Tiziano Fratus – C’è una grammatica che attende soltanto di essere parlata, una lingua che abbiamo dimenticato allontanandoci dal cuore selvatico della nostra immaginazione.

B come Bosco, come i boschi e gli alberi del nostro Paese. Bellezze da contemplare e salvaguardare e che spesso sono in pericolo: perché gli alberi non hanno bisogno di noi. Ma noi abbiamo bisogno di loro.

 

Il bosco è un mondo

Il bosco è un mondo

 

«C’è una grammatica che attende soltanto di essere parlata, una lingua che abbiamo dimenticato allontanandoci dal cuore selvatico della nostra immaginazione: qualcuno la chiama boschese, qualcuno la chiama naturalezza, qualcuno la chiama selvatichezza. Ma non importa il suono delle parole che adottiamo, conta piuttosto il nostro fare ritorno alla radice dell’esistenza, a quel posarsi d’una foglia al suolo, al levarsi del sole, ogni mattina, da dietro le montagne. Siamo parte di questo istinto al movimento, […] un dono immenso».

Tiziano Fratus, Il mondo è un bosco, Einaudi, 2018.

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Tiziano Fratus, incontrando le sequoie millenarie in California e i boschi vetusti ai piedi delle Alpi, ha coniato il concetto di “Homo Radix”, a cui sono seguiti la disciplina della “dendrosofia” e la teoria del “Quinto Umanesimo” che ha sviluppato in diversi libri fra i quali Manuale del perfetto cercatore d’alberi (Feltrinelli), Ogni albero è un poeta (Mondadori), I giganti silenziosi (Bompiani) e L’Italia è un giardino (Laterza). Collabora con i quotidiani «La Stampa» e «il manifesto» e conduce la trasmissione Nova Silva Philosophica su «Radio Francigena». Sue poesie sono state tradotte in 9 lingue e pubblicate in 16 paesi e saranno presto raccolte nell’opera Arborgrammaticus. Per Einaudi ha pubblicato Il bosco è un mondo (2018). Sito: www.homoradix.com



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Romano Màdera – Entro le coordinate del capitalismo globale la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita.

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Sconfitta e utopia

Sconfitta e utopia

 

«Entro le coordinate del capitalismo globale la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita (come aveva cominciato a teorizzarla Debord), sia perché attraverso lo spettacolo la tendenza al consumo colonizza un’altra rilevante parte della vita, mettendo al lavoro il tempo di non-lavoro, sia perché lo spettacolo […] tende a sganciare il valore di scambio da un uso qualsiasi, ampliando la scala dello scambio a ogni virtualità immaginabile e, parallelamente, vendendo il necessario non per le sua qualità intrinseche, ma per l’aura che la sua presentazione riesce a evocare»

Romano Màdera, Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche, Mimesis, 2018.

 


Quarta di copertina

È all’interno del nodo che lega teoria del feticismo e teoria del valore che risiede la fondazione, secondo Marx, della teoria rivoluzionaria. È proprio a questo fondamento che deve mirare la critica: sotto le vesti della teoria bisogna infatti procedere, ormai, a fare i conti con il fallimento pratico di un progetto di liberazione che, in quanto tale, è rimasto soltanto una vaga intuizione. A cinquant’anni dal 1968, Romano Màdera – filosofo e psicoanalista che di quella sinistra extraparlamentare fu una delle anime (fondatore del gruppo “Gramsci” e redattore di “Rosso”) – riprende e aggiorna le considerazioni formulate in uno dei suoi più noti scritti post-sessantottini (Identità e feticismo, 1977) per osservare dalla giusta distanza cosa è rimasto di quella magnifica illusione. Oggi, in un mondo dominato da una globalizzazione che affossa le classi subalterne, viene da domandarsi se le categorie marxiane non siano divenute radicalmente inadatte, con l’insistere sui concetti di classe e di coscienza di classe, a descrivere i bisogni qualitativi che, in modo confuso, magmatico, hanno comunque risvegliato una speranza di liberazione dentro la storia contemporanea.

Romano Màdera, professore ordinario di Filosofia morale e di Pratiche filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Fa parte delle associazioni di psicologia analitica AIPA e IAAP, del Laboratorio Analitico delle Immagini e della redazione della Rivista di Psicologia Analitica. È fondatore di Philo – Pratiche filosofiche e di SABOF (società di analisi biografica a orientamento filosofico). Tra le sue pubblicazioni: L’animale visionario (1999); La filosofia come stile di vita (con L.V. Tarca, 2003); Il nudo piacere di vivere (2006); La carta del senso (2012); Carl Gustav Jung (2016).



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Christopher Lasch (1932-1994) – Il capitalismo assoluto pone tutto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. La tolleranza diventa indifferenza, il pluralismo culturale, deprivato di giudizio etico, degenera in mero spettacolo estetico e rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso.

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La ribellione delle elites

La ribellione delle élite

Salvatore Bravo

Recensione al libro di Christopher Lasch,

La ribellione delle élite

 

 

Il capitalismo assoluto è il regno dell’astratto, il regno del rigor mortis contrapposto alla vita. La concretezza è spirito vitale, prassi, trasformazione sociale e personale. Il concreto è pratica antinichilistica, poiché la concretezza è il concrescere dell’universale e del particolare. Il nichilismo è astratto, è la pratica atomistica dell’irrilevanza. L’astratto è separazione: ogni elemento, ogni ente, ogni essere umano è assunto nella sua cesura col mondo. Non può essere altrimenti. Per poter usare, bisogna separare, per poter ridurre tutto a semplice valore di scambio, tra l’usante e l’usato non deve intercorrere relazione alcuna. La violenza ha le sue leggi. La razionalità calcolante astrae il plusvalore, riduce a plusvalore ogni tocco, ogni sguardo. L’impero del valore di scambio, ha trasformato in realtà lo stato di natura posto come ipotesi da Hobbes. L’astratto ha cognizione dell’attività, ma non della prassi, in quanto la seconda implica un processo di trasformazione qualitativa e coscienziale. Nell’astratto non vi è che la riproduzione sempre uguale dei rapporti di produzione alienati, sotto il suo imperio annichiliscono le culture, le lingue, i paesaggi: è un buco nero che pare inarrestabile e minaccioso. La paura della desertificazione, dell’estinzione della vita viva, non è insuperabile. Le parole, il logos sono con noi, dunque possono porci in una condizione di consapevolezza, di distanza domandante, mentre la condizione astratta non ha parole per decodificare le circostanze in cui si è gettati. Il nichilismo è una pratica e non una teoria, affermava Costanzo Preve. Il nichilismo avanza con le sue ideologie, con la scomparsa del mondo autentico per il virtuale. Christopher Lasch, in La ribellione delle élite, descrive il ripiegamento delle classi dirigenti su se stesse, la loro fuga dagli spazi della democrazia e dunque dalle responsabilità sociali. L’astrazione si palesa nel loro dorato isolamento che rende il mondo incomprensibile e nemico. La borghesia scompare e con essa scompare la coscienza infelice, la pratica della contraddizione, del negativo che crea e trasforma; al suo posto solo la squallida difesa ideologica del proprio orticello economico dalle dimensioni globali. Interessi ovunque, ma il cuore come la testa in nessun luogo. L’attività nichilistica ha il suo epifenomeno in una tolleranza che diventa indifferenza, nel multiculturalismo che diviene spettacolo. La discesa agli inferi è lastricata come via del denaro, dello sfruttamento camuffato, dell’assenza di limiti. Il capitalismo assoluto non vuole limiti etici ed estetici, è il regno di una brutale indifferenza che vorrebbe realizzare anche l’impossibile. Esso deve desimbolizzare tradizioni nazionali come paradigmi etici, tutto dev’essere posto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. Non resta dunque che un multiculturalismo da spettacolo, da esibizione in nome della tolleranza, del regno dell’indifferenza:

 

«Ma in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanze dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui. La sospensione del giudizio etico, secondo la versione corrente del pluralismo, quale che sia, rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso. Tutto quanto possiamo permetterci, stanti le definizioni correnti di diversità culturale è l’apprezzamento estetico». [1]

 

