«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Il coraggio […] è una cosa bella, e quindi lo è anche il suo fine; ogni cosa, infatti, si definisce in riferimento al fine. Quindi, per il bello, il coraggioso sopporta e compie le azioni che derivano dal coraggio».
Aristotele, Etica Nicomachea, III, 10, 1115 b 21-22.
«All’uomo nobile, prima di prorompere
nel grido, rimane come ultima possibilità il pudore […]. Se il coraggio allude ad un’arditezza che oltrepassa ogni timore, senza
perciò divenire temerarietà, il reggere nella sofferenza allude alla capacità
di tenere oltre ogni dolore, senza decadere al livello della semplice
sopravvivenza. Qui la dignità e la misura».
Salvatore Natoli, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo e stagioni dell’esistenza, Mondadori, Milano 2000, p. 127.
Quarta di copertina
Felicità di questa vita.
Perché? Perché è qui, in questo mondo, che l’uomo ne fa esperienza, ma ancor
più perché è la vita a essere felice. Più che fugace evento occasionale, la
felicità è frutto della virtù, ma della virtù intesa nel significato originario
di “abilità”, di “perizia” nel fronteggiare e aggirare le
difficoltà. Per essere felici, gli uomini devono diventare in qualche modo
“virtuosi” dell’esistenza, così come si definisce virtuoso un grande
pianista, un acrobata, e in genere tutti coloro che sanno rendere facile il
difficile, sanno trasformare le difficoltà in stimolo, la fatica in bellezza,
in opera d’arte. In questo libro si parla di felicità percorrendo le tappe
della vita e indagandone il senso.
N.B.
Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati
di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di
terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
Max Picard, nato in Germania da genitori ebrei svizzeri, studiò medicina. Vicino al cristianesimo anche se rimase fedele all’origine ebraica. Abbandonò ben presto la pratica medica per dedicarsi interamente al pensiero filosofico. Tra i suoi libri più importanti, e tradotti in tutte le lingue europee e anche in giapponese, coreano e cinese, L’ultimo uomo (1921), La fuga davanti a Dio (1934), Hitler in noi stessi (1946), Il mondo del silenzio (1948), L’ultimo volto. Maschere mortuarie da Shakespeare a Nietzsche (1959).
Giorgio Kienerk, Il silenzio,1900.
Le grandi parole giungono nel delicato
frullio quasi impercettibile di un’ala di colomba aveva già affermato Nietzsche.
Max Picard (Schopfheim, 5 giugno 1888 – Sorengo, 3 ottobre 1965) è uno degli
eroi gentili della filosofia, dimenticato da molti. Ma le sue parole, la sua
vita attraversano lo spazio ed il tempo della tecnocrazia per parlarci ancora,
se si intenziona l’udito per accogliere parole metafisiche, parole per la trascendenza.
Il capitalismo assoluto impone capillarmente parole finalizzate esclusivamente al
bisogno ed all’utile, ma le parole possono essere l’immagine profonda dell’essere
umano, se muovono al desiderio della totalità, se mostrano che il bisogno ha
legittimità ad esserci solo in tensione con la parola metafisica. Max Picard ha
vissuto l’esperienza del silenzio profondo, della creazione metafisica con
coerenza. La filosofia è prassi, comportamento consapevole e teleologico,
altrimenti si è solo facitori di parole. Max Picard, laureato in medicina e
medico di valore, dinanzi al cartesianesimo della medicina, al rifiuto di ogni
approccio sistemico, ha rinunciato alla professione medica per vivere nel
Ticino. Cercava luoghi dove il silenzio fosse ancora possibile per vivere la
sua umanità. Il silenzio non divide, ma unisce alla comunità, alla natura, a
Dio.
Lo
scandalo del silenzio
Il silenzio è scandalo per il capitalismo assoluto, perché dove il silenzio prende dimora, appare l’essere umano. Nel silenzio della parola tacciono le parole dell’utile, della televendita perenne, dell’onnipresenza dell’immagine allo scopo di muovere i bisogni per necrotizzare il desiderio metafisico dell’altro e di sé.
