Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.

Aristotele 012

a Lea e Attilio,
pazienti angeli custodi

  1. Il nesso ineludibile fra etica e politica in Aristotele

Il percorso che qui cerchiamo di proporre sul rapporto fra etica e politica e sul tema della philía in Aristotele non ha programmaticamente nulla di meramente storiografico. La nostra ricognizione parte dalla lucida consapevolezza della crisi devastante dell’etica e della politica nella civiltà odierna e dall’esigenza di ripercorrere criticamente alcuni tratti essenziali della tradizione culturale occidentale per contribuire a porvi rimedio. Ritrovare e tornare a meditare il nesso essenziale fra etica e politica nello Stagirita può servire ad affrontare i nodi più controversi della situazione spirituale del nostro tempo e a riscoprire il senso del bene comune, di ciò che può e deve essere condiviso nella nuova civiltà planetaria che ancora troppo faticosamente e contraddittoriamente intravediamo all’orizzonte.
Nella impossibilità di occuparci qui in modo esaustivo delle problematiche presenti nell’Etica Nicomachea e nella Politica dello Stagirita, del tutto consapevoli della inesauribile ricchezza tematica di queste opere, noi qui tenteremo una lettura selettiva e parziale di esse (con un particolare riferimento alla prima), mirante a mettere in luce alcuni aspetti basilari che possono costituire anche oggi motivo di grande interesse, attenzione e riflessione.
Vi sono per Aristotele tre tipi fondamentali di vita, propri della moltitudine (oi polloí), della vita etico-politica, della vita contemplativa. Sul tipo di vita più diffuso, quello della massa, il giudizio dello Stagirita – espresso nell’Etica Nicomachea con parole che non potrebbero essere per noi più drammaticamente attuali, soprattutto quando accenna alle «passioni di Sardanapalo», il re assiro Assurbanipal del VII sec. a. C. (di cui parla Erodoto), famoso per le sue ricchezze favolose e per la sua vita dissoluta, precursore di tanti nostrani imitatori potenti e prepotenti – è netto e duro: «La moltitudine, dunque, appare del tutto simile a una massa di schiavi, poiché sceglie una vita degna delle bestie; ma trova una giustificazione per il fatto che molti di coloro che coprono cariche direttive sono mossi dalle stesse passioni di Sardanapalo».1
Nel campo etico-politico noi ricerchiamo non per un mero e sterile sapere circa la virtù, ma per diventare buoni, virtuosi e per praticare la saggezza: «nell’ambito della pratica il fine non è contemplare e conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il compierla; e pertanto neppure riguardo alla virtù è sufficiente conoscerla, bensì bisogna tentare di possederla e di metterla in pratica» (Eth. Nic., X, 10, 1179 a 35 – 1179 b 1-4; ECA 489. Cfr. anche Eth. Nic., II, 2, 1103 b 26-29).
Ora, quale rapporto vi è fra etica e politica, sapendo che esse concernono l’uomo come essere capace di agire consapevolmente e liberamente in vista di un fine?2
Sul tipo di vita etico-politica, nell’Etica Nicomachea Aristotele osserva che l’etica non studia cose che «non possono essere diversamente da quelle che sono» e la cui modalità di esistenza è la necessità (ciò è oggetto delle scienze teoretiche), ma le «realtà che possono essere diversamente da quelle che sono», possono «sia essere che non essere» e sono quindi caratterizzate dalla contingenza.3
L’oggetto dello studio dell’etica è il bene umano supremo, il fine che «vogliamo per sé stesso», che è «oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado; e tale è manifestamente la politica» (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 19; 1094 a 26-27; EZA 84-85).
Qui sono in gioco i rapporti umani, che nel loro istituirsi sono etici e si determinano pure in senso politico. Etica e politica mostrano una convergenza fondamentale.
Come ha opportunamente osservato Franco Trabattoni, nel pensiero antico dell’epoca classica non vi è una distinzione netta fra etica e politica; ciò è dovuto probabilmente ad alcuni fattori: «In primo luogo, data la particolare struttura politica in cui era articolato il mondo greco (ossia il sistema delle poleis), il cittadino viveva profondamente immerso nella propria comunità, di cui era parte integrante e spesso attivamente partecipe (in particolare negli stati, come Atene, retti per lunghi periodi dal regime democratico). In questo quadro è ben comprensibile che i comportamenti privati assumessero una valenza pubblica, e che per converso il mondo della politica influisse in modo diretto sulle norme etiche. In secondo luogo, la stessa distinzione tra privato e pubblico, tra la sfera dei rapporti familiari e sociali e quella dei rapporti con le istituzioni, era molto più labile che nel mondo moderno. Infine, i pensatori politici dell’epoca classica, almeno fino ad Aristotele, non percepivano la politica come una attività tecnica dotata di meccanismi e di regole proprie, ma piuttosto come la più alta e completa forma di educazione».4
La dimensione etica, che riguarda in modo più specifico il bene dell’individuo, non può che rinviare ed essere strettamente collegata – pena la ricaduta in un “individualismo” (diremmo con termine moderno) inaccettabile – alla dimensione politica, ossia di un bene non meramente individuale, ma condiviso e condivisibile, comune, pubblico, di tutti. Ecco perché Aristotele scrive: «il bene (agathón) infatti è amabile (agapetón) anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino (kállion dè kaì theióteron) quando concerne un popolo e delle città. A queste cose tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica» (Eth. Nic., I, 1, 1094 b 8-11; EZA 86-87).
Bene dell’individuo e bene della città sono così per Aristotele indisgiungibili. Abbiamo bisogno delle leggi, delle istituzioni e delle costituzioni statali, perché senza di esse le passioni non possono sottomettersi alla ragione, la massa (ancora oi polloí!) tende a non seguire il lógos, non è possibile alcuna umana convivenza e neppure diventare buoni (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b – 1180 a; 1181 b 15-23; EMA 9-10). Come hanno giustamente notato diversi studiosi, sembra che qui assistiamo ad una subordinazione sostanziale dell’etica alla politica. Ma non è così, le cose stanno anzi per noi esattamente al contrario.5
Rileva ad esempio Aristotele: «Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica; questi infatti è architetto del fine (télous architékton), volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto» (Eth. Nic., VII, 12, 1152 1-3; EZA 682-683). Non il politico, dunque, ma il filosofo politico è «l’architetto del fine» che ha il compito di studiare il piacere e il dolore mirando a stabilire ciò che è bene e ciò che è male in senso essenziale.
Per questi motivi sul rapporto fra etica e politica nello Stagirita concordiamo con ciò che lucidamente scrivono Gauthier e Jolif nella loro monumentale edizione critica dell’Etica Nicomachea: «L’oggetto della morale è il bene supremo dell’individuo; ma, benché essa, a rigore, possa accontentarsi di assicurare questo bene a un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo o, più esattamente – ma ciò non fa alcuna differenza –, la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte della parola, la politica architettonica che detta alla città il suo fine; in altri termini, la vera politica è la morale. Il perno di tutta questa argomentazione è l’affermazione dell’identità tra il bene dell’individuo e il bene della città; è l’affermazione di questa identità […] che permette ad Aristotele […] di subordinare la società all’individuo, del quale essa persegue i fini, e della politica alla morale, che ad essa fornisce il fine».6

  1. L’essenza della politica in Aristotele

Per lo Stagirita, l’uomo è un politikòn zôon (animale politico) che non può vivere isolatamente ed è definito essenzialmente dal suo vivere insieme agli altri: «politikòn gàr o ánthropos kài syzên pephykós» («l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri»).7
Riprendendo esplicitamente questa impostazione di Aristotele, a distanza di molti secoli Marx scriverà nella sua Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857): «L’uomo è nel senso più letterale uno zôon politikón, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi».8
La politica è la anthrópeia philosophía (filosofia delle cose umane) che ha di mira il bene supremo dell’uomo, la sua felicità (eudaimonía), ossia il bene «più compiuto» (con cui si perviene all’autárkeia, autosufficienza da intendere appunto in senso politico; perfezione e autosufficienza sono caratteristiche fondamentali del bene anche per Platone, Filebo 20 d), perché è il bene che realizza il proprio fine (télos) nel massimo grado e non cerchiamo di perseguirlo in vista di altro, ma per sé stesso (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1181 b 16; ECA 495; Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-b 22; EZA 102-107; Pol., VII, 5, 1326 b 28-32; PLA 232; Pol., I, 2, 1253 a 2; PLA 6). Che cosa infatti si può volere di più, oltre che essere felici, realizzando la finalità interna alla propria natura?
Essendo la politica la scienza «più direttiva e architettonica al sommo grado» e avendo come fine il bene propriamente umano, il suo fine abbraccerà anche quello di tutte le altre scienze e tecniche (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 22- 1094 b 11).
Se ogni pólis è una comunità che si costituisce in vista del bene comune, il politikós dovrà sempre agire di conseguenza, con un’autorità che si esercita su liberi ed eguali. Il vero uomo di stato non deve dominare (árchein), tiranneggiare o far violenza sui cittadini, ma esercitare il potere secondo giustizia e legalità (cfr. Pol., VII, 2, 1324 b 27-29; PLA 226). Nella realtà storica spesso accade invece che i potenti, «per i proventi che si traggono dai beni comuni e dalla carica, vogliono restare al potere ininterrottamente», mirando a formare delle costituzioni «pervase da spirito di dispotismo, mentre lo stato è comunità di liberi» (cfr. Pol., III, 6, 1279 a 14-22; PLA 83-84).
Quando l’uomo è perfetto è la migliore delle creature, ma è la peggiore fra tutte senza la virtù della giustizia (la dikaiosýne che regge lo stato) e senza il diritto (díke) che ordina la comunità sociale (cfr. Pol., I, 2, 1253 a 30-40; PLA 7; Pol., I, 7, 1255 b 21; PLA 14).
Mostrando insieme le affinità e le differenze con l’impostazione di Platone, all’inizio del II libro della Politica Aristotele osserva che per ricercare la migliore comunità politica occorre studiare tutte le costituzioni, «sia quelle vigenti in alcuni stati, di cui si dice che sono ben governati, sia talune altre esposte da certi pensatori e che hanno fama di essere buone, affinché si scorga quel che v’è di giusto e di utile e insieme non sembri dovuta solo a desiderio di cavillare a ogni costo la ricerca di qualche altra forma diversa da quelle, ma risulti anzi che abbiamo intrapreso quest’indagine proprio perché quelle ora esistenti non vanno bene» (Pol., II, 1260 b 29-35; PLA 31).
Essendo per natura gli uomini animali socievoli, «anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine e di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale. C’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere, anche considerato in sé stesso, a meno che non sia gravato oltre misura dai mali dell’esistenza. È chiaro del resto che i più degli uomini sopportano molte avversità perché attaccati alla vita, come se racchiudesse in sé stessa una qualche gioia e dolcezza naturale» (Pol., III, 6, 1278 b 21-31; PLA 82; cfr. anche Eth. Nic., IX, 9, 1270 a 20-1270 b 13). Il discorso circa la dolcezza del vivere e la bellezza della vita vale per lo Stagirita su tutti i piani, sul piano del vissuto individuale e sul piano dell’esistenza collettiva, su quello della philía e su quello della politica.
Più volte Aristotele nella Politica parla dell’esigenza di una «costituzione migliore», alla quale mira pure lui, benché in modo diverso da Platone. Le virtù dominanti nello stato migliore sono le stesse di quelle nominate da Platone nella Repubblica (Resp. IV, 427 e), ossia sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, con la sola differenza significativa che Aristotele chiama phrónesis ciò che Platone chiama sophía (cfr. Pol., VII, 1, 1323 a 27-29; PLA 221).
Pure molto platonico è l’invito a non trascurare la necessità dell’educazione allo spirito della costituzione e alla coscienza del valore delle leggi (cfr. Pol., V, 9, 1310 a 13-19; PLA 179-180).9 Così come quello rivolto a concepire lo stato migliore in relazione al primato dell’anima sulle cose e sugli averi, non al primato delle cose e degli averi sull’anima (cfr. Pol., VII, 1, 1323 b 8-37; PLA 222-223).
Ma giustamente è stato da più parti notato che, nel modo in cui nel V libro della Politica lo Stagirita parla di come le tirannidi mantengono il potere, egli manifesta una concretezza, uno spirito realistico e una lucida coscienza della realtà politica che anticipano e ricordano molto da vicino Machiavelli. Lucidità e realismo che risaltano anche nell’osservazione secondo cui «i diversi popoli vanno a caccia della felicità in modo differente e con mezzi differenti, si costruiscono modi di vita diversi e costituzioni diverse» (Pol., VII, 8, 1328 a 41-1328 b 1; PLA 237).