Il giudizio etico necessita di impegno, ha inevitabili implicazioni dialettiche. La fatica del negativo rende la persona partecipe e propositiva, disegna limiti e con essi pone un confine al mercato, al valore di scambio. La tolleranza che diviene indifferenza spinge invece verso il declino della cittadinanza attiva, motiva alla semplice curiosità senza coinvolgimento. Non ci si conosce che in modo fugace ed epidermico: in tal modo il pluralismo culturale diviene la giustapposizione di persone senza relazioni. L’assenza della comunità, della conoscenza dell’altro, rende lo sradicamento un’abitudine, un comportamento reso ipostasi. Il fine è rendere impossibile ogni concretezza, ogni prassi comunitaria. L’indifferenza non crea nulla, rafforza il valore di scambio, svuota le istituzioni democratiche del loro senso: il nichilismo avanza sostenuto dall’arretramento di ogni senso di civica solidarietà. Il timore di ogni valore comune, della ricerca argomentata della concretezza universale è neutralizzata con lo spauracchio del fascismo e del nazismo in assenza di essi:

 

«La nostra società è stretta dalla morsa di due grandi paure, entrambe paralizzanti: la paura del fanatismo e quella della guerra razziale. Proprio perché abbiamo scoperto in ritardo la contingenza di tutti i sistemi di credenze siamo ossessionati dai timori che nascono quando si considerano universali delle verità parziali. In un secolo dominato dal fascismo e dal comunismo, questo terrore è comprensibile, ma ormai si può sostenere, senza essere accusati compiacenza, che la minaccia totalitaria sta svanendo». [2]

 

La paura del fascismo e del nazismo è sventolata dinanzi a coloro che cercano ed affermano la possibilità dell’universale. Tacciare di intolleranza chiunque non si unisca al coro della facile indifferenza, mostruosizzandolo, è il nuovo mezzo con cui opera la censura. Si resta in una logica dicotomica, da una parte i fascisti dall’altra i buoni e giusti per i quali la condizione attuale è il migliore dei mondi possibili. Ogni dialettica si ritira dal mondo. Il logos – che per natura è comunicazione, dialogo –, nel suo tramonto allunga le ombre sulla democrazia. C. Lasch giudica la democrazia in pericolo in assenza dell’anima che dovrebbe renderla luogo di formazione e partecipazione. La borghesia sostituita dalla finanza è il veleno mortale che la democrazia beve quotidianamente. L’indifferenza diviene livellamento culturale. La finanza non produce classi dirigenti, ma solo servi fedeli. Il livellamento verso il basso rende l’elaborazione di nuovi progetti politici improbabili, il sistema si difende livellando, non chiedendo nulla ai suoi giovani, lascia che l’anomia li formi, che gli analfabeti mediatici possano lasciare ai padroni spazi di potere sempre più ampi:

 

«Ma se si concede a ogni impulso di venire pubblicamente espresso, se si afferma sfacciatamente che “è vietato vietare”, come suonava lo slogan rivoluzionario del ’68, non ci si limita a promuovere l’anarchia: si aboliscono quelle “sacre distanze” da cui dipende in definitiva, la categoria stessa di verità. Quando ogni espressione è egualmente lecita, nulla è vero. Con la creazione di opposti … ideali di verità militanti, si sanziona la terrificante capacità dell’uomo di esprimere qualsiasi cosa». [3]

 

Lasch dunque delinea il pericolo del vuoto creato dalle classi dirigenti, dal loro fanatico culto del nichilismo finalizzato alla sola economia. La verità vuole distanza. Ovvero, affinché la verità possa trovare le condizioni di emergenza è necessario il pensiero. Il cogitare necessita che il soggetto non sia continuamente preda del mercato, sottoposto ad una stimolazione ossessiva che lo riduce a semplice attività biologica. La democrazia esige spazi in cui il mercato non deve entrare altrimenti divora l’essenza stessa della democrazia: la parola, il logos, il pensiero. Il nichilismo avanza nella forma del mercato, non vi sono contrappesi al nuovo Leviatano. La famiglia, quale luogo formativo dove si impara la comunione dei beni e la solidarietà – dunque forma di resistenza critica alla privatizzazione – è invasa dal mercato, come accade per la scuola. In assenza di contrappesi la democrazia è in pericolo:

 

«Invece di fungere da contrappeso al mercato, in sostanza, la famiglia è stata invasa dal mercato, che ne ha minato le basi».[4]

 

Le piattaforme mediatiche non possono certo sostituire i corpi medi che formano il cittadino: la parola vuole vicinanza, concretezza, solo in tal modo la parola dinanzi allo sguardo dell’altro può assumersi la responsabilità del dialogo. Le forme alternative di comunicazione, la democrazia diretta in piattaforma, risponde allo scollamento tra parola, partecipazione e responsabilità. La distanza spaziale, la scomparsa della comunicazione viva, dei corpi viventi che si confrontano senza vie di fughe facili e comode è il volano dello svaporarsi della creatività e della resistenza. Il testo di Lasch è una difesa della democrazia contro il nichilismo che la divora, che svuota le sue istituzioni a favore del deserto che sembra avanzare inesorabile.

Salvatore Bravo

[1] C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 75.

[2] Ibidem, pag. 77.

[3] Ibidem, pag. 180.

[4] Ibidem, pag. 83.

 



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César Vallejo (1892-1938) – Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla.

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César Vallejo, in un disegno di Pablo Picasso

César Vallejo, in un disegno di Pablo Picasso

César Vallejo

1892 – 1938

Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo,

fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire

orizzontalmente, non verticalmente,
cioè spalla contro spalla

 

A cura di Fernanda Mazzoli

 


Scarica e stampa il file PDF di 17 pagine:

Fernanda Mazzoli, César Vallejo

Vallejo,+César[1]

César Vallejo nasce nel 1892 in un villaggio andino, ultimo di undici fratelli, figlio di un alcalde e nipote di due nonne indiane. Era un albino, un cholo (meticcio) – come si definì lui stesso – e che farà del paesaggio della sua infanzia, silenzioso, aspro e duro, un paesaggio dell’anima tormentata da una ferita incurabile.
Studente brillante, nel 1910 si iscrive alla Facoltà di Lettere della città di Trujillo, ma, per sopravvivere, deve lavorare come impiegato nelle miniere di Quiruvilca e poi nell’amministrazione di una piantagione di canna da zucchero, dove scopre la dura condizione dei peones e si avvicina all’APRA (Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana), un movimento che inscriveva la specificità ibero-americana nelle radici indio.

Rubén_Darío

Rubén Darío.

Attivo negli ambienti intellettuali e artistici di Trujillo, inizia molto presto a pubblicare i suoi versi in diverse riviste. Sensibile alle influenze del modernismo del nicaraguense Rubén Darío, così come alla grande poesia spagnola del Siglo de oro e alle nuove tendenze poetiche venute d’Europa, la sua poesia si nutrì tuttavia quasi visceralmente, anche negli anni di un esilio senza ritorno, delle reminiscenze della terra natale, gli scoscesi altopiani delle Ande.

 

Frequenta il "Grupo Norte" in Perù.

Frequenta il “Grupo Norte” in Perù.

Dove conosce altri intellettuali della sua epoca

Dove conosce altri intellettuali.

 

 Il giovane Vallejo.

Il giovane Vallejo.

 

Era domenica

Era domenica nelle chiare orecchie del mio asino,
del mio asino peruviano in Perù (scusate la tristezza).
Ma oggi sono già le undici alla mia esperienza personale,
esperienza di un solo occhio, inchiodato in pieno petto,
di una sola asineria, inchiodata in pieno petto,
di una sola ecatombe, inchiodata in pieno petto.

È così che rivedo le colline ritratte della mia terra,
ricche in asini, figli di asini, genitori a venire,
che ritornano già dipinte di credenze,
colline orizzontali dei miei dolori.

Sulla sua statua, di spada,
Voltaire incrocia la sua cappa e guarda il piedistallo,
però il sole mi penetra e caccia dai miei incisivi
un numero crescente di corpi inorganici.

E sogno allora di una pietra
verdastra, diciassette,
roccia numerale che ho dimenticato,
suono di anni nel rumore di ago del mio braccio,
pioggia e sole in Europa, e come tossisco! come vivo!
come mi fanno male i capelli a presagire i secoli settimanali
e anche, per contraccolpo, il mio ciclo microbico,
voglio dire la mia tremante, patriottica pettinatura!

 

 

Prima edizione di Los heraldos negros, 1919

Prima edizione di Los heraldos negros, 1919.

Los Eraldos

Los eraldos2

 

Gli araldi neri

Ci sono colpi nella vita, così forti … io non so!
Colpi come l’odio di Dio; come se di fronte ad essi,
la risacca di tutto il sofferto
ristagnasse nell’anima … Io non so!

Sono pochi; però sono … Aprono solchi scuri
nel volto più fiero e nel lombo più forte.
Saranno forse i puledri di barbari Attila;
o gli araldi neri che ci invia la Morte.

