Mario Mancini – La cultura cortese ci consegna innumerevoli “scene di lettura”. Il libro assume anche una funzione di riferimento, di orientamento per i comportamenti. L’illustrazione forse più impressionante la dobbiamo a Boccaccio, nell’«Elegia di madonna Fiammetta».

Mario Mancini 01

Mario Mancini

Lettori e lettrici di romanzi

Uno dei tratti costitutivi della civiltà cortese, del mondo dei cavalieri e delle dame, è una forte coscienza di sé e dei propri valori, del proprio stile di vita. La nuova leisure class delle corti sviluppa un gusto naturale del fasto e della socialità, si compiace di creare e produrre forme belle, nell’ordine dei pensieri, dei sentimenti, dei comportamenti, nella scelta e nella produzione degli oggetti, vesti, gioielli, arazzi. La sua etica si fonda sulla generosità, sulla lealtà, sulla fedeltà, sulla discrezione, sul culto della dama, sul rifiuto di ogni bassezza e viltà (questo almeno nello specchio idealizzante in cui ama, compiaciuta, contemplarsi). Lo slancio del cuore è tutt’uno con il rituale, creando un linguaggio nuovo, fatto di eleganza, di sensibilità, di erotismo.

In questo stile di vita ha un ruolo determinante la “letteratura”, che entra come canzone, come racconto, come romanzo nella sfera pubblica e nella sfera privata di dame e cavalieri. Che media il rapporto con il passato, che fornisce le conoscenze, le motivazioni, gli scenari dei gesti e delle azioni.

[…] La cultura cortese ci consegna innumerevoli “scene di lettura”. Già nelle chansans de toile, arcaiche o arcaizzanti che siano, la giovane fanciulla innamorata, seduta alla finestra, «lit en un livre mais au cuer ne l’en tient (legge in un libro, ma il suo cuore è altrove)».

[…] Il libro, segno di distinzione e strumento di svago, assume anche una funzione, più o meno forte, di riferimento, di orientamento per i comportamenti: con i suoi personaggi e con le sue storie offre dei “modelli”. Nel prologo e nella chiusa dei romanzi cortesi compaiono spesso degli appelli al lettore perché entri nella strada dell’imitatio. […] Il libro, la letteratura, possono configurare addirittura, con funzione di guida, e in uno spazio immaginario sospeso tra il conscio e l’inconscio, una sorta di anticipazione di quanto verrà offerto nella vita. […] Nel famoso episodio di Paolo e Francesca, nel canto quinto dell’Inferno, Dante ha colto e fissato, in una icona indimenticabile, la forza del libro sulle emozioni e sui destini.

[…] L’ammirazione per dei personaggi letterari, immaginari, può trasformarsi nell’animo del lettore, se l’immedesimazione prevale sulla percezione del mondo che lo circonda, nella proiezione assoluta in un modello ideale. Egli diventa così prigioniero di un “desiderio mimetico”, se vogliamo seguire le riflessioni di René Girard, che ha indagato con grande acutezza teorica e con ben ragionati esempi – Paolo e Francesca, Don Chisciotte, Julien in Le Rouge et le Noir, il principe Miskin nell’Idiota di Dostoevskij, il personaggio-poeta della Recherche… – gli aspetti di fascino metafisico, di possessione e di illusione che possono acquisire degli eroi letterari, delle persone che vivono solo nei libri.


[…] L’illustrazione forse più impressionante – per l’intensità, per lo scavo psicologico e retorico, per il ritmo potentemente rallentato e onirico – della “chiusura” e della réverie in tutta la letteratura medievale, la dobbiamo a Boccaccio, nell’Elegia di madonna Fiammetta. […] Nell’animo di Fiammetta la passione si afferma come esclusiva, tanto più tenacemente quanto più la scelta adultera si presenta combattuta e rischiosa. Le convenienze morali e sociali – tutta la sua vicenda, in parallelo a quella dell’amante Panfilo, è lì a dimostrarlo – pesano più per lei che per l’uomo. […]

Nel quadro di queste riflessioni sull’atto della lettura, sul libro come mediatore, ci interessano in particolare le letture, i modelli di Fiammetta. Sì perché Fiammetta è una grande “lettrice di romanzi”. Per l’abbondante utilizzazione di temi e personaggi della classicità greco-romana, per il quasi completo travestimento classico della geografia e del costume trecentesco – non solo nella scrittura del narratore, ma anche negli atteggiamenti di Fiammetta e di Panfilo – Cesare Segre ha suggerito la felice formula di «firmamento di archetipi».