  1. La felicità della «vita compiuta». Il nesso fra piacere, attività e virtù in Aristotele

Nella Politica Aristotele istituisce un nesso molto stretto tra felicità umana, virtù e politicità. La migliore costituzione è finalizzata alla felicità umana, che non è un semplice habitus, una éxis (disposizione), ma è «perfetta attività e pratica di virtù», «realizzazione e pratica perfetta di virtù» ( cfr. Pol., VII, 13, 1332 a 10; PLA 248; Pol., VII, 8, 1328 a 38; PLA 237; Eth. Nic., X, 6, 1176 a 33-34).
Nell’Etica Nicomachea, in piena consonanza con queste affermazioni, leggiamo che «il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù» (tò anthrópinon agathón psychês enérgeia gínetai kat’aretén. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 16-17; EZA 108-109) o che la felicità (eudaimonía) consiste nell’esercizio concreto della ragione, nell’«attività dell’anima conforme a virtù» (Eth. Nic., I, 10, 1099 b 26; EZA 120-121; X, 7, 1177 a 12; EZA 860-861), nell’uso (chrêsis) della «virtù perfetta» (teleía areté. Cfr. Eth. Nic., V, 3, 1129 b 30-31; EZA 326-327) per una vita compiuta.
Ogni essere segue la propria natura, realizza la finalità interna alla propria natura, la propria entelécheia. La perfezione/compiutezza di una vita è il bene supremo dell’uomo e di «vita compiuta» (bíos teleíos) parla esplicitamente Aristotele allorché scrive che «una rondine non fa primavera» e a proposito di una vita non caratterizzata dalla episodicità, ma sorretta costantemente, giorno dopo giorno, dall’impegno della ragione e della buona volontà (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 18-19; EZA 108-109).
Il termine kalokagathía – così importante non solo per il nostro autore, ma per tutta la cultura greca – esprime tale compiutezza e compare due volte nell’Etica Nicomachea, una volta alla fine dell’opera (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b 10) e un’altra allorché si tratta della megalopsychía (magnanimità). Qui (cfr. Eth. Nic., IV, 7, 1124 a 3-4) lo Stagirita rileva che non si può essere magnanimi senza la kalokagathía, parola di difficile traduzione che indica la bellezza morale, la perfezione della virtù, un’idea unitaria di perfezione che comprende in modo strettamente congiunto la bellezza e la bontà.
Il fine di tutte le azioni che si compiono è il «bene realizzabile nella prassi» (tò praktòn agathón, Eth. Nic., I, 5, 1097 a 23; EZA 102-103).
Mentre in Platone il bene (tò agathón) è la suprema fra le idee e la realtà umana è orientata verso di esso senza mai poterlo attingere pienamente, per Aristotele (che non manca di fare dell’ironia sul «bene in sé» di Platone e dei platonici, cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 24-25)10 il bene umano autentico, il «più compiuto» ( teleiótaton) va concretamente vissuto e praticato, è attuabile, consiste nel fine che si vuole di per sé stesso e non in vista di altro, ossia nella felicità (cfr. Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-1097 b 1; EZA 102-105), la quale non si risolve in una vita spesa all’inseguimento incessante e affannoso di piaceri, lucro, onori, ricchezze, poteri.
Contrariamente all’opinione dominante, la ricchezza, in particolare, non può essere altro che un mezzo e non può dare da sola la felicità, la quale ha certamente bisogno di beni esteriori e di mezzi, di condizioni strumentali favorevoli, ma non va confusa con essi.
Identificata la felicità col bene supremo, non è però ancora chiaro in che cosa essa consista; otteniamo una maggiore chiarezza se rispondiamo alla domanda difficile circa la funzione (érgon) specifica dell’uomo, che Aristotele, recuperando criticamente la concezione socratico-platonica dell’essenza dell’uomo come anima razionale, ravvisa nella capacità di pensare e di agire secondo ragione (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1097 b 22-1098 a 20).
La eudaimonía non può darsi senza virtù come la moderazione (sophrosýne) e il coraggio (andreía), che non necessitano di eccesso o difetto, ma della mesótes, del giusto mezzo, della via di mezzo che non significa in alcun modo mediocrità. Anzi, la mesótes, sapendo evitare ciò che ci danneggia in un senso o in un altro, per eccesso o per difetto, rappresenta un vertice di perfezione e di eccellenza (tò áriston. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1107 a 7-8; EZA 166-167; Eth. Nic., II, 6, 1106 b 16-23; EZA 164-165).
Vedremo più avanti come la teleía eudaimonía (felicità perfetta) vada per Aristotele al di là dei confini dell’etica. Per il momento, soffermiamoci ancora sul fatto che la felicità per lo Stagirita implica il piacere (egli fa derivare makários, beato, da mála chaírein, gioire molto) e che il filosofo politico, come «architetto del fine», ha il compito di indagare di ogni cosa ciò che è bene e ciò che è male in senso assoluto, nella consapevolezza che la virtù e il vizio concernono i piaceri e i dolori (cfr. Eth. Nic., VII, 12, 1152 b 1-7; ECA 393-394).
Come ha messo bene in luce Claudio Mazzarelli, circa il tema del piacere nell’Etica Nicomachea (cui sono dedicati i capitoli 11-14 del libro VII e i capitoli 1-5 del libro X), Aristotele deve molto al Platone del Filebo, «non solo nella impostazione dei problemi, ma, talora, anche nelle soluzioni».11
Non possiamo qui addentrarci nei complessi riferimenti (oltre ovviamente a Platone, si pensi ad esempio alle tesi sul piacere di Aristippo, Eudosso, Antistene, Speusippo) e nelle mille sottigliezze del pensiero aristotelico nel merito della questione.
Limitiamoci allora a dire che per lo Stagirita piacere e dolore investono l’etica in quanto accompagnano costantemente la nostra vita e pesano fortemente sulla virtù e sulla vita felice. In qualsiasi campo coloro che operano con piacere pervengono a migliori risultati. Platone e Aristotele non condividono però la convinzione propria della teoria edonistica secondo cui tutti i piaceri hanno una natura identica e quindi sono tutti buoni (cfr. Platone, Filebo, 12 d-e; 13 c).
I due grandi filosofi sottolineano la diversità dei piaceri, diversità che secondo Platone è di natura ontologica, secondo Aristotele di natura etica. Per quest’ultimo i piaceri non sono tutti uguali e tutti buoni, perché alcuni alimentano l’attività, altri la ostacolano; essi sono buoni o cattivi per il fatto di conseguire a un’attività virtuosa o viziosa (cfr. Eth. Nic., X, 5, 1175 b 24-28; EZA 852-853; cfr. anche le note 2, 8 e 10 del commento di Zanatta, EZA 1095-1096).
Vi è un peculiare “edonismo” di Aristotele, un vivo senso del piacere, mai legato a sfrenatezze ed eccessi, del tutto lontano da ogni edonismo esasperato ed estenuato. L’uomo moderato e saggio (o sóphron) gioisce secondo la «retta regola» (orthós lógos. Cfr. Eth. Nic., III, 14, 1119 a 20).
I piaceri sani e genuini della vita sono attività (enérgeia) «non impedita», liberamente esercitata e fine (télos), corrispondono all’uso appropriato della vita: «I piaceri, infatti, non sono un divenire né si accompagnano tutti a un divenire ma sono attività e fine; e non si hanno nel corso del divenire, ma dell’uso; e non di tutti i piaceri il fine è qualcosa di diverso da essi, ma lo è quello dei piaceri di coloro che sono ricondotti alla perfezione della loro natura» (cfr. Eth. Nic., VII, 13, 1153 a 9-15; ECA 396; cfr. anche Pol., IV, 11, 1295 a 36-37; PLA 135).
Il piacere è un elemento di perfezionamento dell’attività conforme a natura; esso accompagna necessariamente ogni attività che venga esercitata secondo la sua propria natura, anzi si risolve in questa stessa attività, nell’esercizio della virtù: «Il piacere rende perfetta l’attività (teleioî dè tèn enérgeian e edoné). […] Il piacere perfeziona […] l’attività non come la perfeziona la disposizione immanente, ma come una sorta di fine che viene ad aggiungersi in sovrappiù, come ad esempio a coloro che sono nel vigore dell’età (akmaíois) si aggiunge la bellezza» (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1174 b 23, 31-33; EZA 844-847).
Tutti i viventi, a partire dalla tensione vitale che li caratterizza, dalla tendenza naturale alla soddisfazione, desiderano il piacere. Non è umana l’insensibilità (anaisthesía) ai piaceri: «Persone che peccano per difetto in quel che concerne i piaceri e che si dilettano meno di quel che si deve non esistono proprio: infatti non è umana una tale insensibilità» (Eth. Nic., III, 14, 1119 a 5-7; EZA 246-249; cfr. anche Eth. Nic., II, 7, 1107 b 6-8).
Chiarire interamente il rapporto fra vita e piacere è possibile solo fino a un certo punto, ma il nesso stretto fra di essi è indubbio: «Se sia il piacere la causa per la quale scegliamo il vivere, o se sia il vivere la causa per la quale scegliamo il piacere, tralasciamo in questo momento. Vita e piacere sono infatti, in tutta evidenza, strettamente connessi e non ne è possibile una separazione, giacché senza attività non vi è piacere ed il piacere rende perfetta ogni attività» (Eth. Nic., X, 5, 1175 a 18-21; EZA 848-849).12

  1. Più di tutto l’oro di Dario. Necessità e bellezza della philía in Aristotele

 Per una vita felice e davvero degna dell’uomo non bastano i beni materiali, le ricchezze, gli onori, la fama, i poteri. Per le persone felici e virtuose occorrono gli amici che, nel loro essere altrettanto virtuosi, risultano anche piacevoli e utili (cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 22-28, 33-34).
In piena linea di continuità con queste posizioni dello Stagirita appare l’alta consapevolezza del valore dell’amicizia che ebbe nel secolo dei Lumi Gotthold Ephraim Lessing, ad esempio nel primo dialogo di Ernst und Falk. Gespräche für Freimäuer (1778-1780): «Nichts geht über das Lautdenken mit einem Freunde» («Nulla vale più del pensare ad alta voce con un amico»).13
Aristotele dedica al tema dell’amicizia (philía) gli splendidi e inesauribili libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea. Lucia Caiani pone un’avvertenza essenziale alla traduzione italiana del greco philía con amicizia: «Il termine greco philía ha un valore semantico più estensivo dell’italiano ‘amicizia’, con il quale l’abbiamo tradotto, ed esprime i sentimenti di affetto, di amore, di benevolenza verso gli altri; ossia (per usare una frase del Tricot…) ‘ c’est en somme l’altruisme, la sociabilité’. In connessione con philía troviamo l’aggettivo phílos, che può avere valore sia attivo che passivo ed indica tanto ‘colui che ama’ quanto ‘colui che è a sua volta amato’ (cfr. in proposito la definizione di Rhet., II, 4, 1381 a 1: phílos …estìn o philôn kaì antiphiloúmenos ‘amico…è colui che ama e che è a sua volta amato’)».14
In qualsiasi modo cerchiamo di definire l’amicizia, sappiamo che ogni definizione di essa non può che essere provvisoria, problematica e aperta, perché – come scrive Siegfried Kracauer in Ueber die Freundschaft (1917-1918) – essa presenta una «ricchezza insofferente del misero recipiente di una parola».15
Tenendo presente che per Aristotele la virtù (areté) è una éxis proairetiké (disposizione alla scelta), l’amicizia assomiglia a una disposizione (éxis) che, a differenza della passione (páthos), si accompagna ad una scelta deliberata (proaíresis. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1106 b 36; VI, 2, 1139 a 22-23; VIII, 7, 1157 b 28-31).
Lo Stagirita sottolinea a più riprese la necessità e la bellezza dell’amicizia (cfr. ad es. Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 4-6, 28-31; EZA 702-705), la quale si realizza meglio (si vedano i capitoli 12-13 del libro VIII dell’Etica Nicomachea) in una comunità politica, quando vi è qualcosa in comune da vivere, condividendo beni e interessi.
Il nesso qui istituito fra amicizia e politica, fra amicizia e giustizia è molto forte. Benevolenza (eúnoia, a cui è dedicato il capitolo 5 del libro IX) e concordia (omónoia, a cui è dedicato il capitolo 6 del libro IX) sembrano il punto di partenza dell’amicizia, ne preparano il terreno, ma non sono da confondere con essa, perché valgono soprattutto sul terreno sociale-politico.
La benevolenza non è da confondere con la phílesis (l’affetto), perché manca della tensione e del desiderio propri di essa, sorge anche per gli sconosciuti e manca dell’intensità propria della philía, della quale è però la condizione imprescindibile; la concordia sussiste fra i cittadini virtuosi non rivolti alla difesa dei meri vantaggi personali, è simile all’amicizia e si avvicina ad essa, ma è solo una «amicizia politica» (politiké philía), avente per oggetto gli interessi comuni dei cittadini e tutto ciò che riguarda la vita della pólis.16
Lo Stagirita non assume mai una posizione ingenuamente ottimistica, anzi mostra sempre notevole realismo e lucidità nel riconoscere che innumerevoli sono i mali e i dolori che tormentano la vita degli uomini, nel precisare che la maggior parte dei mortali preferisce ricevere benefici, ma si guarda bene dal compierne, «è priva di memoria e tende a ricevere il bene piuttosto che a farlo» (cfr. Eth. Nic., VIII, 16, 1163 b 28-29; IX, 7, 1167 b 26-27).
Il capitolo 2 del libro VIII dell’Etica Nicomachea prende l’avvio con un riferimento al Liside, il dialogo in cui Platone mette in bocca a Socrate l’affermazione secondo cui l’amicizia è da preferire a tutto l’oro di Dario (cfr. Liside, 211e-212 a). Aristotele riprende esplicitamente dal Platone del Liside la questione se l’amicizia sia fondata sulla somiglianza o sulla dissomiglianza degli amici. A questo proposito sia Platone sia Aristotele citano un celebre verso di Omero: «sempre il dio mena il simile al suo simile» (Odissea, XVII, 218).
Com’è noto, la conclusione del Liside (cfr. Liside, 222 d-223 b) ribadisce da un lato il valore dell’amicizia e dall’altro l’incapacità di trovare una soddisfacente definizione di essa. Forse uno dei motivi delle impasses del Liside consiste nel fatto che il suo autore non coglie – tale aspetto, peraltro, non verrà colto, mi sembra, nemmeno dallo stesso Stagirita in seguito – il valore dell’amicizia nella ricchezza della differenza capace di veicolare la reciprocità dell’affetto, della stima e della necessità degli amici. Dagli interrogativi e dai punti irrisolti del Liside riparte comunque Aristotele, pervenendo – diciamolo subito – alla conclusione che l’amicizia è fondata sulla somiglianza degli amici nella virtù.
E’ importante per lo Stagirita stabilire che cosa è tò philetón, ossia ciò che è amabile, è oggetto o suscettibile di amicizia, ciò per cui si ama quello che viene amato. In linea di principio, amabile, attraverso la mutua benevolentia e l’intimità degli amici, è il bene (tò agathón) e solo esso, ma di fatto gli uomini amano ciò che a essi sembra bene, «un amabile apparente» (tò philetón phainómenon. Cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 26-27; EZA 708-709).

  1. Le forme dell’amicizia secondo Aristotele e la teleía philía

Nelle tre principali forme che secondo Aristotele assume l’amicizia – secondo l’utile, secondo il piacere e secondo il bene o la virtù –, gli uomini amano ciò che ad essi sembra amabile, l’«amabile apparente».
Qui va sottolineato che questa celebre distinzione aristotelica tra le forme essenziali della philía (cfr. Eth. Nic., VIII, 3) ha molto da dirci anche oggi, se ad esempio pensiamo al fatto che l’amicizia secondo l’utile mostra un evidente filo di continuità con la ratio strumentale calcolante imperante nella civiltà moderna e contemporanea, non solo nell’ideologia borghese-capitalistica, liberista o neo-liberista che sia. Inoltre, l’amicizia secondo il piacere può essere facilmente collegata all’edonismo superficiale e disinvolto della società sirenico-spettacolare odierna, in cui trova sicuramente un suo forte revival.
Nelle amicizie secondo l’utile e secondo il piacere, l’amico – o, sarebbe meglio dire, il cosiddetto amico – non viene amato per quello che è in sé stesso, ma, appunto, per l’utile o per il piacere che procura, perciò esse sono accidentali (katà symbebekós, cfr. Eth. Nic., VIII, 3, 1156 a 14-19; VIII, 4, 1156 b 10-11; VIII, 6, 1157 b 1-5)17 e spesso effimere, non durature e sostanziali.
L’amicizia perfetta (teleía philía) è quella di coloro che sono buoni e simili nella virtù, è quella del tutto priva di invidia,18 in cui si ama l’amico per sé stesso: «L’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro, e buoni essi sono di per sé stessi» (Teleía d’estìn e tôn agathôn philía kaì kat’aretèn omoíon. Oûtoi gàr tagathà omoíos boúlontai allélois e agathoí, agathoì d’eisì kath’autoús. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 7-9; EZA 712-713).19
La somiglianza degli amici nella virtù non li rende identici e indistinguibili come due gocce d’acqua, ma salvaguarda la fruttuosa differenza tra di essi. L’amicizia perfetta – in cui gli amici si accettano e si amano per quello che sono, così come sono – è duratura (almeno sino a quando i buoni rimangono tali; la virtù di solito è durevole, non capricciosa), massimamente utile e piacevole, ma pure molto rara (pochi infatti sono sempre i veri amici) e bisognosa di tempo (le persone non si conoscono bene in poco tempo e con una scarsa frequentazione) per realizzarsi e consolidarsi.
Il realismo e la lucidità di Aristotele qui avvertono che non «è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all’altro ed abbia ottenuto fiducia. Coloro che instaurano rapidamente tra loro i vincoli dell’amicizia, vogliono essere amici, ma non lo sono se non sono anche degni d’amore e lo sanno. Infatti il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l’amicizia no» (Boúlesis mèn gàr tacheîa philías gínetai, philía d’oú. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 28-32; EZA 714-717).
La philía degli agathoí non è katà symbebekós, tende a essere più solida e stabile, perché si ama l’altro innanzitutto per quello che egli è e non per quello che ci può dare in termini di utilità e piacere.
I buoni, «amando l’amico, amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, diventando amico, diventa un bene per colui al quale è amico» (Eth. Nic., VIII, 7, 1157 b 33-34; EZA 722-723).
Tali individui – rileva ancora Kracauer – «sono simili alla pietra di luna, nella quale affiorano sempre più colori man mano che lo sguardo vi si immerge. In loro è insita una profondità che non si può attingere con le parole, e ogni persona che entra in contatto con loro percepisce – spesso in un sorriso o in una parola densa di richiami – la ricchezza della loro natura».20
La forma migliore di amicizia, fondata sul bene o sulla virtù, sancisce il primato del rispetto e della fiducia, del dialogo (cfr. Eth. Nic., VIII, 6, 1157 b 11-13) e dell’intimità, del vivere insieme (tò syzên) e dell’essere, dell’affetto e dell’intenzione, della reciproca benevolenza e della libera comunicazione sull’avere, sul calcolo, sull’utile, sul vantaggio, sul divertimento, sul piacere, tutti aspetti, peraltro, che almeno parzialmente sono o possono essere presenti anche in ogni vera amicizia, ma in modo secondario.
Secondo Giorgio Agamben, il convivere proprio dell’amicizia è definito «da una condivisione puramente esistenziale e, per così dire, senza oggetto: l’amicizia, come con-sentimento del puro fatto di essere. Gli amici non condividono qualcosa (una nascita, una legge, un luogo, un gusto): essi sono con-divisi dall’esperienza dell’amicizia. L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica».21
L’amicizia autentica non è di natura puramente oblativa né puramente ricettiva, non è mero éros né mera agápe, né mero dono né mero desiderio, ma è un insieme di dono e desiderio, dare e ricevere, un rapporto libero dal dominio e dalla costrizione.
Rilevano a questo proposito Gauthier e Jolif: «Il virtuoso, precisamente perché è virtuoso e perché amare fa parte della virtù, non potrà essere amico di un uomo meno virtuoso di lui, giacché non potrebbe amarlo nella stessa misura in cui è amato, ma potrà essere amico soltanto di un uomo virtuoso come lui, che egli amerà così come ama sé stesso. Aristotele non ha neppure supposto l’esistenza dell’amore-agápe. Se l’egocentrismo dell’éros si trova, nella sua concezione della philía, un poco corretto, questo non è per un annuncio, sia pur lontano, dell’agápe, ma esclusivamente per l’esigenza di reciprocità che vi è inclusa. La philía non è dono gratuito, non si tratta di donare senza ricevere; ma essa non è neppure puro desiderio, non riceve senza donare: misto di dono e di desiderio, essa ricambia ciò che riceve, ed è per questo che non è né, come l’éros, l’amore dell’inferiore per il superiore, né, come l’agápe, l’amore del superiore per l’inferiore, ma, propriamente parlando, l’amore dell’uguale per l’uguale, amore disinteressato nel senso che non richiede come prezzo del suo amore stesso che dell’amore, ma che non è per nulla meno uno scambio, giacché lo scambio per Aristotele è della stessa natura dell’amicizia».22
L’amicizia virtuosa è disinteressata e duratura perché qui gli amici amano i loro caratteri, il loro êthos, si amano l’un l’altro per sé stessi, per la loro personalità e non in vista di altro (cfr. Eth. Nic., IX, 1, 1164 a 10-13). Il buono non solo vuole, ma agisce concretamente per il proprio bene e per il bene dell’amico.