Il silenzio è scandalo, perché non si
può vendere. Il silenzio favorisce l’unità, palesa la menzogna quotidiana del
frastuono delle merci che tutto silenziano con la violenza dell’astratto che
annichilisce la vita:
«Il silenzio è oggi l’unico fenomeno “senza utile”. Esso non conviene al mondo di oggi che è mondo dell’utile, non ha nulla di comune con questo mondo, sembra privo di qualsiasi scopo, non si presta allo sfruttamento. Il mondo dell’utile si è annessi tutti gli altri grandi fenomeni. Persino lo spazio fra cielo e terra è ridotto oggi a un pozzo luminoso che serve solo a far volare gli aeroplani. L’acqua e il fuoco, gli elementi, sono assorbiti dal mondo dell’utile e considerati solo in quanto prendono parte alla vita di questo mondo, perduta ormai ogni esistenza indipendente da esso. Invece il silenzio sta al di fuori del mondo dell’utile, non è possibile “farsene” nulla, dal silenzio non si ricava nulla nel vero senso della parola; il silenzio è improduttivo e quindi privo di qualsiasi valore».[1]
Frastuono
e parola
Il silenzio è proprio dell’umano. La
parola necessita del silenzio perché crei ed autocrei se stessa. Malgrado la
pervasività del chiasso, il silenzio resta sul fondo della natura umana come la
sua possibilità più propria. Il furore del mondo, con i suoi ritmi poietici,
non può azzerare la forza della parola parola,
che indica la non verità del rumore
dell’utile, le sue dissonanze, la sua aggressività ideologica. Il bisogno
necessita del gesto, del
meccanicismo, il cui fine è assicurare la sopravvivenza. In tal senso l’essere
umano è simile agli altri animali non umani. Ma la parola non ha la sua
genealogia nel gesto, nella biologia, perché è creatività, impalpabile presenza
tesa verso la totalità:
«Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale come alcunché di remoto. Non però come una cosa morta, bensì come un giacente ma vivo animale preistorico. Si scorge tuttora il dorso possente del silenzio, ma l’intero corpo affonda sempre più in mezzo alla sterpaglia degli odierni clamori e come se quell’animale di altri tempi affondasse lentamente nel limo del proprio silenzio. Eppure tutto il frastuono di oggi sembra solo un mormorio di insetti ronzanti intorno all’immane dorso di quell’animale preistorico, il silenzio».[2]
Gesto
e parola
La parola non è mera attività fonetica,
la sua genesi non è meccanicamente legata agli apparati fonatori. La parola ha
come radice il silenzio. L’essere
umano è un albero le cui radici sono nel metafisico: l’immagine metafora di
Platone nel Timeo rende la verità della
parola. Essa si genera in modo libero per entrare nella contingenza della
storia. L’utile teme la parola. La riduzione della libera parola in spazi
sempre più ristretti rivela la verità del capitalismo assoluto: la libertà, la
parola che genera mondi in una ascesi erotica verso un universale
irraggiungibile svela la verità dell’essere umano. L’umanità non è
semplicemente un legno storto,
secondo la definizione di Kant, o un lupo,
secondo la metafora di Hobbes. L’essere umano è sempre oltre i semplicismi
ideologici che imprigionano la parola in angusti recinti interiori, mentre lo
lasciano “libero” di perdersi negli spazi della globalizzazione:
«Il silenzio può stare senza la parola, ma la parola non può stare senza il silenzio. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. Tuttavia il silenzio non è superiore alla parola, ma anzi il silenzio in sé e per sé, il mondo del silenzio senza la parola, è solo qualche cosa di precedente alla creazione, è creazione non ancora compiuta, creazione imminente. Proprio perché la parola sorge dal silenzio, il silenzio passa dallo stato di pre-creazione a quello di creazione, dal non storico allo storico umano, e in prossimità della parola diventa parte dell’uomo e parte integrante e indispensabile della parola. Ma la parola è superiore al silenzio anzitutto perché solo in essa la verità si fa immagine. L’uomo diventa tale per mezzo della parola».[3]
La
catabasi del silenzio
Villa Litta, Allegoria del silenzio.