Mario Mancini, Lettori e lettrici di romanzi, in in AA. VV., Lo spazio letterario del medioevo. 2. Il medioevo volgare, vol. III: La recezione del testo, Salermo Editrice, Roma 2003, pp. 155-176.


Mario Mancini  è un filologo, saggista e accademico italiano. Con i suoi scritti, ha dato un forte contributo allo studio ed alla diffusione di opere letterarie provenzali, come per la poesia dell’occitano Bernard de Ventadorn e per il romanzo cortese Roman de Flamenca (della cui edizione italiana è curatore). Ha studiato a Padova, Vienna e Heidelberg. Dal 1976 fino al pensionamento è stato professore ordinario di Filologia romanza nell’Università di Bologna. Ha coordinato il lavoro di équipe di un’ampia Letteratura francese medievale (Bologna, Il Mulino 1997). È nella direzione della rivista “Medioevo romanzo” e nel comitato scientifico di “Critica del testo”. Condirige la collana “Biblioteca Medievale” (Roma, Carocci), dove sono stati pubblicati più di cento volumi. Ha curato, tra l’altro, l’edizione delle Canzoni di Bernart de Ventadorn (Roma, Carocci, 2003) e Roman de Flamenca, proponendo un’edizione italiana con testo in provenzale a fronte. Ha pubblicato saggi, in una prospettiva stilistica e di storia delle idee, principalmente sull’epica, sui trovatori, sul Roman d’Alexandre, sul Roman de la Rose, sull’impatto della letteratura medievale nella modernità. Fondamentale nella sua formazione fu l’incontro con Erich Köhler, che definì l’impronta dello studio sociologico dell’amor cortese nella letteratura, di cui ha tradotto e curato Sociologia della fin’amor: saggi trobadorici (Padova, Liviana, 1987).


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Mario Mancini …

Società feudale e ideologia nel «Charroi de Nîmes», Olschki, 1972


Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, il Mulino, 1993


La gaia scienza dei trovatori


Canzoni/Bernart de Ventadorn, Carocci, 2003


Il “lai” di Narciso, Carocci, 2004


Il punto su I trovatori, Laterza, 2004


Lo spirito della Provenza. Da Guglielmo IX a Pound, Carocci, 2004


Flamenca, Carocci, 2006


Metafora medioevale. Il “libro degli amici” di Mario Mancini, Carocci, 2011


La letteratura francese medievale, 2014


Cahiers de Civilisation Médiévale


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.

Cosimo Quarta - Utopia - Progettualità

Per un risveglio della coscienza utopica

[…] Oggi viviamo in società estremamente complesse. Alcuni ritengono che è proprio la complessità a non tollerare progetti sociali di sorta. Poiché, si dice, è praticamente impossibile forzare entro schemi progettuali le odierne società complesse, è meglio rinunciare ai progetti globali, considerati come arbitrarie fughe in avanti, e limitarsi a controllare di giorno in giorno i singoli sottosistemi, intervenendo soltanto là dove dovessero verificarsi grosse smagliature che potrebbero mettere in crisi il sistema nella sua interezza. Non ci si accorge che è stata proprio l’assenza di un progetto globale, la politica del giorno per giorno e degli interventi-tampone a determinare quello che forse può essere considerato il più grosso disastro di tutti i tempi: la crisi ecologica a livello planetario. Così come è l’assenza di progettualità politica a produrre le forti sperequazioni tra cittadini nei Paesi sviluppati e il crescente divario, sotto ogni profilo, tra il Nord e il Sud del mondo. Altro che “fine dell’utopia”. Oggi il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. Si tratta certo di intendersi. È chiaro che qui, per utopia, non s’intende quella banalizzata dal marxismo, né quella demonizzata dall’ideologia borghese. Non è cioè vuota “fantasticheria” né progetto totalizzante.

L’utopia […] è un progetto storico, che nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. Tale è infatti l’originario contenuto semantico del termine stesso, che oscilla, appunto, tra ou-topia “nessun luogo”) ed eu-topia “buon luogo”). L’utopia come luogo della società buona e felice che non c’è ancora. Il pensiero utopico nasce dalla consapevolezza che il mondo, o meglio, la società, così com’è, è carente d’essere: è inadeguata cioè a soddisfare i bisogni di ciascuno e a garantirne i diritti. Lo stato di cose presente è sentito fondamentalmente come ingiusto proprio perché non dà a ciascuno il suo. Questa rivolta morale contro l’ingiustizia sarebbe tuttavia velleitaria e impotente se non si tramutasse in coscienza critica, se cioè non individuasse quelle forme e quelle strutture concrete che sono causa d’iniquità, in ordine alla loro rimozione. Ma lo spirito critico-eversivo non sarebbe fecondo se non fosse sorretto da una coscienza progettuale, la sola che permette di ricostruire o rifondare la società secondo i dettami della giustizia, ossia di sostituire il “vecchio” con il “nuovo”.