  1. La philía tra egoismo e altruismo

Nel capitolo 4 del libro IX dell’Etica Nicomachea Aristotele avvia l’analisi di quelli che chiama tà philiká, i tratti caratterizzanti l’amicizia dell’uomo virtuoso (o epieikés oppure o agathós). I philiká sono cinque, rivolti pròs éteron («verso l’altro») e altrettanti rivolti pròs eautón («verso sé stesso»).
Il virtuoso vuole infatti fare del bene all’amico e a sé stesso, augura una lunga vita all’amico e a sé stesso, ama vivere in compagnia dell’amico e di sé stesso, condivide le opinioni e i gusti con gli amici, sperimenta gioie e dolori con l’amico e sulla propria pelle (sui philiká cfr. tra l’altro ECA 443, nota 35; EZA 1047-1049). Per lo Stagirita c’è una corrispondenza tra i sentimenti d’amicizia che l’uomo virtuoso prova verso sé stesso e i sentimenti di amicizia che prova verso gli altri.
Il discorso aristotelico sulla philía ci aiuta ancor oggi a gettar nuova luce sulle controverse questioni concernenti l’egoismo e l’altruismo. Abbiamo già osservato che l’amicizia autentica non è affatto invidiosa e comporta anzi la volontà di fare ciò che è bene per l’amico (cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 31), senza però dimenticare che autô gàr málisth’ékastos boúletai tagathá («è soprattutto per sé stesso che ciascuno vuole ciò che è bene», Eth. Nic., VIII, 9, 1159 a 12; EZA 732-733; cfr. anche Eth. Nic., IX, 8). Questo stesso bene che riserva a sé stesso, il virtuoso lo riserva anche all’amico, ésti gàr o phílos állos autós (giacché l’amico è un altro sé stesso. Cfr. Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 31-32; EZA 784-785; IX, 9, 1169 b 6-7; IX, 9, 1170 b 6-7).
E’ questa la fondamentale dimensione egoistica della philía aristotelica, sottolineata anche da studiosi come il Tricot – per il quale la philía si fonda sull’egoismo dell’uomo virtuoso che si confonde con l’altruismo (infatti o agathós «nei rapporti con l’amico sta come nei rapporti con sé stesso», pròs dè tòn phílon échein ósper pròs autón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 30-31; EZA 784-785) – e come il Robin – per il quale il luogo sorgivo dell’altruismo nell’Etica Nicomachea è l’egoismo del buono che si estende fuori di sé con una sorta di «irraggiamento».23
Si tratta qui di un egoismo ben diverso dall’egoismo meschino e miope, perché l’egoismo del virtuoso (su cui si veda fra l’altro l’«Introduzione» di Marcello Zanatta, cfr. EZA 66-67)24 corrisponde all’amore bene inteso di sé, che vuole trasferire e proiettare il sano e necessario amore di sé anche all’altro e assume quindi i tratti dell’altruismo. Il vero amico è quello del phílautos che coltiva i sentimenti d’amicizia (i philiká) con gli altri a partire dal rapporto che ha con sé stesso, dall’amore sacrosanto e ineludibile di sé (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 1-10). L’egoismo più diffuso, quello biasimevole e meschino della moltitudine, è di chi antepone sempre e comunque i propri interessi a tutto il resto, mirando solo ad accumulare quanti più onori, ricchezze, poteri, piaceri corporei possibili.
L’egoismo sano del phílautos – come lo definirà anche Nietzsche in Also sprach Zarathustra (1883-1885), differenziandolo da quello «malato» – asseconda il suo vero sé, ama e coltiva la parte migliore di sé (tò kyriótaton, ossia il noûs. Cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 30), non è akratés («che non si domina»), ma enkratés («temperante», inteso come «colui che domina su di sé», cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 34-35), sa padroneggiare e controllare le sue passioni, presuppone un profondo dialogo interiore di sé con sé stesso, ricerca la bellezza morale (tò kalón), la stima in sé e negli altri, soppesa i veri grandi beni dell’esistenza, coltiva saggezza, senso della misura e del limite, uso della ragione.
Tale egoismo del virtuoso non costituisce un impedimento al rapporto con gli altri e un motivo di conflitto, ma, al contrario, agisce anche a loro vantaggio, si confonde con l’altruismo, è l’unica via per incontrare davvero l’altro. Uno splendido detto del buddhismo appare in grande consonanza con tutto ciò: «badando a sé stessi si bada agli altri, badando agli altri si bada a sé stessi».25
I veri amici sono phílautoi (egoisti o «amanti di sé»), nel senso che non fanno nulla che prescinda da sé stessi: essi vogliono e fanno il bene dei loro amici a partire da sé stessi, dal giusto e necessario amore che hanno per sé stessi.
L’uomo virtuoso ha addirittura il dovere di essere phílautos nel senso che abbiamo chiarito, perché in tal modo, sviluppando appieno le proprie potenzialità, qualità, capacità ed energie, gioverà a sé stesso compiendo belle azioni e sarà nel contempo generoso, utile agli altri, sino al punto di sacrificare talvolta la vita – se necessario – per il bene comune (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1169 a 3-20).
Sicuramente la vicinanza interiore, il dialogo fecondo, la confidenza intima, la partecipazione profonda caratterizzano questa modalità di philía. Gli esiti positivi dell’agire dei phílautoi si riscontrano sia nella sfera privata sia nella comunità, nel campo dell’agire sociale e pubblico. Delle cose belle amate dal phílautos fa parte anche la capacità di aiutare e di donare (Von der schenkenden Tugend, Della virtù che dona è non a caso il titolo dell’ultimo capitolo della Parte Prima di Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche).26
L’egoismo del virtuoso si fonde così indubbiamente con l’altruismo, con la disponibilità ad aiutare e a favorire gli altri. La sua attività – il suo compiere delle azioni – è l’attuazione delle proprie potenzialità che è in piena armonia con l’attuazione delle potenzialità altrui. Bisogna dunque essere “egoisti”, amanti di sé nel modo giusto.
Ciò vale anche per Spinoza, che sulla scia di Aristotele e nel pieno rispetto dello spirito autentico del suo pensiero, scrive mirabilmente nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata (IV, 18): «Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami sé stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile, e appetisca tutto ciò che conduce l’uomo ad una maggiore perfezione, e, in senso assoluto, che ognuno si sforzi di conservare il proprio essere per quanto dipende da lui. E questo è così necessariamente vero come è vero che il tutto è più grande della parte. […] All’uomo niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le menti e i corpi formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».27

  1. L’amicizia, la condivisione della vita e la dolcezza dell’esistere

Perché l’uomo virtuoso e felice ha bisogno degli amici, lui che sa star da solo ed è capace di autosufficienza (autárkeia), sia pure sempre relativa e mai assoluta? Per cominciare a rispondere dobbiamo riferirci a ciò che – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – più volte ribadisce Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica circa l’essere dell’uomo inteso come animale sociale e politico.
L’uomo virtuoso e felice non può essere altro che un animale sociale, politico e culturale, incline al vivere sociale e bisognoso di amicizia. Per lo Stagirita la felicità (eudaimonía) è una sorta di attività (enérgeia) consistente nel vivere necessariamente insieme agli altri; si tratta di agire, di essere attivi in modo stimolante, piacevole e fruttuoso per sé e per gli altri.
Il vero e più profondo godimento dei beni non può essere un fatto meramente solitario, ma si dà attraverso la dolcezza naturale del vivere in società; delle cose belle e buone dell’esistenza si gioisce meglio insieme agli amici che provano un reciproco piacere e una reciproca volontà di amarsi, senza tutti quegli inutili risentimenti, invidie, meschinità e perfidie che avvelenano soltanto la vita.
Per gli esseri umani il vivere si definisce fondamentalmente con le facoltà della sensazione e del pensiero, ricordando che la dýnamis (facoltà, potenza) va sempre ricondotta all’elemento essenziale dell’enérgeia (attività, atto).
Vivere (tò zên), nel suo senso più pieno e profondo, equivale per lo Stagirita a sentire (aisthánesthai) e a pensare (noeîn) e tutto ciò è di per sé cosa buona e piacevole (cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 19-26). Noi umani non soltanto svolgiamo tutte le nostre attività (il vedere, l’udire, il camminare, il pensare, etc.), ma siamo coscienti di svolgerle e proviamo piacere in esse: «esistere (tò eînai) significa infatti sentire e pensare. Sentire che viviamo è di per sé dolce, poiché la vita è per natura un bene (phýsei gàr agathòn zoé) ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene. Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo (synaisthanómenoi) provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è, infatti, un altro sé stesso (éteros gàr autòs o phílos estín). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (tò autòn eînai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aísthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinoneîn) discorsi e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono (syzên) e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo» (Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 33 – 1170 b 14).
La presa di coscienza non solo della nostra esistenza (di che cosa vuol dire per noi vivere), ma anche dell’esistenza degli amici e degli altri (di che cosa significa per loro stessi e per noi l’esistenza degli amici e degli altri) non può essere qui più netta e radicale. Massima è qui davvero l’apertura a un sentimento positivo dell’esistenza capace di investire col suo soffio energetico e accogliente tutti gli ambiti della vita quotidiana.
Desiderabile e piacevole è la compagnia degli amici, che sperimentano e avvertono assieme a noi i beni del sentire e del pensare, la piacevolezza dell’esistere, la comunanza dei pensieri, delle azioni e dei discorsi.
Così commenta Agamben queste indicazioni aristoteliche: «L’amicizia è l’istanza di questo con-sentimento dell’esistenza dell’amico nel sentimento dell’esistenza propria. Ma questo significa che l’amicizia ha un rango ontologico e, insieme, politico. […] L’amico non è un altro io, ma una alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».28
Se la vita è naturalmente bella e orientata al piacere (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1175 a 10-17) e se vivere insieme (syzên) è fondamentalmente con-sentire (synaisthánesthai), Aristotele può affermare con risolutezza che la philía è koinonía (comunione. Cfr. Eth. Nic., IX, 12, 1171 b 32-35; VIII, 11, 1159 b 31-32; VIII, 14, 1161 b 11), come condivisione delle dolcezze dell’esistenza e, aggiungiamo noi, pure delle sue pene, dei suoi immensi dolori.
Gli amici sono infatti necessari sia nelle situazioni di prosperità e positività sia nelle situazioni di avversità e negatività. Anche il buddhismo parla mirabilmente di Karuna – compassione, intesa come capacità di partecipare ai dolori altrui – e di Mudita – con-gioire, il Mitfreuden di Nietzsche, inteso come capacità di partecipare alle gioie altrui, senza alcuna invidia e bassezza.
La philía è koinonía, nel senso di una comunione esistenziale ed affettiva, in cui la fraternità dell’amicizia, purtroppo rara, rincuora per quanto possibile la vita fragile dei mortali. Ciò che importa è il modo, l’animo con cui gli amici ci sono vicini nelle sofferenze e nelle cose piacevoli.
Scrive a questo proposito Aristotele, esaltando pure la parresía, già indicata da Euripide nello Ione e nell’Ippolito come caratteristica saliente del cittadino e dell’uomo libero: «Verso i compagni e i fratelli occorre usare libertà di parola (parresía) e comunanza di ogni cosa» (Eth. Nic., IX, 2, 1165 a 29-30. Sul parresiastés cfr. anche Eth. Nic., IV, 8, 1124 b 29).
In Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo, 1923), Kracauer parla del dialogo profondo proprio dell’amicizia, che produce mutamenti sostanziali nei soggetti coinvolti, diventa processo e unione esistenziale, un «con-vivere» in cui gli individui, mantenendo la loro piena libertà e l’autonomia della personalità, «esercitando reciprocamente un’azione maieutica, avanzano l’uno grazie all’altro nella loro esistenza».29
Ora, il dialogo degli amici non è di per sé l’assoluto, la verità intesa come dato oggettivo e definitivo, ma è un percorso, l’esperienza di un cammino, una tappa che avvicina i viandanti alla verità, senza poterla possedere, ma respirandone l’atmosfera.
Non può esserci philía se non vi è qualcosa in comune (tò koinón) tra gli umani e quanto «più comune è la vita» (koinóteros o bíos. Cfr. Eth. Nic., VIII, 14, 1162 a 7-9) tanto più l’amicizia è piacevole e utile.
Qui siamo ancora ben lontani dalla metafisica della soggettività illimitata coltivata dall’idealismo e massicciamente presente o serpeggiante nella storia della filosofia occidentale. Emerge invece un sano senso del vivere, del sentire e del pensare, dell’esistere e dell’essere, sotto il segno della misura e del limite, nell’ambito del destino a noi concesso.

  1. Saggezza e sapienza in Aristotele

Come si sa, essendo le virtù dianoetiche superiori a quelle etiche, per Aristotele la sapienza (sophía) è superiore alla saggezza (phrónesis) – forma di intelligenza pratica che indirizza l’azione nell’ambito dei beni umani – e la felicità trova la sua massima realizzazione nell’esercizio della sapienza. La felicità è infatti «attività secondo virtù» (kat’aretèn enérgeia); ora, la virtù più alta è ciò che in noi vi è di migliore, l’intelletto (noûs) o comunque vogliamo definire qualcosa che in noi ha conoscenza delle verità più alte, di tutto ciò che vi è di bello e divino, «o perché è in sé stessa divina, o perché è la cosa più divina (tò theiótaton) di ciò che è in noi»; tale attività non può essere che la theoretiké enérgeia (attività contemplativa), che costituisce la «felicità perfetta» (teleía eudaimonía. Cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 12-18; EZA 860-863).
Questa attività è la più elevata per vari motivi: perché è l’attività della parte in noi più alta, è la più continua, la più piacevole, la più autosufficiente, la più amata per sé stessa. Anche il sophós (sapiente) ha bisogno delle cose necessarie per l’esistenza ed è meglio se ha dei collaboratori attorno a sé, ma egli – rispetto al sóphron (saggio) che esercita la saggezza nel rapporto con gli altri – anche da solo è perfettamente capace di theoreîn (contemplare) ed è quindi massimamente autosufficiente (autarkéstatos), lontano dagli affari e dagli impegni pratici, dalle occupazioni politiche o militari che, pur avendo la loro importanza, gli tolgono quel tempo libero che è la sua risorsa più preziosa e gli consente – se una lunga e fruttuosa vita gli è concessa – di attingere la teleía eudaimonía e di diventare immortale (athanatízein), nei limiti delle possibilità umane (cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 19-1178 a 8).
Com’è noto, nella Metafisica lo Stagirita riserva a Dio l’assoluta autosufficienza, il bene nella sua pienezza, la perfezione massima della contemplazione e beatitudine eterne; contemplazione-beatitudine, theoretiké enérgeia che è propria anche dell’uomo, ma solo per brevi tratti e nei limiti della sua vita mortale.30
Nel capitolo 8 del libro X dell’Etica Nicomachea scrive su ciò lo Stagirita: «per gli dei tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Invece nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione (tôn d’állon zóon oudèn eudaimoneî, epeidè oudamê koinoneî theorías). Di quanto dunque si estende la speculazione si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare (tò theoreîn) saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa (ou katà symbebekòs allà tèn theorían): giacché questa di per sé stessa è degna di onore (timía). Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione» (Eth. Nic., X, 8, 1178 b 25-32; EZA 872-873).
L’esistere è dunque secondo Aristotele un bene, ma per l’uomo è necessaria una ricerca, un travaglio, un lavoro di scavo al fine di individuare il proprio bene, di pervenire al proprio autentico ben-essere, una ricerca dagli esiti nient’affatto scontati, che deve far leva sulla parte migliore di noi stessi. Proprio in ciò si misura la differenza e la nostra distanza dal divino: «infatti Dio possiede già ciò che è bene» (échei gàr kaì nûn o theòs tagathón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 21-22; ECA 444).
Ora, nel tentativo di rileggere criticamente queste tesi aristoteliche e di ripensarle ai fini di una migliore comprensione dei problemi del nostro tempo, proprio la teleía eudaimonía della vita contemplativa può essere rivalutata in modo provocatorio nella nostra epoca caratterizzata dal dominio pressoché incontrastato, a tutti i livelli, della ratio strumentale calcolante e di una ormai illimitata volontà di potenza economico-politica, scientifico-tecnologica e militare.
La perfetta felicità della theoría, però, non deve indurci a dimenticare o a sottovalutare il ruolo della phrónesis, della saggezza rivolta alle pratiche della vita umana e dei suoi rapporti.