Il frastuono divide. La parola, nella
forma della riduzione dell’altro a strumento per i propri bisogni, non è
parola, ma estroflessione dei bisogni. Di conseguenza non può esserci, in
questa circostanza/contingenza, che l’atomismo sociale: solitudini speculari
che raccontano la stessa storia. La parola, il logos, che si prepara nel silenzio, in una dimensione distante dal
fenomeno, è già comunità, perché nel
silenzio-parola gli esseri umani ritrovano il volto dell’altro ed il proprio.
L’alienazione
è il rumore che distrae da sé e dagli altri per vivere mille vite al giorno
nell’ottica dell’utile senza toccare, mai, neanche per un attimo se stessi e
gli altri. Nel silenzio il soggetto umano si scopre parte di una totalità
storica, contingente eppure metafisica. La catabasi (κατάβασις “discesa”, da κατα- “giù” e βαίνω “andare”),
la responsabilità politica, non può che iniziare con l’anabasi (ἀνάβασις, der. di ἀναβαίνω «salire») del silenzio:
«Dove arriva il silenzio, l’individuo non avverte nessuna opposizione fra sé e la comunità, poiché individuo e comunità non sono reciprocamente opposti, ma entrambi opposti al silenzio, e quindi la differenza fra individuo e comunità vien meno di fronte al potere del silenzio. Oggi di fronte al silenzio non sta più l’individuo, né la comunità ma un frastuono generale, e individuo è solo colui che non ha più il frastuono, il frastuono comune, ma non ha nemmeno il silenzio. È isolato dal rumore e isolato dal silenzio, è un derelitto».[4]
Affinché ci sia rivoluzione
necessitiamo di riascoltare il silenzio, per discernere il bene dal male, il
senso dal non senso. Il silenzio rivela che l’essere umano è abitato dalla
trascendenza nella sua pluralità di forme.
Salvatore A. Bravo
[1] Max PIcard, Il mondo del silenzio, Edizioni Comunità, 1951, p. 10.
N.B.
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A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere,
ad un tempo,
fragile e misteriosa cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.
———————– C. F.
Scritte durante gli anni di
detenzione, molti dei quali passati in carceri di massima sicurezza,
queste poesie sono state composte in condizioni di prigionia
particolarmente pesanti, dove è ancora più difficile coltivare un
pensiero, un affetto. Attraverso questa forma letteraria, Notarnicola ha
inteso coltivare tutto ciò che gli è stato sottratto: gli affetti e i
sentimenti più intimi, come il ricordo dei compagni caduti. Le poesie
sono anche il mezzo che ha per rompere l’isolamento, sono una voce, un
grido, un urlo che spazza via il muro di cinta della prigione. Poesie
che esprimono rabbia e delusione, ma anche tenacia e sicurezza delle
proprie convinzioni politiche. Sono uno strumento che è stato un motivo
di resistenza, sono la memoria di una vita che ha avuto il carcere come
momento centrale, come terreno di lotta, di scontro e di maturazione.
Sante Notarnicola
(Castellaneta, 1938), emigrato con la madre e i fratelli a Torino,
trascorre l’infanzia in collegio. Il contatto con la realtà operaia
torinese lo porta alla presa di coscienza politica e alle prime
esperienze di militanza nella FGCI e poi nel PCI. Allontanatosi dal
Partito, si avvicina alla banda Cavallero con cui nel 1959 inizia una
serie di rapine. Il 25 settembre 1967 a Milano, durante l’ultimo colpo
della banda, c’è un conflitto a fuoco con la polizia: Sante riesce a
scappare, ma viene catturato alcuni giorni dopo. Condannato
all’ergastolo, in carcere inizia a studiare e scrivere racconti e
poesie, che confluiranno ne L’evasione impossibile (1972), primo di una serie di libri di grande successo.
