Con le riflessioni di Tomaso Montanari e la scultura di Giovanni Pisano anche a Pistoia donne e uomini possono aprire gli occhi sulla “Strage degli innocenti” a Gaza, perpetrata dal nuovo Erode genocida isreaeliano Netanyahu.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tomaso Montanari – Dare la mano al passato per continuare a vivere negli occhi e nella memoria dell’umanità futura. Dobbiamo essere capaci di pensare a chi viene dopo, di sentire gli umani del futuro come parte di noi, di immaginare un passaggio di testimone che consiste, letteralmente, nel mettere le mani degli uni nelle mani degli altri.

«Io fui qua»

Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434 (particolare)..
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«Dal latte materno veniamo», una statua di Vera Omodeo che il Comune di Milano non ritiene idonea per una pubblica piazza. Ma l’allattamento è vicinanza che umanizza e ci riporta al calore che dona e soffia la vita. La maternità è pensiero accolto prima del concepimento, che frammenta le logiche mercantili con il desiderio del dono che diviene progetto di vita. Chi nutre la vita è libero, perché si dona e fonda mondi. Dare alla luce e nutrire è ciò di cui la nostra realtà necessita. Per Marìa Zambrano ciò che connota l’essere umano è l’«essere natale», la capacità di dare-donare la vita.

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Auguste Rodin – L’Antico è la Vita stessa. Non v’è nulla di più vivo dell’Antico. L’Antico ha potuto raffigurare la Vita, perché gli antichi, grazie a questa maestria nell’osservazione della Natura, hanno saputo vedere quel che vi è in essa di essenziale. Il mondo sarà felice solo quando tutti gli uomini avranno anime d’artista, ossia quando tutti troveranno piacere nel loro lavoro.



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René Magritte – La concezione di un quadro, ossia l’idea, non è visibile nel quadro: un’idea non si può vedere con gli occhi. Quest’evocazione della notte e del giorno mi pare dotata del potere di sorprenderci e di incantarci. Chiamo questo potere: la poesia.



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Tito Perlini (1931-2013) – È alla tecnica quale sostituto dell’arte che si conferisce la dignità estetica per eccellenza, nella spettacolarizzazione totale della vita, promuovendo l’esteticità trionfante del nichilismo che si gloria del crollo di qualsivoglia sistema di valori.

