politicamente corretto
La “sinistra” ha abbracciato la causa della liberalizzazione dei costumi, ha rinunciato al pensiero critico e comunitario con il risultato che è diventata parte del politicamente corretto. Con la rinuncia alla dialettica in favore dell’individualismo narcisistico la lettura complessa e profonda dei fenomeni politici è sostituita da un semplicismo povero di idee e di ideali. Il femminismo e la lotta contro i razzismi sono diventati il mezzo più efficace per rafforzare il sistema capitale. La “sinistra arcobaleno” favorisce l’assimilazione nella società dei consumi, libera per poter mettere ai ceppi i “liberati”. Nel regno animale dello Spirito c’è spazio per chiunque, perché al capitale non importa il genere di appartenenza o l’identità di provenienza, il suo scopo è trasformare ciascuno in consumatore senza limiti e in adoratore idolatra del plusvalore. Il capitale è flessibile, è “rivoluzionario”, è un buco nero che attrae energia e materia per ridurla in “niente”. Le differenze sono rese irrilevanti in nome del consumo; pertanto a ciascuno è concesso di dichiarare la propria differenza, purché non si sottragga ai consumi ed all’individualismo dall’io minimo. Il capitale vive di ossimori, pertanto l’individuo è ammesso, ma solo se si connota come personalità minima. Si interdice la formazione personale ed identitaria in nome del “divino consumo”:

 

«In breve: la “sinistra” (nulla a che fare con le severe analisi strutturali di Marx) crede che il keynesismo in economia e la liberalizzazione dei costumi nella cultura siano tappe di avvicinamento progressivo (e di fatto “stadiale”) ad una società socialistica e comunistica (in senso umanistico ed antistaliano), in quanto crede che per sua stessa insuperabile natura il capitalismo si fondi su di un profilo razzista, omofobico, maschilista, sessista, autoritario, eccetera. Di fronte al fatto inatteso, invece, che il capitalismo per sua stessa natura riproduttiva tende a superare il suo primo momento di instaurazione, effettivamente razzista, maschilista, omofobico, sessista eccetera, per poter allargare le sue basi di consenso e di gestione attiva, includendovi appunto i neri, le donne, gli omosessuali, eccetera, non sapendo neppure più dove porre le sue basi culturali identitarie».[2]

 

Fascismo sempre alle porte
Il politicamente corretto per interdire la discussione su alternative potenziali e sulla verità del presente utilizza abilmente timori e paure del passato. Si fa appello al fascismo in assenza di fascismo. Si mette in atto un’operazione di derealizzazione, si proietta l’aggressività verso un nemico immaginario. Si legittima il presente con la religione dell’olocausto, per cui il sistema capitale è idolatrato per contrasto con i crimini del nazifascismo, ma naturalmente si occultano i crimini del capitalismo del passato come del presente. La religione dell’olocausto con la sua immensa produzione libraria e mediatica inonda il mercato ed unisce al profitto lo strutturarsi ossessivo e delirante della minaccia del nazismo alle istituzioni democratiche. Il pericolo inoculato nei popoli è lo strumento per tenerli docilmente alla catena:

 

«La religione olocaustica è quindi bivalente, in quanto serve sia all’asservimento simbolico dell’Europa, chiamata ad espiare per sempre, sia alla giustificazione indiretta delle atrocità razziste del sionismo colonialistico. Il capitalismo ha superato da tempo lo stadio ascetico-weberiano dell’accumulazione e lo stadio freudiano della necessità del Super-Io paterno baffuto, barbuto e peloso con completamento amoroso materno in busto a stecche soffocanti, ed in questo modo ha soltanto una fondazione individualistica e consumistica».[3]

 

L’antifascismo funziona come catalizzatore per una società disgregata, per impedire che l’individualismo divori se stesso si produce un artificio valoriale con cui unire all’occorrenza gli individui in perenne lotta e competizione. La religione dell’olocausto funziona, anche perché è una religione senza responsabilità verso il presente e che si limita a brevi liturgie da attivare nei momenti di crisi:

 

«L’antifascismo in assenza completa di fascismo è in realtà un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali. La costituzione italiana è stata distrutta nel 1999 con i bombardamenti sulla Jugoslavia, e da allora l’Italia è senza costituzione, e lo resterà finché i responsabili politici di allora non saranno condannati a morte per alto tradimento (parlo letteralmente pesando le parole), con eventuale benevola commutazione della condanna a morte a lavori forzati a vita».[4]

 

La religione dell’olocausto giustifica l’occupazione americana dell’Europa e con essa la sua colonizzazione.

 

 

La quarta guerra mondiale
Il capitalismo assoluto produce surrogati per compensare l’inquinamento dei bisogni autentici ed eterni dell’essere umano (religione, filosofia, arte e scienza). Ogni surrogato non è che un prodotto che non potrà rispondere alle autentiche esigenze assiologiche ed ontologiche dell’essere umano, ciò malgrado la religione dell’olocausto, del femminismo in carriera, delle famiglie arcobaleno e dell’uguaglianza come irrilevanza sono diventati i valori della sinistra che pratica il politicamente corretto senza prospettive:

 

«L’Antifascismo Senza Fascismo è stato quindi la religione di compensazione di un mondo che stava disgregando i precedenti valori comunitari. Si è trattato di una vera e propria “religione laica” o meglio di un surrogato laico della vecchia religione, e questo spiega perché i cosiddetti “fascisti” sono diventati l’equivalente degli intoccabili e degli immondi delle vecchie religioni tribali».[5]

 

