Tzvetan Todorov (1939-2017) – La memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione.

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Memoria del male, tentazione del bene

Memoria del male, tentazione del bene

 

Salvatore A. Bravo

Todorov,
la memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica

Il secolo trascorso ed il presente sono secoli senza metafisica: ogni limite è stato ed è trasceso in assenza di una definizione di bene e di male. Tali paradigmi sono liquidati come cianfrusaglie del pensiero, oziosi rompicapo senza soluzione. Il problema metafisico è annichilito, espulso dalle accademie, spesso pronunciato con parole appena udibili anche dalla chiesa. Le forme di totalitarismo sono proliferate in assenza di metafisica, nella loro metamorfosi, come l’essere polivoco di Aristotele, hanno un fondamento comune non riconosciuto: l’astratto. Ogni totalitarismo ambisce alla perfezione, vuole eliminare ogni differenza, la fatica del molteplice da cui rielaborare il concetto, i totalitarismi esigono la perfezione, calano sul mondo della vita una cappa astratta a cui ci si deve adattare. La perfezione non vuole dialogo, nega ogni principio ontologico fondato sulla parola, al suo posto campeggia l’ideale della perfezione, il quale si pone oltre ogni distinzione dialettica tra bene e male, è sottratto dallo spazio e dal tempo, luoghi cognitivi dove si viene a determinare il senso del bene e del male, dove l’uno ha significato nella presenza dell’altro. La perfezione non conosce dialettica, si ripiega su se stessa, si presenta nella forma dell’ipostasi dinanzi alla quale non si può che accettare senza consenso, senza concetto. Ogni totalitarismo assimila per espellere le differenze e presentarsi con il suo radicale monismo. La perfezione è nell’uno, il bene ed il male, invece, sono nella dualità perenne, vi è il bene dove vi è dualità, senza l’io che si incontra con il tu non vi è che il nulla, solo dall’incontro razionale nella dualità il bene si eleva dai singoli verso l’universale, il male resta sul fondo, lo sguardo del bene, mentre si magnifica sull’universale dev’essere puntato sul male, poiché permette la consapevolezza della differenza.

La storia e la resistenza al male
Todorov ha posto il problema del male al centro della sua storia filosofica. La storia è manifestazione della Spirito dell’umanità, nella storia l’universale si palesa nella contingenza: esperienza in movimento la storia consente di filtrare le esperienze, di cogliere nella concretezza delle vite la resistenza o il cedimento al male. Dinanzi al male si può fuggire oppure resistere. Molti hanno resistito al male, ricordare la loro testimonianza favorisce processi di identificazione e discernimento del bene e del male. La storia assume una valenza educativa e critica non sostituibile, in essa possiamo trovare e ritrovare le ragioni per resistere nell’esempio testimoniale degli eroi silenziosi, ma anche imparare, nelle differenze contestuali e dei quadri storici, a riconoscere il male:

«Mi resta qui da riunire alcune delle lezioni che ho creduto di poter trarre e domandarmi: che cosa ci insegnano sul futuro? La memoria stessa, innanzitutto. La scelta, innanzitutto. La scelta che si presenta davanti a noi non è fra dimenticare e ricordarsi perché l’oblio non deriva da una scelta, sfugge al controllo della nostra volontà ma fra differenti forme di ricordo. Non esiste dovere di memoria in sé; la memoria può essere mesa al servizio del bene come del male, utilizzata per favorire il nostro interesse egoista o la felicità altrui. Il ricordo può restare sterile, addirittura fuorviarci. Se si sacralizza il passato, ci si impedisce di capirlo e di trarne lezioni che concerneranno altri tempi e altri luoghi, che si applicheranno a nuovi protagonisti della storia. Ma se al contrario lo si banalizza, applicandolo a situazioni nuove, se vi si cerca soluzioni immediate alle difficoltà presenti, i danni non sono minori: non solo si traveste il passato, ma si disconosce anche il presente e si apre la via dell’ingiustizia. […]. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione».[1]

L’Umanesimo moderno
Nella storia ritroviamo l’effettualità del bene come del male. Riconoscere il male nella forma dell’illimitatezza razziale, sessista o economica consente un mutamento della coscienza, da quel momento nulla sarà come prima. Il male è l’illimitatezza che nega la razionalità dialogica, la negazione dell’alterità è rottura del limite, senza quest’ultimo si assimila l’altro, si mettono in pratica processi di cannibalizzazione violenta. Il bene è l’esercizio del limite, è la pratica di ascoltare la presenza dell’altro, capacità che esige la razionalità profonda in cui l’argomentazione logica si coniuga con l’empatia, con la percezione tutta carnale che lo sguardo dell’altro è su di noi e con noi:

L’Umanesimo moderno, un Umanesimo critico si distingue per due caratteristiche, senza dubbio entrambe banali, ma che traggono la loro forza dalla loro stessa compresenza. La prima è il riconoscimento dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani. L’umanesimo, qui, non consiste affatto nel culto dell’uomo, in generale o in particolare, in una fede nella sua nobile natura; no, il punto di partenza, qui, sono i campi di Auschwitz e della Kolyma, la prova più grande che ci sia stata in questo secolo del male che l’uomo può fare all’uomo. La seconda caratteristica è un’affermazione della possibilità del bene; non del trionfo universale del bene; non del trionfo universale del bene, dell’instaurazione del paradiso in terra, ma di un bene che conduce a prendere l’uomo, nella sua identità concreta ed individuale, a prediligerlo ed amarlo. Si rinuncia dunque a sostituirlo con un essere soprannaturale, Dio; o al contrario con le forze della natura subumana, le leggi della vita; o anche con i valori astratti scelti degli uomini, si chiamino prosperità, rivoluzione o purezza e, al di là, le leggi della storia».[2]

La testimonianza del bene
Il bene è nella storia, nei suoi innumerevoli esempi silenziosi ed eroici, Todorov tra le testimonianze presenti nel suo testo Memoria del male, tentazione del bene riporta il caso di Grossman lo scrittore di Vita e destino dedicato alla madre che dinanzi allo sterminio (Grossman era ebreo) seppe mantenere la sua umanità. È riuscita a resistere al male conservando la sua razionalità profonda, ha continuato a provare pietà anche per coloro che l’avrebbero uccisa. L’esempio della madre, il bene concreto che resiste al male, alla sussunzione, ha permesso a Grossman di continuare a credere nel bene, a resistere al male. Nella Russia sovietica ha vissuto l’esperienza della persecuzione, dell’isolamento, ma la fonte del bene è stato il ricordo della madre, ancora una volta per resistere al male è necessario ritrovare nella storia o nella nostra storia la fonte testimoniale che ci permette di resistere, perché il male per radicarsi esige il silenzio della ragione e della storia:

«Alla base della società totalitaria si trova, secondo Grossman, un’esigenza: quella della sottomissione dell’individuo. Il fine a cui aspira questa società non è infatti il benessere degli uomini che la compongono, ma l’espansione di un’entità astratta che si può designare come lo stato, e che si confonde anche con il partito, o addirittura con la polizia. Nello stesso tempo gli individui devono cessare di percepirsi come la fonte della propria azione, devono rinunciare all’autonomia e obbedire alle leggi impersonali della storia, compitate dai poteri pubblici, come alle direttive promulgate giorno dopo giorno dai vari servizi. Si può dire in questo senso che lo stato sovietico “ha come principio essenziale di essere uno stato senza libertà”». [3]

 

Il male nell’epoca della globalizzazione
Il male è sempre uguale vuole la sussunzione totale del soggetto. Oggi il male che minaccia il mondo è la globalizzazione nella forma dell’integralismo economicistico che vuole negare il destino dei popoli in nome dell’economia. L’omologazione dei popoli permette di ipostatizzare l’economia e specialmente indebolisce ogni resistenza: in assenza di sovranità nazionale il potere diffuso è divenuto impalpabile, è ovunque eppure sfugge ad ogni localizzazione, in tal modo si debilita la resistenza, si indebolisce la motivazione all’universale per favorire forme di atomismo planetario, le cui ingiustizie sono vissute come fatali, inevitabili:

«Noi ci rallegriamo del crollo dell’impero totalitario tedesco; ciò non significa che il dominio solitario degli Stati Uniti sia in sé augurabile. Il pericolo non è minore quando la superpotenza si accorge che in realtà le mancano i mezzi per giocare al guardiano della pace ovunque e che deve limitarsi a intervenire solo nelle situazioni in cui sono in gioco i suoi interessi vitali. Per queste ragioni l’equilibrio è preferibile all’unità. La globalizzazione economica a cui oggi assistiamo non deve essere seguita da una mondializzazione politica; gli stati o gruppi di stati autonomi sono invece necessari per contenere gli effetti negativi del movimento di unificazione».[4]

Il linguaggio del male
Dobbiamo imparare a riconoscere il male ed a vivere per il bene, la storia ci insegna ad individuare i sintomi del male. Todorov analizza il linguaggio del nazionalsocialismo, per comprendere come il male si diffonde mediante architetture linguistiche neutre, confondendo l’umano con il disumano:

«Un altro mezzo per dissimulare la realtà ed eliminare ogni traccia dalla memoria consiste nell’uso degli eufemismi. Presso i nazisti, essi sono particolarmente abbondanti riguardo al segreto centrale dello sterminio; il senso di certe formule celebri è ormai divenuto trasparente “soluzione finale”, “trattamento speciale”, ma anche all’epoca erano, esse erano sufficientemente suggestive (“il trattamento speciale è applicato all’impiccagione”. Non appena è conosciuto il loro senso segreto, esse chiedono di essere sostituite con nuove espressioni, ancora più neutre, che rischiano tuttavia di divenire inutilizzabili a loro volta: evacuazione, deportazione, trasporto; numerose circolari danno istruzioni precise al riguardo. Lo scopo di questi eufemismi è impedire l’esistenza di certe realtà nel linguaggio e, con ciò facilitare agli esecutori la realizzazione del loro compito».[5]

 

Il lessico del male continua ad operare, a confondere per poter veicolare con i suoi messaggi la manipolazione delle coscienze.
Il linguaggio attuale cela il male, i tagli alla spesa pubblica sono chiamati tagli lineari, gli esseri umani sono chiamati consumatori, finanche consumatori di cultura, gli alunni sono divenuti clienti, i lavoratori risorse o capitale umano, lo sfruttamento è denominato lavoro flessibile ecc. Il linguaggio quotidiano ci svela nei suoi eufemismi i processi di sottomissione cognitiva e delle coscienze, eppure malgrado il tamburellare della lingua unica, anche nel presente ci sono ragioni per resistere nell’esempio di persone anonime che resistono alla disumanità del nichilismo passivo imperante. La storia ed il presente anche hanno nei loro archivi nomi di uomini e donne che hanno resistito, non sono passati invano, per cui resistere è ricordare, ma anche capire il ripetersi di modelli simili, ma mai uguali. L’arretramento degli studi storici è un ulteriore sintomo del male che in nome della prestazione economica perfetta ed assoluta avanza ed a cui dobbiamo fare resistenza propositiva.

Salvatore A. Bravo

 

[1] Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2015, pag. 370.

[2] Ibidem, pp. 373-374.

[3] Ibidem, pag. 77.

[4] Ibidem, pag. 343.

[5] Ibidem, pag. 141.

 


Tzvetan Todorov (1939-2017) – La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La letteratura amplia il nostro universo, apre all’infinto la possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce infinitamente.

 


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Jean-Paul Sartre (1905-1980) – L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso.

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Existentialism an human emotions

Existentialism an human emotions

 

«L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso: egli non è dunque nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita».

 

Jean-Paul Sartre, Existentialism an human emotions, Citadel Press, New York 1957, p. 33.


Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. Il desiderio è coscienza. Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro. Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza.

 


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Aldo Capitini (1899-1968) – Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.

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alta passione

 Aldo Capitini scrive nel 1956

«Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.
Piú volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Ma sappiamo anche che noi non possiamo far tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo piú forti) liberare il mondo da tutto il male. E allora torneremo indietro? non faremo nulla? ci faremo prendere dallo scoraggiamento? lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati? Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi, raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti. […]
Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto; la storia deve mutare e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.
Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze. Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte e con la fede che il resto del dolore, del male, della morte scomparirà. Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale. Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagni troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo. Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta».


Aldo Capitini
Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte, Firenze 2016, pp. 292-294

Lanfranco Binni, responsabile del Fondo Walter Binni, e Marcello Rossi, direttore de Il Ponte la “rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei”, hanno recentemente curato una ricca e approfondita raccolta di scritti politici di Aldo Capitini – il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta – che coprono un arco temporale dal 1935 al 1968, anno della sua morte, dal titolo “Un’alta passione, un’alta visione”  (Il Ponte Editore). Ne pubblichiamo qui la premessa dei due autori.