  1. Aristotele e noi. La civiltà planetaria e la questione del bene comune

Al di là dei vecchi ideologismi sempre più fuorvianti e dannosi, la phrónesis ci comanda oggi di lottare per la difesa dei beni comuni, di diventare militanti dei beni comuni sempre più minacciati.
Non solo l’acqua, l’aria, la terra, gli elementi della phýsis cara al pensiero presocratico, ma anche i beni comuni più propriamente umani come la philía aristotelica, ossia l’amicizia e la capacità di stabilire rapporti umani davvero soddisfacenti vanno difesi e salvaguardati da un sistema economico, politico e militare imperniato sulla volontà illimitata di dominio, profitto, rapina e sfruttamento.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrano Aristotele e l’Etica Nicomachea con tutto ciò.
Osserva ad esempio Günther Anders in un’intervista del 1979 pubblicata in quello stesso anno col titolo Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (Se sono disperato, ciò non mi riguarda): «Nei settantacinque anni della mia vita, il mondo e la posizione dell’uomo nel mondo sono cambiati così radicalmente che io sono stato costretto a partire dalla verità stessa. Deviare attraverso le opinioni dei filosofi degli ultimi 2500 anni non solo sarebbe stato superfluo ma anche insensato, per non dire immorale. Avrei perso troppo tempo prima di arrivare a esercitare un’influenza sul mondo contemporaneo. Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare a spiegare l’Etica Nicomachea. La comicità del novanta per cento della filosofia odierna è insuperabile. Le critiche che mi sono state rivolte per il modo ‘immediato’ del mio fare filosofia, come se i diecimila libri dei miei avi non fossero esistiti, e perché io non avevo saccheggiato quei tesori, non mi toccano molto. Io uso il mondo stesso come libro, e siccome è ‘scritto’ in una lingua quasi incomprensibile, cerco di tradurlo in un linguaggio comprensibile e forte».31
Sul terreno etico-politico e antropologico una ben diversa risposta, rispetto a quella fornita qui da Anders, è venuta dal dibattito suscitato dalla cosiddetta Rehabilitierung der praktischen Philosophie che in Germania, nella seconda metà del XX secolo, ha trovato in autori come Aristotele e Kant riferimenti fondamentali.32
Ora, proprio Aristotele nell’Etica Nicomachea ci ricorda, sia pure in riferimento a tutt’altro contesto storico-epocale rispetto al nostro: «A poca cosa si riducono […] le amicizie e il giusto (ai philíai kaì tò díkaion) nelle tirannidi; nelle democrazie, invece, la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali (pollà gàr tà koinà ísois oûsin)» (Eth. Nic., VIII, 13, 1161 b 8-10; EZA 748-749).
Oggi la minaccia concerne il Tutto del mondeggiare del mondo, del coseggiare della cosa e dell’umanità dell’uomo; il compito urgente del pensiero, forse sempre più disperato, riguarda la cura del Tutto.
In tempi remoti, con un detto memorabile il cui valore profetico e ammonitore risuona oggi con ancor più forza di quando fu pronunciato, scrisse Periandro corinzio, uno dei sette sapienti dell’antica Grecia: meléta tò pân (abbi cura del Tutto).
Il detto fu valorizzato e commentato da par suo già nei Grundbegriffe, un corso di lezioni che Martin Heidegger tenne a Freiburg nel semestre estivo del 1941.33
Diventa decisiva la riflessione su ciò che è comune (tò koinón), sul bene comune che deve essere condiviso e fruito equamente da tutti, non rapinato, saccheggiato, privatizzato, degradato come sta avvenendo sotto i nostri occhi secondo le modalità proprie della perversa forma attuale della cosiddetta globalizzazione.
Il mondo odierno vive un disagio e uno smarrimento enormi, una profonda crisi, un termine abusato e piuttosto logoro, ma che esprime innanzitutto una devastante sfiducia nell’uomo, nella possibilità di una nuova civiltà e di una nuova umanità.
Abbiamo invece un bisogno estremo di ritrovare fiducia in noi stessi, negli altri e nelle inedite possibilità umane. Seguiamo ancora le fertili indicazioni di Kracauer: «Come il vero amore, l’amicizia dona fiducia dell’uomo. Essa rimane sempre un luogo in cui rifugiarsi quando la sventura si abbatte sull’individuo e questi viene abbandonato da tutti. Appoggiandosi all’amico egli può e anzi deve risollevarsi, imparando ogni volta attraverso di lui a credere di nuovo negli uomini. Finché il suo essere può riscaldarsi al calore di un altro, l’estrema amarezza che rende insensibili non ha potere su di lui. L’amicizia allarga lo spirito».34
Come abbiamo mostrato sopra, Aristotele pone in evidenza il fatto che molte sono le cose comuni a coloro che sono eguali: ciò sembra anche nella situazione attuale il manifesto di un nuovo pensiero che, dismesse le vecchie armature ideologiche, ha responsabilmente a cuore il destino della civiltà planetaria, la cura del Tutto, la salvaguardia della terra, dell’umanità dell’uomo, del mondeggiare del mondo, del coseggiare delle cose. Esso ha a cuore, in altre parole, la verità, un termine che oggi non gode di buona fortuna nemmeno in molti ambienti filosofici e accademici ufficiali.
Noi non sappiamo se questo nuovo pensiero potrà radicarsi ed esercitare un’influenza effettiva sul corso del mondo oppure se resterà un reperto archeologico del mondo accademico e teorico, senza alcuna possibilità di incidenza nel mondo reale. Sappiamo però con certezza – come abbiamo cercato di mostrare in queste pagine – che pure Aristotele può aiutarci nella direzione del consolidamento di un pensiero caratterizzato dalla passione per la verità e rivolto alla cura del Tutto.

Franco Toscani

 

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

Note

1 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 14-22, in Etiche. Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande Etica, a cura di L. Caiani, «Introduzione» di F. Adorno, Utet, Torino 1996 (d’ora in poi citata con la sigla ECA), p. 195. Sul problema dei tre tipi fondamentali di vita, cfr. l’«Introduzione» di F. Adorno, pp. 15-16.

2 Su tale rapporto s’interroga lucidamente anche Claudio Mazzarelli nella sua «Introduzione» ad Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979 (d’ora in poi citata con la sigla EMA), pp. 7-10.

3 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 3, 1139 b 20; VI, 4, 1140 a 1; VI, 4, 1140 a 13, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1998, 2 voll. (d’ora in poi riportata con la sigla EZA), vol. II, pp. 590-593.

4 F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 109.

5 Favorevole alla tesi del primato della politica sull’etica nello Stagirita è invece G. Mari nel suo Pedagogia in prospettiva aristotelica, «Prefazione» di G. Vico, La Scuola, Brescia 2007, p. 26.

6 R.A. Gauthier-J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, Introduction, traduction et commentaire, 4 voll., Paris-Louvain 1970, II, 1, pp. 11-12.

7 Cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1169 b 18-19; I, 5, 1097 b 8-11; EMA 24, 398; Eth. Eud., VII, 10, 1242 a 24-25; ECA 15, 161; Pol., I, 2, 1253 a 2-3; Pol., III, 6, 1278 b 21, in Aristotele, Opere. Politica, Trattato sull’economia, vol. IX, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1983 (d’ora in poi cit. con la sigla PLA), p. 6 e p. 82.

8 K. Marx, Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’, in K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, I, 2, Appendici, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, B. Maffi e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975, p. 1142.

9 Secondo Giuseppe Mari, l’attenzione specifica all’agire rende il pensiero aristotelico assai fruibile anche in un’ottica pedagogica. Cfr. G. Mari, Pedagogia in prospettiva aristotelica, cit., p. 61.

10 Sull’idea di bene o di “buono” in Platone, cfr. M. Vegetti, «Il ‘buono’ e l’‘uno’», in Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, pp. 224-231.

11 C. Mazzarelli, «Introduzione», in Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 39. Cfr. anche Platone, Filebo, a cura di C. Mazzarelli, Marietti, Torino 1975.

12 Sul tema del piacere in Aristotele si veda fra l’altro: A.-J. Festugière (Introduction, traduction et notes), Aristote. Le plaisir (Eth. Nic. VII 11-14, X 1-5), Paris 1936; J. Léonard, Le bonheur chez Aristote, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1948; G. Lieberg, Die Lehre von der Lust in den Ethiken des Aristoteles («Zetemata», Heft 19), München 1958.

13 G. E. Lessing, Ernst und Falk. Gespräche für Freimäurer (1778-1780), Ernst e Falk. Dialoghi per massoni, in G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006, p. 664.

14 ECA, p. 404, n. 1. Cfr. anche Reth., II, 4, 1381 b 26-27: «noi amiamo tutti coloro che ricambiano pienamente ai loro amici amicizia con amicizia».

15 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. di L. Portesio, Sull’amicizia, «Postfazione» di K. Witte, Marietti, Genova 1989, p. 11.

16 Cfr. Eth. Nic., IX, 6, 1167 b 2-4; EZA 792-793; sulla omónoia cfr. anche Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 24-26; su benevolenza e concordia si veda anche Eth. Eud., VII, 7, 1241 a 1-35; ECA 157-158. Com’è noto, pure il libro VII dell’Etica Eudemia è dedicato all’amicizia (ECA 136-175).

17 A proposito del libro VIII dell’opera si veda fra l’altro L. Ollé-Laprune, Aristote. Morale à Nicomaque, livre VIII, Paris 1886; in particolare, cfr. p. 143, per ciò che riguarda il capitolo 3, le fini considerazioni dell’autore sull’impiego dei verbi phileîn, agapân e stérgein per denotare l’amore nelle differenti forme aristoteliche di amicizia; cfr. anche il commento di Zanatta, in EZA 998-999.

18 Su di essa si veda E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011.

19 Su questo aspetto fondamentale si veda il commento di R. A. Gauthier – J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 676.

20 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918), trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 33.

21 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, p. 19.

22 R. A. Gauthier-J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 690.

23 Cfr. J. Tricot, Aristote. Éthique à Nicomaque (Introduction, traduction, notes et index), Paris 1967, p. 403, n. 3; L. Robin, Aristote, Paris 1944, p. 244; EZA 1015, 1031.

24 Di un egoismo «sano, naturale, necessario, irrinunciabile, identico alla vita» parla anche Ludwig Feuerbach nel suo ultimo scritto del 1868 Zur Moralphilosophie. Cfr. L. Feuerbach, Etica e felicità, a cura di F. Andolfi, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 46.

25 Sull’etica buddhista si veda fra l’altro G. Pasqualotto, Fondamenti dell’etica buddhista, «Dharma. Trimestrale di buddhismo per la pratica e il dialogo», n. 5, aprile 2001, pp. 48-54.

26 Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883-1885), trad. it. di S. Giametta, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 1985, pp. 92-97. Su queste stesse tematiche rinvio a F. Toscani, L’etica del soggiorno e il problema dell’identità, «Testimonianze» n. 432, novembre-dicembre 2003, pp. 26-32.

27 B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972, pp. 281-282.

28 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, pp. 16-17.

29 S. Kracauer, Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo,1923); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 80. Cfr. anche p. 47.

30 Cfr. Metaph., XII, 7, 1072 b 14-18, 25, in Aristotele, Metafisica, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2002, pp. 511-512; cfr. anche Eth. Eud., VII, 12, 1245 b 14-19; ECA 172-173.

31 G. Anders, Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (1979), in Id.,Opinioni di un eretico, trad. it. di R. Callori, «Presentazione» di S. Velotti, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 81-82.

32 Su di essa si veda fra l’altro: AA.VV., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll., Rombach, Freiburg 1972-74; F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA. VV., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisci, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97; Id., Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984 (ripubblicato con «Prefazione» di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2010); Id., La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, “Il Mulino” n. 35, 1986, pp. 928-949; Id., Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla ‘riabilitazione della filosofia pratica’, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a cura di C. A. Viano, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 128-148.

33 Cfr. M. Heidegger, Grundbegriffe ( Sommersemester 1941), Herausgeberin P. Jaeger, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (vol. LI della Gesamtausgabe); trad. it., Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, il melangolo, Genova 1989.

34 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 42.