Alessandro Barile
Il verso della storia
Discutendo del libro di Sante Notarnicola, «La nostalgia e la memoria».
«Imprigionati qui, noi viviamo, sapete … ». Così Sante Notarnicola dal carcere di Palmi, settembre 1983. Eppure, nel paese venato di ecclesiastico perbenismo, c’è ancora chi non ha accesso all’ipocrisia del perdono. Gli «irriducibili» li chiamano. Ne abbiamo confermequotidiane. A Milano uno scontro tra tifosi porta all’arresto di alcuni di questi. Chi parla viene rilasciato, chi decide di non tradire rimane in carcere (stessi capi d’imputazione). Ancora: il giorno dopo gli allori nazional-popolari tributati a De Andrè, ecco la cattura di Battisti a rinfocolare il coro vendicativo: «È finita la pacchia» gridano gli stessi che, fino a poche ore prima, avevano «un solco lungo il viso come una specie di sorriso».
Ma se fino a qualche anno fa anche questi dannati potevano vedersi riconosciuto un incerto «diritto di parola», quantomeno autoprodotto, oggi gli spazi si assottigliano, e insieme alle narrazioni contrapposte viene meno la comprensione della storia italiana. A uscire dal coro, letteralmente, rimangono in pochi coraggiosi. Tra i quali la casa editrice Pgreco. Dopo aver ripubblicato e aggiornato la biografia di Pasquale Abatangelo (Correvo pensando ad Anna), ecco rieditare le poesie di Sante Notarnicola, La nostalgia e la memoria. Poesie scritte in carcere tra i primi anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. Cosa si può dire di nuovo e di attuale oggi? Sono, queste di Sante, “storie del carcere”, luogo che oggi viene associato all’idea del «pentimento» e della «rieducazione», e che prima costituiva un fronte di lotta. Uno dei tanti. Dentro al carcere Sante e quelli come Sante trovarono una forma più alta di emancipazione, al tempo stesso individuale e collettiva.
Come ricorda nella prefazione lo stesso Sante, «il carcere, in pochi anni, si era trasformato in scuola per rivoluzionari». Erano, le carceri degli anni Settanta – e in particolare il circuito degli “speciali” – veri luoghi di tortura, certificata oggi da fior di sentenze. A dispetto dunque della narrazione edificante dello Stato che sconfisse il terrorismo con gli strumenti della democrazia. Ma sarebbe un errore inseguire il filo di questi ragionamenti. Porterebbero comunque a un vicolo cieco, a criticare cioè lo Stato attraverso gli argomenti del potere. Quello che invece può essere colto di un’esperienza così particolare e, però, generale, è altro. Per dirne una: che la storia, per quanto tragica, non è solo patita, ma può essere affrontata senza remore reverenziali. Anche quelli come Sante possono divenirne protagonisti, e così fecero. Senza per questo sottacerne i limiti, le responsabilità: non si tratta, oggi, di essere tifosi, quanto saperne ricavare aspetti più prossimi alla verità. Come infatti coglie pienamente l’autore nella sua prefazione:
«Questa generazione, certamente la più generosa dalla Resistenza in poi, non ha conti da rendere. Agli opportunisti, ai parolai, questa generazione dice: noi ciabbiamo provato. E coloro che vorranno provarci ancora dovranno necessariamente ripartire da questa storia».
Non occorre essere comunisti, reduci o nostalgici per ammetterlo. Primo Levi, nel 1979, ne riconobbe il valore letterario e umano:
«Le tue poesie sono belle, quasi tutte: alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis».