Questo non significa […] che la mentalità utopica sia protesa a negare in maniera assoluta il presente, ossia a negare non solo il “negativo”, ma anche quel che di “positivo” vi è nel presente. In realtà, non tutto ciò che il presente contiene è “vecchio”, vale a dire superato, non rispondente agli imperativi della coscienza etica. Proprio perché l’utopia è il progetto della storia, che è nato e si va facendo nella storia, essa non può rinnegare le sue stesse conquiste. La coscienza utopica non rinuncia al bene presente in vista di un bene futuro. Al contrario, essa accetta e conserva tutto ciò che di positivo il presente offre, ben sapendo che il presente non è altro che il futuro del passato. In ogni presente possono venire a maturazione le spinte e le aspirazioni delle generazioni passate. La critica del presente, dunque, mira solo a rigettare tutto quel che di negativo e ingiusto il presente racchiude in sé.

Quella utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, ma è sempre vigile, inquieta e in lotta contro le ideologie di turno, che tendono a mascherare la realtà effettuale, presentandola come il migliore dei mondi possibili. Avendo come suoi valori-guida fondamentali la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, l’amore, la felicità, la pace, la coscienza utopica si protende a realizzarli con tutte le proprie forze. E poiché la realizzazione dei valori passa anzitutto attraverso le coscienze dei singoli, essa non può mai essere data per acquisita una volta per tutte. Donde la continua tensione, la vigilanza per evitare la ricaduta nell’ideologia, che è sempre in agguato per riproporre subdolamente istanze obsolete e “ripescaggi” antistorici.

La coscienza utopica, proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Solo che il rischio e lo scacco non la deprimono, ma le infondono coraggio, perché sa bene che gli autentici valori umani che essa persegue possono pur subire uno scacco nel breve periodo, ma alla lunga prevarranno. La coscienza utopica consente all’uomo di correre il rischio di pensare e decidere autonomamente. Le nostre società, dove il lavoro sociale si svolge in forme sempre più parcellizzate, hanno di fatto espropriato l’uomo del gusto del rischio, deprivandolo così anche della responsabilità. Tale espropriazione, che con il passare del tempo si è tramutata in una tacita delega agli “specialisti” (della politica e della scienza-tecnologia) di pensare e di decidere per tutti, ci ha regalato quella che a giusta ragione è stata definita «la società del rischio». […] Occorre perciò riappropriarsi del diritto al rischio, del diritto a decidere responsabilmente e autonomamente, liberandosi dalle “tutele” false e interessate e, in particolare, dall’ideologia scientista, che non è meno pericolosa delle altre di cui si “celebra”, spesso in modo allegramente discorsivo, la crisi.

Si può dunque affermare che mentre la crisi delle ideologie, se correttamente intesa, costituisce un fatto largamente positivo, poiché ci libera dalla “falsa coscienza”, la crisi, o ancor più la fine dell’utopia sarebbe una sciagura per l’umanità.

Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida, e quindi ritorno a uno stato ingiusto, dove i rapporti umani vengono regolati non dalla coscienza etica e dalla ragione, bensì dalla forza. Se dovesse venir meno l’utopia, la stessa politica, da arte o scienza del buon governo degli uomini, decadrebbe a mera lotta per il potere sugli uomini. Sarebbe il trionfo definitivo di quella che è stata recentemente definita «ragione cinica». Una strada su cui si è incamminata gran parte delle nostre società, proprio a causa dell’affievolirsi della coscienza e della tensione etica, che ha portato alla crisi e allo smarrimento dei valori autenticamente umani e, di conseguenza, alla caduta dello spirito utopico. Se la storia ha un qualche valore pedagogico, essa ci insegna che sovente il sonno dell’utopia ha generato i mostri.

È dunque tempo di svegliarsi, per riprendere, con l’energia necessaria, il cammino interrotto dalle forze distopiche, che in questi ultimi decenni hanno prevalso, anche a causa dell’attuale processo di globalizzazione, che si sta rivelando profondamente dannoso e ingiusto non solo per l’uomo, ma anche per l’ecosfera.

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari 2015, pp. 167-170.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.
Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti