Enrico Berti – Per una nuova società politica

Enrico Bert

I
Credo che il periodo con cui è giusto porre a confronto il momento attuale, per stabilire che cosa è cambiato e che cosa non lo è, sia il quinquennio 1945-1950, perché in esso prese corpo l’insieme di realtà – un tempo si sarebbe detto il «sistema» – che ha caratterizzato, con lievi variazioni, la vita politica e sociale italiana degli ultimi cinquant’anni. Tre sono, mi sembra, i grandi avvenimenti che si sono verificati in quel periodo, cioè il nuovo assetto costituzionale repubblicano, la divisione del mondo in due blocchi ideologico-militari contrapposti, l’avvìo del processo che ha portato l’Italia ad essere uno dei paesi più industrializzati del mondo.
Di questi tre avvenimenti specialmente i primi due hanno stimolato l’impegno politico degli uomini di cultura. Larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente cattolico-democratici e laici, al processo costituente e notevole è stata la loro incidenza. Basti fare i nomi di uomini come La Pira, Dossetti, Fanfani, Mortati, Lazzati, Calamandrei, Basso ed altri ancora, i quali dentro o fuori l’Assemblea costituente hanno elaborato e fatto recepire le idee che stanno alla base della Costituzione italiana. Ugualmente larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente marxisti, alla lotta ideologica con cui la sinistra, in mancanza del necessario consenso politico, ha tentato – secondo il disegno di Gramsci, abilmente sviluppato da Togliatti prima e poi da Berlinguer – di conquistare l’egemonia sulla società civile italiana attraverso la cultura (editoria, cinema, arte e spettacolo in genere). Del processo di industrializzazione, opera degli imprenditori, dei lavoratori e della classe di governo, cioè del potere economico, sindacale e politico, gli intellettuali si sono curati poco, rivolgendo tutt’al più il proprio interesse all’aspetto di esso che più direttamente li toccava, cioè lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e in generale dell’informazione.
Che cosa è cambiato, oggi, rispetto ad allora? Si fa presto a dirlo. Anzitutto sono crollati i regimi comunisti in Europa, sanzionando anche con la fine del pericolo militare quel processo di crisi delle ideologie, in particolare del marxismo, che già era incominciato nel corso degli anni ottanta e che ha prodotto, almeno in apparenza, la diaspora attuale della cultura marxista. Oggi quasi nessun intellettuale italiano si dichiara più marxista, anche se è difficile sapere che cosa accadrebbe nel caso di un forte spostamento a sinistra dell’asse politico del paese. La conseguenza diretta della fine del comunismo è stata la fine dell’unità politica – e, secondo me, anche culturale – dei cattolici italiani, che a sua volta è venuta a sanzionare un processo di secolarizzazione (intesa, dal punto di vista della fede, in senso sia positivo che negativo) in corso ormai da secoli e culminato, per la Chiesa cattolica, nel Concilio Vaticano II. Ma anche la cultura laica ha subìto un processo di «indebolimento», o almeno di de-ideologizzazione, col passaggio dallo storicismo e dal neopositivismo all’ermeneutica. Oggi nessuno più crede a verità assolute, e se qualcuno ancora ci crede – come dovrebbe essere il caso dei cattolici – si guarda bene dal porle alla base di un progetto politico.
Tutto ciò ha finito, innegabilmente, col demotivare l’impegno politico degli intellettuali, anche se, è giusto riconoscerlo, è nata una nuova ragione di impegno per gli uomini di cultura, specialmente per i filosofi, cioè la scoperta dell’etica da parte del mondo della scienza, dell’informazione e della politica. Essa è conseguente ai nuovi problemi posti dallo sviluppo delle tecnologie, specialmente genetiche, ma anche dagli effetti imprevisti prodotti dall’impatto dell’industrializzazione con l’ambiente e dalle dimensioni planetarie assunte dai fenomeni economici (flussi migratori, ecc.). Come ho avuto occasione di sostenere altrove, non solo la medicina ha salvato la vita all’etica (S. Toulmin), ma l’etica ha salvato la vita alla filosofia. È accaduto, infatti, che l’uomo è venuto a trovarsi a corto di ethos, cioè di etica vissuta, proprio nel momento in cui ha raggiunto, in tutta la sua storia, il massimo potere sulla natura e su se stesso, e ciò ha fatto nascere una potente domanda di etica almeno teorica, cioè filosofica, come aiuto per affrontare le nuove emergenze.