Il volume cartaceo può essere richiesto presso Il Ponte libreria, mentre il sito web del Fondo Walter Binni mette a disposizione dei lettori la versione integrale in .pdf  

Questo volume di scritti di Aldo Capitini è un percorso di attraversamento diacronico della sua esperienza rivoluzionaria, teorica e tenacemente pratica, dall’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica e alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla puntuale teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.
I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.
Al centro dell’intera esperienza umana, intellettuale, poetica, pratica di Capitini c’è la politica, una concezione della politica come intreccio di etica e creazione del valore, tensione alla trasformazione, alla liberazione rivoluzionaria della realtà. Tutti gli scritti di Capitini sono intimamente politici: è politica la sua elaborazione filosofica sulla «compresenza», è politica la sua poesia che nomina la realtà liberata qui e subito, è politica la sua libera ricerca religiosa, è piú che politica la sua concezione della politica, è piú che socialista la sua concezione del socialismo, è piú che libertaria la sua concezione della libertà.
I veri maestri agiscono a distanza e nel corso del tempo. Il tempo di Capitini è ora, nella fase della crisi della «democrazia» liberale (il sintomo) e della crisi strutturale del capitalismo (la malattia), della guerra globale e della devastazione del pianeta: «democrazia diretta», «omnicrazia», «compresenza», «realtà liberata» affermano oggi la loro urgenza teorica e di orientamento per la prassi rivoluzionaria.
I testi che abbiamo scelto e montato cronologicamente non costituiscono un’antologia, ma un percorso di attraversamento del «centro» delle idee e dell’azione di Capitini, nelle loro molteplici e costanti «aperture», per sollecitare un rapporto ulteriore con le sue opere, da leggere e studiare. Il titolo è di Capitini: in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, 8 denuncia il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza: «Nelle città, nei paesi e nelle campagne specialmente, vedo folle di giovani e di ragazzi inerti, che non hanno canzoni, non incontrano apostoli, non sanno come salutare, che grido lanciare, che non può e non deve essere piú quello di odio a un uomo e a un regime scomparsi. O dare tutto questo, un’alta passione, un’alta visione, o non ci meraviglieremo se dilagherà la tendenza a un individualismo scettico peggiore della morte».
Il libro è di Capitini, e inizia con la sua voce: lo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo, scritto nel 1968 a due mesi dalla morte. Ci limitiamo a premettere un sintetico profilo della vita e delle opere, e una doverosa insistenza sul socialismo libertario di Capitini, il cuore e l’anima della sua stessa «religione aperta».

Lanfranco Binni (Fondo Walter Binni)

Marcello Rossi (Il Ponte Editore)


Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

 


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Stefano G. Azzarà e Andrea Bulgarelli – Intervengono all’incontro sul tema: «Esistono ancora destra e sinistra?». Riflessioni a partire dal confronto tra Domenico Losurdo e Costanzo Preve. Venerdì 1 febbraio ore 21, Libreria Comunardi, Torino.

Azzarà Preve Losurdo

Azzara Comunardi

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Venerdì 1 febbraio ore 21,

Libreria Comunardi, Via Bogino 2 , Torino.

 

Esistono ancora destra e sinistra?

Riflessioni a partire dal confronto tra

Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo

e

Costanzo Preve

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Intervengono all’incontro

Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)  e Andrea Bulgarelli (CIVG)

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.
Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.
Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

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Anselm Kiefer – Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura.

Kiefer Anselm 01

Kiefer-Pistoia

«Quando ho saputo che avevate l’intenzione di accordarmi l’immenso onore di ammettermi fra i ranghi di voi professori, mi sono messo a studiare la storia della vostra università.
La storia ha sempre fatto parte del mio lavoro artistico. Dietro sollecitazione di Roland Barthes, ho ad esempio letto Jules Michelet, che è diventato uno dei miei scrittori preferiti.

Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Ha un’importanza capitale, tanto nella mia vita quanto nella mia pratica artistica. Ritengo che rappresenti il 60% della mia opera. D’altra parte, tengo un diario nel quale annoto giorno per giorno bozze d’idee da sviluppare, schizzi, citazioni da poesie, epifanie del quotidiano… progetti, o ancora il piano delle camere d’hotel nei quali soggiorno…
Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura. Al mattino, prima di iniziare a lavorare, spesso percorro la mia biblioteca. È lunga sessanta metri, e ciò mi permette di camminare come al Vaticano. Spesso trovo il libro di cui ho bisogno, qualche che sia il soggetto. È molto curioso, come si trova ciò che vi si cerca. Sono convinto che abbiamo un accesso ai nostri libri che non passa per l’intelletto, che transita altrove rispetto al cervello.
Quando, lavorando a un quadro, mi capita di non sapere più a che punto sono, o, per dirla altrimenti, quando sono in panne, mi siedo alla macchina per scrivere e scrivo “qualcosa”.
Questo “qualcosa”, questa cosa tratta dell’essenza, della monade di Leibniz. Quando sono di fronte alla tela bianca, il che è al tempo stesso stimolante e costernante, allora un vecchio problema filosofico mi ossessiona: perché  c’è qualcosa e perché non il nulla?».

Anselm Kiefer

Il 26 novembre 2014 l’Università di Torino ha conferito a Anselm Kiefer la laurea honoris causa in Filosofia. Il testo integrale della sua lectio magistralis, da cui è tratto il brano riportato sopra, si può leggere su Artribune del 4 dicembre 2014, nella traduzione di traduzione di Marco Enrico Giacomelli.

 

L'arte sopravviverà alle sue rovine

L’ arte sopravvivrà alle sue rovine

Anselm Kiefer

Traduttore: D. Borca
Editore: Feltrinelli, 2018

 

 

 

Kiefer è uno dei più noti e controversi artisti contemporanei. Con queste pagine chiunque può immergersi nell’universo titanico, profondamente riflessivo, della sua arte.

“Soltanto nell’arte ho fede, e senza di essa sono perduto. Non riuscirei a vivere senza poesie e senza quadri, non solo perché non so fare nient’altro, perché non ho imparato nient’altro, ma per ragioni quasi ontologiche. Perché diffido della realtà, pur sapendo che, a modo loro, anche le opere d’arte sono un’illusione.”