Son le cadute profonde dei Cristi dell’anima,
di qualche fede da adorare che il Destino bestemmia.
Questi colpi sanguinosi sono i crepitii
di qualche pane che sulla porta del forno ci si brucia.

E l’uomo … Povero … povero! Gira lo sguardo, come
quando una pacca sulla spalle ci chiama;
Gira gli occhi pazzi, e tutto il vissuto
ristagna, come una pozzanghera di colpa, nello sguardo.

Ci sono colpi nella vita, così forti … Io non so!

(traduzione di Federico Guerrini)

Si innamora di Maria Sandoval che muore inferma

Si innamora di Maria Sandoval (che muore inferma),
ed è la sua musa tragica in Los Heraldos Negros.

Ed è la sua musa tragica in "Los Heraldos Negros"

Nel 1920 si verifica l’avvenimento che segnerà Vallejo per la vita: in occasione di disordini scoppiati nel bel mezzo di una festa religiosa nel suo borgo natale in seguito al provocatorio comportamento dei gendarmi, s’intromette per sedare la rissa, ma viene arrestato dalle autorità locali come istigatore dei disordini.
Dopo quattro mesi di prigione durante i quali continua a scrivere le poesie che comporranno poi la sua nuova raccolta Trilce (Oh, le quattro pareti della cella / Ah le quattro pareti albicanti / che senza rimedio danno sul medesimo numero), ottiene la libertà provvisoria, grazie a diverse petizioni in suo favore, ma resta sotto la minaccia di un processo che incomberà su di lui come un incubo negli anni successivi.

 

La prima edizione di Trilce

La prima edizione di Trilce

 

Non tollerando più l’ambiente di Lima (A Lima … A Lima sta piovendo / l’acqua sudicia di un dolore / così mortale. Sta piovendo dalla crepa del tuo amore), dove alterna la collaborazione a riviste a una saltuaria attività di insegnante e dove sperimenta una condizione di crescente oppressione ed estraneità («Volevo partirmene, scappare da tutto, non sfiorare nulla, né essere sfiorato da nulla, non essere in alcun luogo, non essere con nulla»), decide di partire per l’Europa. Sempre attento ai presagi che gli araldi neri erano soliti inviargli dal futuro, presagisce che lo attende un viaggio senza ritorno, perché così nella prosa poetica di El buen sentido (Il buon senso), saluta l’amata madre: «C’è, madre, un posto nel mondo, che si chiama Parigi. Un luogo molto grande e molto lontano, e ancora molto grande. La donna di mio padre, ascoltandomi, mangia, e i suoi occhi mortali scendono dolcemente lungo le mie braccia».
Arriva a Parigi il 13 luglio 1923, senza soldi, senza lavoro e con nessuna conoscenza della lingua. Seguono anni di miseria e di ripetuti soggiorni in ospedale in seguito ad un’emorragia sopravvenuta dopo un intervento. Collabora a diverse riviste sudamericane e comincia a legarsi agli artisti di Montparnasse, diventando amico di Juan Gris, di Marcel Aymé, di Tristan Tzara, di Antonin Artaud, di Jean Cassou, di Juan Larrea con il quale fonda una rivista a cui collaborerà anche Neruda.

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Pubblica Poemas en prosas e Contra el secreto profesional, un intenso manifesto in cui definisce la sua concezione dell’arte poetica, prendendo le distanze dagli scrittori «latino-americani» della sua generazione, cultori di una poesia presa in prestito dalle avanguardie europee (ispirate a l’esprit nouveau, da lui ritenuto «un movimento distruttore di incurabile nullità storica») cui Vallejo oppone la specificità «ibero-americana» che scaturisce dall’autenticità dei popoli del continente e si nutre di uno spirito «fatto di verità, di vita, infine di sana ed autentica ispirazione umana» e di un’emozione «secca, naturale, pura».

 

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Gli anni fra il 1927 e il 1928 sono anche quelli in cui il suo “male di vivere” poetico e la sua crisi morale maturano alla luce della consapevolezza del legame del suo destino con quello degli altri uomini.

 

Georgette Marie Philippart Travers

Georgette Marie Philippart Travers.

 

Con Georgette a Parigi

Con Georgette a Parigi.

Georgette Philippart – che diventerà sua moglie nel 1932 e sua inseparabile compagna al di là della morte per la devozione che voterà all’opera del poeta di cui raccoglierà e farà pubblicare tutti i componimenti sparsi – ricorda così quel periodo che fu anche quello del loro incontro: «Sarebbe difficile ammettere che a quest’epoca Vallejo, che ha trentacinque anni, si cercasse e si cercasse per sé solo. […] Si interroga sulla partecipazione che sente di dover apportare agli uomini. […] Crisi morale, crisi di coscienza, e non d’intellettuale ma di uomo e di poeta, poiché vi scopre la causa del suo smarrimento: la sua lontananza dai problemi sociali ed economici dell’umanità asservita».
Da questa nuova consapevolezza alla sua adesione al comunismo, il passo è breve e matura nel corso di un viaggio in Russia, dal quale ritorna con la convinzione, riportata da Georgette, che «un sistema interamente nuovo, unanimemente rifiutato dagli sfruttatori e dai dominatori, deve inevitabilmente implicare un miglioramento certo e fondamentale per le masse proletarie». Sul finire del dicembre del 1928 si iscrive al Partido Socialista del Perù (divenuto più tardi il Partito comunista peruviano) fondato ad José Carlos Mariátegui, il pensatore rivoluzionario peruviano che, dopo essersi distaccato dall’APRA, segnerà in modo indelebile il marxismo latino-americano. A lui dobbiamo una delle interpretazioni più profonde della poesia di César Vallejo.

José Carlos Mariátegui La Chira

José Carlos Mariátegui.

Scrive Mariátegui, a proposito di Heraldos negros e di Trilce, che il suo pessimismo è quello dell’Indiano, non è un concetto, non è un atteggiamento letterario e nemmeno una nevrosi: è, piuttosto, un sentimento, ricco di tenerezza e carità. Non genera il narcisismo disincantato ed esacerbato dei romantici, perché non nasce da una pena personale. «Vallejo sente tutto il dolore umano. […] La sua anima è triste da morirne della tristezza di tutti gli uomini. E della tristezza di Dio». È quel sentimento per il quale il poeta, amaramente conscio del limite della parola («E se dopo tante parole / la parola non sopravvive»), conierà un neologismo, capace di dire tutto il dolore del mondo: tristumbre che contiene in sé pesadumbre (dolore) e tumba (tomba). E a proposito del suo stile, Mariátegui sottolinea la purezza e l’innocenza, l’austerità, l’umiltà e la semplicità orgogliosa della forma, fino a definirlo «un mistico della povertà che cammina scalzo affinché i suoi piedi conoscano nudi la durezza e la crudeltà del cammino».

 

VA CORRENDO, ERRANDO, FUGGENDO…

Va correndo, errando, fuggendo
i suoi piedi …
Va con due nubi nella sua nube,
immobile apocrifo, serrando nella mano
i suoi tristi per, i suoi funerei allora.

Corre lontano da tutto, errando
fra proteste incolori; fugge
salendo, fugge
scendendo, fugge
a passo di sottana, fugge
sollevando il male sulle braccia,
fugge
diritto a piangere solo.

Ovunque vada,
lontano dai suoi rumorosi, caustici talloni,
lontano dall’aria, lontano dal suo viaggio,
per fuggire, fuggire, e fuggire e fuggire
i suoi piedi – uomo su due piedi, fermo
di tanto fuggire – avrà sete di correre.
E nemmeno l’albero, se indossa ferro di oro!
E nemmeno il ferro, se copre il suo fogliame!
Nulla, se non i suoi piedi,
nulla se non il suo breve brivido,
i suoi viventi per, i suoi viventi allora …

 

Al ritorno da un secondo viaggio in Russia, milita in una cellula operaia del partito comunista dove tiene un corso di marxismo; la sua militanza attira l’attenzione della polizia francese che l’arresta ripetutamente per brevi periodi. Alla fine del 1930 è espulso dalla Francia per “attività sovversive”. Risiede in Spagna, dove vive di traduzioni dal francese e dove frequenta poeti come Juan Bergamín, Rafael Alberti, Garcia Lorca. Si iscrive al partito comunista spagnolo e pubblica un romanzo, El tungstène, in cui rielabora la sua esperienza nelle miniere peruviane. Scrive per il teatro, ma le sue opere, “troppo tristi”, sono rifiutate. Si reca una terza volta in Russia, invitato al Congresso internazionale degli scrittori.