Il secondo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni, in Italia come altrove, ma nel nostro paese con particolare intensità, è il declino dello Stato moderno, inteso come istituzione sovrana, centralizzata, burocratica ed onnipresente. Il segno più evidente di tale declino è la perdita, da parte dello Stato, del suo attributo più classico, cioè la sovranità, perdita che oggi è in atto sia ad extra che ad intra. Nei rapporti con l’esterno gli Stati – tutti gli Stati, tranne forse gli U.S.A. – hanno perduto l’autosufficienza, sia economica che militare e scientifico-tecnologica. In Europa in particolare è in atto un processo, lento ma inesorabile, di integrazione economica, militare e politica (quella culturale è sempre esistita), che limita progressivamente la sovranità dei singoli Stati. Nei rapporti interni lo Stato si è rivelato sostanzialmente inefficiente, cioè incapace di soddisfare le esigenze di una società articolata, pluralistica, estremamente complessa, ed ha dovuto quindi lasciare spazio a forme di autonomia locale e a rivendicazioni particolaristiche sempre più forti.
Come ha scritto Bobbio, al posto dello Stato sovrano è nato lo «Stato poliarchico» ed è venuta meno la secolare identificazione tra sfera dello Stato (come centro del potere sovrano) e sfera della politica: quest’ultima si è allargata alla società civile, rendendo sempre più incerti i confini tra il «politico» ed il non-«politico»2. Oppure, come ha scritto Matteucci, stiamo passando dallo Stato moderno allo «Stato post-moderno», il quale più che uno Stato è un «sistema», dove tutto è interdipendente e non ci sono più spazi autonomi, ma non c’è nemmeno più un potere sovrano, né un comune punto di riferimento3. Ma ciò era stato previsto sin dal 1951 da Maritain, che nella raccolta di conferenze americane su L’uomo e lo Stato aveva segnalato la crisi della sovranità e il processo di integrazione degli Stati in società politiche transnazionali, destinate a diventare mondiali.4
Parallelamente alla crisi dello Stato si è determinata la crisi dei partiti politici nazionali come strumenti privilegiati di partecipazione alla vita politica. I partiti tradizionali non solo hanno perduto qualsiasi base ideologica, ma hanno anche cessato di essere espressioni di altrettante culture e pertanto hanno cessato di attirare l’attenzione dei giovani, degli intellettuali, del mondo della cultura in genere. Essi sono rimasti strumenti di potere per politici di professione, interessati alla cultura solo nelle – peraltro frequenti – scadenze elettorali, ma in forma del tutto strumentale, senza alcuna progettualità specifica, pronti nella maggior parte dei casi ad approvare tutto e il contrario di tutto, secondo le contingenti presunte convenienze.
Un terzo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni è l’accresciuta importanza dei mezzi di comunicazione di massa, specialmente della televisione, che ha completamente sostituito il cinema come strumento di persuasione e di orientamento dell’opinione pubblica, non propugnando progetti politici particolari, ma proponendo stili di vita e quindi modi di pensare immediati, inconsci, diffusi a livello di massa. Hanno conservato una certa importanza i tradizionali mezzi stampati, più i quotidiani e i periodici che i libri, a cui si sono aggiunti strumenti nuovi quali videocassette, compact disks e simili, ed a cui è prevedibile che si aggiungeranno nuovi potenti mezzi basati sulle tecnologie informatiche, del tipo Internet. Ciò crea nuovi importanti centri di potere, di carattere editoriale, indispensabili per la promozione e la diffusione della cultura a livello industriale.
A tutto ciò si aggiunga una crisi economica strisciante, diffusa soprattutto nei paesi più sviluppati, la cui espressione più drammatica è l’aumento continuo del tasso di disoccupazione, specialmente giovanile, dovuta in parte al progresso della tecnologia, che rende sempre meno indispensabile la manodopera, in parte all’immigrazione della forza-lavoro dai paesi meno sviluppati ed in parte, probabilmente, ad altri fattori. Tra le tante cose, invece, che non sono cambiate, e che sarebbe stato necessario cambiare, spicca almeno in Italia il sistema formativo scolastico-universitario, che si è semplicemente dilatato, assumendo dimensioni di scuola di massa, senza tuttavia aggiornare la sua struttura, i suoi contenuti, i suoi effetti sul mondo del lavoro e della produzione, per non parlare del suo livello culturale.

II
Benché siano venute meno, a causa dei cambiamenti sopra ricordati, quasi tutte le motivazioni tradizionali dell’impegno politico degli intellettuali, esiste oggi tuttavia un ampio spazio di intervento, per non dire una forte domanda da parte della società, nei confronti dell’impegno politico degli intellettuali, purché esso si manifesti nelle forme che sono proprie della cultura e che garantiscono a questa la maggiore incidenza sulla vita sociale. Gli intellettuali oggi non sono più chiamati a sostenere una determinata parte politica, a contribuire alla conquista di un’egemonia o ad opporsi alla minaccia di un pericolo incombente. La figura dell’intellettuale organico ad un partito, di gramsciana memoria, è – si spera – definitivamente tramontata. Gli intellettuali oggi sono più liberi, non sono tenuti a rispettare nessuna ortodossia, non devono più temere scomuniche né ecclesiastiche né laiche (salvo, forse, i teologi, quando però sono a carico di un’istituzione privata come una chiesa).
Gli spazi di intervento che si aprono agli uomini di cultura, in particolare dei filosofi, nei quali talvolta la loro presenza è addirittura invocata, sono molteplici. Ho già ricordato la scoperta dell’etica, nell’ambito della quale però andrebbe finalmente superata la tradizionale e vetusta contrapposizione fra cattolici e laici e dovrebbero essere cercate delle basi comuni, indispensabili per concordare quelle discipline di carattere legislativo delle nuove pratiche tecnologiche, che tutti auspicano e che hanno comunque bisogno di un largo consenso. A questo proposito non mi stancherò mai di segnalare la possibilità di assumere come premesse le dichiarazioni dei diritti, contenute nelle carte costituzionali dei vari Stati e nei documenti delle organizzazioni internazionali, e di svolgerne coerentemente le implicazioni di carattere applicativo, in ordine a temi come la vita, l’identità personale, la libertà, l’uguaglianza.5
Anche il settore della formazione, sia scolastica che universitaria, può essere un settore di intervento incisivo da parte degli uomini di cultura, a condizione che sappiano trovare le forme più idonee ad ottenere ascolto dai responsabili delle riforme. Esistono, ad esempio, associazioni professionali o disciplinari che in qualche momento della vita politica italiana hanno trovato ascolto presso le istituzioni e che dovrebbero essere il terreno ideale per l’impegno dei professionisti della cultura. Credo, ad esempio, che l’Unione dei matematici italiani (UMI), la Società Italiana di Fisica e la Società Filosofica Italiana abbiano avuto l’occasione di influire positivamente nell’elaborazione dei nuovi programmi della scuola secondaria superiore, all’interno della cosiddetta Commissione Brocca. E, se mi è consentito dagli amici direttori di questa rivista un riferimento di carattere personale, devo lamentare lo scarso interesse dei filosofi italiani di apparteneneza universitaria per un lavoro di collaborazione con i colleghi della scuola secondaria, che porti ad una profonda trasformazione del sistema formativo nello specifico ambito disciplinare.
Prima di affrontare quello che considero il terzo, e più importante, settore di intervento per gli uomini di cultura sensibili all’impegno politico, desidero però accennare ad un compito specifico degli intellettuali che svolgono la loro professione nell’università. L’insegnamento universitario, data l’età e la composizione sociale dei suoi destinatari, è un’occasione privilegiata e forse unica di testimonianza civile. Spesso i movimenti culturali più innovatori e impegnati anche politicamente nascono proprio dalle università: così è accaduto nel risorgimento, nella resistenza ed anche in quanto di positivo ha offerto la contestazione del Sessantotto e dintorni. Ma quasi sempre l’iniziativa è stata esclusivamente degli studenti, con i docenti in posizione di attesa, pronti a cavalcare la tigre della rivoluzione studentesca nel caso in cui questa avesse successo, o ad atteggiarsi a vittime degli studenti nel caso in cui fossero da questi contestati.
Pochi sono stati, purtroppo, gli esempi di coraggio, di difesa delle libertà, di denuncia delle violenze, offerti da docenti e da intellettuali impegnati. Eppure la testimonianza quotidiana di senso civico, di sollecitudine per la libertà e la serietà degli studi, di attaccamento alle istituzioni democratiche, la cui occasione viene offerta da quella meravigliosa possibilità di vivere in mezzo ai giovani che solo il docente universitario possiede, potrebbe costituire il momento più efficace di un impegno civile e politico, quale che sia la specialità disciplinare nella quale si esercita l’insegnamento e la ricerca, ma a maggior ragione soprattutto quando si insegnano e si praticano discipline filosofiche, cioè quando si parla ogni giorno di idee, di valori, di movimenti ideali, di rivoluzioni culturali e scientifiche.
Ma veniamo al punto più importante, cioè quello connesso al declino dello Stato moderno in generale ed alle particolari caratteristiche che questo fenomeno ha assunto in Italia. È opinione diffusa che, fermi restando i grandi princìpi enunciati nella prima parte della Costituzione – di cui tutti dovrebbero essere grati agli uomini di cultura impegnati nella stagione costituente del 1946-’47 –, sia giunto il momento, per il nostro paese, di ridisegnare la forma dello Stato, non solo per quanto riguarda gli organi di governo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda la sua articolazione nella società. Il gran parlare che si fa di federalismo e l’inopinata, anche se sicuramente anacronistica, velleitaristica e probabilmente ipocrita, proposta di rottura dell’unità politica del paese da parte di alcune forze politiche, non sono che l’aspetto più superficiale di una crisi dello Stato che significa essenzialmente inefficienza, impotenza, disorganizzazione, sperpero.
Osservava Bobbio nello scritto sopra citato che la perdita della sovranità da parte dello Stato ha allargato la sfera del «politico» oltre i limiti dello Stato medesimo, fino ad investire la stessa società civile. Ora, è appunto assiomatico che, col progressivo venir meno dello Stato inteso come il luogo in cui si concentrava l’intera vita politica – il monopolio, per dirla con Weber, dell’uso legittimo della forza – venga meno anche la cosiddetta società civile, intesa come la sfera dei rapporti privati («privati», voce del verbo «privare», appunto del potere politico), che è sorta all’inizio dell’età moderna contemporaneamente allo Stato, che si è posta per alcuni secoli in opposizione dialettica con quest’ultimo – Hegel e Marx insegnano ­–, e che è destinata a scomparire con la scomparsa dello Stato moderno.
Nel luogo, ed al posto, dello Stato e della società civile rimane la vera e propria «società politica» (koinonìa politikè, come dice Aristotele), cioè la polis, che non è lo Stato, come spesso a torto si crede, bensì l’insieme di tutte quelle persone che, volenti o nolenti, devono convivere e collaborare alla realizzazione di fini comuni (e quindi non particolari, non economici, ma politici). Ma questa società politica, nel momento della crisi dello Stato moderno, deve darsi nuove forme di organizzazione, deve inventare istituzioni meno sclerotiche, meno burocratiche, meno centralizzate, più articolate, più pluralistiche, più conformi al «principio di sussidiarietà», quello per cui è non solo ingiusto, ma anche dannoso, affidare a istanze superiori e più lontane dai destinatari le decisioni che possono essere utilmente prese da istanze inferiori, cioè più vicine ai destinatari stessi.
Si tratta, insomma, di dar vita a una «nuova società politica», ad una nuova forma di polis adatta all’età dell’informatica, delle interdipendenze planetarie, ed insieme della frammentazione, del particolarismo, del trionfo della soggettività, in cui si superi la contrapposizione di pubblico e privato, di «statale» e «locale». Non sono, come è noto, un politologo – anche se mi appassiona la filosofia della politica6 –, ma credo che una struttura di tipo federale, cioè fortemente articolata al proprio interno in molteplici poteri autonomi, integrata in forme di comunità sovranazionali a loro volta organizzate in senso federativo, possa essere il tipo di organizzazione valido, se non per i prossimi secoli, almeno per un buon numero di prossimi decenni.
Non credo, invece, al potere magico di presidenzialismi o semipresidenzialismi, che moltiplicherebbero inutilmente le espressioni della volontà popolare, già augurabilmente organizzate in molteplici e diversi livelli, e non avrebbero più la presunta giustificazione della difesa di un’unità nazionale del tutto superflua e superata da più complesse strutture federate e integrate. Credo, invece, alla perdurante validità dell’istituto della rappresentanza, anch’essa articolata in una molteplicità di organi collegiali particolari e culminante in un parlamento federale, ed in un governo che di esso sia espressione diretta, dotato di quel minimo indispensabile di poteri che non possono essere affidati con successo alle molteplici istanze locali.
Una simile società politica non potrebbe essere qualificata da nessun aggettivo particolare: non potrebbe essere né una società cristiana (lo dico ad alcuni miei compagni di fede), perché dovrebbe essere il luogo di piena realizzazione anche dei musulmani, degli ebrei e dei non credenti; non potrebbe essere una società socialista, perché le differenze di classe, già in via di attenuazione, dovrebbero prima o poi scomparire completamente (ed in questo mi ritrovo con Marx); ma non potrebbe essere nemmeno una società liberale, nel senso tradizionale del termine, cioè capitalistica, per la stessa ragione (socialismo e capitalismo vanno infatti a braccetto, come Stato e società civile). Lo spazio dell’iniziativa economica privata, come quello dell’iniziativa economica pubblica (non più statale, ma dei poteri autonomi) si andrà progressivamente restringendo, mano a mano che verrà meno la contrapposizione fra pubblico e privato, cioè fra Stato e società civile, mentre crescerà progressivamente lo spazio di quello che è oggi il cosiddetto «terzo settore», cioè il settore delle iniziative economiche «non-profit», vale a dire della cooperazione sociale, del volontariato, della solidarietà, anche verso i paesi dell’attuale «terzo mondo», non per altruismo, ma per un’elementare necessità di sopravvivenza.
Se si dovesse qualificare con un aggettivo la nuova società politica – ma non è necessario –, si dovrebbe ricorrere al più generale e svincolato da ogni ideologia, cioè chiamarla semplicemente società più umana o, come soleva dire Giuseppe Lazzati, «città dell’uomo», cioè una società avente per fine il bene comune, inteso come possibilità di piena realizzazione per ciascuno, e quindi implicante come suoi momenti fondamentali la libertà e la giustizia. Ma ci si potrebbe richiamare anche a fonti più «laiche», quali la Arendt di Vita activa e l’ultimo Habermas. Credo che la configurazione più determinata e lo studio delle condizioni di fattibilità di un simile progetto abbiano motivo di interessare i filosofi e possano quindi giustificare un loro rinnovato impegno politico.

III
Nella descrizione dei suddetti settori di intervento è già contenuta l’indicazione di quella che dovrebbe essere, oggi, la forma in cui l’impegno politico degli intellettuali potrebbe prendere corpo. Se ci rifacciamo ai due grandi modelli classici di impegno politico dei filosofi, quello platonico e quello aristotelico, vediamo che essi divergono in un punto essenziale.
Per Platone, come è noto, la polis non sarà mai giusta, fino a quando i filosofi non prenderanno il potere, cioè non andranno direttamente al governo, o i governanti non diventeranno filosofi, ipotesi entrambe alquanto pericolose per una società complessa come quella contemporanea, perché non fondate sull’istituto democratico della rappresentanza. Per Aristotele invece l’azione politica diretta, cioè il governo, è affare non dei filosofi, quantunque pratici, ma degli uomini politici «saggi» (phrònimoi), e la realizzazione di una buona società politica, tramite una buona «costituzione», è compito soprattutto dei saggi legislatori. Nei confronti di costoro i filosofi hanno il compito di illustrare le diverse costituzioni possibili e di indicarne la migliore, o la più adatta alle diverse circostanze, o la più facilmente realizzabile tra quelle sopportabili.
Oggi il modello platonico di impegno politico può essere realizzato, nel rispetto dell’istituto della rappresentanza, in due modi: mediante l’elezione dei filosofi al parlamento o mediante la nomina di filosofi in un governo che abbia la fiducia del parlamento. Confesso di essere piuttosto scettico circa la possibilità di reale incidenza sulla politica del paese da parte di un parlamentare eletto in quanto filosofo, cioè non in quanto dirigente di partito o politico di professione. Mi è stata più volte offerta tale possibilità, ma ho sempre rifiutato, nella convinzione di poter fare di più nel piccolo ambito della mia professione di docente universitario, scrivendo libri e articoli, o formando studenti e nuovi docenti, piuttosto che all’interno di un gruppo parlamentare o di una commissione condizionati da esigenze e problemi ben diversi da quelli di mia competenza.
Ho anche notato, pur avendo militato in partiti più nobili di quelli coinvolti in «tangentopoli», cioè nella Democrazia cristiana dei tempi di Moro e Zaccagnini e nell’attuale Partito popolare italiano, che l’apertura delle proprie liste elettorali agli uomini di cultura è spesso strumentale, cioè dovuta solo alla speranza – spesso infondata – di raccogliere più voti, e che l’eventuale elezione si scontra subito con la gelosia, manifesta o latente, dei professionisti della politica, i quali si sentono in un certo senso derubati del mestiere, se non addirittura del «posto». Ma, naturalmente, posso sbagliarmi e non escludo che altri colleghi, più bravi o più fortunati di me, possano riuscire là dove io certamente non sarei riuscito.
Non credo di sbagliarmi, invece, nel ritenere che la politica, come ha detto Weber, sia necessariamente una vera e propria professione, la quale esige una dedizione a tempo pieno. Questo non è un bene, perché la politica come professione porta l’uomo politico a sovrapporre inevitabilmente ai fini politici, cioè universali, per la cui realizzazione è impegnato, gli interessi personali, cioè particolari, alla conservazione del potere, della carriera, del «posto». Però credo che sia una necessità insuperabile, dato il carattere estremamente complesso dell’attuale vita politica e il bisogno che il politico ha di un’enorme quantità di tempo per informarsi, documentarsi, curare i necessari rapporti con gli elettori, con i colleghi, con la stampa, senza i quali non può avere alcuna incidenza.
Credo inoltre altrettanto fermamente, sempre con Weber, che sia una professione non solo la politica, ma anche la «scienza», cioè la ricerca, la vita intellettuale, e che anch’essa abbia le sue esigenze, di tempo, di energie, di impegno, il cui mancato rispetto conduce inevitabilmente ad una perdita di quell’incidenza che è propria della scienza, cioè il contribuire in maniera originale al progresso degli studi, la capacità di richiamare l’attenzione degli specialisti sui propri lavori, il lasciare un traccia nella letteratura relativa agli argomenti di cui ci si occupa. Inoltre, in conformità col doppio significato del termine weberiano Beruf, cioè professione e vocazione, penso che tanto la politica quanto la ricerca siano anche una vocazione, cioè un’attitudine ed al tempo stesso una passione, e che sia difficile avere contemporaneamente due vocazioni.
Più efficace, ma anche più difficile da attuare, mi sembra il secondo modo in cui può essere realizzato il modello platonico di impegno politico, cioè l’assunzione diretta da parte di un filosofo di una responsabilità di governo, per esempio come ministro, o come assessore, oppure – secondo alcuni illustri esempi che vediamo oggi – come sindaco di un’importante città. In questi casi infatti è più probabile che egli venga scelto anche per le sue specifiche competenze, ed ha sicuramente più poteri di un parlamentare o di un semplice consigliere. Più facile è che venga scelto un manager, o un economista, o un giurista, cioè quello che si chiama comunemente un «tecnico», ma in tal caso gran parte del carattere platonico della scelta va perduto, perché viene meno proprio quella visione sinottica, cioè non specialistica, non tecnica, dei problemi che per Platone giustifica la coincidenza tra governante e filosofo.
Il modello aristotelico non comporta un’assunzione diretta di responsabilità di governo, né nel potere legislativo né in quello esecutivo, ma un’opera di informazione e, nel migliore dei casi, anche di formazione, esercitata dal filosofo nei confronti dell’opinione pubblica e talvolta anche della classe politica. Essa si realizza attraverso la pubblicazione di articoli nei quotidiani, la concessione di interviste per la radio e la televisione, lo svolgimento di conferenze, la partecipazione a convegni, l’intervento in «tavole rotonde», ma anche l’elaborazione di veri e propri trattati scientifici o, meglio, filosofici, che siano capaci di richiamare qualche attenzione e quindi di lasciare un segno. Una simile forma di impegno non è incompatibile con una certa militanza politica, che va dalla partecipazione ad associazioni di cultura politica – per quanto mi riguarda, ho presenti «Città dell’uomo» fondata da Lazzati e «Carta ‘93» – all’adesione a veri e propri partiti politici, ma sempre senza responsabilità dirette di guida, di organizzazione, di decisione, per le suddette ragioni di tempo e di competenza.
Questo mi sembra il tipo di impegno politico oggi auspicabile per un filosofo, soprattutto in relazione ai suddetti settori dell’etica, della formazione e delle riforme costituzionali; perciò non apprezzo, pur rispettandolo, il totale disimpegno di molti colleghi che considerano la filosofia una turris eburnea in cui rinchiudersi, per dedicarsi esclusivamente alle proprie personali speculazioni. Credo, con i grandi filosofi greci, ma anche con Kant, ed oggi con Apel, Habermas, Davidson, Putnam, Toulmin e molti altri, che la filosofia sia essenzialmente comunicazione, discussione, argomentazione, e che pertanto il luogo di essa non sia il «tempio», ma la «piazza» (l’agorà di Socrate). Del resto anche i filosofi più disimpegnati desiderano molto di pubblicare – almeno quelli di cui per questa ragione è nota l’esistenza –, il che significa che annettono qualche importanza alla comunicazione.
Le metafore della visione e dell’ascolto, che spesso sono state usate nella storia per qualificare la filosofia, non mi persuadono completamente. Penso che la visione, naturalmente come metafora, quindi l’intuizione, il coglimento diretto, sia un atto più proprio dell’arte che della filosofia, anche dell’arte poetica e musicale, e che in filosofia si giunga a «vedere» – se mai vi si giunge – solo dopo essere passati, per dirla con Platone, spesso invocato dai fautori della visione, «attraverso tutte le confutazioni» (dià pànton elènchon). Quanto all’ascolto, che non sia semplicemente ascolto delle voci degli uomini, ma sia ascolto dell’essere, della natura, della storia, di Dio, del nulla, o di qualsivoglia altra voce non umana, penso che non sia affare della filosofia, ma piuttosto della religione o di altre forme di sapienza.
La metafora che esprime meglio l’attività del filosofare è quella del dialogo, inteso non come semplice conversazione, ma nel senso forte di discussione, in cui si formula un problema, si prospettano tutte le possibili soluzioni e si cerca di confutarle una per una, per vedere se ce n’è qualcuna che resiste alla confutazione, e per quanto tempo vi resiste, ed a quali condizioni. In ciò mi sento vicino a Popper, anche se Popper limitava tale metodo alla scienza, non ammettendo altra forma di razionalità. Questo atteggiamento fa della filosofia qualcosa di molto simile alla politica, almeno ad una politica che non sia solo decisione immediata, ma deliberazione a ragion veduta, presa dopo che sono state soppesate le ragioni a favore e contro. Perciò vedo del tutto naturale l’impegno politico conforme al modello aristotelico per quanti concepiscono la filosofia come argomentazione, cioè come procedura razionale. Del resto esso è stato anche la forma di impegno politico dei filosofi più frequente lungo il corso della storia, almeno in Occidente.
Certo, credo che in determinati momenti gli uomini di cultura debbano essere disponibili anche per un impegno maggiore, di tipo «platonico», e credo che si debba essere grati, ad esempio, a quegli intellettuali ed a quei «professori» che hanno fatto la Costituzione italiana. Se gli uomini di cultura, in quel momento, non avessero risposto all’appello della politica, la costituzione sarebbe stata opera di politicanti di professione o di persone elette spesso in modi abbastanza casuali. Personalmente sono anche grato ad un uomo come Romano Prodi, che un bel giorno ha chiuso con la professione di scienziato per dedicarsi a quella di politico, perché senza questa sua decisione non so come avrebbe potuto formarsi una coalizione alternativa a quella conservatrice (questa non è la captatio benevolentiae servile dell’intellettuale nei confronti del potente, perché non so se al momento della pubblicazione di questo articolo Prodi sarà ancora presidente del Consiglio e in ogni caso non mi sembra molto potente).
Ma la sola disponibilità dell’uomo di cultura non basta, se non c’è anche una strategia, un’organizzazione, un collegamento organico con alcune forze politiche, e soprattutto una grande disponibilità di tempo, di energie, di passione, che si configura appunto come una nuova vocazione. Per fortuna, direi, alcuni uomini di cultura talvolta hanno questa vocazione, per fortuna (o sfortuna, secondo i punti di vista) nostra, non certo per fortuna loro, perché credo che vengano a trovarsi in situazioni tutt’altro che invidiabili. Chi non sente questa vocazione, può rendersi ugualmente utile facendo bene il proprio mestiere e magari impegnandosi anche a contribuire, con un apporto di idee, di obiezioni, di argomentazioni, alla realizzazione di quella nuova società politica di cui ho parlato sopra, la quale mi sembra una necessità a cui non si può rinunciare.