Ancora, e per concludere: chi domani vorrà nuovamente salire la scala già salita dalla generazione di Sante Notarnicola, per questi problemi dovrà passare. Messi in forma lirica, in questo caso, e inevitabilmente: troppo l’orrore per farne freddo racconto (e pure sempre Sante ce ne ha lasciato testimonianza, nella sua Evasione impossibile). Come che sia, a leggere questi versi con quelli scritti in altre epoche e da altre generazioni di rivoluzionari, ne scopriremmo la notevole somiglianza. Un’affinità non solo di temi, ma anche di parole, di sensazioni e sentimenti. Segno che la storia lascia dietro di sé tracce che vanno raccolte e valorizzate più che rimosse. Non è cosa da potersi fare da soli però. È un processo collettivo, perciò possibile solo dentro nuovi cicli di lotte, nuove mobilitazioni. Nell’attesa, tramandiamo almeno il valore della memoria.
ALESSANDRO BARILE
Recensione già pubblicata su«Le Monde diplomatique. il manifesto», febbraio 2019, p. 23.
Sante Notarnicola L’anima e il muro
Introduzione e cura di Daniele Orlandi disegni diMarco Perroni
pp.192 € 18,00
ISBN 978-88-96487-29-7
dalla quarta di copertina
Questa
scelta antologica di poesie scritte durante un trentennio diventa
l’occasione per una particolare scansione della storia d’Italia, perché
questi versi oscillano, lenti o vorticosi, tra l’anima e il muro di
tante prigioni. Corredato di un ampio saggio introduttivo e di note che
ne inquadrano la mole di rimandi alla cronaca e alla cultura di quegli
anni che l’autore riversa sulla pagina, L’anima e il muro,
duellanti senza pace, ne raccoglie i momenti principali. Sante
Notarnicola ha attraversato il Novecento italiano da ribelle: operaio,
bandito, carcerato. I tre tempi della sua vicenda biografica sono
scanditi dalla poesia, una vera e propria autobiografia in versi,
contemporanea a quella generazione che ingaggiò una guerra senza
esclusione di colpi con lo Stato lunga circa un ventennio. In disaccordo
con la linea attendista del Pci negli anni Cinquanta, rompe con il
Partito e seguendo un progetto di guerriglia diviene rapinatore con la
famigerata Banda Cavallero. Arrestato nel 1967 e condannato
all’ergastolo, prosegue e insieme inizia la sua vera attività politica.
Da allora, la Storia d’Italia s’incaricherà di fargli visita nelle varie
patrie galere del suo lungo soggiorno. Notarnicola la accoglierà a suo
modo: animando il movimento per i diritti dei detenuti sul finire degli
anni Sessanta; conoscendo e confrontandosi con lo stato maggiore della
lotta armata, dalle Br ai Nap a Prima Linea, tentando l’evasione e
sperimentando sulla pelle il regime di articolo 90 nelle carceri
speciali. Dopo vent’anni, otto mesi e un giorno si riaffaccerà alla vita
esterna fino alla lenta estinzione della pena. Poesie di lotta e inni
rivoluzionari, gridi muti di rabbia e squarci di lirismo nati in un
contesto, come la carcerazione politica, dove la speranza della libertà è
una quotidiana collettiva eucarestia o non è.
Sante Notarnicola
(Castellaneta 1938), «operaio, comunista, rapinatore di banche,
carcerato, scrittore, poeta». Nel 1972 ha pubblicato con Feltrinelli la
sua semibiografia L’evasione impossibile (ristampata da Odradek a partire dal 1997). È autore di tre raccolte poetiche: Con quest’anima inquieta (Senza Galere, 1979), La nostalgia e la memoria (Giuseppe Maj, 1986) e l’ibrido Materiale interessante (Edizioni della Battaglia, 1997). Alcuni suoi versi compaiono nel volume collettivo Mutenye. Un luogo dello spirito (Odradek, 2001).