 

El Tungsteno

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È un periodo di intensa militanza e di piena assunzione della coscienza che l’artista «è inevitabilmente un soggetto politico». Tuttavia, sono altrettanto forti in lui la consapevolezza che «l’arte non è un mezzo di propaganda politica, è l’impulso supremo di ogni creazione politica» e l’esigenza della necessaria libertà della creazione artistica: «Posso simpatizzare con la rivoluzione e lavorare per essa, ma come artista non è nelle mie mani, né in quelle di nessuno, di controllare la portata politica che possono celare le mie poesie».
Nel 1932 riesce finalmente ad ottenere un permesso di soggiorno provvisorio per la Francia (regolarizzato l’anno successivo), a condizione di rinunciare a qualsiasi attività politica. Si sposa con Georgette, vive con lei in Hôtel o case ammobiliate del quartiere di Montparnasse, scrive instancabilmente e dà lezioni di spagnolo. Le sue condizioni di salute peggiorano.

 

Pubblica "Escalas" e "Fabla Salvaje" in Peù

Pubblica Escalas e Fabla Salvaje in Peù

 

Parigi, ottobre 1936

Di tutto ciò sono il solo che parte.
Me ne vado da questo banco, dai miei pantaloni,
dalla mia grande situazione, dalle mie azioni,
dal mio numero sezionato da parte a parte,
da tutto ciò sono il solo che parte.

Dagli Champs-Elysées o girando
nella strana Rue de la Lune,
la mia morte se ne va, se ne parte la mia nascita,
e circondata da gente, sola, in fuga
la mia immagine umana si gira
e congeda una a una le sue ombre.

E mi allontano da tutto,perché tutto
là resta a far da copertura:
la mia scarpa, il suo occhiello, anche il suo fango,
fino alla piega del gomito
della mia propria camicia abbottonata.

 

Sfidando l’interdizione di partecipare alla vita pubblica, è presente a tutte le iniziative antifasciste. Nel giugno del 1935 assiste a Parigi al primo Congresso degli scrittori antifascisti per la difesa della cultura, al quale presenziano anche degli scrittori sovietici, venuti ad esporre le basi del “realismo socialista”, decisamente lontane dall’essenza della poesia di Vallejo. Resta traccia della sua lacerazione fra fede rivoluzionaria e senso profondo nella forza della poesia in una nota del suo taccuino alla data del 7 novembre 1937. «È meglio dire “io”? O è meglio dire “l’uomo”, come soggetto dell’emozione lirica ed epica? In verità, è più profondo e più poetico dire “io” – preso naturalmente come simbolo di “tutti”».
Non appena scoppia la guerra di Spagna, malgrado il suo scetticismo nei riguardi dei Fronti popolari, si dedica interamente alla difesa della causa repubblicana, scrivendo articoli e partecipando a numerosi incontri pubblici a sostegno del popolo spagnolo. Si reca più volte in Spagna, dove nel luglio del 1937 interviene al secondo congresso degli scrittori antifascisti in qualità di delegato del Perù, affrontando il tema della responsabilità dello scrittore di fronte ai momenti più gravi della storia e proclamando la necessità di spezzare «la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia», e che ciò avvenga «orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla».
Riferendosi al detto di Gesù che il suo regno non è di questo mondo, Vallejo propone alla coscienza dello scrittore rivoluzionario un’altra formula che sostituisca la precedente, «Il mio regno è di questo mondo, ma è anche dell’altro», che ben corrisponde alla duplice esigenza che ne ispirò la vita e l’opera: impegno civile e ricerca con e per la poesia di una profonda verità umana. Molti anni più tardi ci fu chi lesse in queste parole una premonizione della “teologia della liberazione” che portò tanti preti sudamericani a prendere le armi a fianco del loro popolo, sull’esempio di Camillo Torres.

 

Poemas Humanos

Poemas Humanos

 

Al suo ritorno a Parigi, partecipa alla creazione del comitato ibero-americano per la difesa della repubblica spagnola di cui è nominato segretario, nonché redattore del bollettino Nuestra España che si attirerà, però, la diffidenza di alcuni scrittori comunisti che vi scoveranno simpatie trotskiste, al punto che Pablo Neruda, membro anche lui del comitato di redazione, non pubblicherà gli articoli affidatigli da Vallejo che, ferito, lascia l’incarico.
Negli ultimi tre mesi dell’anno lavora febbrilmente alla composizione di molte delle poesie che saranno, poi, raccolte in Poemas humanos (Poemas del exilio) e España, aparta de mí este cálíz (Spagna, allontana da me questo calice).

Lo raggiunge a Parigi la notizia della fucilazione in Spagna di Julio Gálvez, il ragazzo con cui si era imbarcato per l’Europa una quindicina di anni prima.

 

MASSA

Finita la battaglia,
e morto il combattente, venne a lui un uomo
e gli disse: «Non morire, ti amo tanto!»
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Altri due si avvicinarono e gli ripeterono:
«Non lasciarci! Coraggio! Ritorna in vita!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Accorsero in venti, cento, mille, cinque cento mila,
esclamando: «Tanto amore , e non potere nulla contro la morte!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

In milioni lo circondarono,
con una preghiera comune: «Resta, fratello!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Allora, tutti gli uomini della terra
lo circondarono: li vide il cadavere triste, commosso;
si alzò lentamente,
abbracciò il primo uomo, prese a camminare…

 

L’intenso lavoro aggrava le sue precarie condizioni fisiche: nel marzo del 1938 si ammala gravemente, febbre ed esaurimento fisico gli sono compagne costanti: dalla camera d’albergo in cui viveva con la moglie, Rue Daguerre – XIV arrondissement, viene trasportato il 14 aprile in una clinica del vicino boulevard Arago. L’eminente professore Lemière che lo ha in cura si dichiara vinto da una malattia che non riesce a diagnosticare. («Tutti i suoi organi sono nuovi. Vedo che quest’uomo muore, ma non so di cosa»). Il mattino del 15, venerdì santo, muore: a Parigi, come già sapeva , lui che aveva scritto, pochi mesi prima, che «in fin dei conti, non possiedo per esprimere la mia vita, che la mia morte».

 

PIETRA NERA SU PIETRA BIANCA

Morirò a Parigi nello scroscio
di un giorno che ho già vivo nel ricordo.
Morirò a Parigi – non m’inganno –
come oggi forse un giovedì d’autunno.

Di giovedì sarà. Oggi che proso
questi versi e gli omeri ho malmesso,
è giovedì e mai come oggi giunsi,
con tanta strada a rivedermi solo.

César Vallejo è morto, lo picchiavano
tutti senza che lui facesse nulla;
lo legnavano sodo e duramente

lo cinghiavano: sono testimoni
i giorni giovedì, l’ossa degli omeri,
la vita sola, la pioggia, le strade…

(traduzione di Roberto Paoli)

 

Muore nel 1938

Muore nel 1938.

 

Il 19 aprile è sepolto nel cimitero di Montrouge; lo accompagnano nell’ultimo viaggio amici francesi, sudamericani, spagnoli e le parole di congedo di Louis Aragon. Il 3 aprile 1970, i suoi resti vengono trasportati nel cimitero di Montparnasse dove mani amiche hanno continuato a lungo a portare sulla sua tomba mazzi di fiori con i colori della bandiera repubblicana spagnola. Sembra che le sue ultime parole siano state per chiamare la madre ed evocare la Spagna (España, me voy a España).
Sulla sua pietra tombale Georgette Vallejo ha fatto incidere queste parole:

J’ai tant neigé pour que tu dormes

 

È a lei che si deve la pubblicazione delle opere dell’esilio e della maturità, è lei che ha trovato il titolo Poemas humanos, mentre la prima edizione critica, che ha contribuito a fare riconoscere in Vallejo una delle più grandi voci della letteratura in lingua castigliana di tutti i tempi, è opera dell’amico di sempre, il poeta Juan Larrea. España, aparte de m este cálíz fu inviato in Spagna e pubblicato nel settembre del 1938, nel pieno della controffensiva repubblicana dell’Ebro, a cura di una unità culturale delle milizie repubblicane, ma, visto che le sorti della guerra volgevano in peggio, mancò il tempo per mettere in circolazione la raccolta. Se ne salvò un solo esemplare che fu, poi, ripubblicato in Messico con un ritratto dell’autore disegnato da Picasso.

 

Juan_Larrea_escritor

Juan Larrea.

 

Espana

La pubblicazione riunì quattro figure eminenti della cultura ispanica: un pittore, Pablo Picasso, e tre poeti: César Vallejo, autore del libro di poesie, Juan Larrea, prologo del libro, e Manuel Altolaguirre, responsabile per l’edizione. Il libro è stato stampato nel monastero di Montserrat 10 giorni prima della fine della guerra civile.

 

Vallejo-Guevara

Vallejo-Guevara

Ernesto Che Guevara amò intensamente la poesia di Vallejo
e ne ha recitato Los heraldos negros.
Si veda: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=146620

 

Al di fuori della Francia, dove sin dagli anni del dopoguerra l’attenzione per l’opera del poeta peruviano è stata sempre piuttosto viva, le traduzioni più accurate e complete si devono in lingua tedesca allo scrittore Hanz-Magnus Enzensberger (1966), in inglese a Clayton Eshleman che allo studio di Vallejo ha dedicato cinquant’anni di vita (1968), e in Italia a Roberto Paoli (1964) per le Edizioni Lerici, riproposta nel 2008 per i tipi della Gorée.

 

The Complete Poetry

The Complete Poetry

César Vallejo (Author), The Complete Poetry, A Bilingual Edition, by César Vallejo (Author), Clayton Eshleman (Translator), Clayton Eshleman (Editor), Mario Vargas Llosa (Foreword), Efrain Kristal (Introduction), December 2009.

 

Pesie Lerici

Nella traduzione di Roberto Paoli.i

 

In Perù nel 2102, in occasione delle celebrazioni per il 120° anniversario della sua nascita, qualcuno è riuscito finalmente a fargli quel processo che pendeva su di lui da un secolo circa e che lo aveva spinto all’esilio, naturalmente riconoscendo la sua colpevolezza: in un articolo apparso su un quotidiano, un giornalista lo ha accusato di essere in parte responsabile, con la sua poesia triste, dell’inconscio nazionale e della presunta tendenza dei Peruviani al disfattismo. Per timore di non essere stato ben capito, l’autore dell’articolo è passato poi a sostenere le teorie liberali che, sole, fornirebbero quegli elementi utili allo sviluppo di cittadini con una mentalità vincente e senza complessi…
Non sono mancate le indignate reazioni che hanno volto in ridicolo questa postuma condanna, attribuendo ironicamente al grande poeta la responsabilità di tutti i mali che hanno colpito il Perù nell’ultimo secolo. Nello stesso anno sulla facciata della casa che César Vallejo abitò a Trujillo spiccava un gran cartello che ne annunciava la vendita.
Ma dal fondo degli anni e di tanto oblio e di una speranza che continua a cercare se stessa è Vallejo che ci tende una mano fraterna:

«Nessuno vive più nella casa, mi dici; tutti se ne sono andati.
La sala, la camera, il patio, giacciono spopolati.
Non resta nessuno, perché tutti sono partiti.
E io ti dico:
Quando qualcuno se ne va, qualcuno resta.
Il punto da cui è passato un uomo non è più solo.
Non è solo, di solitudine umana,
che il luogo dove nessun uomo è passato.

Le case nuove sono più morte delle antiche,
perché i loro muri sono fatti di pietra o di acciaio, ma non di uomini.

[…] Tutti sono partiti dalla casa,
n realtà,
ma in verità sono tutti restati.

(No vive ya nadie en la casa)».

Ed ecco che è sorta a Santiago de Chuco, Perú, la Casa Museo César Vallejo.

 

Casa museo

Santiago de Chuco, Perú, la Casa Museo César Vallejo

 

statua02

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Statua04

Questo monumento al poeta peruviano César Vallejo Mendoza si trova nella Piazza del Teatro, nel centro di Lima. Autore è lo scultore Lambayecan Miguel Baca Rossi, che lo realizza nel 1983.

***

Alcuni riferimenti bibliografici
César Vallejo, Poesías completas, Edición de Ricardo Silva – Santistenban, Colección Visor de Poesía, Madrid.
César Vallejo, Poèmes humains. Espagne, écarte de moi ce calice, ed. Seuil, Paris, 2011 (traduzione di François Maspéro).
César Vallejo, Poesie, Lerici, Milano, 1964.

 



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Richard Bach – Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, allora imparerai come si vola.

Richard Bach 01

Il gabbiano Jonathan Livingston

 

«Il fatto è che bisogna superarli un po’ alla volta,
i nostri limiti, con un po’di pazienza.
Qui sta il trucco. […]
Non dar retta ai tuoi occhi
E non credere a quello che vedi.
Gli occhi vedono solo ciò che è limitato.
Guarda con il tuo intelletto
e scopri quello che conosci già,
allora imparerai come si vola».

R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston.



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Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi

Aristotele 004
Etica Nicomachea

Etica Nicomachea

 

Sarebbe assurdo se uno non scegliesse il modo di vivere che gli è proprio ma quello di un altro (ἄτοπον οὖν γίνοιτ’ ἄν, εἰ μὴ τὸν αὑτοῦ βίον αἱροῖτο ἀλλά τινος ἄλλου) (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1178 a 3-4).

«Se quindi l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. D’altro canto, però, non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi».

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.


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Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).

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L’avvento della kallipolis nella storia è descritto da Platone come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502 b I: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica.

 

L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

 

Il potere della verità. Saggi platonici

Mario Vegetti

Il potere della verità. Saggi platonici

Carocci, 2018.

Logo carocci

Recensioni

Franco Ferrari, Alias de il Manifesto, 20-05-2018

Alcuni stralci del capitolo 7, dove si parla

di utopia

e di kallipolis

 

Il tempo, la storia, l’utopia

 

 

La struttura compositiva dei libri VIII e IX della Repubblica pone immediatamente un problema: perché la kallipolis – cioè la forma compiuta di una società umana governata secondo giustizia – compaia all’inizio della “storia”, anziché al suo termine, come era accaduto nel primo movimento del dialogo, dal libro II al V. […] perché, dunque, la kallipolis è situata ora all’ inizio e non alla fine dei tempi?» (p. 171).

«[…] per chi attribuisca a Platone la convinzione che il progetto utopico sia in qualche misura praticabile – risulta importante una seconda funzione argomentativa. Nel libro VI Socrate aveva indicato tre possibili dimensioni temporali per l’esistenza della kallipolis: «nell’infinito tempo passato, o anche oggi in qualche regione barbarica […] oppure se accadrà nel futuro» (499C-d). Si trattava ora di proteggere la prima ipotesi – come vedremo tutt’altro che irrilevante – da una possibile obiezione: se la città dell’utopia è esistita nel passato, perché oggi non esiste più? E reciprocamente, la sua attuale inesistenza non è prova che essa non è mai davvero esistita? A questo risponde il libro VIII: se anche fosse esistita nel passato, la kallipolis non avrebbe potuto durare indefinitamente nel tempo, e la sua scomparsa non dimostra quindi la sua impossibilità.
Questo argomento è rilevante perché in 592.a Glaucone avrebbe seccamente respinta la seconda possibilità evocata da Socrate (che la città giusta esista ora in qualche luogo della terra). Quanto alla dimensione futura […] costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi interpretativi dei nostri due libri.
Torniamo però all’ipotesi di una kallipolis formatasi in un remoto passato, e poi inevitabilmente estinta nel corso del tempo. Essa va situata in un contesto più ampio e trasversale, che riguarda in Platone il tema ricorrente del tempo delle origini» (p. 172).