Il politicamente corretto coincide con la quarta guerra mondiale, ovvero con l’americanizzazione del pianeta, con l’omogeneizzazione di popoli, lingue e culture. Il politicamente corretto cela la guerra in corso, la quale è un’azione belligerante continua contro ogni identità che si oppone al dominio messianico ed imperiale americano. Le responsabilità della sinistra divengono inquietanti dinanzi a tali crimini:

 

«Il progetto egemonico del nuovo impero americano si fonda su di una omogeneizzazione oligarchico-plebea dell’intera umanità. Al posto della ricca compresenza di nazioni, popoli e classi del mondo, si avrebbe un’unica piramide sociale omogeneizzata composta di individui preventivamente sradicati e poi risocializzati su basi consumistiche (ovviamente, basi consumistiche non egualizzate, ma a differenziati gradi di potere d’acquisto)». [6]

 

Contro il politicamente corretto bisogna operare riaprendo la catena dei perché, e trasformare la domanda in prassi. La resistenza è possibile, e l’emancipazione personale deve diventare potenza comunitaria per la liberazione culturale ed economica. Nessuna emancipazione può concretizzarsi con azioni singolari, ma l’impegno critico nel quale il concetto è il protagonista è la premessa per ogni trasformazione e prassi:

 

«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».[7]

 

La filosofia come talpa e civetta
La filosofia lavora non per l’immediato, essa è a volte come la talpa di Hegel il cui lavoro carsico prepara l’emancipazione ed il volo della civetta. Costanzo Preve è stato consapevole di aver lavorato per un futuro non determinabile. La sua dedizione alla filosofia diviene eguale alla passione dei grandi filosofi che hanno pensato il passato per capire il presente e preparato il futuro. La filosofia è, anche, dono di sé e questo i sofisti del politicamente corretto non possono comprenderlo:

 

«Passiamo al lungo termine. Dal momento che sono un pessimista generazionale ed un ottimista storico, e sono abituato a studiare i secoli ed i millenni, dò per scontato che questa abietta formazione ideologica del Politicamente Corretto certamente sparirà. Ma quando? Sospetto che questo non solo riguardi me, ma neppure gli attuali ventenni».[8]

 

Costanzo Preve ha pagato con l’impegno e l’auto-marginalità la sua lotta contro il politicamente corretto, il suo nome sarà sempre legato alla passione filosofica (Bestimmung) la quale non può che essere attività politica comunitaria. Può essere un esempio scomodo, ma ogni grandezza ci scopre impreparati ed inadeguati, ciò malgrado che ognuno salga sul suo asinello e scenda dal dorso dei grandi, come era solito affermare, poiché solo il coraggio di deviare dal cammino tracciato dalle potenze del nichilismo può rendergli onore. Non siamo vocati a diventare eroi, ma ognuno può trovare il modo di impegnarsi a suo modo sul solco dei dissenzienti del concetto, bisogna tradurre la società dello spettacolo in concetto per sperare nella prassi collettiva:

 

«Nella produzione televisiva della comunicazione il mezzo determina il contenuto del messaggio, scegliendo sistematicamente gli aspetti più superficiali ma anche più “visivi”, e dunque impressionanti, dell’evento riprodotto. In questo modo, ad esempio, la CNN americana, che è lo strumento televisivo dell’impero, sceglie di rappresentare le “atrocità” che poi serviranno da legittimazione pubblica alla risposta dei bombardieri americani. Tutto questo è rivestito da un’aura di presunta imparzialità ed autenticità che sembra non nascondere niente mentre nasconde tutto, dagli interessi economici in gioco ai precedenti storici. Lo voglia o meno, il giornalista televisivo è al servizio di questo meccanismo di eccezionalità visiva, che gira sempre intorno a tre forme archetipiche di spettacolo, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo porno e lo spettacolo di morte in diretta».[9]

 

In questi giorni cade la data della sua morte (23 novembre),[10] ma ogni grande pensatore non muore mai; le verità che un pensatore ha svelato sono il lascito, a volte scomodo, con cui bisogna dialetticamente confrontarsi.

Salvatore Bravo

[1] Costanzo Preve, Politically correct, Petite Plaisance Pistoia 2020, pag. 21.

[2] Ibidem, pag. 25.

[3] Ibidem, pag. 40.

[4] Ibidem, pag. 47.

[5] Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, pag. 91.

[6] Ibidem, pagg. 174-175.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, pag. 6.

[8] Costanzo Preve, Politically correct, Petite Plaisance, Pistoia 2020, pag. 58.

[9] Costanzo Preve, La crisi culturale della terza età del capitalismo, in «Comunismo e Comunità», 25 ottobre 2019.

[10] Costanzo Preve (Valenza, 14 aprile 1943 – Torino, 23 novembre 2013).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele (384-322 a.C.) – Conoscere se stessi è la cosa più difficile e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico. Dunque l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso.

Aristotele 017

«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amicoi è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».

Aristotele, Grande Etica, II, 1213 a 13-25, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 1187-1189.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.
Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
Aristotele (384-322 a.C.) – Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso che offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo.
Aristotele (384-322 a.C.) – Moralmente bello significa fare il bene senza mirare al contraccambio. L’uomo moralmente retto ricerca per sé il bello morale e antepone il bello a tutto il resto.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tra tutti i beni quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode.
Aristotele (384-322 a.C.) – La moneta è nata per convenzione. Essa ha il nome di moneta (nomisma), perché non esiste per natura ma per legge (nomos), e dipende da noi cambiarne il valore e porla fuori corso.
Aristotele (384-322 a.C.) – «Protreptico. Esortazione alla filosofia». La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.
Aristotele (384-322 a.C.) – La natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. Ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore.

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