L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972
Sante Notarnicola
L’EVASIONE IMPOSSIBILE
Con un’introduzione di Pio Baldelli e un’intervista all’autore
II edizione 2005 Con una prefazione di Erri de Luca
L’evasione impossibile
ha attraversato con grande forza il ciclo di movimenti tra il ’68 e il
’77. Libro di culto per la generazione degli anni ’70, ormai
introvabile, aggiunge all’interesse per le autobiografie esemplari
quello dell’analisi distaccata nei confronti di nodi impresentabili – e
quindi rimossi – per la sinistra; come la violenza e il carcere.
E’ il racconto della nascita e del percorso di quel gruppo che
attraversò i fugaci onori della cronaca alla fine degli anni ’60 come
“banda Cavallero” una banda di rapinatori di banche, nata per
autofinanziare un’improbabile rivoluzione, e che aveva mantenuto per
anni la propria salvaguardia evitando qualsiasi rapporto con la
malavita. Un’anomalia che ne fece allora una leggenda. Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, I’ex partigiano Danilo Crepaldi
sono invece fino in fondo figli del “popolo comunista” torinese, delle
“boite” e delle officine della ricostruzione industriale del dopoguerra.
La grande forza emotiva non fa velo alla capacità di comunicare con
lucidità e distacco il quadro storico-sociale che fa da sfondo alla
trasformazione del Pci, alla nascita della sinistra extraparlamentare e
poi delle organizzazioni guerrigliere.
Furono fortunati e abili nel riuscire a operare per tanti anni; furono
sfortunatissimi nell’essere arrestati proprio un attimo prima che il ’68
facesse la sua apparizione, dando nuova linfa e nuove idee alla
trasformazione radicale dell’esistente. Anche se c’è da dubitare che
questi uomini – esclusi ormai da anni dal confronto con le realtà di
base – sarebbero stati in grado di maturare un rapporto proficuo con un
movimento tanto diverso da quello che si potevano attendere o sperare.
La condizione di prigionieri, paradossalmente, favorì invece questo
incontro. E furono i gruppi extraparlamentari (non senza contraddizioni)
a riconoscere in questa banda dei “compagni di strada” provenienti
dalla generazione “perduta”: quella che era stata troppo giovane per fare la Resistenza, e troppo vecchia per attendere un nuovo ciclo radicale di lotte.
L’intervista
al Sante di oggi, in appendice, chiude il cerchio di una vita spesa
senza rimpianti alla ricerca di una rivoluzione che non ha vinto. Un
capitolo della lunga “guerra civile” italiana, visto dall’ interno dei
gruppi sociali che in modi diversi, ma più di tanti altri, hanno pagato
sulla propria pelle il prezzo della “normalizzazione” del conflitto: la
classe operaia torinese e i detenuti. In tempi di pensiero debole,
l’unica ricaduta positiva è probabilmente il rinnovato interesse per le
“vite”, per la memoria, per le testimonianze.
Quella di Sante Notarnicola è una coscienza estesa e possente, che
sviluppa ed elabora una minuziosa e basilare critica della politica e
della rappresentanza, perché il carcere, come luogo della
intensificazione delle espenenze, dell’elaborazione collettiva, risulta
un momento estremo di analisi della politica e di conoscenza dello
Stato.
In un precedente libro di poesie che
ebbi l’onore di curare, l’intento non era quello di raccontare in
un’ottica cronistico-giudiziaria la storia di Sante Notarnicola
(Castellaneta, 15 dicembre 1938) “bandito” o, in una dimensione
politica, quella del rivoluzionario (ammesso che per il potere le due
definizioni possano andare disgiunte). Non era nemmeno quello di fare
critica letteraria. Rappresentava semmai il tentativo di scovare le
maglie più larghe in cui i tre aspetti potessero collegarsi per fornire,
in una prospettiva storica, un ritratto di Sante il più possibile
vicino al vero. Per questa storia, quindi, che prima o poi il lettore
ricercherà vanamente in queste pagine, non si può che rimandare a quella
sintesi… [continua a leggere].
N.B.
Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati
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terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
«In effetti nessuno ha mai vissuto in tempi completamente favorevoli, in cui fosse semplice essere uomini e vivere onestamente. La violenza, la rapina, la vigliaccheria, l’imbecillità (morale e non), le menzogne accettate come verità perché è piacevole sentirsele raccontare, ci sono sempre state […]. Una vita autenticamente umana nessuno se la trova in regalo, nessuno arriva a quello che è giusto per lui senza coraggio e senza sforzo; è per questo che virtù deriva etimologicamente da vir, la forza virile del guerriero che si impone nel combattimento contro la massa».
Fernando Savater, Ética para Amador, Editorial Ariel, Barcellona 1991 ; trad. it. D. Osorio Lovera – C. Paternò, Etica per un figlio, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 65.
«[…] Prezioso è il capitolo iniziale del volume, dovuto ad Arianna Fermani e intitolato Tra ambiguità e misura: l’ “etica del bere” in alcuni snodi della riflessione di Platone e Aristotele: pregevole contributo alla definizione del rapporto tra vino e filosofia, un binomio che la studiosa definisce fecondo e che affonda le sue radici nella ricchissima e varia humus della cultura greca delle origini. Perché “ambiguità” e “misura”? Il vino costituisce la bevanda ambigua per eccellenza; esso è un dono del dio Dioniso, una bevanda propria dell’uomo, simbolo della civiltà di un popolo, portentosa medicina dell’anima e del corpo, ma al tempo stesso un potente e pericoloso veleno: oscillazione tra salute e malattia, tra bene e male, che – osserva la Fermani– era alla base del pensiero dionisiaco».
«Il capitolo di Mino Ianne, La natura “parla” ai filosofi. Conservazione dell’ambiente naturale e simbolismo dell’albero d’ulivo nel pensiero dei Greci, è diviso sostanzialmente in due parti; nella prima egli delinea l’idea di natura e di paesaggio nella filosofia greca, in particolare nei presocratici e in Platone; nella seconda esamina il simbolismo dell’ulivo, tra l’altro, nella mitologia greca, in Omero e nei lirici greci… Per Ianne ripercorrere la storia dell’ulivo nel mondo greco permette di illuminare, da un’angolatura particolare, l’intero ecosistema della civiltà greca”
«Certo è deplorevole che gente che vive di sumdi tenga poi un cane», ha dichiarato un responsabile della Previdenza Sociale nel Viirmland. La legge ha i suoi difetti. I poveri han diritto di tenere un cane. Potrebbero tenere dei topi, invece: van bene anche loro e sono esentasse. Se ne stanno in anguste stanzette coi loro costosi bastardi. Perché non giocano con le mosche? Non sono animali da compagnia? E al Comune tocca pagare. Bisogna farIa finita o c’è da temere che si comprino delle balene. Una decisione va presa: abbattere i cani. Non è una buona idea? Il prossimo provvedimento: abbattere i poveri Così il Comune risparmierà qualcosa.
Stig Dagerman
«È privo di senso sostenere che il mare esiste per sostenere flotte e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere […]. Se i pianeti potessero amare uscirebbero dalle loro orbite […]. Anche l’uomo che ama ha il presentimento che l’amore sia fratello della morte. Ma questo non gli impedisce, lui prigioniero della sua orbita, di aprirsi una breccia fino alla cella del vicino, gridando con gioia: Sono libero! […] Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete».
Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, Milano 2015.
Descrizione
L’inalienabile aspirazione umana alla felicità, alla libertà, al riscatto, al diritto di esistere senz’altra giustificazione che la propria inviolabilità e insieme la disperata consapevolezza che rimarranno irraggiungibili: è questa la toccante confessione di uno scrittore malato del male di vivere e che ha sempre sentito di “attirare il dolore come un amante”. Benché Ilnostro bisogno di consolazione non sia l’ultima opera di Dagerman, appare come un vero e proprio testamento spirituale, in cui si leggono fra le righe i motivi del suo silenzio finale e del suo suicidio. Schiavo del proprio nome e del proprio talento al punto di non avere “il coraggio di farne uso per il timore di averlo perso”, ossessionato dal tempo e dalla morte, incapace di sottrarsi alle pressioni che si sente imporre dalla società e più ancora dalla propria intransigenza, resta tuttavia convinto che il valore di un uomo non può essere misurato dalle sue prestazioni e che nessuno può richiedergli tanto da intaccare la sua voglia di vivere. Vi sono sempre le parole da opporre a ogni tipo di sopraffazione, “perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà”. Ma se anche queste non bastano, rimane il silenzio, “perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente”.