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Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Esaminando le caratteristiche peculiari di quel processo di «razionalizzazione irrazionale» che è venuto via via imponendosi nella contemporaneità capitalistica, dissociando infine «la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana»,1 Massimo Bontempelli ha cura di evidenziare il nesso che intercorre tra un siffatto paradigma di razionalità e l’ipostatizzazione storico-sociale della categoria ontologica del mezzo: «Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo [ossia il suo valere come strumento indispensabile per una cieca affermazione di potenza nel contesto di una società dominata dalle strategie della lotta intercapitalistica nelle sue molteplici dimensioni economiche, politiche, culturali]».2
Sono le modalità sociali attuali, scrive a sua volta Luca Grecchi in pagine di spiccata intelligenza filosofica, a costituire il terreno più fecondo per una simile relativizzazione strumentalistica e nichilistica del valore e del senso del nostro esistere, sollecitando il generalizzarsi intensivo ed estensivo di quella crematistica per la quale si viene gravemente intorbidando l’«originario fiume umanistico» che percorre dall’inizio la storia degli uomini e reca con sé un’essenziale riferimento alla dimensione razionale, morale e comunitaria delle migliori potenzialità della natura umana.3 Se la “regola d’oro” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, o, positivamente, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) è il «principale comune denominatore, attraverso i secoli e le civiltà» di tale fiume,4 la “regola di latta” è l’espressione quintessenziale del suo contraltare dialettico, negatore e spregiatore, in nome di un cieco utilitarismo individualistico, della pienezza di un contesto di vita eticamente realizzato.5 «Nel clima antiumanistico oggi dominante rappresentato dalla regola di latta – sostiene dunque Grecchi –, l’individuo si percepisce come un atomo isolato dagli altri, e relazionantesi ad essi solo tramite un rapporto strumentale. Quando domina una simile regola, per ciascuno gli altri uomini rappresentano solo dei mezzi necessari al raggiungimento del fine della massimizzazione della propria utilità, ed il pensiero è ritenuto anch’esso soltanto o una modalità in tal senso persuasiva (relativismo, retorica, ecc.), o una modalità strumentale al raggiungimento di un determinato fine (pragmatismo, ecc.). È evidente però come tale regola costituisca solo il risultato di modalità di vita inumane, in cui all’uomo rimane sconosciuta, e dunque impedita, la propria vera essenza, e con essa la comprensione della necessità della sua cura per il raggiungimento di una condizione di felicità».6
L’incessante rinvio di Grecchi a quelle forme storicamente determinate della riproduzione sociale complessiva che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche più alte del genere umano, distinguono radicalmente le sue posizioni da quelle – pur tra loro differenziate – diagnosi sui mali del nostro tempo, tendenti a ravvisare nel puro e semplice dominio della tecnica la fonte principale della relativizzazione nichilistica oggi imperante. L’enfasi sulla «centralità della tecnica» quale connotazione essenziale della società e della cultura occidentali finisce infatti col misconoscere una ben più decisiva centralità, quella del modo capitalistico di produzione, la cui dinamica, afferma correttamente Bontempelli nel suo scritto sopra citato, è invece l’unica a poter rendere compiutamente conto della «proliferazione tendenzialmente infinita delle tecniche, e [della] progressiva tecnicizzazione di ogni spazio umano».7 «Indicare la tecnica come essenza dell’Occidente» (e, in prospettiva, per il tramite del mondializzarsi dell’economia e della cultura occidentali, del mondo intero) equivale perciò, commenta ulteriormente Grecchi, ad indicare non «il fenomeno reale, ma solo la sua ombra, e questo comporta indubbiamente dei vantaggi a quegli interpreti che non vogliono inimicarsi troppo le strutture oggi dominanti. Il fenomeno reale è infatti il modo di produzione capitalistico con tutto il suo portato di ingiustizia, sopraffazione e sofferenza, di cui la tecnica capitalistica costituisce semplicemente l’apparato di funzionamento».8
Checché ne dicano Heidegger, Severino o Galimberti, la causa principale della tecnicizzazione vieppiù accresciuta dell’economia e dell’ambiente umano di vita non è dunque certamente da ricercarsi «nella struttura autoincrementativa dell’apparato tecnico», ma, in maniera ben più convincente, «nelle finalità e nelle strutture del modo di produzione sociale» che nella nostra epoca tende ad imporsi su scala globale, determinando «la derealizzazione della vera natura dell’uomo. È infatti la brama del massimo profitto (non l’incremento dell’Apparato tecnico) che conduce alle guerre ed alle attuali modalità della produzione e della distribuzione di beni e servizi. È tale esasperata brama che spezza tuttora il pianeta in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, integrati ed emarginati, e che pone l’alienazione come unica (ma indesiderabile) forma di eguagliamento universale. Si tratta forse di una lettura datata o retrò? Può essere, ma finché di questa lettura non verrà data una seria confutazione (ed, a nostra conoscenza, essa non è stata data), continueremo a considerare il modo di produzione capitalistico, e non la tecnica, come il cuore pulsante dell’attuale Occidente».9
Respinta una simile analisi dei guasti prodotti dalle vicende della metafisica occidentale, la quale dovrebbe appunto esprimere la sua natura nichilistica – o, se si preferisce, la sua “follia” – nel dominio planetario della tecnica, e denunciati con altrettanta forza, sulla scorta soprattutto degli studi critici di Domenico Losurdo, i tratti disumanizzanti del pensiero liberale, teoreticamente e storicamente contiguo all’atomizzazione mercificante della crematistica capitalistica,10 Grecchi sostiene risolutamente la necessità inderogabile di recuperare quella che gli appare essere l’insuperata lezione umanistica della grande filosofia greca. È stato infatti Platone, egli precisa, ad aver per primo compreso che l’essere umano «è nella sua essenza un ente razionale, morale e simbolico»,11 portatore dunque di contenuti «che purtroppo la contemporaneità ha rimosso, sfavorendone una effettiva realizzazione e condannando l’uomo all’infelicità».12 Il vero bene dell’umanità consiste infatti, secondo il decisivo insegnamento platonico e aristotelico, nella costituzione storica di un tessuto comunitario del vivere sociale che stimoli positivamente nei singoli l’attuarsi di un equilibrio armonico delle tre componenti suddette della natura umana: la razionalità – intesa soprattutto come ricerca sui significati delle cose in funzione del loro miglior utilizzo per una compiuta realizzazione etico-sociale –,13 la quale «consente di comprendere gli uomini e il mondo, nonché la corretta misura dell’approccio di ogni uomo al mondo»;14 la moralità, nella sua triplice articolazione di affetto, comunitarietà e amore,15 che «consente di rapportarsi al mondo in maniera consapevole, e di incarnare adeguati comportamenti di vita»;16 la simbolicità, che permette invece «di arricchire il proprio approccio esistenziale tenendo conto della ambivalenza dei contenuti che inevitabilmente ci si pongono innanzi».17
L’ostilità costantemente risorgente nella storia contro la possibilità medesima di definire teoreticamente sia le migliori potenzialità dell’uomo sia quella loro proporzionata ed equilibrata combinazione in cui va ravvisata, come si è detto, l’autentica felicità degli esseri umani – ostilità particolarmente accentuata nell’epoca della capillare mercificazione degli ambiti di vita e della relativizzazione consumistico-capitalistica di comportamenti, bisogni, scopi –, deve ricondursi, a parere di Grecchi, ad un duplice ordine di fattori tra loro connessi, il primo di natura antropologica, il secondo di carattere storico-sociale. «Il motivo di ordine antropologico concerne il fatto che l’uomo, come è noto, è il solo fra gli esseri viventi ad essere pienamente consapevole della propria condizione mortale. […] Proprio per l’angoscia che il tema della morte pone innanzi, l’uomo che non sa vivere in buona armonia con se stesso e col mondo tende ad identificare con la morte, ed a temere, tutto ciò che si rapporta a lui come un limite, come una chiusura. In questo senso ogni stabile definizione, ed in particolare ogni sistema di pensiero, tendono a rappresentare all’uomo la dimensione finita dell’esistenza. È anche per questo che tali tematiche sono così spesso state trascurate, rimosse e addirittura combattute nella storia del pensiero filosofico. La de-finizione essenziale dell’uomo, in particolare, è il tema che più appare come una chiusura di orizzonti di vita. Per questo il pensiero filosofico, scientifico, psicologico, letterario, poetico e artistico in genere ha sempre insistito sulla profondità insondabile dell’anima umana (la originaria tesi di Eraclito), e mai sulla struttura essenziale dell’anima stessa, mostrando nei confronti di questo tema un claustrofobico timore».18 L’angoscia antropologicamente connotata nei confronti del proprio morire è stata potentemente accentuata, nel corso della storia, dalle concrete modalità in cui si è venuta articolando la costituzione e la riproduzione della vita della società: le attuali modalità sociali infatti, ribadisce ancora una volta Grecchi, «svuotando di umanità la vita, hanno sempre più lasciato l’uomo in balia del proprio connaturato timore della morte».19
L’esplicita preferenza accordata «al pensiero filosofico greco, che faceva della cura dell’anima e dell’apertura alla vita i propri capisaldi»,20 conduce l’analisi grecchiana a ritenere portatore di indebito riduzionismo qualunque tentativo di mediare una prospettiva onto-assiologica di natura filosofica con gli apporti di una ricerca scientifica volta a chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici. Il nostro autore, a dimostrazione della validità di ciò che afferma, porta come esempio «un comportamento molto noto, quello di Socrate. Egli, pur ingiustamente condannato per empietà dagli ateniesi, decise di rimanere in cella e di bere la cicuta, nonostante la possibilità di fuga che gli fu apertamente prospettata da alcuni amici. Dobbiamo allora chiederci: Socrate decise forse di rimanere in cella a morire perché i suoi neuroni gli bloccarono le gambe? Niente affatto. Egli prese consapevolmente questa decisione in quanto comprese che la conformità agli ideali che aveva sempre sostenuto non gli avrebbe reso possibile vivere evitando il dialogo filosofico, come invece il tribunale ateniese gli imponeva. […] La biografia di Socrate mostra dunque che le questioni del senso della vita, ossia quelle che più influenzano la felicità, non si determinano sul riduttivo piano biologico, ma sul più complessivo piano umano (o filosofico)».21 Il che, se è vero qualora si pretenda di rintracciare a livello del mero scorrimento della processualità naturale la chiave per interpretare in modo ontologicamente corretto le fondamentali questioni etico-sociali umane, non toglie affatto che solo a partire da una determinata dotazione biologica (evolutivamente sviluppatasi al di fuori di ogni teleologia unitariamente operante nel corso spontaneo della natura) divenga possibile l’apertura alla storicità e alla stessa problematizzazione critica di stampo filosofico ed etico. Il rinvio alle zone cerebrali che controllano il movimento, nel contesto dell’esempio portato da Grecchi, non pare molto ben scelto. Non appena, infatti, si ponga mente al nesso che recenti studi – per fare solo un semplice esempio – hanno mostrato sussistere tra lo sviluppo dell’intelligenza sociale e la facoltà umana di metarappresentazione, l’influsso coevolutivo del linguaggio e delle sue strutture sintattiche completive su di essa, l’accesso conseguente ad una capacità di tematizzazione estesa di alternative possibili e di riflessione (entro certi limiti) autocosciente – tutto ciò ovviamente associato al possesso innato di una serie di inclinazioni empatico-simpatetiche, altruistiche, cooperative, ecc. –,22 appare chiaro come Socrate neppure si sarebbe potuto mentalmente figurare il problema che si è posto se non avesse posseduto un ventaglio articolato e innato (di nuovo, nel senso di evolutivamente formatosi, attraverso exaptation, tramite l’agire da bricoleur della selezione naturale) di facoltà e predisposizioni biologicamente determinate, le quali si manifestano e si sviluppano mediandosi concretamente coi processi storici in atto. Come scrive assai correttamente Edoardo Boncinelli, la nozione umana di male (e del suo correlativo, il bene) può svilupparsi solo in riferimento alla «capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro capacità alternative, compiendo un’operazione riflessiva e comparativa che negli animali più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato. L’uomo al contrario si lamenta, s’infuria, recrimina e rimpiange, almeno a partire da una certa età».23 Non esiste quindi alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana, dato che è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi ed influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie, la quale però non può mai rescindere il suo legame con la processualità naturale in cui soltanto le ideazioni e le posizioni teleologiche degli uomini possono formarsi e operare. La moralità umana, pur dotata di una sua indiscutibile specificità, pare dunque essersi costituita a partire da «una base naturale. […] Solo gli esseri umani hanno la capacità di ragionamento morale, sanno interiorizzare i bisogni degli altri e sanno valutarli in modo disinteressato. Ma sia gli esseri umani sia gli altri primati hanno la capacità di aiutare gli altri e di non danneggiarli».24
Si comprende, alla luce di queste pur sommarie considerazioni, come il giusto, incessante rinvio di Grecchi alla natura umana quale fondamento di universale verità etico-sociale possa venire potenziato e non condurre necessariamente ad un volgare riduzionismo scientista in virtù di un processo di acquisizione concretizzante – opportunamente mediato sul piano concettuale – di ciò che la ricerca scientifica, neurobiologica, etologica, ecc. viene via via elaborando; questo, in effetti, sembra poter consentire di determinare con sempre maggior approssimazione la stessa nozione di essenza umana, sottraendola tanto alle secche di un’eccessiva genericità quanto al pericolo di un discontinuismo dualistico, che, nonostante la più volte ribadita unità psicofisica sostenuta dai greci, non può non fare capolino quando le matrici evolutivo-biologiche di fondamentali processi cognitivi ed emozionali non siano minimamente prese in considerazione.
In modo analogo, si possono già individuare da tale insieme di valutazioni i contorni del giudizio che, sia nei suoi aspetti largamente positivi sia in quelli più cautamente critici, può essere formulato a proposito di quello che lo stesso Grecchi afferma essere «il fondamento teorico» delle sue argomentazioni e di tutti i suoi scritti. «In conformità al titolo del nostro primo libro pubblicato, [la struttura metafisica sistematica che abbiamo cercato, in questi anni, di elaborare] pone l’anima umana (l’essenza dell’uomo) come fondamento della verità. Questa struttura parte da un assunto molto semplice, ma fondamentale: poiché la totalità dell’essere (ossia la totalità di ciò che è, e che l’uomo può sempre comprendere e comunicare) è tale, nella sua struttura concettuale, solo in quanto pensabile dall’uomo, ne risulta che l’uomo (e nessun altro ente, poiché l’uomo è il solo ente dotato di questa qualità) è il fondamento dell’essere. Poiché l’uomo, approcciandosi all’essere, sa comprenderne la realtà solo quando può relazionarsi all’intero mediante la propria essenza razionale, morale e simbolica (anima), ne risulta che l’anima umana è il solo fondamento della realtà dell’essere. Se si accettano queste assunzioni, si deve necessariamente addivenire ad una conclusione: che l’uomo è il solo ente in grado di attribuire significato all’essere, e che tale significato, se elaborato dalle componenti universali dell’uomo, può assumere valore di verità assoluto».25
Grecchi ha certamente ragione, nella sua duplice battaglia contro il relativismo nichilistico e le modalità sociali che potentemente lo favoriscono, a sottolineare la possibilità dell’uomo di porsi come fondamento di una verità oggettiva. Chi scrive, però, è disposto a seguirlo solo qualora si espliciti che questa verità processualmente universalizzabile non può essere altro che la verità etico-umana, risultato di processi riflessivo-ideativi e di atti teleologici del porre che non possono sussistere svincolati da quella base naturale-materiale – di per sé indifferente ad ogni scopo umano – nella quale soltanto si radica, in ultima istanza, il loro poter essere. Che ad un certo punto del processo evolutivo si costituisca, al di fuori di ogni predeterminata direzione finalistica, un ente capace di attività teleologica e progettuale, dotata di struttura alternativa ed (entro certi limiti) autocosciente, non significa affatto che il divenire storico che ne consegue e la sua oggettiva dialettica di senso riducano effettivamente a sé la totalità (estensiva ed intensiva) della realtà naturale, la quale, nello spontaneo svolgersi delle sue legalità e dei suoi processi, resta rigorosamente ateleologica. È quanto sostiene ripetutamente György Lukács nel suo approccio ontologico-materialistico all’essere sociale, rimarcando per esempio sia il costante risorgere di alternative nello svolgimento processuale della prassi umana,26 sia gli ineliminabili fattori causali che interferiscono con i processi storici («E se ora io mi rifaccio alle più alte forme di unità del reale ritorno [al seguente fatto]: la natura – tanto la natura organica quanto quella inorganica – si svolge secondo la propria dialettica e si realizza indipendentemente dalle posizioni teleologiche dell’uomo. Così la costituzione fisiologica dell’uomo e anche il suo destino psicologico dipendono, socialmente parlando, dal caso. Marx osserva giustamente a questo proposito che dipende appunto dal caso se una determinata situazione rivoluzionaria trova a capo della classe operaia un certo individuo, sebbene ciò non sia già più una circostanza meramente fisiologica o psicologica. In ogni caso rimane un residuo ineliminabile di casualità che scaturisce però dal corso meramente causale degli eventi naturali»).27
Non già, beninteso, che tali considerazioni vanifichino l’intelligente correlazione posta da Grecchi tra definizione della natura umana ed affermazione di un universalismo etico-politico fortemente polemico con le forme sociali attuali e con le loro ideologie relativistico-nichilistiche; soltanto, almeno così sembra a me, possono inquadrarla in una più convincente totalità concettuale concreta, e problematizzarla, ancorandola ad un’ineliminabile condizione di finitezza materiale, al di fuori di qualsiasi tentazione meramente pragmatica, ermeneutica, ecc., insomma al di fuori di correnti di pensiero che possano legittimare direttamente o indirettamente la prassi manipolatoria oggi imperante. Si pensi, in merito a ciò, al modo in cui le precisazioni ontologiche testé esposte possono contribuire a rendere più determinata – sempre ovviamente a parere dello scrivente – l’importante questione affrontata da Grecchi circa il carattere «stabile» di una felicità scaturente da un’avveduta consapevolezza filosofica. Rifacendosi nuovamente al grande pensiero platonico e aristotelico, il nostro autore sostiene infatti che «la felicità è la stabile condizione di chi vive la propria compiutezza umana anche contro, se necessario, le modalità sociali esistenti; l’infelicità è invece la condizione di profonda tristezza di chi non vive la propria compiutezza umana, non riuscendo peraltro nemmeno ad adeguarsi in maniera efficace alle modalità sociali esistenti; la condizione di serenità, che costituisce appunto un mixtum, è invece la condizione di chi, pur non vivendo pienamente la propria compiutezza umana, sa almeno conformarsi alle modalità sociali esistenti, apparentemente senza sofferenza».28 La filosofia greca, in altri termini, pensava correttamente «la felicità come lo stabile raggiungimento, dopo una adeguata ricerca, di una condizione di compiutezza dell’uomo. Da tale condizione indubbiamente, in alcuni momenti, era possibile anche degradare, ma sempre fermo restando il fatto che, una volta compresa e assaporata, la felicità diventava una condizione nella sua essenza non obliabile né perdibile. Contrariamente al possesso di beni esteriori, infatti, la felicità era costituita da una stabile conoscenza dell’uomo e del mondo, che si deposita nell’anima in maniera permanente. Per i Greci, dunque, la felicità non era questione di picchi da mantenere e da innalzare continuamente, come accade oggi per i grafici che indicano i profitti delle aziende. Essa era una condizione di armonica apertura alla vita (harmonìa) che può essere tale solo nella incarnazione di rapporti affettivi e comunitari».29 Ovviamente Grecchi sa benissimo che un compiuto inveramento delle più essenziali caratteristiche della natura umana non può non essere intralciata e ostacolata, in varia misura e maniera, dal dominio ontologico-sociale delle attuali forme capitalistiche di vita; per tal ragione egli, respinto ogni mortificante adattamento del progetto di vita di ciascuno alle coordinate sociali esistenti, e ribadito, di contro alla quasi totalità del pensiero contemporaneo, l’insopprimibile legame ontologico intercorrente tra l’essenza dell’uomo e il pieno dispiegarsi di un’esistenza umana felice, afferma la necessità di «rimarcare che chi consapevolmente cerca di realizzare grandi progetti di vera umanità, analizzando dapprima se stesso ed il mondo, difficilmente si illude che gli stessi possano compiutamente realizzarsi in queste modalità di vita. È anzi molto fermo nella conoscenza della quasi impossibilità di riuscire a mutare in meglio la situazione. Costui, dunque, in realtà non si illude, e pertanto non può, più di tanto, né deludersi né soffrire. La sofferenza gli deriverebbe, invece, dal non aver tentato i propri grandi progetti, il proprio sogno, la realizzazione della propria umanità in un determinato campo della vita».30
Nuovamente, se, da un lato, non si possono non sottolineare le profonde ragioni e la profonda validità teoretica della concezione ontologica della felicità proposta da Grecchi, dall’altro pare indispensabile, rispetto a quest’ultima, formulare talune precisazioni nei termini di una ontologia sobriamente materialistica. Non v’è dubbio che la felicità, quanto al suo nucleo concettuale centrale, sia in un certo senso stabile, una volta che la si intenda come un complesso di capacità, sviluppate a partire dalle più alte potenzialità della natura umana (quelle, in altri termini, concorrenti a realizzare la consapevole «genericità per sé» degli esseri umani) e universalizzabili sulla base della comune dotazione cognitiva ed emozionale della specie. Ma poiché l’intrascendibile radicamento materiale cui sono sottoposti i processi ideativo-riflessivi e gli atti del porre teleologico mediante i quali viene storicamente sostanziandosi l’autocoscienza umana, pongono sempre di nuovo gli uomini di fronte a scelte e decisioni alternative, la cui natura può costituire peraltro un essenziale terreno di ulteriore sviluppo concreto della riflessione autocosciente della specie, l’universalità della felicità e del bene umano non può che assumere la forma essenziale del processo determinato, dell’incessante – ma non relativistico perché ontologicamente fondato – lavorìo problematizzante e riflessivo, aperto a più profonde e circostanziate determinazioni: così, per esempio, il giusto richiamo alla misura cui deve essere sottoposta ogni prassi produttiva trasformatrice della natura, viene innervata di concreti contenuti oggettivamente (approssimativamente) validi dalla riflessione sorta storicamente dai problemi ecologici e antropologici generati da una dissennata accumulazione di beni in forma di merce. La felicità, nella sua maggiore o minore compiutezza, è sempre, in altri termini, l’esisto di disposizioni etiche, di abiti morali fondati sullo sviluppo concreto della propria autocoscienza umano-generica, disposizioni e abiti i quali devono sempre di nuovo rispondere alle risorgenti alternative poste dai processi reali; nel far ciò, essi devono dar prova di saper effettivamente perseguire, senza alcuna aprioristica garanzia e nei limiti di condizioni oggettive non tutte necessariamente conosciute o controllabili, lo scopo di arricchire e sviluppare la più vera (la migliore possibile) umanità dell’uomo (tesi, quest’ultima, su cui, lo ripetiamo, Grecchi ha totalmente ragione). Questo complesso problematico, peraltro, non è certo ignoto al pensiero grecchiano, che pure non sempre considera a dovere la dimensione ontologicamente processuale del bene umano rispetto alle possibilità di concretizzazione universalistica del suo concetto; in un passo assai bello, il nostro autore scrive molto efficacemente: «Così descritto, il tema morale sembra molto facile da sviluppare, ma tale in realtà non è, e ciò non va nascosto. È infatti estremamente problematico – questo il dramma della condizione umana – decidere in concreto le scelte migliori da attuare: destinare il proprio tempo e le proprie risorse ad un’attività anziché ad un’altra, ad una persona anziché ad un’altra, e così via. Ciò nonostante, in questa problematicità, la centralità della cura dell’anima, propria ed altrui, costituisce una bussola nel lungo termine infallibile».31
In che modo queste importanti affermazioni di Grecchi debbano essere intese, in rapporto alle osservazioni svolte in precedenza, dovrebbe ormai essere chiaro, così come non può non apparire chiaramente a chiunque si confronti con essi l’indiscutibile valore dei testi grecchiani qui esaminati, fecondo terreno di dialogo teorico ispirato ad un’idea profondamente sentita di verità etico-umana senza la quale la filosofia è destinata a diventare futile gioco accademico o pedestre apologia dell’esistente.