«Il tempo propriamente umano inizia […] con l’esplosione della crisi, del disordine, del conflitto – insomma, dal punto di vista antropologico, della pleonexia. Solo a partire di qui vengono prodotti i saperi, la filosofia, la politica: insomma le tecniche umane per governare il disordine dopo la catastrofe delle origini. E con esse nascono […] le figure destinate a quesro governo del disordine: appunto il filosofo, il politico, il legislatore.
La kallipolis della Repubblica, in quanto realizzazione compiuta di questo governo del disordine, che consegue finalmente un controllo politico e psicologico sulla pleonexia, appare dunque collocata logicamente non all’inizio ma al termine del processo, come pieno dispiegamenro della condizione storico-umana. Tuttavia, se la si considera dal punto di vista della crisi, essa può anche apparire come un inizio, in quanto questa stessa crisi può venir pensata come un effetto della sua disgregazione, della sua instabilità e del suo fallimento nel compito di governare il disordine. Questo non comporta ancora, almeno per quanto riguarda la Repubblica, una visione ciclica del tempo storico-umano, perché la stessa realizzazione della kallipolis non è che una possibilità bensì latente in questo tempo, ma tutt’altro che necessitata da esso, che potrebbe dunque permanere nel disordine delle sue origini.
Lo spostamento di prospettiva, che disloca la città dell’ordine giusto non alla fine ma all’inizio del tempo umano, diventa invece, nel linguaggio mitico del Timeo, una «verità» (26C7-d I) che colloca senza incertezze una kallipolis, dai tratti simili se pure contraffatti rispetto a quella della Repubblica […] novemila anni prima di Socrate e Crizia (la sua distruzione sarebbe qui stata dovuta a un cataclisma naturale, e non a una instabilità strutturale).
Né l’ambigua collocazione della kallipolis della Repubblica (alla fine ma anche all’inizio del tempo), né la dislocazione mitica di quella del Timeo in un’epoca remota, possono tuttavia fare di entrambe un’imitazione (mimema) del regno di Crono […].
Se mai, c’è un segnale dell’ambiguità della collocazione della kallipolis della Repubblica sul tranquillo crinale che separa precariamente, con il suo controllo etico-politico, due fasi del disordine nella storia umana» (p. 174).

«Nel sorprendente ricongiungimento fra i due estremi del libro VIII, che salda il principio e la fine della “storia” della degenerazione etico-politica, è forse da leggere un’indicazione precisa: il governo del disordine, una volta che sia eventualmente conseguito, reca in sé un fattore di instabilità perché tende a sostituire la tensione “filosofica” verso l’ordine con forme di condizionamento educativo intese certo a favorirne il consolidamento, ma che sono d’altra parte incapaci di riattivarne il senso, e dunque impotenti a controllare il risorgere di quei desideri pleonectici il cui orizzonte compiuto è il massimo disordine della tirannide.
La decisione platonica di collocare la kallipolis nel libro VIII all’inizio del tempo storico-umano ha dunque anche questo significato: di mostrare che la sua eventuale realizzazione, come compimento dello sforzo di governo del disordine, può costituire il fine di questo tempo, ma certamente non la sua fine (non più di quanto un altro operatore d’ordine, il demiurgo del Timeo, possa determinare la fine dell’influenza caotica della “necessità” nel mondo)» (p. 175).

«L’instabilità del governo del disordine è resa inevitabile dal suo stesso inserimento nel continuum spazio-temporale, e la sua deformazione inizia quindi nel momento stesso in cui il progetto utopico – la cui esigenza è d’altronde imposta dallo stesso disordine dei tempi – passa dal piano del logos a quello degli erga. Questo è il senso del discorso delle Muse con cui si apre il libro VIII: un discorso certamente scherzoso, […] ma non per questo privo di due assunti di grande importanza teorica. Il primo è nettamente formulato all’inizio del logos: «è difficile che venga sovvertita una città così costituita, ma poiché per ogni cosa che è nata vi è distruzione, neppure una simile costruzione resisterà per tutta la durata del tempo, ma si dissolverà» (546a).

Il secondo assunto, che chiarisce e giustifica il primo, emerge dal senso complessivo del discorso sul “numero geometrico”: è impossibile imporre alla dimensione spazio-temporale un compiuto controllo perfettamente razionale (quindi matematizzabile), quale invece è possibile per il campo dell’ontologia eidetica (a modello appunto geometrico), il cui ordine ha peraltro una funzione paradigmatica rispetto agli sforzi di governare quella dimensione (cfr. VI 500 c-d).

La deformazione inevitabile […] non riguarda soltanto la qualità etico-politica della società umana, ma anche la stessa qualità “biologica” del suo gruppo dirigente, secondo il nesso circolare di perfettibilità dell’umano che era stato proposto dall’ “eugenetica” del libro V.

Alla luce di questi due assunti generali, il libro VIII descrive in modo più determinato le ragioni che rendono inevitabile la crisi della kallipolis realizzata: una crisi che non può non avere inizio da quella del suo gruppo dirigente, secondo un assioma costante della teoria politica platonica (545d, cfr. III 415c, V 465b). Nonostante la vaghezza del discorso platonico (547a-b) sembra che questa crisi inizi con un conflitto tra il ceto di governo “filosofico” e quello “militare”, o fra elementi degenerati presenti in entrambi. Chiari sono invece i motivi e la soluzione del conflitto: c’è una spinta incoercibile alla riprivatizzazione («spartirsi terra e case privatizzandole»), e all’asservimento del terzo ceto («asservire, riducendoli alla condizione di perieci e di servi, coloro che prima erano da loro difesi come uomini liberi»): il ceto di governo assume dunque il monopolio esclusivo della ricchezza, del potere e della guerra (547c).
Che la crisi della kallipolis assuma questa forma specifica non dipende soltanto dai principi generali formulati nel discorso delle Muse, ma più specificamente […] dalla dinamica logico-genetica della sua formazione. Essa aveva avuto infatti origini violente, fondata com’era sulla rieducazione di un ceto militare comparso nella città della pleonexia; e il suo gruppo dirigente era stato costituito sulla base di un accordo fra l’elemento razionale (logistikon) e quello collerico-aggressivo (thymoeides), la cui fedeltà al primo, nonostante ogni sforzo di condizionamento educativo “indelebile”, non poteva che risultare strutturalmente precaria» (p. 176).

«La tirannide è la forma inevitabile della degenerazione tanto psicologica quanto politica perché essa rappresenta l’espressione limite, la massima potenzialità, di quella pleonexia da cui ha origine la crisi della kallipolis (riappropriazione della proprietà privata, asservimento del terzo ceto, competizione per il potere e la ricchezza). L’orizzonte della tirannide, ancor prima della sua eventuale realizzazione compiuta, è dunque implicito in ogni fase delle costituzioni degenerate, e nei tipi d’uomo loro analoghi, e rappresenta dialetticamente la loro verità, anche se in forma solo incoativa» (p. 180).

«E qual è allora, se non appartiene al ciclo, il tempo proprio dell’utopia? […] Esistono in Platone due distinte concezioni della temporalità, quella cosmica e quella storico-umana, cui se ne aggiunge […] una terza, quella dell’utopia. […] La seconda dimensione è quella del tempo storico-umano, che si instaura a partire dal distacco dalle origini mitiche: è questo il tempo del disordine, della degenerazione (morale, politica e anche biologica), ma al tempo stesso il tempo dell’esigenza dell’ordine, dello sforzo deliberato di ricostruzione. Questa dimensione non è in alcun modo ciclica, ed è strutturata dal movimento dialettico delle contraddizioni latenti nelle forme politiche da un laro, nei tipi psicologici dall’altro.
Cè, infine, il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione del progetto d’ordine, della kallipolis attuata. Va sottolinearo che tuesto tempo non appartiene alla seguenza dialettica del tempo storico-umano, né la Repubblica lo presenta come il telos di questa sequenza (se mai soltanto come l’ipotesi di un’origine che la rende comprensibile). L’avvento della kallipolis nella storia è descritto come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502bI: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica. Una ricognizione attenta del linguaggio platonico relativo alla temporalità dell’utopia lo può indicare chiaramente.
La prima condizione di realizzabilità dell’utopia è, si sa, l’intervento dei filosofi nella politica della città. Ma che la natura filosofica si salvi nelle città della storia è impossibile “a meno che un dio si trovi a soccorrerla” (492a5), grazie insomma a un “favore divino” (493aI). Che poi i filosofi così salvati siano indotti a occuparsi della politica delle città dipende da “una fortuita necessità” (499b5); questo non accadrà, in altri termini, “a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina” (592a8: theia tyche). Anche così, la loro azione politica potrà avere successo solo grazie a “circostanze propizie sopravvenute per una sorte divina” (Ep. VII 327e 3-5).
La condizione di possibilità alternativa (la conversione alla filosofia dei potenti o dei loro figli) viene descritta con lo stesso linguaggio. Essa avrà luogo se “per una gualche ispirazione divina sorga […] un vero amore per la filosofia” […]. In altri termini, i potenti possono diventare filosofi “per una sorte divina” (Ep. VII 326br3). […] Che cosa ci dice questo linguaggio ricorrente di tyche, moira, kairos, ananche, theion? Il suo primo significato è senza dubbio che le condizioni di realizzabilità della kallipolis non appartengono al corso normale della storia, che il suo avvento non ne costituisce il telos predeterminato. Esso può soltanto essere dovuto al verificarsi fortuito e istantaneo di circostanze propizie e cogenti, il cui carattere straordinario ed eccezionale (tanto nel senso della rarità quanto in quello del valore) è sottolineato dal ricorso al termine theion (che non può in alcun caso indicare un disegno provvidenziale, una pronoia divina, perché essa non avrebbe evidentemente il carattere fortuito di tyche). L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

Mario Vegetti, Il potere della verità, Carocci editore, 2018.

Il capitolo Il tempo, la storia, l’utopia di questo libro è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. II, VI-VII, Bibliopolis, Napoli 2003.

 


Coperta 301

 

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina galenica

ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, Euro 35 .

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.

Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.


Sommario

 

Nota preliminare di Luca Grecchi

 

Galenus

Introduzione a Galeno

***

Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica
nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno

***

I nervi dell’anima

***

Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico

***

Galeno e la rifondazione della medicina

***

L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique

***

La psicopatologia delle passioni nella medicina antica

***

Historiographical strategies in Galen’s physiology
(De usu partium, De naturalibus facultatibus)

***

De caelo in terram. Il Timeo in Galeno
(De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)

***

Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno

***

Galeno

***

Corpo e anima in Galeno

***

Corpo, temperamenti e personalità in Galeno

***

Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici

***

Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?

***

I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura

***

 

Indice dei nomi


Coperta scritti ippocratici grande

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, uro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.

Sommario

 

Introduzione

Technai e filosofia nel perì technes pseudoippocratico

Il De Locis in Homine fra Anassagora ed Ippocrate

Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico

La medicina ippocratica nella cultura e nella società greca

Nascita dello scienziato

Legge e natura nel De aëre ippocratico

Kompsoi Asklepiades.
La critica di Platone alla medicina nel III libro della Repubblica

Empedocle “medico e sofista”

Saperi terapeutici: medicina e filosofia nell’antichità

Le origini dell’insegnamento medico

Il malato e il suo medico nella medicina antica

Il pensiero ippocratico

La questione ippocratica

Nuovi orizzonti di ricerca

Indice dei nomi



 
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Silvia Fazzo – Grazie Mario Vegetti! Per la lucidità luminosa delle tue intuizioni. Amavi la vita per tutto ciò che ha di più vero. Hai formato una intera generazione di allievi e di allievi degli allievi.

 

logo casa della cultura

ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera


Altri libri

di Mario Vegetti

 

 

 

289 ISBN

Mario Vegetti

Il coltello e lo stilo

Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica

Petite Plaisance, ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, Euro 20

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«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».

Mario Vegetti

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Premessa alla nuova edizione del 2018

 Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault).
Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.

Mario Vegetti

Febbraio 2018



Quarta di copertina

 

008   Il coltello, makhaira: che incide il corpo dell’animale sull’altare del sacrificio, nella bottega del macellaio, sul tavolo dello scienziato anatomista. La conoscenza dell’animale, ottenuta grazie al coltello anatomico, fonda nella scienza greca al tempo stesso una classificazione, a partire da Aristotele, e una medicina razionale, che culmina in Galeno. La ragione scientifica antica segue il trattato della dissezione anatomica: essa è in grado di classificare le varietà dell’umano – la donna, il barbaro, lo schiavo – con la precisione e la verità di cui l’anatomia è modello. Seguendo il percorso della ragione anatomica, questo libro tenta al tempo stesso di ricostruire un’anatomia della ragione, nei modi della sua genesi e della sua crescita: la traccia di una polarità fra homo sapiens e homo necans, fra il coltello dell’anatomo e lo stilo con cui si scrivono i trattati della scienza. Lo stilo, grapheion – cioè la scrittura, il trattato, la scuola: con questi strumenti e in questi luoghi il sapere della zoologia, dell’anatomia, dell’antropologia si organizza, si accumula, si predispone al commento. Il coltello e lo stilo segnano dunque uno del tragitti lungo i quali si è durevolmente snodata la razionalità scientifica europea.

 

 

Indice

Premessa alla nuova edizione

Introduzione alla seconda edizione

Nota preliminare

Avvertenza

Capitolo I
Animale, vivo o morto
Classificazione e razionalità scientifica

***

Capitolo II
Neutralizzazioni
Verità dell’anatomia, genesi della teoria

***

Capitolo III
Classificare gli uomini
Che cos’è un uomo
Che cos’è un vero uomo
Razze di uomini
Un animale lunare

***



291 ISBN

Mario Vegetti

Tra edipo e Euclide. Forme del sapere antico

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, Euro 20

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L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.

 

Sommario

 

Introduzione

Premessa

Avvertenza

La questione dei metodi: una nota preliminare

Forme del sapere nell’Edipo re

Metafora politica e immagine del corpo nella medicina greca

L’animale ridicolo

Passioni e bagni caldi. Il problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica

Lo spettacolo della natura. Circo, teatro e potere in Plinio

Modelli di medicina in Galeno

Una sfida materialistica. La polemica di Galeno contro la medicina metodica

La scienza ellenistica: problemi di epistemologia storica

Indice dei nomi

 


Coperta cuore sangre cercello

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello.
Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice:
Galeno e l’antropologia platonica.

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La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria.
Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.

Riccardo Chiaradonna – «Cuore, sangue e cervello» è insieme una ricerca sulle teorie mediche antiche e sui loro fondamenti metodologici. ed epistemologici


Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

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Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.



Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

Marxismo e società antica, Feltrinelli

Opere di Ippocrate, UTET

Opere di Ippocrate, UTET

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi

Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

Introduzione alle culture antiche. L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Dialoghi con gli antichi, Academia

Dialoghi con gli antichi, Academia

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar

Platone, La repubblica, Rizzoli

Platone, La Repubblica, Rizzoli

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida

Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

Platone. La Repubblica, Laterza

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

L'uomo e gli dei, Kindle Edition

L’uomo e gli dei, Kindle Edition

Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza

Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

Quindici lezioni su Platone, Einaudi

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi

L'etica degli antichi, Laterza, 2010

L’etica degli antichi, Laterza

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci

 


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Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Platone_Mito della caverna

caverna

Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto


Sommario

Corpo, feticcio idolatrato

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto

Si immilla la frustrazione

Il capitalismo oggi esige lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione

La violenza è diventata spettacolo

La violenza è legalizzata

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone

Körper o Leib


Illustrazione del mito platonico della caverna in un'incisione del 1604 di Jan

Illustrazione del mito in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam.
I prigionieri immobilizzati davanti al muro, incapacitati nel guardare indietro,
fissano la parete e vedendo delle ombre,
in realtà modellini proiettati dalla luce di una torcia,
credono che esse siano vere figure umane.


 

 

Corpo,  feticcio idolatrato
Il tramonto del pensiero è il tramonto dell’Occidente. La genealogia del tramonto è la decadenza del corpo. Negli ultimi decenni assistiamo all’esaltazione del corpo, divenuto feticcio idolatrato. Il corpo vissuto è gradualmente anestetizzato dalla violenza delle immagini e degli stimoli: da quelli acustici ai gustativi. È un tripudio di stimolazioni. Non vi è però nulla di dionisiaco nella bacchiche foglie dell’Occidente, ma solo la disintegrazione del corpo vissuto.

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione
Gli stimoli, per poter divenire pensiero, come pure processo di buone pratiche politiche, necessitano della mediazione simbolica, del tempo della sedimentazione, tempo in cui il corpo vissuto si ascolta vivere, dà voce umana alle mere stimolazioni nervose, nomina le immagini per concettualizzarle. Sono passaggi lenti e genealogici, che portano alla riconfigurazione del corpo vissuto. Se si parte dall’assunto spinoziano-nietzscheano che il pensiero è il corpo vissuto, per cui ogni appello a ipostasi come l’anima, la coscienza, il corpo, ed annessi dualismi non sono che esemplificazioni rassicuranti, comprendiamo la decadenza teoretica dell’Occidente.

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto
Il corpo dell’Occidente – nell’epoca del capitalismo assoluto – è un corpo tormentatissimo, sottoposto ad una violenza perenne. Il peso di questa continua violenza molto spesso non è avvertito poiché l’azione perenne del potere economico sul corpo non è mai sospesa: si vive inseguiti, agguantati dal mercato, il quale promette l’Eden e restituisce un corpo esausto, spossato per il continuo saccheggio sensoriale.