Perché una vita possa realizzarsi compiutamente occorre “spendersi” senza risparmiarsi, dato che «la felicità, la riuscita della vita, non può in alcun modo avere un prezzo troppo alto».
«La riuscita della vita, al contrario di tutto ciò, non ha “costi esterni” tali che si possa dire, una volta raggiunta, che non ne sia valsa la pena».
Robert Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. 18 e p. 33.
«La nostra è una società composta da individui notoriamente infelici: isolati, ansiosi, in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza, in una parola esseri umani ben lieti di poter ammazzare il tempo che con tanto accanimento cercano di risparmiare».
Eric Fromm, Avere o Essere ?, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1977, 19937, p. 16.
«le persone comuni mirano soltanto a passare il tempo, chi ha un po’ d’ingegno a utilizzarlo». A. Schopenhauer, Aphorismen zur Lebensweisheit, in Parerga und Paralipomena: kleine philosophischen Schriften, 1851; trad. it. Pocar E., Mondadori, Milano1991, p. 29.
«Una vita minima è una povera vita, scarsamente stimabile. Indica una mancanza di sfruttamento delle possibilità, una rinuncia alla vita […]. Per debolezza vitale – biografica, non biologica – per codardia, per paura del rischio, per mancanza d’amore, si riduce la vita a un livello inferiore a quello possibile. […] Si può “scivolare” attraverso la vita senza dedicarsi ad essa con energia: non esporsi alle tentazioni, agli insuccessi, alle delusioni, agli errori, alle avversità, al dolore. Sono forme larvate di suicidio, di negazione della vita, un risparmio di ciò che si può fare, in tutti i campi […]. Spesso si tratta dell’avarizia vitale, dell’incapacità di dare, che è principalmente darsi»
Julián Marías Aguilera, Tratado de lo mejor, Alianza Editorial, Madrid, 1995; trad. il. M. Magnati Fagiolo, Piccolo trattato del bene e del meglio. La morale e le forme della vita, Edizioni San Paolo, Milano 1999, p. 80-81).
Ho iniziato a tenere un diario in giovane età, parallelamente alla scoperta della pittura, che è divenuta nel tempo scelta di vita. Scrittura e pittura sono procedute da allora di pari passo: la prima, affiancando il ruolo principale di autoanalisi a quello non meno importante di supporto critico ed elemento di verifica nei confronti della seconda; questa, a sua volta, rifondendo non di rado le proprie immagini in una trama narrativa, chiudendo il cerchio in un’ideale continuità espressiva. Il libro raccoglie una scelta di brani degli ultimi venti anni, che in pittura coincidono con l’abbandono della figurazione iniziale per una maggior semplificazione compositiva, volta alla riformulazione in chiave astratta di elementi naturalistici nell’ottica di un’ interpretazione simbolica del visibile. Dopo la laurea in Lingue e letterature slave, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come pittore ho tenuto molte mostre personali e partecipato a collettive in Italia e all’estero; ho realizzato illustrazioni per libri di poesia e riviste letterarie. Fra le opere presenti in collezioni private e pubbliche, amo ricordare una serie di chine dedicate all’opera di Cristina Campo, acquisite dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze. La mia attività è documentata presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz; la Biblioteca Nazionale Centrale, la Biblioteca Marucelliana e l’Istituto Olandese di Storia dell’arte di Firenze; la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, Polonia.
Silenzioso autunno (liberamente tratto da G. Trakl), 2013 – olio su tavola, 80×55
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