Claudio Lucchini

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 221-229.

Note

1 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia, 1998, p. 123.

2 Ibidem.

3 Cfr. Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Saonara (Pd), 2009, pp. 48-50.

4 Ibidem, p. 50.

5 Ibidem, pp. 50-51.

6 Ibidem, p. 51.

7 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, op. cit., pp. 130-131.

8 Luca Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro, op. cit., pp. 101-102.

9 Ibidem, pp. 104-105.

10 Ibidem, pp. 121-138. Un’efficacissima sintesi delle analisi di Domenico Losurdo è contenuta nel volumetto (da lui medesimo scritto) Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998.

11 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance, Pistoia, 2005, p. 41.

12 Ibidem, p. 40.

13 Ibidem, p. 41.

14 Ibidem, p. 94.

15 Cfr., in ibidem, p. 43.

16 Ibidem, p. 94.

17 Ibidem.

18 Ibidem, pp. 26-27.

19 Ibidem, p. 27.

20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 38.

22 A titolo puramente indicativo, rinviamo per la trattazione di tali questioni al bel libro di Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari, 2007; e agli importanti scritti di Frans de Waal, di cui ci limitiamo a menzionare Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano, 2008. Un’esposizione sintetica delle argomentazioni di tali autori e una loro discussione critica, inquadrate nel più ampio tentativo di abbozzare un’etica fondata su un’ontologia sociale materialistica, sono contenute nel mio Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

23 Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2007, p. 6.

24 Vittorio Girotto – Telmo Pievani – Giorgio Vallortigara, Nati per credere, Codice edizioni, Torino, 2008, p. 127.

25 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 113.

26 Cfr., a titolo di esempio, quanto Lukács scrive alle pp. 43-45 dell’ Ontologia dell’essere sociale, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981.

27 Wolfgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofler, Conversazioni con Lukács, De Donato Editore, Bari, 1968, p. 88.

28 Luca Grecchi, Conoscenza della felicità, op. cit., p. 141.

29 Ibidem, pp. 120-121.

30 Ibidem, pp. 142-143.

31 Ibidem, pp. 44-45.

Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII  –  NN° 1-3,  Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.

 

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Albert Schweitzer (1875-1965) – Nella maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire così profondamente come facemmo in gioventù.

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«Lungo la strada della vita mi ha accompagnato, come un fedele consigliere, la convinzione che nella maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire così profondamente come facemmo in gioventù».

Albert  Schweitzer, Memorie di fanciullezza.

 

Le farfalle volano

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Antonio Fiocco – Cenni sulla ristrutturazione del sistema orgaizzativo-produttivo d’impresa: da Taylor a Ohno

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Premessa introduttiva

Questo breve saggio fu scritto nel 1994, nella fase epocale in cui, negli ambienti della residua resistenza anti-capitalista, era forte l’interesse per il tramonto del sistema storico di produzione di massa, con la sua determinata organizzazione della società , che consentiva prospettive di moderato miglioramento sociale ed economico (il “Welfare”), e l’evoluzione verso un nuovo scenario, che poi altro non era che l’adeguamento del capitale al suo concetto, e il totale disorientamento che ne conseguì su come riorganizzare una risposta efficace. Il saggio, a fronte dei fiumi d’inchiostro versati in proposito e della confusione che regnava in tal senso, aveva lo scopo di riassumere la questione nei suoi minimi termini. Se si ritiene che questo modesto obbiettivo sia stato forse raggiunto, e per questa ragione queste pagine vengono riproposte, il gigantesco problema che ci si proponeva di contribuire a razionalizzare, vale a dire una adeguata prassi emancipativa dell’essere umano nei confronti della furia crematistica, è a tutt’oggi molto lontano dalla risoluzione (n.d.a.).

Testi di riferimento

Daniel Nelson, Taylor e la rivoluzione manageriale, Einaudi, 1988.
Taiichi Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, 1993.
Carla Filosa – Gianfranco Pala, Il terzo impero del sole, Synergon, 1992.
Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, Editori Riuniti, 1991.
“Marx Centouno”, n° 15.

Principi di Taylor

L’industria prima di Taylor
L’attività di ingegnere, consulente e inventore di Frederick W. Taylor (1856-1915) si può a grandi linee dividere in tre grandi periodi: fino al 1898 abbiamo una fase di lenta formazione e rivelazione, poi vi fu la grande affermazione fra gli anni 1898-1901 ed infine la rinuncia al lavoro attivo, da parte di Taylor, per fondare, assieme ad alcuni fedelissimi, una scuola di consulenza e di pensiero manageriale, la quale, tramite una accorta ed instancabile opera di autopromozione, avrebbe ben presto diffuso i semi della nuova concezione organizzativa in America e in Europa.
Per comprendere il contesto in cui Taylor formò la sua cultura e iniziò a operare, occorre pensare che a quell’epoca l’industria, in fondo, era ancora un fenomeno recente ed inedito nella storia umana: era cresciuta senza regole, disordinatamente, basandosi su criteri di gestione rozzamente empirici. Era inevitabile che sorgesse – allargandosi sempre più la scala produttiva – il problema di una radicale riorganizzazione.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le aziende avevano vita breve e afflitta da una brutale competizione. Taylor infatti – appartenente alla aristocrazia quacchera di Filadelfia – si pose come problema fondamentale quello di ridurre i costi e aumentare la produttività delle piccole e media imprese impegnate in un contesto di aspra concorrenza e nutrì sempre una profonda diffidenza – se non ostilità – verso il nascente fenomeno della concentrazione e centralizzazione capitalistica. Disprezzava, inoltre, i capitalisti finanziari, perché costoro, assetati di guadagni immediati, gli impedirono, nelle aziende in cui prestò la sua opera, di realizzare integralmente le sue idee organizzative, la cui applicazione sistematica avrebbe potuto dare i suoi frutti migliori in un periodo più lungo di quanto mai accordatogli. Si potrebbe dire che Taylor sia appartenuto a quelle «potenze mentali della produzione» che secondo Marx avrebbero dovuto congiungersi alla classe operaia per formare quel «lavoratore collettivo», che, a sua volta, avrebbe dovuto costituire il vero soggetto rivoluzionario.
Nell’epoca pre-taylorista l’organizzazione di fabbrica si fondava su due figure-chiave. La prima era il caporeparto, vero dirigente industriale, cui erano delegati il potere e l’autorità e che vigilava a sua discrezione sulla produzione, il controllo qualità, i costi, le assunzioni, i licenziamenti, le promozioni, l’addestramento, la tariffa individuale o il cottimo. La seconda era costituita dagli “appaltatori”, cioè i lavoratori più esperti e fidati, cui erano affidati le materie prime, l’energia e l’attrezzatura e questi producevano a prezzi concordati. «Il loro profitto, la differenza fra il prezzo contrattato e il costo di produzione, dipendeva quindi dalla loro abilità di innovare e controllare i costi; per massimizzarlo essi pretendevano il controllo completo del processo produttivo, compresa la selezione e la direzione della forza lavoro» (D. Nelson, op. cit., pag. 8). Per quanto riguarda i lavoratori, siamo di norma abituati, dall’alto delle conquiste sociali del Novecento, peraltro in via di liquidazione accelerata, a considerare quei tempi come un’epoca di sofferenza indicibile, forse anche influenzati dalle immagini dei film di C. Chaplin, che esprimono potentemente un senso di emarginazione, feroce divisione in classi e sofferenza operaia, ma che comunque si riferiscono a un momento storico già “taylorista”, se pensiamo a Tempi moderni. In realtà, nel periodo in questione, i lavoratori americani formavano una classe combattiva, organizzata in sindacati tutt’altro che arrendevoli o subalterni, anche se, secondo Gramsci, questi erano «più la espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro […]». Comunque, scioperi, violenze, tensioni, resistenze sistematiche alle pretese dei datori di lavoro erano una costante nella vita sociale degli anni 1880-1890, anche se questa situazione di conflitto non era destinata a durare a lungo. Gli operai si mostravano anche tutt’altro che sprovveduti, perché spesso rifiutavano il cottimo, senza lasciarsi ingannare dall’eventuale maggior guadagno. In particolare, i lavoratori degli impianti governativi di armamenti avevano una tale influenza che nel 1911, tramite i loro rappresentanti al Congresso, fecero presentare un disegno di legge che richiedeva un’indagine sul sistema a incentivi salariali di Taylor. Si sviluppò una controversia che si poté considerare un vero processo allo stesso Taylor e che portò il Congresso, nel 1915, a vietare la pratica dello studio dei tempi (preludio all’introduzione del cottimo, come vedremo) negli impianti dell’esercito. D’altra parte, per la mentalità di Taylor, i sindacati «erano accettabili soltanto se non rivendicavano salari troppo elevati, non organizzavano boicottaggi, non utilizzavano ‘la forza o le minacce’, non forzavano in alcun modo i lavoratori non sindacalizzati, né incoraggiavano la limitazione della produzione» (D. Nelson, op. cit., pag. 146).
Ma esiste un altro aspetto interessante. Di fronte alla necessità di riconsiderare i rapporti con il mondo del lavoro, la stessa classe dirigente era divisa. Da una parte c’erano gli “ingegneri”, sensibili esclusivamente ai problemi produttivi e indifferenti nei confronti delle esigenze dei lavoratori: di essi faceva parte anche Taylor. Gli ingegneri erano convinti che gli operai mirassero esclusivamente a guadagnare di più e potessero essere coinvolti nel soddisfacimento delle esigenze aziendali semplicemente con l’introduzione di salari individuali a cottimo, rendendo residuale la presenza dei sindacati. Ma si sviluppò, per un breve periodo, anche una tendenza che teorizzò e mise in pratica un progetto finalizzato a migliorare le condizioni fisiche e morali dei lavoratori. I fautori di questa tendenza, che fu detta “welfare work”, erano fiduciosi che anche le aziende ne avrebbero tratto beneficio. Il caso più interessante fu quello della National Cash Register Company, un’industria in cui, verso la metà degli anni ’80 del 1800, il proprietario John H. Patterson, introdusse «un articolato programma di assistenza; quest’ultimo, destinato soprattutto alle lavoratrici, comprendeva un programma assicurativo, un reparto per l’assistenza sanitaria, dei bagni, uno spazio pranzo e una ‘sala riposo’ per le donne, una biblioteca e una sala lettura, una Scuola Domenicale, l’organizzazione di un coro e di gruppi musicali, un teatro, un giardino d’infanzia e un circolo per i lavoratori; venne inoltre stabilito che le donne lavorassero soltanto otto ore […]» (D. Nelson, op. cit., pag. 19).