Si immilla la frustrazione
Corpo efficiente, competitivo, i cui pori sono la porta d’ingresso della violenza capitalistica. Corpo che non deve invecchiare, deve vivere nel sogno dell’eterna giovinezza che si materializza con l’attività cosmetica e chirurgica. Corpo da incubo perché angoscia e toglie il respiro: il paradiso non è mai raggiunto, ma è sempre un nuovo desiderio indotto, spostato in avanti. Corpo che guarda il sogno realizzato degli altri corpi. Lo sguardo diventa bilioso e rancoroso. Le parole che corrono lungo la stimolazione perenne “Godimento infinito” “Senza limiti” sono il sedimento di pensieri anticomunitari e crematistici. Corpo in attività perenne in cui istinti e passioni si frammentano in una temporalità caotica e cronologica. È il tempo della successione-ripetizione. Il corpo – proiettato nell’orizzonte degli istinti e della loro soddisfazione fuori di sé, nel tempo che verrà – vive l’esperienza del godimento frustrato una, dieci, cento, mille volte … Si immilla la frustrazione.

Il capitalismo oggi esige  lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé
Se il pensiero è esperienza del corpo, in questo contesto, che non necessita dei grafici di sociologi o di altri professionisti dell’analisi del Capitale, i pensieri conseguenti non sono che rabbia, rancore, pensieri non liquidi ma vettori dell’atomismo sociale.
Il ritorno ad una condizione hobbesiana realizzata: tutti contro tutti. Ma, dovremmo aggiungere: ognuno contro se stesso.
La grande novità del capitalismo assoluto, della violenza che si espande, e che pervade capillarmente ogni spazio, è la lotta contro se stessi, il rancore che si rivolge contro se stessi. Non si è mai all’altezza delle richieste del mercato, dell’ideale di perfezione corporale dell’esigente mercato che – mentre promette di venderti il paradiso – in realtà ti fa comprare l’inferno. Non una volta, ma ogni giorno, ogni ora, il tempo diviene il luogo degli inferni quotidiani.

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione
Dietro la volgarità, l’aggressività dei cattivi pensieri che abitano la cronaca, non vi è che la violenza del capitale che ha fatto del corpo vissuto un veicolo del corpo violenza, i cui pensieri non sono che il riflesso della caverna del Capitale assoluto in cui vive il corpo, della gabbia d’acciaio che stringe le sue maglie. Gli artigli del capitale stringono ed il corpo – che voleva godere – soffre, diviene esso stesso violenza, non ha che pensieri violenti. L’affermazione secondo cui il corpo non è che la tomba dell’anima, è pienamente realizzata. Il corpo è divenuto caverna, e nel buio della caverna i pensieri non possono che essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione, che si materializzano in atti linguistici, nell’incapacità di accettare la sconfitta, l’errore, il limite, e che tendono a realizzarsi nella soppressione dell’altro.
Corpo vorace eppure fragile, che trasmette al mondo la violenza che ha subito. Le cronache ci presentano lo stupore della violenza diffusa, crimini sempre più sadici: la violenza è distruzione del corpo di coloro che hanno negato la soddisfazione del sogno.

La violenza è diventata spettacolo
Non vi sono analisi teoretiche, non si utilizzano categorie del pensiero filosofico per capire: si invoca sempre più controllo, senza capire.
Anzi, la violenza è diventata spettacolo, attrae telespettatori che vogliono vivere il brivido del sensazionale; si vendono merci per acquietare i corpi squassati dall’eterna insicurezza, dal timore di essere aggrediti. Si guarda il mondo attraverso una feritoia, perché l’alterità è divenuta il potenziale aggressore. Tutto avviene in modo fatale ed esiziale: non vi sono spiegazioni, solo il destino muove la violenza che passa, plasma, organizza i corpi di sudditi senza speranza.

La violenza è legalizzata
La violenza è legalizzata. L’iperattività con cui la formazione è presentata nella offerta formativa delle scuole, non è che violenza organizzata. La formazione della cosiddetta “buona scuola” è l’esperienza del corpo scisso da sé. Le continue attività, lo spostamento da un luogo a un altro per competere, il mostrarsi in selfie pedagogico, sono il file rouge dell’attività formativa pubblica e privata.

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale
Lo studente non deve mai sospendere l’esecuzione della produzione, la sua formazione all’annichilimento del pensiero teoretico, perché il corpo dev’essere educato ad avere pensieri performativi. L’assenza di contenuti è questione ritenuta assai relativa, necessario è il corpo che non può che viversi come corpo teso alla lotta, dunque corpo come tempio imprenditoriale, in cui scrivere ed inscrivere la violenza del Capitale. Il resto è complementare. Il corpo è il supporto del pensiero, e per supporto si devono intendere le pratiche sociali: i linguaggi, le posizioni spaziali a cui il corpo è costretto, la tensione emotiva che lo attraversa perché dev’essere sempre teso all’attacco ed alla difesa.

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento
Se si analizzano le pratiche del Capitale assoluto, si possono capire le ragioni della violenza diffusa del corpo divenuto veicolo di morte, luogo dove si mette in atto la logica del Capitale. Le miserie dell’abbondanza passano per le guerre che scuotono il corpo.

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone
Il corpo è dunque legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone, costretto a sognare il falso. Un corpo che vive nell’oscurità, nel sogno dopato dell’immagine, non può che divenire violento: non a caso nel mito della caverna lo schiavo liberato è ucciso dagli schiavi. Essi non hanno pensiero teoretico, perché il loro supporto, il corpo, è al centro delle pratiche delle violenze che lo hanno formato e deformato e pertanto i loro pensieri sono puntuti, sciabole rancorose pronte a puntare ed uccidere chiunque smentisca o sia pronto a far vedere loro, improvvisamente, l’avvilimento, l’umiliazione a cui sono stati sempre sottoposti:

«Non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? […] E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora l’oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» (Platone, La Repubblica, Libro VII, 517; Mito della caverna).

Körper o Leib
Le parole di Platone ci riportano al compito della filosofia: rifondare il pensiero teoretico nel regno del pensiero che ha come supporto il corpo mercificato. I tempi non possono che essere lunghi, il passaggio non può avvenire in modo improvviso, e non può che essere l’effetto di un lungo percorso. Siamo dinanzi ad un bivio: Körper o Leib. Merleau Ponty definiva il corpo vissuto come carne del mondo senza la quale ogni comunità è disintegrata, persa nell’abbaglio dell’atomismo sociale. Il futuro ed il presente implicano la responsabilità di tutti tra corpo morto o corpo vissuto nella relazione con l’altro e con se stessi. I pensieri ed i modelli sociali con le loro pratiche non saranno che una conseguenza delle scelte a cui tutti siamo chiamati.

Salvatore Bravo

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Albert Schweitzer (1875-1965) – L’ideale è per noi quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.

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Filosofia della civiltà

Filosofia della civiltà

Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà, Fazzi, 2014.

La sensazione di vivere in un’epoca di decadenza e confusione, in cui l’uomo sembra aver smarrito le proprie certezze sul senso dell’esistenza e del suo ruolo nel mondo, è un malessere trasversale a ogni periodo storico, e in particolare per gli intellettuali è sempre stato motivo di profonda inquietudine. Ma quello che a proposito di questa “nausea” scrive Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace e filosofo di raro acume, suona per noi oggi quanto mai intimo, come qualcosa che ci riguarda da vicino. Negli ultimi secoli l’umanità ha conosciuto un progresso che non ha precedenti nella storia, ma allo stesso tempo ha smarrito il senso di cos’è la civiltà, e il “peccato originale” alla base di questo vuoto è il fallimento della filosofia, che non è stata in grado di attendere a quella che fin dagli albori del logos è stata la sua vocazione: fondare, giustificare e diffondere una visione del mondo che permettesse di avere chiaro l’orizzonte di cosa ha valore e cosa no, di cosa ha senso e cosa no. Dopo l’avvento delle scienze naturali, che sembravano in grado di descrivere il mondo meglio di quanto tutta la storia del pensiero avesse fatto fino a quel momento, la filosofia si è ridotta in uno stato di sudditanza, convincendosi che il suo ruolo fosse esaurito, e da pensiero attivo è diventata storia della filosofia, una galleria di nature morte che non affrontano più le questioni fondamentali su cui gli individui dovrebbero riflettere.


Albert Schweitzer (1875-1965) – Nella maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire così profondamente come facemmo in gioventù.


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Eduardo Galeano (1940-2015) – … è all’orizzonte … Per quanto io cammini potrò mai raggiungerla …? A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.

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Paarole in Cammino 02

Paarole in Cammino

 

«Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

 

E. Galeano, Finestra sull’utopia, in Parole in cammino.


Eduardo Galeano – «Non accettiamo il tempo presente come destino. Un altro mondo è possibile»


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