Alain Badiou – L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. Non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione, la durata che lo porta a compimento. È prima di tutto una costruzione durevole, un’avventura ostinata. L’amore vero è quello che trionfa durevolmente: chiede cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. L’amore è comunista in questo senso: il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono.

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«Platone dice una cosa molto precisa sull’amore: afferma che nello slancio amoroso vi è la scintilla dell’universale. L’esperienza amorosa è uno slancio verso qualcosa che egli definisce l’Idea. […] l’amore può essere davvero un gesto di fiducia nei confronti del caso. Ci consente di avvicinarci all’esperienza fondamentale della differenza e, in ultima analisi, all’idea che sia possibile sperimentare il mondo dal pundo di vista della differenza. È per questo che ha una portata universale, che implica un’esperienza personale dell’universalità possibile e che è essenziale sul piano filosofico, come intuì Platone per primo. […] L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. La nascita di un bambino, se avviene nell’amore, è uno degli esempi di questa possibilità. […] L’amore, dopo tutto, ha luogo nel mondo. È un evento che non era prevedibile né calcolabile secondo le leggi che governano il mondo. Nulla consentiva di programmare l’incontro […]. Ma l’amore non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione. L’enigma affrontato dal pesniero dell’amopre è proprio questa durata che lo porta a compimento. L’elemento più interessante, in fin dei conti, non è l’estasi dell’inizio; certo, c’è un’estasi dell’inizio, ma un amore è prima di tutto una costruzione durevole. Diciamo che l’amore è un’avventura ostinata. Il lato avventuroso è necessario, ma non lo è meno l’ostinazione. Arrendersi davanti al primo ostacolo, alla prima divergenza seria, alle prime difficoltà non è altro che un tradimento dell’amore. Un amore vero è quello che trionfa durevolmente, talvolta duramente, sugli ostacoli posti dallo spazio, dal mondo e dal tempo. […]

L’amore che nutro per il teatro è un sentimento complesso e assolutamente originario […]. Credo che ad affascinarmi nel teatro  sia stato il sentimento immediato che la lingua e la poesia abbiano un legame quasi inesplicabile con il corpo. In ultima analisi, forse il teatro era già allora una prefigurazione di quello che sarebbe stato in seguito l’amore, perché la scena condensava l’istante in cui mente e corpo diventano indistinguibili, al punto che è impossibile dire: “Questo è un corpo” oppure “Questa è un’idea”. Il linguaggio si fa corpo proprio come quando si dice “ti amo” a qualcuno: lo si dice ad una persona viva, che ci sta davanti, ma ci si rivolge anche a qualcosa che non è riducibile a questa semplice presenza materiale, qualcosa che è al di là dell’essere amato e al contempo è in lui.
Ora, il teatro è proprio questo, in modo originario, è l’idea incarnata, l’idea-che-prende-corpo. L’idea ancora, potrei aggiungere, perché com’è noto nel teatro ci sono le ripetizioni. “Daccapo”, dice il regista: l’idea infatti non prende corpo facilmente, il rapporto di un’idea con lo spazio e i gesti è complesso, ed è necessario che sia al contempo spontaneo e deliberato. Succede la stessa cosa anche nell’amore: il desiderio è una forza immediata, ma l’amore chiede altresì cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. “Dimmi ancora che mi ami”, e spessissimo: “Dimmelo meglio”. E il desiderio si rinnova ogni volta, le carezze amorose sono scambiate all’insegna di un’invocazione – “Ancora! Ancora!” – l’intimità fisica è il momento in cui l’esigenza del gesto è sostenuta dall’insistere della parola, da una “dichiarazione” sempre nuova. È noto che a teatro il tema del gioco amoroso è decisivo, e che è tutta questione – appunto – di dichiararsi. […]
Da qualche parte il poeta portoghese Pessoa dice: “L’amore è un pensare”. È un’affermazione apparentemente paradossale, perché si è sempre sostenuto che l’amore è fatto di corpi, desiderio, affezioni, ciè proprio tutto ciò che non è ragione né pensiero. Ma lui dice “L’amore è un pensare”. Credo che abbia ragione, penso che l’amore sia un pensare e che il rapporto tra questo pensiero e il corpo sia molto particolare […]. È vero, l’amore può piegare i corpi, causare immense sofferenze; l’amore non è un lungo fiume tranquillo, come si incaricano di dimostrarci tutti gli amori che portano al suicidio o all’omicidio.
A teatro l’amore non è soltanto, né soprattutto,  il vaudelville del sesso o la galanteria innocente, è anche la tragedia, la rinuncia, il furore. Il rapporto fra il teatro e l’amore è altresì l’esplorazione dell’abisso che separa i soggetti, e la descrizione della fragilità di quel ponte che l’amore getta tra due solitudini. Occorre tornare sempre alla medesima questione: che cos’è un pesniero che si dispiega come facendo la spola tra due corpi sessuati? Ma di cosa avrebbe parlato il teatro se non ci fosse stato l’amore? Avrebbe parlato, e in realtà l’ha fatto estesamente, della politica. Diciamo allora che il teatro è politica e amore e, più in generale, il loro intrecciarsi. Il teatro è il collettivo, è la forma estetica della fratellanza, ed è per questo che secondo me in tutto il teatro vi è un elemento comunista, dove per “comunista” intendo ogni divenire che fa prevalere l’interesse comunitario sull’egosimo, l’opera collettiva sull’interesse privato. […] l’amore è comunista in questo senso, qualora si ammetta, come faccio, che il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono. Da qui si può trarre un’altra possibile definizione dell’amore: comunismo minimo!
[…] Il teatro è anche prova di separazione, la profonda malinconica che circonda il momento in cui la fratellanza nata dal recitare insieme in una compagnia si scioglie. Ci si scambiano i numeri di telefono, si promette di chiamare, ma non lo si farà; è la fine, ci si separa. Ora, nell’amore la questione della separazione è così importante che si può quasi definire l’amore come una battaglia vinta contro la separazione».