Lo “scientific management”
Ma quali furono, in sintesi, le novità “rivoluzionarie” introdotte da Taylor e dai suoi seguaci, tenendo presente che la base di partenza era la situazione “arcaica” precedentemente descritta?
1) Controllo sugli acquisti e sul magazzino, standardizzazione degli utensili e istituzione di un deposito degli attrezzi. Sviluppo di un sistema contabile più rigoroso e perfezionato.
2) Rigido controllo dall’alto sulla produzione, con l’istituzione di un dipartimento pianificazione separato e deputato a trasmettere le istruzioni, con fogli dettagliati e un apposito nucleo di funzionari.
3) L’introduzione di una nuova figura di caporeparto, con funzione di supervisore e ormai totalmente soggetto agli ordini superiori.
4) Lo studio cronometrico dei tempi medi di produzione per ogni determinato pezzo o di svolgimento di una certa mansione, al fine di applicare il cosidetto cottimo differenziale.
Fu stabilita una tariffa-premio elevata per quei lavoratori che riuscivano a finire un compito assegnato in un tempo stabilito e una tariffa di penalizzazione bassa per tutti gli altri. «Per esempio, su un certo tipo di lavoro l’addetto alla macchina riceveva una tariffa di 50 centesimi per pezzo, e generalmente ne produceva quattro o cinque al giorno. Dopo lo studio dei tempi, Taylor concluse che un operaio avrebbe potuto produrre dieci pezzi al giorno, e stabilì una nuova tariffa di 35 centesimi per pezzo se l’addetto completava dieci pezzi ben fatti al giorno, e di 25 centesimi se completava nove pezzi o meno» (D. Nelson, op. cit., pag. 48).
Questo permetteva di raddoppiare e a volte triplicare la produttività, innalzando i salari in percentuale inferiore. In apparenza il lavoratore era libero di produrre nella stessa quantità di prima, ma in realtà chi non riusciva a guadagnare le tariffe superiori veniva licenziato. Una volta eliminati l’”ozio” e la “pigrizia”, l’azienda disponeva di un gruppo di lavoratori ormai costretti al limite delle capacità umane, in cambio di un salario, in proporzione, inferiore.
La ferocia di questa fase di lotta di classe e di brutale sperimentazione appare evidente nella “riorganizzazione” della Simonds Company, una fabbrica di cuscinetti a sfera, iniziata nel 1896. Per evitare che la fretta di raggiungere la tariffa peggiorasse la qualità del prodotto, il lavoro degli operai fu sottoposto a un controllo ogni 15 minuti e separato rigidamente da quello degli altri. Un campione individualizzato di prodotto veniva inoltre sottoposto giornalmente a un “minuzioso controllo”. Tutto questo in aggiunta alle normali ispezioni preesistenti. La pura e semplice prontezza di riflessi divenne l’unica qualità richiesta, mentre molte lavoratrici, pur «tra le più intelligenti, assidue e di maggior fiducia» (sono parole di Taylor) venivano licenziate. Si tratta niente di meno che del passaggio cruciale dalla figura dell’operaio professionale a quella di operaiomassa, passaggio osservato da Gramsci in Americanismo e fordismo. Appare chiaro come questa moltiplicazione della produttività e del saggio di profitto potessero dare un grande vantaggio alle aziende che adottavano questo sistema di organizzazione rispetto alle altre.
Peraltro, come a dire che la mistificazione ideologico-demagogica non è una prerogativa della nostra epoca post-moderna, negli ultimi anni della sua vita Taylor poté passare per un illuminato riformatore della società. Infatti, nel periodo precedente la prima guerra mondiale, fu attivo negli U.S.A. un movimento ”progressista”, che interessò l’opinione pubblica contro i mali della società, identificati non nel modo di produzione capitalista, bensì negli sprechi e nell’inefficienza del sistema economico, i quali dovevano essere rimossi senza mettere in discussione, naturalmente, i fondamenti politico-economici della società stessa. Questo movimento, dunque, ben si sposò con l’ideologia dello “scientific management” taylorista- complice l’interesse di Taylor a diffondere i suoi principi manageriali – cioè un tipo di gestione considerato applicabile in tutte le istituzioni e in tutti gli ambiti della società. I “tecnici”, pragmatici e apolitici, con la loro conoscenza scientifica rivolta a scopi concreti, avrebbero risolto tutti i mali e le contraddizioni del mondo moderno. Certo si era ancora molto lontani dal concepire apertamente lo Stato come un’azienda e la politica come economia…

Lo spirito Toyota

Il toyotismo: le origini
Per comodità di linguaggio si userà l’ormai invalso termine di “toyotismo”, per quanto, limitatamente all’organizzazione di fabbrica in senso stretto, sarebbe più corretto parlare di “ohnismo”. Comunemente si ritiene che il cosidetto toyotismo sia di molto posteriore al fordismo-taylorismo e sia il frutto di un recente ripensamento del modello di produzione industriale. In realtà non è così.
Certamente fu la crisi petrolifera del 1973, con il crollo del mercato mondiale dell’automobile, a proiettare il “modello giapponese” verso la diffusione globale, ma occorre ricordare che Sakichi Toyoda, il fondatore della Toyota, fece il suo primo viaggio in America (al cui ritorno decise che nel medio periodo si sarebbe lanciato nella produzione automobilistica) nel 1910, cioè in un momento in cui la scuola di pensiero di F. Taylor stentava ancora ad affermarsi e aveva una diffusione limitata a pochi industriali “coraggiosi”. Nella mente dell’imprenditore e inventore nipponico era già chiaro che quanto aveva visto negli Stati Uniti a proposito della produzione di massa non poteva essere importato in Giappone, dove il potenziale mercato era molto più ristretto. Nel 1936 Kiichiro Toyoda, figlio di Sakichi e suo successore alla guida dell’azienda, in un lungo articolo esprimeva già in modo compiuto quella “filosofia” (ci si perdoni il termine) produttiva che, poi, una volta pienamente realizzata, sarebbe stata detta “toyotismo”. Il principio del “just in time”, che rappresenta il fondamento di tutto il sistema, fu concepito da Kiichiro e non, dunque, da Taiichi Ohno, mentre è vero che a questi (dirigente della Toyota scomparso nel 1990) spetta il merito di averlo sviluppato coerentemente. Si può dunque dire che il “metodo di progettazione” toyotista ha seguito come un’ombra il “fratello maggiore” americano per tutto il ‘900, prima confinato in un ambito locale (il Giappone), per essere poi destinato a divenire il punto di riferimento obbligato in una fase di crescita lenta e/o di recessione lunga estesa a tutto l’Occidente, cioè una volta che le peculiari condizioni del Giappone fossero divenute un problema generalizzato di tutto il mondo industriale evoluto.
Marco Revelli, nell’introduzione al libro di Ohno (Lo spirito Toyota, riportato fra i riferimenti), della nuova organizzazione mette in luce gli elementi di continuità con il passato (il sogno fordiano finalmente realizzato di una fabbrica sincronica a flusso continuo e la tayloriana saturazione della giornata lavorativa, ormai purgata di movimenti inutili e di momenti di “ozio”), ma sono soprattutto gli elementi di diversità i più gravidi di conseguenze.
Si parte dal postulato che la produzione non deva più avere un carattere “di massa”, bensì possa seguire quanto consuma il mercato. Questo comporterebbe la rinuncia ad ottenere il margine di profitto tramite la distribuzione dei costi su un numero sempre maggiore di pezzi prodotti. Di conseguenza il profitto dovrebbe trarsi da una inesausta (donde il concetto di miglioramento infinito del processo produttivo, in cui sono coinvolti anche gli operai ) compressione dei costi “a monte”, preventiva e selettiva. Questa ardua operazione in precedenza non era condotta alle estreme conseguenze perché resa non indispensabile dall’esistenza di un mercato in continua espansione.
Ohno è chiaro in proposito: «Nel sistema di produzione Toyota, pensiamo all’economia in termini di riduzione della manodopera e di riduzione dei costi. Il legame tra i due elementi si comprende meglio se si considera una politica di riduzione della manodopera come mezzo per realizzare la riduzione dei costi, che è chiaramente la condizione principale per la sopravvivenza e la crescita dei Profitti» (T. Ohno, op. cit., pag. 77). Dunque, a fianco dell’azzeramento delle scorte e della estrema e raffinata razionalizzazione dell’organizzazione d’azienda, la vittima designata di tutto il sistema doveva essere, ed è stata, il fattore umano.
L’ideologia che circonda questo sistema organizzativo – analogamente al precedente – occulta ciò che ne costituisce il motore primo, il lavoro vivo fornito dall’uomo. E questo, invece, è un aspetto di cui Taylor-come abbiamo visto- e ancor più Ohno, hanno avuto piena coscienza: «Il problema è che prima di ottimizzare gli impianti, deve essere ottimizzato il lavoro umano, perché i miglioramenti del lavoro, da soli, possono abbassare il totale dei costi dal 30 al 50 per cento […]. Voglio ricordare ancora una volta che si deve fare molta attenzione a non confondere miglioramenti nel lavoro e miglioramenti nell’attrezzatura, e che se si interviene prima su di essa, pur migliorandola, i costi non possono che salire, e certamente non scenderanno» (T. Ohno, op. cit., pag. 96).
Nel suo scorrevole libro, Ohno svela la concezione-Toyota con entusiasmo e quasi con candore, per cui sembra di avere a che fare non con un grande dirigente industriale, ma con un vecchio saggio orientale che parla di una religione esotica o di un’arte marziale. Nel suo operato vede solo aspetti positivi, come lo spettacolare aumento di produttività dei primi anni, la migliore qualità dei prodotti, la capacità di adattamento ai periodi di crisi come di sopportare aumenti di domanda senza variare il numero di addetti o accumulare scorte. Ma quanto non dice, né ci si poteva aspettare che dicesse, il massimo teorico del sistema, ovviamente impegnato in un lavoro apologetico non diverso da quello dei testi scritti da Taylor sul suo “scientific management”, lo svela, come vedremo, il libro di C. Filosa e G. Pala.

Il toyotismo: le caratteristiche essenziali
Come abbiamo visto, l’organizzazione taylorista aveva spazzato via ogni traccia di professionalità operaia autonoma, imponendo un rigido controllo da parte della direzione aziendale su tutto il processo produttivo e riducendo la funzione del lavoratore alla ripetizione paranoica di uno stesso gesto o di una breve sequenza di gesti e tale da ridurlo- secondo la celebre espressione di Taylor – al ruolo di “gorilla ammaestrato”. La produzione infinita per un mercato infinito è l’essenza di questa concezione. Ma le cose si rivoltano completamente se il mercato è saturo e occorra semplicemente riprodurre le merci il cui valore d’uso sia ormai esaurito (per semplicità accontentiamoci di questa spiegazione). L’impresa toyotista elabora, tramite raffinate ricerche di mercato, un piano di produzione annuale, semplicemente approssimato, da cui trae i piani mensili e giornalieri. Ma, a seconda delle fluttuazioni nelle vendite, questi piani possono essere cambiati praticamente in tempo reale. «L’ordine di produzione (istruzioni d’assemblaggio) è emesso per ogni vettura nel momento in cui entra in questa zona» (cioè la zona di assemblaggio finale). Ogni automobile ha una “storia a sé” e può differire da quella che le sta davanti o dietro nella catena per un particolare anche minimo. Tutte le informazioni relative sono portate da un semplice cartellino – il famoso kanban – che poi viene spedito alle stazioni produttive precedenti ( e dunque fa sì che venga riprodotto quel tipo di paraurti o quel tipo di cerchioni esattamente nel numero consumato) e ogni pezzo deve giungere al posto giusto nella quantità richiesta (just in time) con un sicronismo perfetto. Se una linea produttiva sforna un prodotto difettoso essa si ferma automaticamente (autonomazione) e l’operaio ha l’obbligo di scoprire il difetto, per impedire che venga riprodotto in centinaia di pezzi, come avveniva prima. Inoltre, non esiste più un reparto per la tornitura, uno per la fresatura, e così via, all’interno dei quali il relativo prodotto debba essere prima accumulato e poi trasportato altrove per l’operazione successiva. Ora il tornio è messo a fianco della macchina fresatrice, ecc., e lo stesso operaio segue tutte le operazioni in sequenza. Così cade anche la necessità di avere squadre di operai specializzati in una sola mansione.

Il toyotismo: le mistificazioni
Da questa ridotta descrizione si può comprendere come siano sorte alcune gravi mistificazioni.
1) Erronea identificazione fra “modello giapponese” e tecnologia “tout court”. Dice Ohno: «Spesso, una buona parte delle informazioni fornite dai computer non è assolutamente necessaria alla produzione. Inoltre, un’informazione ricevuta troppo presto induce a un precipitoso trasporto di materie prime, causando perdite. A mio parere, troppe informazioni gettano la produzione nella totale confusione» (T. Ohno, op. cit., pag. 70). E più avanti: «Il valore intrinseco di una macchina non viene determinato dagli anni di lavoro o dalla sua età, ma dipende essenzialmente dalla quantità di profitto che continua a offrire” (op. cit., pag. 92).
2) L’entusiasmo sindacale per un presunto recupero della «multiprofessionalità operaia» non è cosciente che essa non è che un iper-sfruttamento e non ha niente a che fare con la conoscenza del mestiere dell’epoca manifatturiera pre-macchinista. L’operaio non decide niente ed è anzi continuamente pungolato e ricattato non più da una direzione aziendale cui sia teoricamente possibile resistere, ma dalle “oggettive” quanto imperscrutabili e quasi metafisiche leggi di mercato. Così, tende a scomparire la lotta di classe non perché superata da una superiore armonia sociale, ma perché, in realtà, ormai stravinta dal capitale, in un contesto in cui l’operatore è posto in psicanalitico conflitto non con una controparte sociale, ma con la propria capacità lavorativa, portata all’estremo non solo fisicamente come nel taylorismo, ma anche mentalmente.
3) Un dominio del consumatore, in realtà, non esiste, poiché si ha a che fare sostanzialmente con una strategia di adattamento a una lunga crisi di sovraproduzione. Inoltre, non sono certo prodotti “personalizzati” quelli forniti dalla fabbrica toyotista! Differiscono per un certo numero di particolari, ma non per l’essenziale. Non si può certo entrare in un concessionario Toyota o Nissan e chiedere un modello del 1940: si può semplicemente scegliere fra una gamma di opzioni predeterminate, per quanto numerose.

Il “Paradiso giallo”
In questo modello organizzativo-produttivo non può esservi posto per una classe operaia portatrice di una soggettività autonoma. La sua alterità, che pure permaneva e anzi era un presupposto, nel fordismo, scompare. Marco Revelli mette in chiaro quanto ignorato da politici e sindacalisti: «Dalla natura dualistica, conflittuale, della produzione aveva tratto origine la concezione della politica come mediazione che aveva dato vita ai modelli di democrazia di massa europei e a quel sostanziale compromesso sociale che ha rappresentato la costituzione materiale del welfare state […]. Gli stessi modelli organizzativi del “partito di massa “ e del “sindacato generale” erano fortemente tributari della filosofia produttiva fordista-taylorista, del suo carattere burocraticoimpositivo […]. Ora tutto questo viene, per certi aspetti, eroso alle radici». La stessa cittadinanza politica perde significato nei confronti di una inedita «cittadinanza aziendale». E quali ne siano le conseguenze lo osserviamo da come sono strutturati la società e il mondo del lavoro giapponesi, secondo il quadro riportato da Carla Filosa e Gianfranco Pala, autori del libro riportato fra i riferimenti e redattori della rivista marxista La Contraddizione: «In Giappone le ore annue lavorate per occupato sono 2150, contro una media degli altri centri capitalistici di 1650». Dunque, rispetto al collega europeo, l’operaio o impiegato giapponese lavora 500 ore l’anno in più, cioè il 30%. Già per contratto c’è un 20% in più e il resto è dato dagli straordinari. Il quadro è completato dalla scarsità di ferie (7-8 giorni l’anno) e dalla totale mancanza di assenteismo. Secondo un calcolo approssimato, queste 500 ore danno un prodotto aggiuntivo di 300000 miliardi (di vecchie lire) annui.
I lavoratori che fruiscono di un impiego fisso, in Giappone, detti “regolari”, rappresentano i 2/3 della forza lavoro. I rimanenti – circa 20 milioni – sono un’enorme massa fluttuante a disposizione delle esigenze dei capitalisti. Tra i regolari solo la metà fruisce di un impiego sicuro, “a vita”, e della possibilità di carriera (sistema che si sta estendendo anche fuori del Giappone), privilegi per giunta ottenibili solo nelle grandi aziende e solo nella stessa azienda. Si può avere questa possibilità fatale una sola volta nella vita, cioè quando le imprese “pescano” i candidati nelle scuole o nelle università (totalmente asservite alle esigenze del sistema) e le donne, che percepiscono la metà del salario rispetto agli uomini, ne sono escluse. In cambio della sicurezza dell’impiego il lavoratore assicura una fedeltà fanatica e ridotte pretese economiche.
Le oscillazioni del mercato si scaricano sul serbatoio di riserva del lavoro precario, che, nel caso è il primo ad essere escluso dall’occupazione. Ciò si verifica nelle fabbriche dell’indotto – il cuscinetto ammortizzatore principale del sistema – le quali, inoltre, in caso di necessità devono accettare in prestito i lavoratori della casa madre momentaneamente in soprannumero. Il salario è diviso in tre parti: la paga base (l’unica sicura) costituisce meno di 1/3 del totale; premi di produzione (più di 1/3) ; straordinari. I premi di produzione, cioè il grosso dello stipendio, sono stabiliti secondo un giudizio annuo sull’operato dell’interessato, giudizio insindacabile, che si cumula con quello degli anni precedenti e assegnato dal proprio superiore diretto, che ne subisce uno a sua volta e così via fino ai vertici aziendali. Dunque il compenso stesso ne consegue estremamente individualizzato e condizionato da un continuo ricatto al servilismo e all’autosfruttamento. «Tutto ciò spiega l’alta ‘produttività’ – che produttività non è, ma solo prolungamento, intensificazione e condensazione della giornata lavorativa – del lavoro in Giappone” (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 65). In tal modo cade anche l’odiosa mistificazione sulla declamata partecipazione agli utili d’impresa, che non sussiste, perché i lavoratori non hanno alcuna forma di proprietà sui mezzi di produzione e, in subordine, perché i salari e gli stipendi continuano a crescere meno dell’aumento di questa falsa produttività estorta dal sistema.
Fra le esotiche parole giapponesi che si possono trovare nel testo di Ohno, ne manca rigorosamente una, ricordata, invece, in quello dei due autori italiani: karoshi, mistico sacrificio supremo per l’azienda, morte che sorprende i dipendenti anche giovani dopo terribili giornate di lavoro, autentico male sociale ormai temuto da un giapponese su tre.
Infine, l’attuale situazione sindacale è il frutto di una tremenda fase di scontro e di repressione bestiale avvenuta negli anni Cinquanta, in concomitanza con la guerra di Corea. Dopo di allora il sindacato fu rigorosamente “giallo”, totalmente corporativo e finanziato dai capitalisti. Per quanto possa apparire paradossale, la sottomissione sociale che ne emerge è più intensa e desolante che non sotto lo stesso nazismo tedesco. «La vittoria del capitalismo nipponico sui sindacati di classe può forse trovare un precedente storico nella tradizione del sostanziale fascismo democratico U.S.A. che portò alla distruzione degli Iww e del movimento socialista americano prima della prima guerra mondiale, e al corporativismo roosveltiano dopo. (Non a caso furono proprio queste le caratteristiche del trionfo dell’imperialismo americano sul mercato mondiale, nei decenni a venire)» (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 68). In sintesi, solo i dipendenti “regolari” sono iscritti d’ufficio al sindacato, da cui sono invece esclusi rigorosamente tutti gli altri. Chi diventa dirigente deve uscire obbligatoriamente dal sindacato (uso non infrequente anche presso i sindacati italiani). Inoltre, i supervisori che operano le valutazioni annuali da cui dipende il destino del lavoratore, sono anche, per statuto, i suoi rappresentanti sindacali, eletti “democraticamente” dagli operai con voto palese e sotto stretta sorveglianza fisica…
Ma, inevitabilmente, spuntano allievi zelanti, ansiosi di superare i maestri. Infatti, già Auschwitz, fra i molti modi in cui si può considerare, fu anche una fabbrica fordista, i cui veri fondatori e dirigenti, cioè gli industriali del gigante chimico IG Farbenindustrie – rimasti praticamente impuniti al crollo del nazismo – si presero la libertà di eliminare il capitale variabile, cioè il salario, dalla formula marxiana del saggio di profitto, mentre la guerra provvedeva … a eliminare le giacenze.
Forse il toyotismo non ha (ancora) generato un simile mostro, ma certo negli anni ’70-80 già è comparso lo “hyundaismo” (con i tempi di lavoro più lunghi del mondo, trattamento disumano, salari infimi, intensità di lavoro estremamente alta), ricetta che ha permesso all’industria automobilistica sud-coreana, partita da zero, di divenire il nono produttore di auto al mondo.