Anselm Kiefer ha fatto irruzione sulla scena artistica tedesca nel 1969 con una serie molto controversa di opere dedicate alla Seconda guerra mondiale, capaci di risvegliare dall’amnesia collettiva che regnava in Germania in quel periodo. Da quel momento, la produzione artistica di Kiefer ha espresso ogni volta il rifiuto per il limite, non solo nella sua monumentalità e nella potenza della sua materialità, ma anche nell’infinita ricchezza di risorse con le quali sonda le profondità della memoria e del passato. Tra dicembre 2010 e aprile 2011, Kiefer è stato il primo artista visuale a occupare la cattedra di Creazione artistica al Collège de France di Parigi, dove ha tenuto otto lezioni, seguite dai rispettivi seminari. Questo volume raccoglie le otto lezioni, insieme al discorso inaugurale con cui l’artista ha dato inizio al corso. In risposta all’invito del Collège de France, Kiefer attinge alla letteratura, alla poesia, alla filosofia e ai suoi ricordi personali, nel tentativo di districare e rivelare il processo di sedimentazione e rielaborazione dei temi che circolano, si incrociano e si aggregano per formare la costellazione della sua arte. Queste lezioni formidabili e preziose gettano luce sulla dimensione universale di un artista, la cui opera è attraversata dalla storia, dal mito – greco, assiro e germanico -, dalla religione, dal misticismo ebraico, dalle donne, dalla poesia. Una raccolta di scritti cruciali per la comprensione dell’arte di Anselm Kiefer.


Il grande carico

Il grande carico

Tela a tecnica mista, 4,60 x 6,90 m)

Uno degli aspetti che distinguono la riuscita di un’opera d’arte sta nella facoltà di quest’ultima di provocare e stimolare l’immaginazione di uno spettatore, e questo è ciò che caratterizza la grande tela realizzata da Anselm Kiefer, collocata sulla parete di fondo della sala di lettura dei Dipartimenti, e donata alla Biblioteca San Giorgio dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, a godimento degli spettatori e dei lettori.

Sala di lettura dei Dipartimenti, Biblioteca San Giorgio Pistoia

Sala di lettura dei Dipartimenti, Biblioteca San Giorgio Pistoia

Il lavoro di Kiefer, materico ed evocativo, prende il titolo da un verso della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann in cui si parla di una nave pronta a partire con un grosso carico (Die grosse Fracht, appunto).

“Il grande carico dell’estate è a bordo,
nel porto è pronta la nave del sole,
quando dietro di te saetta e stride il gabbiano.
Il grande carico dell’estate è a bordo.
Nel porto è pronta la nave del sole,
e sulle labbra della polena
si fa largo un sorriso da lemuro.
Nel porto è pronta la nave del sole.
Quando dietro di te saetta e stride il gabbiano,
arriva da Ovest l’ordine di affondamento;
ma tu annegherai con gli occhi aperti,
quando dietro di te saetta e stride il gabbiano.”

In Kiefer il carico prende corpo sotto forma di libri, stabilendo così un legame ideale e indissolubile con il luogo in cui l’opera è collocata. Come abilmente descrive Bruno Corà : “Lo scafo di piombo, rigidamente vincolato sulla tela dipinta mediante sottili cavi, sostiene sul suo ponte cataste di libri muti, anch’essi di piombo. L’enigmatico e insolito convoglio sembra veleggiare su una distesa di terra e fango, sotto un cielo che non si distingue dalla terra, senza un orizzonte, in un magma in cui insieme alla ruggine e alle emulsioni miste all’acrilico, si sovrappongono colate di piombo fuso, i cui incerti contorni rivelano una gestualità repentina …una turbolenza di modi, i cui effetti nell’immagine suggeriscono la mescolanza diluviale di terre, acque e cieli, senza possibilità di riferimenti orientativi”.
Il grande carico suscita nello spettatore il ricordo di una “nave da guerra-giocattolo-modello” e il sentimento spiazzante del doverla “trarre in salvo”, senza tuttavia conoscerne il perché o il verso dove, ma comunque sospinto da una tensione emozionale difficile da dimenticare, persa dietro ai ricordi e agli interrogativi che il convoglio insolito ed enigmatico porta sulla scena. Sembra divenire l’emblema di un trasporto essenziale attraverso un paesaggio immaginario, inquietante e insidioso, in cui è necessario riaffermare il diritto di cercare una risposta, di capire, sperando in quell’improvvisa e meravigliosa intuizione che talvolta ci dà la lettura.


I sette palazzi celesti

I sette palazzi celesti

 


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Emanuele Severino – Il capitalismo compera la tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.

Emanuele Severino 01
L'identità della follia

L’identità della follia

«Sia nel capitalismo sia nella tecnica lo scopo che si vuole raggiungere è il possesso del mezzo universale, capace cioè di realizzare qualsiasi scopo. I singoli scopi che si possono realizzare col mezzo universale non sono quindi lo scopo ultimo, che è solo la capacità indefinitivamente crescente di realizzarli. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.
Mentre il denaro è il mezzo universale ma solo relativamente all’acquisizione di ciò che già esiste […] la tecnica fa crescere indefinitivamente la capacità di realizzare scopi e conduce tale capacità al di sopra della dimensione in cui la crescita del denaro si dà [ … ] Il capitalismo sa che il denaro non può comperare tutto perché non tutto ciò che vorrebbe esiste e appunto per questo il capitalismo compera la tecnica […] Il capitalismo si serve della tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro».

Emanuele Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 150.

 


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Friedrich Nietzsche (1844-1900) – La nostra cultura europea è come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere.

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F. Nietzsche, nel 1887, introducendo l’ultima sua opera, pubblicata postuma, annunciava
l’avvento di due secoli di nichilismo:

«Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. lo descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce di decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere».

Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza. Frammenti postumi, Bompiani, Milano 1992, p. 3.

 


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.


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Gianmaria Testa (1958-2016) – Povero tempo nostro e poveri questi giorni di magra umanità che passa i giorni e li sfinisce, lascia che torni il vento e con il vento la tempesta, e dentro al vento la stagione di quando tutto appassirà per chi bestemmia le parole.

Gianmaria Testa 01
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Gianmaria Testa, Cover di Prezioso.

 

Povero Tempo nostro

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Povero tempo nostro
povere fatiche
povera la Terra intera
che tutte intere le patisce
povero tempo nostro
e poveri questi giorni
di magra umanità
che passa i giorni e li sfinisce

 

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lascia che torni il vento
e con il vento la tempesta
e fa che non sia per sempre
questo tempo che ci resta

GT03

lascia che torni il vento
e dentro al vento la stagione
di quando tutto appassirà
per chi bestemmia le parole

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lascia che torni il vento
e con il vento la tempesta
e fa che non sia per sempre
il poco tempo che ci resta

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lascia che torni il vento
e dentro al vento la stagione
di quando tutto appassirà
per chi bestemmia le parole

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che tutto appassirà
a chi bestemmia le parole

 

Gianmaria Testa, Povero tempo nostro

*****
***
*

Quasi due anni dopo la morte arriva un disco di inediti di Gianmaria Testa, ‘Prezioso‘. Pensate fra le mura della casa di Castiglione Falletto o di Alba per album futuri o per altri artisti, undici nuove canzoni registrate per lo più in forma di appunti sonori per voce e chitarra, formano un racconto che si mescola a un commiato pieno di affetto.

Paola Farinetti, moglie di Gianmaria, e Roberto Barillari, ingegnere del suono, presentano questo materiale proprio come se stessimo assistendo, accanto a Gianmaria Testa, alla gestazione di un nuovo disco, come se fossimo testimoni e compagni di un lavoro meticoloso, quotidiano, intimo. A partire dal brano che apre il disco, ‘Povero tempo nostro’ i registi Silvia Luzi e Luca Bellino, autori, tra le altre cose, di ‘Il Cratere’, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 con grande successo, nonché molto legati a Gianmaria, hanno realizzato un cortometraggio girato al cosiddetto “cimitero delle barche” di Fiumicino che illustra, in immagini e secondo il loro linguaggio artistico, il senso della canzone.


Per ascoltare la musica e la poesia di Gianmaria Testa

Gianmaria Testa nel 2013

Gianmaria Testa nel 2013

Gianmaria Testa, Povero Tempo Nostro

L’Automobile – Paolo Fresu & Gianmaria Testa (live)

Gianmaria Testa – ‘Na stella

Gianmaria Testa – Come l’America

Gianmaria Testa Forse qualcuno domani

Gianmaria Testa – Hotel Supramonte

Gianmaria Testa, DENTRO LA TASCA DI UN QUALUNQUE MATTINO

Le traiettorie delle mongolfiere – Gianmaria Testa

Gianmaria Testa – Il valzer di un giorno

Gianmaria Testa-Lasciami Andare (Nuovo 2011)

Gianmaria Testa – Lele (ottobre 2011)

Gianmaria Testa “Ritals”

Gianmaria Testa – Gli amanti di Roma

Per Accompagnarti – Gianmaria Testa

Gianmaria Testa – Il passo e l’incanto

Gianmaria Testa – Come di pioggia

Gianmaria Testa & Gabriele Mirabassi – Polvere di gesso

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G. Testa, Il sentiero e altre filastrocche

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Gianmaria Testa

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Valerio Berruti

Gianmaria Testa, Il sentiero e altre filastrocche. Disegni di Valerio Berruti.

 

A Riotorto c’è una via così piccolina e stretta
che ci passano soltanto gatti e bimbi in bicicletta
tutti gli altri stanno fuori, morti di curiosità
che vorrebbero sapere quella strada dove va…

La sensibilità di Gianmaria Testa indaga l’assurdo di questo nostro mondo con lo sguardo puro dei bambini. Le figure di Valerio Berruti rappresentano con straordinaria delicatezza lo stupore dei più piccoli.

Tre preziose filastrocche senza età.
data pubblicazione: 1 ottobre 2015
Libri illustrati, pagine: 32. isbn: 9788861459014

Editore Gallucci

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Salvatore A. Bravo – Tempo astratto e tempo emancipato. C’è un tempo rivoluzionario in cui si diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria.

Tempo astratta e tempo emancipato
Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Salvatore A. Bravo

Tempo astratto e tempo emancipato in cui si diventa persona.

Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato

 

Il tempo del capitalismo assoluto è il tempo astratto. La percezione del tempo si fa concreta nella consapevolezza dell’aprirsi al mondo, nel tempo della partecipazione al mondo ed a se stessi: è il tempo vissuto, in cui il fluire si organizza non nella dispersione di sé, ma nel raccoglimento, nel processo di soggettivizzazione attiva. Il tempo diviene, così, dimensione della qualità dialogica e dialettica che accoglie il mondo, le rappresentazioni, i suoi stereotipi per rielaborarli nella creatività.
C’è un tempo rivoluzionario in cui il soggetto, non più individuo, atomo nel mondo al traino delle forze dei modi di produzione, diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. L’individualismo, espressione sostanziale del turbo capitalismo, si caratterizza per la temporalità generica ed astratta: il soggetto non vive il proprio tempo, ma il tempo del modo di produzione, vive al ritmo del dicitur, non osa essere libero. Gli è sconosciuta la dimensione interiore, del conflitto tra la rappresentazione del mondo e l’elaborazione personale e condivisa di un’altra modalità di vivere e rapportarsi al mondo. Il tempo fluido, martellante, fa del soggetto una parte organica del sistema, è il tempo del vuoto silenzio muto, non vi sono parole, ma solo muti silenzi vuoti di senso.
La caverna di Platone non è solo buio ed immagini, è il muto silenzio del tempo che scorre senza la dimensione del simbolico. Il tempo dei dormienti è l’invisibile forma che assume il nichilismo, avvolge, rassicura con un fluire che mentre chiede tutto, svuota il soggetto della sua capacità simbolica. Opporsi a tale modalità di potere – che entra nel corpo vissuto per svuotarlo della sua potenzialità simbolica –, non è facile perché si è portati in una dimensione che vuole ci si sottragga al conflitto, al fine di rendere la vita priva di vita. Si avvelenano le fonti della vita, prosciugandole con la distopia: le merci ed il denaro divengono le divinità tiranniche che promettono «ogni felicità», allontanano così il soggetto da se stesso, destabilizzandolo, ipostatizzando forme di dipendenza mascherate da libertà senza limiti e confini.
Il tempo è così ritagliato all’interno di categorie produttive che adescano con i loro miti. Nell’immediato, il soggetto – rassicurato dall’apparente concretezza del tempo astratto –, è teso con le sue energie verso l’immanente metafisica della merce. Il tempo nella ripetizione sempre uguale, malgrado il ritmo frenetico della produzione e del consumo, rallenta in quanto attimo segnato dalla violenza della coazione a ripetere. La comprensione dello stato presente può accadere in una pluralità di modi: talvolta la verità può delinearsi improvvisa nella lettura di un mito greco.

Il tempo dei dormienti
Aristotele con il mito dei dormienti descrive un piano della condizione umana possibile in ogni epoca:

«Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento».[1]

Nel profondo il modo di produzione del capitalismo assoluto ha lo scopo di mutare il tempo/coscienza, in modo da impedire al soggetto la percezione di essere stato determinato. La vita nel capitalismo assoluto, è un unico istante, senza differenze qualitative, vige solo il tempo della scissione individualistica, si presenta nella sua compattezza liquida, deve sottrarre al soggetto il tempo qualitativo, rivoluzionario, per renderlo simile ad un ente che opera per automatismi algoritmici.

Marx ed il comunismo: il tempo emancipato
Il tempo è la posta in gioco nel tempo attuale: la servitù, la condizione di alienazione si deve associare alla dispersione del tempo. Il capitalismo assoluto vorrebbe essere il signore del tempo, e dunque mettere in atto nella storia una nuova creazione, nella quale il tempo è negato, in questa maniera ipostatizza se stesso e pone nella condizione di famuli eterni i suoi servi fedeli e socialmente trasversali.
In Marx tale problema è sicuramente uno dei tratti del suo pensiero rivoluzionario: la scommessa futura per Marx è la possibilità data ad ogni essere umano con il comunismo di vivere il proprio tempo nel simbolico. Tempo rivoluzionario, il tempo del comunismo, perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria. Le potenzialità simboliche portano nel loro grembo la verità eterna di ogni essere umano, ovvero la comunicazione nel segno della reciprocità simbolica. Non a caso Marx, pur non avendo descritto la società comunista, ne ha teorizzato l’elemento essenziale: il tempo liberato dalla sussunzione formale e reale, dalla sottomissione al macchinismo, per essere tempo dell’emancipazione. La praxis rivoluzionaria apre la prospettiva di un orizzonte nel quale si ipotizza l’abolizione di ogni attività esclusiva, e cioè di un’organizzazione della società che

«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».[2]

Se il tempo del capitalismo è il tempo dei dormienti, dei viventi stranieri a se stessi come alla comunità, il tempo del comunismo è il tempo che libera dalle scissioni, per rendere concreta la natura umana, le sue potenzialità espressive che non possono essere confinate in angusti limiti.

Il tempo che verrà
Il tempo è il luogo della vita, dell’unità, è il grande tema rimosso dalle “sinistre” del sistema. Naturalmente il silenzio sul tempo svela e rileva la realtà nichilistica delle “sinistre” omologate sul tempo dell’azienda. Il futuro si gioca sul senso e sugli usi del tempo: la “sinistra” senza metafisica, non può che schierarsi con il capitale, proprio perché è in assenza di una metafisica, di una visione olistica nella lettura del tempo presente e della storia.

Occorre riaprire il dibattito filosofico e politico sul problema del tempo e della vita: non è altrimenti pensabile riconfigurare il presente in una prospettiva nuova. La sfida a cui occorre rispondere la si può sintetizzare nell’aforisma di Nietzsche che giudica le macchine il mezzo più efficace per eliminare dalla storia la soggettività e formalizzare in modo sostanziale il trionfo dell’uomo mediocre ed adattato:

«La macchina come maestra. – La macchina insegna, attraverso se stessa, l’interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa fornisce il modello dell’organizzazione partitica e della condotta bellica. Non insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare il vantaggio della centralizzazione». [3]

 

La macchina può liberare il tempo dell’essere umano, come prospettato da Marx nel frammento su macchinismo, o renderlo schiavo. Tutto è ancora possibile, malgrado che il silenzio perduri su tale tema.

Salvatore A. Bravo

[1] Aristotele, Fisica, IV, 11, 218 b, II. 23-33 e 219 a, II. 1-2; traduzione di Luigi Ruggiu.

[2] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 24.

[3] F. Nietzsche, Umano troppo Umano, volume II, aforisma 218.

 

 

 


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Rossella Latempa – La scuola fabbrica di Capitale Disumano

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Rossella Latempa

La scuola fabbrica di Capitale Disumano

 

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Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano. L’individuo deve diventare puro investimento di sé, “performer obbligato” costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università – e dei loro “sacerdoti della valutazione”. Il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) è un misto di inchiesta, riflessione teorica, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano. Quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” non è un principio naturale ma un paradosso storico, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe”, nuovo fondamento della cultura contemporanea.

 

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Per introdurre il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) proviamo a partire dal suo rovescio. La metafora del rovesciamento (di senso, di condizioni, di vita) è spesso presente nelle pagine dell’autore, a cominciare dal titolo. Proprio il “capovolgimento nell’opposto” rappresenta lo stato d’animo di “scissione permanente” (p.31) dell’individuo che vive da Capitale Umano. Qualche anno fa, Piero Cipollone e Paolo Sestito, nomi noti a chi segue le vicende politiche scolastiche (ex commissari straordinari INVALSI, oltre che economisti della Banca d’Italia) scrivevano “Il capitale umano, come far fruttare i talenti” (Il Mulino, 2010).

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Un breve saggio “dedicato agli insegnanti” che racconta come debba intendersi oggi l’istruzione in circa 100 pagine, con tanto di dati, indici e grafici. La loro idea è che il sistema educativo “debba essere inteso come Fabbrica di Capitale Umano” (p. 65), essendo quest’ultimo “uno stock di competenze e conoscenze [..] producibili e accumulabili” (p.9) la cui valorizzazione è “strada maestra per avviare le necessarie trasformazioni dell’economia italiana” (p.101).
A quest’immagine – di Scuola come Fabbrica, Insegnanti come commessi e Studenti come apprendisti del Capitale Umano – Ciccarelli contrappone la sua articolata analisi: un misto di inchiesta, riflessione teorica profonda, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano, in perenne alternanza scuola-lavoro. È questa la tesi centrale del libro, il cui intento, dichiarato fin dalla copertina, è provare a rovesciare questa logica tramite una presa di coscienza e di consapevolezza collettive.
Il Capitale Umano, quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” (p. 13), non è un principio naturale ma un paradosso storico, un ossimoro, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe” (p.13), nuovo fondamento della cultura contemporanea. Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano.
Dalla scuola di Chicago, anni 50/60, la logica dell’accumulazione arriva ad inghiottire con voracità “l’essere umano, considerato un bene prodotto da un’autonoma capacità di investimento” (p. 19), fino “alle falde più microscopiche”, “a partire dal Dna” (p.21). Non solo il suo lavoro vivo – la sua forza lavoro – ma le emozioni, i sentimenti, il sonno, le angosce: tutto deve essere messo a valore. L’ individuo deve diventare puro investimento di sé, dunque “performer obbligato”, costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo “dalle istituzioni di certificazione, valutazione e coercizione” (p. 27) dell’istruzione, che devono concorrere a costruire individui all’altezza degli standard di concorrenza globali. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università prima di tutto – e dei loro “sacerdoti della valutazione” (p.29).
Il ruolo dell’educazione è descritto con una cura e una precisione che evidenziano passione e attenzione per il destino dell’istruzione- della scuola in particolare –, tratti non comuni per chi, come l’autore, non sperimenti direttamente la quotidianità e la realtà viva del rapporto insegnante-studente.
È l’istruzione che permette di interiorizzare e formalizzare “l’investimento economico di sé come idea regolatrice della vita” (p. 55). Si va a scuola per introiettare l’arte della competitività e il mito del merito, coltivare la competenza di auto-imprenditorialità fin dalle elementari, perfezionandola lungo il percorso superiore e specializzandola nell’Università. Il lavoro del capitalista umano inizia da subito e non finisce mai: imparare e far fruttare i propri talenti e aggiornare le proprie competenze è un lavorio infinito, come infinito è il life long learning, la “vita in formazione continua”(p.56) a cui allude Ciccarelli. Il ciclo di crescita del capitale è diventato tutt’uno coi cicli scolastici, che insegnano ad investire, ciascuno secondo le capacità personali di accumulazione ed estrazione, nel proprio Capitale Umano.
Un Nuovo Vangelo, oggi, recita che il proprio tornaconto – “benessere”, nella neolingua della learning society – coincide con quello della società tutta. Sebbene ciascuno sia solo, faccia a faccia col proprio destino e i propri traguardi, bisogna credere che la concorrenza – unico bagliore di socialità – assicurerà prodigiosamente la prosperità collettiva. L’intera società apprende: il “principio-scuola” è esteso a tutta la comunità dei cittadini. E per scuola si intende una vera e propria educazione morale: auto-controllo, auto-ottimizzazione, auto-valorizzazione, consolidate passo dopo passo insieme all’autostima e alla resilienza. Si tratta di sviluppare “la mentalità del governo” di se stessi, di imparare a “considerare la vita come un apprendistato”, nell’illusione che l’apprendimento sia finalizzato al bene di individuo e società, mentre nella realtà si veicolano “pratiche necessarie alla riproduzione del sistema” stesso, che rinnova e amplifica differenze e disuguaglianze, sottraendo progressivamente all’individuo “la sua qualità più preziosa: l’autonomia” (p. 62).
La costruzione di questa narrazione, che Ciccarelli definisce un’”imbracatura ortopedica” (p.63) dell’educazione è avvenuta in circa un quarto di secolo, per mano di organizzazioni internazionali come l’OCSE e l’Unione Europea, che hanno progressivamente imbrigliato l’istruzione in “una rete di poteri pubblici e privati, filantropici e medici, imprenditoriali e familiari” che concorrono a sviluppare “modelli di comportamento di individui performanti e competitivi”, “da monitorare, profilare e valutare” (p. 64) secondo quei criteri che l’”agenda delle istituzioni” ha adottato per loro, e che Scuola – prima – e Università – poi – devono assumere e promuovere affinché siano frutto di una disciplina autonomamente accettata “in nome del proprio bene” (pag. 65). Gli studenti devono imparare ad essere i motori del proprio Capitale Umano, accettando il principio della formazione continua finalizzata alla certificazione delle capacità del “saper fare”, “sapere e dover essere”, ossia delle fantomatiche competenze. Sono proprio le competenze ad offrirsi concretamente come punto di contatto – snodo essenziale tra Istruzione e Lavoro. Esse garantiscono l’equivalenza tra produzione culturale (scolastica e accademica) e risorse umane impiegate nella realtà produttiva: sono l’interfaccia porosa tra Scuola, Università, Impresa, Lavoro. Competenze significano “qualifiche”, nel recente Quadro Nazionale[1], adottato sulla scorta delle indicazioni europee: una vera e propria “mappa” che fa corrispondere alle “uscite” dal sistema di istruzione e formazione gli “ingressi” nelle varie filiere della produzione. Non a caso, l’ente addetto al monitoraggio della corrispondenza competenze/qualifiche è l’Anpal, partorito dal Jobs Act e più volte protagonista delle pagine del libro. Competenze significano “comportamenti oggettivabili” (p.143), intesi come performance, di cui “dare conto” (accountability) e da registrare nel curriculum dello studente. Con La Buona Scuola ogni studente avrà finalmente un suo “libretto delle competenze”[2] anche in formato digitale[3], in cui saranno raccolte tutte le competenze sviluppate e misurate nel percorso di istruzione.
La costruzione dell’”avatar dello studente”, della “nuova carta d’identità con cui Stato e mercato governano l’esistenza” potrebbe essere utile alle imprese per “selezionare il profilo più adatto alle loro esigenze”: un profilo “morale di cittadino responsabile e trasparente agli occhi del panottico che tutto conosce” (pag. 156). Tra i dati e le esperienze raccolte nel portfolio studentesco spiccano due tipi di competenze: quelle certificate dall’Istituto di valutazione INVALSI[4] e i percorsi di alternanza scuola lavoro.

È proprio allo strumento dell’alternanza scuola-lavoro che l’autore dedica la parte centrale del testo, analizzando da punti di osservazione differenti uno degli strumenti principali per diventare Capitale Umano:

1) punto di vista storico-sociale.
Attraverso il paragone con l’istituto delle 150 ore degli anni Settanta e in un’inchiesta che raccoglie alcune esperienze a due anni dall’inizio del grande esperimento sociale della Buona Scuola, Ciccarelli smonta il racconto ipocrita dell’alternanza come “strumento gramsciano” di uguaglianza tra borghesi e operai, dimostrando come essa non si sia rivelata altro che un amplificatore di disuguaglianze e di opportunità tra Nord a Sud, centri e periferie, licei e professionali.

2) punto di vista internazionale.
L’autore marca la differenza sostanziale sia normativa che organizzativa con l’alternanza svolta in Germania, patria del modello di apprendistato ispiratore della politica del duo Renzi- Giannini. In Germania l’apprendistato duale è un obbligo – per gli studenti che seguono particolari percorsi di istruzione – che consiste nella specializzazione di un “mestiere”, svolto per il 70% del tempo nelle aziende e dietro pagamento di un salario da “apprendista”.

3) punto di vista giuridico-normativo.
Ciccarelli sottolinea l’opacità e la pericolosità di un dispositivo (quello dell’alternanza) “ai margini del diritto esistente” in cui i giovani sono “sospesi in uno spazio extra -giuridico” (p. 114) che non li rende né pienamente studenti, avendo “il dovere di rispettare le regole di comportamento, funzionali e organizzative delle strutture ospitanti” (p. 134) né pienamente lavoratori /apprendisti in quanto ancora titolari del diritto-dovere di istruzione e formazione, oltre che privi di un contratto di lavoro e di salario.

Emerge così la natura “vera” dell’alternanza, strumento di trasformazione delle soggettività e del paesaggio educativo:

  1. dispositivo di adattamento ed educazione morale, attraverso il quale far entrare gli studenti a contatto “con le storie, le idiosincrasie, i desideri del mondo degli adulti”, nella società in cui vige il primato culturale dell’impresa: in fondo è questo” l’oggetto del loro apprendimento” (p.115);
  2. dispositivo di destrutturazione dell’organizzazione, delle metodologie didattiche e della relazione insegnante/studente. L’alternanza enfatizza ed introduce surrettiziamente un modello di didattica “ispirata a un saper fare e ad un imparare facendo, trasformando l’insegnamento in un imparare lavorando”. Un nuovo approccio al sapere e allo studio: di tipo funzionale ed operazionale-pragmatico, basato sulle qualità di “intraprendenza, capacità di lavorare in gruppo, auto-efficacia, saper prendere decisioni” (p. 136). Un “soluzionismo” chiamato in base alla moda del momento problem solving o pensiero computazionale, con cui insegnare alla futura forza lavoro a svolgere compiti “quantificabili [..]e misurabili in maniera oggettiva” (p. 144);
  3. strumento di ridefinizione dello status giuridico dell’insegnante: controllore-controllato, misuratore-misurato delle performance degli studenti, quando non tutor interno dei percorsi progettati. Una sorta di consulente-certificatore da affiancare eventualmente con tutor territoriali dell’Anpal, “professionisti esterni il cui compito è vegliare sul funzionamento e la qualità dei percorsi di studio e lavoro” (p. 159), secondo i recenti protocolli di intesa Anpal – Miur;
  4. dispositivo di allineamento (matching), ennesimo intervento di politica attiva del lavoro. L’alternanza, insieme alle varie tipologie di sussidi condizionati e strumenti di flexsicurity, concorre a mettere in corrispondenza il sistema di domanda e offerta. È “un esercizio di adeguamento all’offerta occasionale” (p.76), un’esperienza immersiva del mondo della precarietà e dell’occupabilità, ossia della capacità “di transitare da un’occupazione ad un’altra” (p.149).

Dal quadro tratteggiato dall’autore – riportato solo in parte- emerge con chiarezza che quella del Capitale Umano è ben più di una semplice teoria economica. Piuttosto si tratta di “un rapporto sociale di produzione, basato sulla subordinazione politica e morale” (p. 32): un congegno antropotecnico con cui fabbricare nuove figure sociali e ridefinire lo status della cittadinanza. L’homo competens (p.143) è cittadino solo se lavora e assolve l’obbligo di formarsi, attivarsi e ri-attivarsi perennemente, nell’attraversamento di un mercato del lavoro dissestato e destrutturato da 30 anni di interventi e riforme. Nella società-scuola della formazione continua e della “piena occupazione precaria” (pag. 73), il senso dell’istruzione pubblica, dall’infanzia all’Università, cambia: da funzione-istituzione votata all’interesse generale ad investimento del singolo, impegnato nella competizione di tutti contro tutti.

Il libro, che fin dalla soglia si definisce “esercizio etico di presa di distanza” è disseminato un po’ ovunque di esortazioni alla liberazione. Tuttavia, l’Orizzonte che l’autore vuole offrirci emerge nel capitolo più poetico, l’ultimo: un’ode alla “potenza degli studenti” (p. 205) e – in qualche modo – all’energia e alla vita. Essere studenti, ci ricorda Ciccarelli, significa agire e vivere sottratti dalla logica dell’utilità e della produttività. Una condizione unica nella vita dell’uomo, in cui tutto è ancora possibile, tutto è pensabile e in cui si può “realmente sperimentare la potenza di cui [tutti] disponiamo”. Questo stato di singolare bellezza, spazio vuoto dell’immaginazione, andrebbe “curato, sviluppato e celebrato”, reso comune e disponibile a chiunque non possegga “tempo liberato” (Scuola come scholè, otium) per ragioni di nascita, di censo o di ruolo. Uno stato la cui utilità sta nell’esperienza stessa della sospensione: quell’ impiego libero del tempo per buono o cattivo, produttivo o improduttivo, perso o guadagnato che sia. Un tempo al di fuori dei rapporti familiari e delle regole di condotta di provenienza, lontano dagli obblighi sociali, in cui creare e ricreare il proprio mondo. Cosa possibile “quando conoscenza e pratiche sono lasciate libere di darsi la propria regola” e quando si è “a proprio agio” (p.216) con se stessi e gli altri.

L’autore ipotizza uno strumento concreto per affermare un’idea di Scuola Nuova e una Nuova soggettività: il reddito agli studenti, individuale e incondizionato. Un mezzo a partire dal quale neutralizzare il congegno civilizzatore del Capitale Umano riconoscendo una condizione collettiva: quella di forza lavoro, potenza vitale che ha pieno diritto – dapprima – al tempo liberato in quanto studente e – poi – all’esistenza e alla dignità, in quanto uomo. Un reddito universale.

Le pagine di Ciccarelli ci consegnano un’energia e un impulso ad alzare lo sguardo e provare a vincere quello che sembra un destino inevitabile, ma che è solo frutto della Storia: non una condanna, ma presente transitorio in un futuro imponderabile (“la possibilità di un’emancipazione è immanente alla vita”, pag. 174). L’invito è a svuotare il Capitale Umano che siamo diventati, liberandolo dai nostri corpi con le loro fibre e dalle nostre menti con le loro sinapsi. Un invito a riscoprire la nostra potenza, amplificata da una condizione che riguarda tutti: studenti, insegnanti, lavoratori, abitanti di questa Terra.

 

Rossella Latempa

 

Il saggio è già stato pubblicato su «Sinistrainrete» del 24-01-2019

sinistra

 

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Note

[1] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/01/25/18A00411/sg .

[2] Il commissario europeo all’Educazione E. Cresson ne auspicava uno, a superamento del già allora inattuale “titolo di studio”, nel lontano Libro Bianco del 1996 definendolo “tessera personale delle competenze”, vedi http://www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf pag. 11.

[3] L’autore ci ricorda che è in corso la strutturazione del Portale Unico della Scuola in cui, sotto la tutela del Garante della privacy, rendere accessibili i profili di tutti gli studenti.

[4] Matematica, italiano e inglese.


Rossella Latempa e Giovanni Carosotti | Appello per la scuola pubblica – Torino 9-10 Giugno 2018

Convegno: “Aprire le porte: creazione sociale e pedagogica del mercato”.

 L’insegnante capovolto: anatomia del suo successo

Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci. Cosa significa educare oggi?


 

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Koinè – «Per una scuola vera e buona». La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera. La scuola pietrificata di oggi disconosce la questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento. Bene è tutto ciò che si prende cura del fondamento, cioè dell’uomo.


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