Tito Perlini 03

1227-1329864047

«Fare soldi è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Nel tempo che stiamo vivendo viene imponendosi una specialissima forma d’estetismo, che tende a conferire alla tecnica le prerogative che un tempo erano peculiari dell’arte. Crescentemente l’estetico mostra di contrapporsi all’artistico e di volerlo soppiantare. Si esclude che l’arte, in qualunque modo, possa proporsi alla vita come modello alternativo, negandola nella sua immediatezza per porre l’esigenza di un suo rinnovamento radicale. Non per questo è lecito dire che ci troviamo in un momento poco favorevole all’estetica. A giudizio dei più, il mezzo per un’estetizzazione tendenzialmente totale della vita è costituito proprio dalla tecnica, la quale sembra in grado di realizzare cose prima impensabili, trasformando la realtà in un immenso, variopinto spettacolo, in una fantasmagoria simile a quella delineata con geniale preveggenza da Goethe nel secondo Faust. Se è vero che l’estetica quale discorso e riflessione sull’arte sembra ormai superata, non più che un orpello meramente decorativo, e se la stessa arte sembra condannata come qualcosa di ormai superfluo, non di meno si può dire che l’estetica, declinata in un modo che la renda complice della tecnologia, non sia mai stata così in auge. L’espansione tendenzialmente illimitata della tecnica reca con sé il fenomeno dell’esteticità diffusa. In Italia questo concetto è stato diffuso ormai trent’anni fa da uno dei maggiori teorici dell’estetica del Novecento – Dino Formaggio. Ma nel suo caso aveva un senso molto diverso da ciò a cui stiamo assistendo. Significava che l’arte non è slegata dall’esperienza, che non è distinguibile dal lavoro, e che i confini arte e artigianato sono spesso assai labili. Voleva dire conferire all’arte un ruolo assai importante in una civiltà degna di questo nome, riconoscendo che i suoi “prolungamenti” si espandono in tutte le direzioni, qualificando la realtà in tutti i suoi aspetti in senso simbolico.
L’esteticità diffusa di cui si parla oggi è ben altra cosa. Non si tratta di riconoscere il ruolo della tecnica come modalità del fare artistico, ma della tendenza alla spettacolarizzazione totale. È alla tecnica che si conferisce la dignità estetica per eccellenza, alla tecnica quale sostituto dell’arte, la quale ormai appare disarmata e ridicola, quasi un segno di arretratezza in confronto con l’efficacia della tecnica, capace di cancellare le distanze, di alterare lo spazio e il tempo, d’imporsi come una sorta di nuova magia, potenziata dal dispiegarsi della ragione strumentale, non subordinata ad alcunché di esteriore e ignara di qualsivoglia finalità. La stessa distinzione tra mezzi e fini risulta ormai impensabile. Il mezzo s’impone come fine a sé, tendendo in tal modo a uno sviluppo illimitato. La tecnica si afferma nella sua totale autonomia e gli effetti che produce, in scala gigantesca, risultano sempre meno prevedibili e comunque assai difficilmente controllabili dall’esterno. È il resto a doversi sottomettere alla tecnica, non l’inverso. In questo senso può ben definirsi una favola.
In altre parole, l’arte non è più una critica della tecnica volta al fine di disalienarla, riportandola alla dimensione del fare concreto: al contrario, la tecnica viene esaltata come “più estetica” dell’arte, capace di sprigionare un’energia decostruttiva, derealizzante. La tecnica viene esaltata come forza ludica, gioiosamente creativo-distruttiva, divenendo ormai una sorta di parodia satanica di ciò che un tempo si celebrava come autonomia dell’arte. Le conseguenze di un siffatto, inedito “estetismo” sono ben note: fine delle ideologie (comunque le si voglia intendere) , fine della storia, avvento del nichilismo come condizione di un libero gioco dei significati, che vicendevolmente si annullano nella gioiosa accettazione del non-senso.
Informazione e cultura diventano spettacolo; i comportamenti si teatralizzano; ogni autenticità scompare; tutto si logora e consuma; le teorie si riducono a vaniloquio; trionfa la simulazione, adorata dai cultori più fanatici dell’informatica. L’arte finisce inesorabilmente ai margini, vivacchiando come può, in attesa di morire di disperazione. Perso il carattere romantico di rivelazione dell’assoluto, non più concepibile come vicario della rivoluzione o anticipazione della vera vita, sembra non avere più alcun diritto di sopravvivenza. Il suo destino è morire d’inedia. La sua stessa morte sembra aver perso ogni solennità, mentre il suo vincitore, la tecnica, può scatenarsi senza più alcun disturbo, promuovendo un’esteticità trionfante che si gloria del crollo di qualsivoglia sistema di valori. Etica ed estetica, che nell’arte, pur conflittualmente, si richiamavano a vicenda, si separano a detrimento della prima, incapace di resistere ai continui attacchi dell’altra. Quei prodotti a cui si vuole ancora dare il nome di opere d’arte non sono in realtà che delle contraffazioni. La tecnica è più capace dell’arte, la quale, a confronto, sembra assai rozza. Raggiunge una perfezione prima impensabile, ma in una totale falsità.
La conseguenza ultima di tutto questo è la perdita irreparabile della dimensione del sacro e di ogni senso del mistero. Il tramonto dell’arte lede fibre prima vitali mettendo in questione la nozione stessa di uomo.

 

Tito Perlini, Le spectacle réussira-t-il à tuer l’art?, «Catholica» – Autunno 1997, tr. di E. Cerasi: Lo spettacolo ucciderà l’arte?, in Id., Attraverso il ninichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e letteratura, Prefazione di C. Magris, a cura di E. Cerasi, Nino Aragno Editore, Torino 2015, pp. 641-643.


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015
Tito Perlini (1933-2013) – La rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare sé stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.
Tito Perlini (1933-2013) – Il pensiero di Marcuse ha una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, ma arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo.

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

 

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«Fare soldi è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.


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Paolo Isotta (1950-2021) – Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone.

Paolo Isotta


Io sono un uomo all’antica, e credo solo nei Santi: e nemmeno in tutti […].

Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per esser riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie. E, incredibile, per esser l’idolo dei ragazzi di ogni ceto, da molte generazioni. Affatto disgiunti dalla realtà storica e sociale che aiutò a generarne l’arte, vedono i suoi films e pronunciano le sue battute, entrate misteriosamente nel loro gergo.

Questo libro può apparir frutto di presunzione. Non sono un critico cinematografico né uno storico del cinema. In fondo, di films ne ho visti pochi, nella mia vita. Non sono un «cinefilo». Tuttavia credo di posseder ancora un po’ di esercizio del pensiero e della memoria. Non pretendo di mettermi in lizza cogli illustri Scrittori che ringrazio e cito in bibliografia. Peraltro, facile est inventis addere. Ma, siccome Totò e un argomento universale, che travalica la stessa Napoli e la stessa Italia, ritengo che chiunque abbia diritto – esito a parte – di pensar su di lui. Il fatto d’esser io napoletano, e di esser restato uno dei pochi che nel sermo cotidianus in napoletano – quello vero – si esprima, mi fornisce qualche arma in più.

Paolo Isotta, San Totò, Marsilio, Venezia 2021, Pp. VIII-IX.


Risvolto di copertina

«Chi non ha visto Totò a teatro non ha visto Totò», si è sempre sentito dire Paolo Isotta da suo padre. Noi ci troviamo tutti, ora, in questa situazione: di Totò abbiamo solo le interpretazioni cinematografiche, molte delle quali contengono spezzoni di Rivista, il che faceva indignare i critici puristi. L’autore la ritiene invece una fortuna, perché si può così tentare di ricostruire un’immagine intera del sommo attore.

Di Totò hanno scritto storici del cinema, del teatro, antropologi, studiosi della lingua italiana e latina, filologi classici e filosofi della politica … ma mai uno storico della musica come Paolo Isotta, che dichiara di aver affrontato l’impresa non da esperto ma in quanto innamorato di Totò. Nella prima parte del volume si tenta un ardito ritratto, completo e sintetico, del principe de Curtis. La seconda, che rappresenta a modo suo una novità, è costituita da «una scheda per film», raccontato ora analiticamente, ora brevemente.

Il talento di Totò emerge non solo e non tanto nella recitazione, ma nella creazione, attraverso battute memorabili «ai vertici della metafisica». Egli non temeva la competizione, comprendendo che, quanto meglio veniva accompagnato, tanto meglio il suo genio ne sarebbe emerso, in una sorta d’opera d’arte collettiva. Così, fra teatro e cinema, tra spalle e comprimari, sfilano sotto i nostri occhi grandi personaggi dello spettacolo come Aldo Fabrizi, Mario Castellani, Nino Taranto, Aroldo Tieri, Raimondo Vianello, Paolo Stoppa, Macario, Carlo Croccolo. E poi Peppino (la più naturale intesa e unico alla sua altezza»), Alberto Sordi e Titina De Filippo, Franca Valeri e Franca Faldini, che di Totò fu l’ultima compagna.

Un tributo raffinato e giocoso a colui che «affermava di ritenersi lieto di avere fatto per mestiere il comico perché la comicità aiuta la gente a prendere la vita come viene e gliela rende più accettabile. Che altro fanno, i Santi?».