Americanismo e fordismo

La situazione italiana
Ma rapportiamoci finalmente al contesto italiano. Come abbiamo visto, già il taylorismo generava “alti salari” e a quale prezzo. Analogamente, i salari dell’arcipelago giapponese sono tra i più alti del mondo, almeno per quanto riguarda i lavoratori regolari. Tuttavia Marco Revelli ricorda che nel nostro paese a suo tempo si sviluppò un fordismo “all’italiana”, cioè la versione fascista, «caratterizzata dalla standardizzazione, ma non dagli ‘alti salari’, dalla dequalificazione senza consumo opulento». Analogamente, tutto il quadro che si va delineando nella nostra società porta a configurare un toyotismo “all’italiana”, incompleto, rispettoso in parte delle vecchie gerarchie, privo di compensi salariali nei confronti della forza-lavoro, privata nel contempo anche di ogni garanzia sociale. In altre parole, dalla ristrutturazione capitalistica in atto, di cui fanno parte integrante il neocorporativismo sindacale e la precarizzazione del lavoro, i lavoratori italiani, rispetto al modello originale, avranno tutti gli svantaggi e nessun beneficio, come già a suo tempo fu nei confronti dell’esempio americano.
Questo è il quadro cui dobbiamo ormai rapportarci e non far capo ad analisi politico-economiche centrate su soggetti sociali in declino, come la tradizionale classe operaia taylorista, ma anche senza le improbabili fughe in avanti di certi discutibili “maestri di pensiero” oggi di moda. Gramsci, a suo tempo, senza preconcetti, considerò il nuovo modello organizzativo-produttivo proveniente dall’America come un ineluttabile fattore di progresso, allo stesso modo in cui Marx vedeva il rapporto tra il capitalismo emergente e l’epoca precapitalistica, cioè indipendentemente dai conseguenti e tragici costi umani. Infatti, secondo Gramsci, il “fordismo”, troppo ottimisticamente, una volta approdato in Italia, avrebbe causato un rivolgimento sociale tale da spazzare via le classi parassitarie sedimentate dai secoli precedenti e avrebbe dovuto dare impulso a quella socializzazione delle forze produttive considerata come condizione essenziale per il superamento del modo di produzione capitalistico. Il toyotismo, secondo un’ottica di questo tipo, da parte sua si potrebbe ulteriormente avvicinare al concetto di produzione cooperativa sociale, per il coinvolgimento delle risorse mentali del lavoratore che induce e perché permette di produrre con più flessibilità e facilità solo nella quantità considerata utile. Come sempre, è l’uso di questa organizzazione di lavoro ad essere alienato e separato rispetto a chi la pratica materialmente. Infatti il toyotismo, nella realtà concreta, per le condizioni di lavoro che impone, per le implicazioni sociali e soprattutto per la concezione di mercato che lo determina (cioè un mercato dominato da differenziali sempre più marcati di proprietà e di reddito), appare la formula produttiva più adatta in un contesto sociale che esclude dal consumo masse crescenti di popolazione (paradossalmente in apparente contraddizione con una “situazione” che fa del consumismo l’unica dimensione umana consentita) e in accordo con le esigenze di ricapitalizzazione (cioè di rafforzamento del capitale) delle classi dominanti impegnate nell’attuale fase di sfrenata concorrenza a livello mondiale.
In conclusione, per offrire uno spunto minimale per una possibile strategia oppositiva, occorre ricordare che il “nuovo” sistema organizzativo è sostanzialmente dipendente dallo spirito di collaborazione dei lavoratori; vale a dire che ciò che costituisce la sua forza è potenzialmente ragione di debolezza. Questa dipendenza è il fattore che sta sullo sfondo di una possibile rivincita da parte del mondo del lavoro. In ogni caso «non è dai gruppi sociali ‘condannati’ dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi devono trovare il sistema di vita ‘originale’ per far diventare libertà, ciò che oggi è necessità» (Antonio Gramsci).

Antonio Fiocco

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Daniele Orlandi – Costanzo Preve sulla «zona grigia» di Primo Levi

Il bombardamento eticoindicepresentazioneautoresintesi

 

I sommersi e i salvati
I sommersi e i salvati

Per molto tempo non ci siamo occupati di Primo Levi. Poi, un giorno è morto. Più esattamente, si è ammazzato. Cinque minuti dopo lo abbiamo scoperto uno dei più importanti scrittori italiani. Abbiamo fatto con Levi come con le nostre coscienze: non appena scopriamo di averne una siamo pronti a giurare di esserne gli unici possessori. Così, dall’11 aprile 1987 sono andati via via aumentando amici, lettori, estimatori di Primo. Quasi tutti affermarono di averlo conosciuto, capito, analizzato. Financo di sapere le ragioni del suo suicidio. La critica è cresciuta di pari passo alla morbosità, non c’è dubbio, e in particolare un ristretto (ma agguerrito) gruppo di “esegeti” – che per lo più ruota intorno alla Einaudi e al “Centro Studi Primo Levi” di Torino – si distingue per purismo e settarismo culturale. La casa editrice che fu di Pavese e Ginzburg, di Calvino e Vittorini, e che oggi non esiste più, livellata dalla mediocritas del mercato, si è autoproclamata manutentrice della memoria del chimico scrittore dopo averlo non solo ignorato ma originariamente rifiutato quando il giovane reduce presentava timidamente in via Biancamano il manoscritto del futuro Se questo è un uomo. Era il 1946. Storia vecchia, discussa, demitizzata. Ma storia, appunto. E tale resta. Sopravvalutati che si ergono a portavoce postumi di un sottovalutato. Molta critica primoleviana è infatti composta da libri fotocopia e interpretazioni pretestuose, come a dire che nihil sub sole novum, sed renovata vides, il che non sarebbe affatto male se non fosse che a rompere le uova nel paniere ci ha pensato Levi stesso, con la sua continua opera autoermeneutica. La straordinaria edizione critica di Se questo è un uomo a cura di Alberto Cavaglion ne è l’esempio più concreto e completo. «Il critico», ammetteva Cesare Segre, «non può sbagliare molto con Levi, che si è già spiegato benissimo da solo»[1].
Non stupisce, dunque, che le riflessioni dell’intellettuale piemontese Costanzo Preve (1943-2013) intorno a Levi siano state snobbate dalla storiografia. Che questo filosofo, cresciuto come un fungo nella “sinistra-sinistra” italiana e volutamente ignorato – meglio sarebbe dire “evitato” – dall’accademia poiché «nel bene e nel male unico e non incasellabile»[2], incontrasse il concetto di zona grigia, come venne elaborato dall’autore di I sommersi e i salvati (1986), era fatale. Tra i due poli dello sfruttato e dello sfruttatore esiste, cinerina ed inevitabile, la sfera di collaborazione tra vittime e carnefici, tra bene e male, tra responsabilità opposte, non solo in Lager, ma in tutte le organizzazioni umane create al fine di dissanguare una parte maggioritaria a vantaggio dell’altra quasi sempre minoritaria.

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«Solo una retorica schematica», affermava Levi, «può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale»[3].

Accade lo stesso, vien fatto di pensare, negli ambienti culturali che fanno della filosofia un «chiacchiericcio esibizionistico da caffè letterario» mentre, ricordava Preve, «essa è un campo di battaglia, come ha giustamente detto Kant (Kampfplatz[4]. Grigio era anche quello spazio ideologico che si crea quando le due dottrine storicamente dicotomiche destra-sinistra, nel mondo attuale ormai prive di senso, vengono mantenute vive accanitamente e artificialmente per meri interessi di bottega, vale a dire la geminazione capitalistica. Formulazione mai perdonata a Costanzo Preve[5].
Nella sua mitezza, anche Primo Levi non era certo uno che le cose le mandava a dire. Ad esempio che non fosse un grande lettore di filosofia poiché, ritenendola un affare molto serio, dichiarava la sua difficoltà innanzitutto a padroneggiarne il linguaggio. Un primo parallelismo tra i due si potrebbe fare a partire dal concetto di complessità e comunicazione. Secondo Levi l’essere umano non è una monade e «salvo casi di incapacità patologica comunicare si può e si deve»[6], anche e forse soprattutto comunicare la complessità. In Lager questa era la prima lezione e la prima discriminante tra coloro che avrebbero avuto una minima possibilità di sopravvivenza e il resto, la gran massa anonima dei votati a morte certa. Costanzo Preve guardava alla realtà con lo stesso atteggiamento critico (diremmo analitico e combattivo) pur spostando il tutto sul piano filosofico. «“Complessità”», scriveva, è quella «paroletta che sta al posto di qualsiasi tentativo di interpretazione» della realtà storica e sociale e dunque della sua comunicabilità[7].
In un bel libro del 2000, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Preve si proponeva di analizzare «lo scandaloso atteggiamento di indifferenza o di complicità verso le decisive guerre imperiali del 1991 e del 1999»[8], vale a dire la prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo, le prime ad essere presentate con l’ossimoro di “umanitarie”, servendosi di una premessa storico filosofica che ne conteneva anche l’enigma:

«il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima, o meglio, l’intreccio scandaloso di pentimento e di non-pentimento»[9].

costanzo-preve_mrCostanzo Preve

Non entreremo nel vivo del libro, che affronta una serie di problemi filosofici e politici anche slegati dal nostro contesto, e ci soffermeremo su Auschwitz poiché è qui che entrano in ballo Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Nel primo, che Preve ricorda e sottolinea come libro inizialmente rigettato dal “politicamente corretto”, vale a dire dai grigi, vi era «già quasi tutto ciò che ci serve per inquadrare razionalmente quello che è avvenuto mezzo secolo fa»[10], mentre nel secondo, per l’esattezza l’ultima opera di Levi, il chimico compie un salto notevole dalla letteratura memorialistica alla filosofia suo malgrado (non certo alla maniera dell’altro grande testimone, Jean Améry), ripensando il Lager e l’urgenza della sua riconoscibilità. La chiave interpretativa era quella zona grigia in cui i confini del bianco e nero sfumano in una tragica e tristemente uniforme mistura.
Lo sterminio pepetrato dai nazifascisti ha dato origine, da parte dei vincitori del conflitto, all’amministrazione del pentimento collettivo – quando sappiamo che esso è un moto spontaneo che riguarda le singole coscienze – su scala quasi glabale. Lo sapeva bene Primo Levi quando rispondeva ad Améry che lo aveva accusato di essere un perdonatore:

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Jean Améry

«Non la considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo»[11].

Costanzo Preve, si badi bene, non giustifca in nessun modo il genocidio né cerca pretesti per sminuirne la portata storica. Egli si limita ad osservare come l’orrore di Hiroshima e il suo consapevole doppio a Nagasaki siano stati globalmente assolti con la motivazione di un male necessario, anzi, “etico”. La presunta “salvezza dei nostri ragazzi” è stato il pretesto col quale il governo degli Stati Uniti ha inaugurato l’era atomica, per la quale non è esistito pentimento alcuno.
Ma tornando ad Auschwitz. Qual è dunque la funzione filosofica che, secondo Preve, il racconto di Levi avrebbe avuto? Anzitutto che Shoah e Olocausto, già fuorivianti a partire dai termini impropri con cui sono stati usati, non sono eventi sacrificali mistico-religiosi o satanici ma un momento (il più terribile, probabilmente) di un progetto di dominio imperialista e gerarchico che in un dato arco cronologico ha previsto lo sterminio – non solo degli ebrei – come strumento essenziale al suo coronamento[12]. In secondo luogo, l’attenzione (o la denuncia) di Levi a quella cospicua parte di essere umani che «si lasciano invischiare nella doppia rete dell’inganno ideologico e del meccanismo aziendale di trasmissione degli ordini»[13]. Da qui, il monito: è accaduto, può riaccadere. Le guerre del Golfo e del Kosovo, che – lette con gli occhi di oggi – chiudevano barbaramente il Novecento e aprivano altrattanto disperatamente il nuovo secolo, ne sono diretta filiazione: non del Lager, non del pikadon su Hiroshima, ma del loro differenziato e regolamentato trattamento.
Primo Levi, non-filosofo, ci metteva in guardia contro simili derive. Preve carpiva l’essenza di quel messaggio e l’applicava alla contemporaneità geopolitica e militareEntrambi inascolati, quando era tempo di farlo. Smascherati tali meccanismi, ora che le profezie sembrano, da molti signa, avverarsi, alla politica, se non fosse composta da grigi, andrebbe il compito di fare proprie certe lezioni e vigilare.

     Ma, appunto, andrebbe.

Daniele Orlandi

04-12-2015

 

 

Note

[1] C. Segre, I romanzi e le poesie, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, p. 92.

[2] G. Pezzano, Presentazione, in P. Zygulski, Costanzo Preve: la passione durevole della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2012, p. 5.

[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1997, pp. 27-28.

[4] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2013, p. 456.

[5] Cfr. Idem, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Pistoia, C. R. T., 1998.

[6] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. p. 68.

[7] C. Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Pistoia, C. R. T., 2000, p. 95.

[8] Ivi, 93.

[9] Ivi, p. 97.

[10] Ivi, p. 98.

[11] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 110.

[12] C. Preve, Il Bombardamento Etico, cit. p. 100.

[13] Ibidem

 

 

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Massimo Mila (1910-1988) – Mella musica vi è un’originalità dello stile che non dipende dalla novità del linguaggio

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«Le ultime generazioni dei compositori italiani si schierano praticamente lungo tutta la gamma delle posizioni che oggi presenta la musica contemporanea: tutte possibili di validità artistica, anche quelle conservatrici, purché siano rivissute con personale schiettezza di sentire, e tutte capaci di condurre al fallimento, anche quelle d’avanguardia, se le formule del linguaggio più aggiornato vengono accettate con passivo e meccanico conformismo. C’è un’originalità dello stile che non dipende dalla novità del linguaggio».

Massimo Mila, Breve storia della musica, Einaudi, 2005.

 

 

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Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale

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«Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due piani, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto» (cap. 1, p. 23).

«Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la “coscienza felice” giunge a prevalere. Essa riflette la credenza che il reale è razionale, e che il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse. Gli individui sono portati a scorgere nell’apparato produttivo l’agente effettivo del pensiero e dell’azione, a cui pensiero e dazione del singolo possono e debbono cedere il passo. Nel cambio, l’apparato assume pure il ruolo di un’agente morale. La coscienza è assolta dalla reificazione, dalla generale necessità delle cose» (cap. 3, p. 82).

«Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata:
il carattere razionale della sua irrazionalità».

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione.
L’ideologia della società industriale avanzata
, Torino, Einaudi, 1967. (1964)

 

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