Quale filo unisce Totò ad Aristofane, Plauto e Orazio fino alle maschere della Commedia dell’Arte e alla Rivista del Novecento? Com’è nato l’uomo-marionetta (una delle tante facce di Toto)? Perché nelle sue mani persino la lingua latina diventava strumento eversivo?

Da quali tare della cultura italiana deriva il disprezzo che gli intellettuali gli riserbarono dagli anni Quaranta alla morte?

Un superbo ritratto in cui rivivono il genio e le contraddizioni di un gigante.


PAOLO ISOTTA (Napoli, 1950-2021) è stato Professore Emerito del Conservatorio di Musica di Napoli. Dal 1974 ha esercitato la critica musicale: per trentacinque anni al «Corriere della Sera». A ottobre del 2015 ha abbandonato quest’attività per dedicarsi allo studio, alla lettura e a comporre libri che gli diano l’illusione di scrivere qualcosa di meno effimero di articoli giornalistici. Le sue opere principali sono: I diamanti della corona. Grammatica del Rossini napoletano (1974), Dixit Dominus Domino meo: struttura e semantica in Händel e Vivaldi (1980), Il ventriloquo di Dio. Thomas Mann: la musica nell’opera letteraria (1983), Victor De Sabata: un compositore (1992), La virtù dell’elefante: la musica, i libri, gli amici e San Gennaro (Marsilio 2014: premio Acqui Storia 2015), Altri canti di Marte (Marsilio 2015), Otello: Shakespeare, Napoli, Rossini (Napoli 2016), Paisiello e il mito di Fedra (Napoli 2016, premio Paisiello 2017), Il canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia (Marsilio 2017), De Parthenopes musices disciplina. L’educazione musicale a Napoli dal Medio Evo ai giorni nostri (Napoli 2018), «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste». Il convito e la fame tra mito, musica, poesia e teatro napoletano (Ariano Irpino 2018), La dotta lira. Ovidio e la musica (Marsilio 2018), Verdi a Parigi (Marsilio 2020).

A settembre 2017 gli è stato assegnato, «per altissimi meriti culturali», il premio Isaiah Berlin.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Bernard Berenson (1865-1959) – Le creazioni più soddisfacenti sono quelle che esprimono carattere, essenza. La loro semplice esistenza ci appaga.

Bernard Berenson

Dopo settant’anni di intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazioni più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto. Se qualcosa esprimono è carattere, essenza, piuttosto che sentimenti [. .. ]. La loro semplice esistenza ci appaga. Applicherei l’epiteto di esistenziale alle opere d’arte che ho in mente.

Bernard Berenson, Piero della Francesca o l’arte del non eloquente (1950), a cura di L. Vertova, tr. it. Abscondita, Milano 2007, p. 16.


Bernard Berenson, nato in Lituania, si laurea in Letteratura nel 1887 all’Università di Harvard, prima di trasferirsi in Europa grazie a una borsa di studio. Qui matura la sua vocazione per la critica e la storia dell’arte, visitando e familiarizzando con le collezioni più importanti e affermandosi tra i maggiori studiosi della pittura italiana. Tra le sue opere ricordiamo: I pittori italiani del Rinascimento (1936), Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (1948), Echi e riflessioni. Diario 1941-1944 (1950), Lotto (1954).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Vincenzo Agnetti (1926-1981) – Le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi.

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«Se uno vende del ferro al prezzo dell’oro oppure fa un discorso colonialista facendolo passare per pacifista, è un buon venditore. Non a caso, infatti, le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi e buoni venditori».

Vincenzo Agnetti

Citato in Vincenzo Agnetti, a cura di Achille Bonito Oliva e Giorgio Verzotti, catalogo della mostra del Mart, Skira, Ginevra-Milano, 2008, p. 14.

Vincenzo Agnetti, Libro dimenticato a memoria, 1969
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