 

Alain Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza editore, 2013.

 


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John Locke (1632-1704) – Conoscendo la nostra forza, sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo

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Intraprendere il viaggio

«Se non crederemo a nulla perché non possiamo conoscere tutto con certezza, agiremo altrettanto saggiamente di uno che non volesse servirsi delle gambe, ma rimanesse fermo e deperisse, perché non ha le ali per volare. Conoscendo la nostra forza, sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo.
[…] È di somma utilità al marinaio conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. È bene che egli sappia che essa è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero rovinarlo. […]».

John Locke

 

 


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Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …

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«Il signor Zola dice che il lavoro fa bene all’uomo; io ho sempre notato il contrario: il lavoro in quanto tale, la fierezza della formica per il suo lavoro, rende crudele non solo la formica, ma anche l’uomo. Ma se la laboriosità non è espressamente un vizio, in nessun caso essa può essere una virtù. Così come il nutrirsi, altrettanto anche il lavoro non può essere una virtù. Il lavoro è un bisogno che, se non viene soddisfatto, diviene una sofferenza e non una virtù. L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. Il lavoro potè raggiungere l’importanza che gli si ascrive nella nostra società, solo in quanto reazione contto l’ozio, che è stato elevato a contrassegno peculiare della nobiltà e che è ancora ritenuto presso alcune classi ricche e poco istruite come segno di dignità. Non è, semplicemente, che il lavoro non sia una virtù, ma, nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …».

Lev Tolstoj, Articolo pubblicaro per la prima volra in «Severni Wesrnib», 1893, n. 9. Nell’edizione russa delle Opere Complete di Tolstoj si trova nel vol. 29 (1954, p. 187).

 Si tratta della risposta di Tolstoj a due estratti da giornali francesi, che gli erano stati spediti dal redanore della rivisra francese "Revue des revues»: il discorso di E. Zola «Alla giovemù» e la lettera di A. Dumas al redarrore del «Gaulois».

 


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione

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«Nell’ordinamento del mondo un ingrediente sono le passioni, l’altro è il momento razionale. Le passioni sono l’elemento attivo. Esse non sono affatto opposte costantemente alla moralità, bensì realizzano l’universale […]. Nessuna cosa è mai venuta alla luce senza l’interesse di coloro la cui attività cooperò a farla crescere; e dal momento che ad un interesse noi diamo il nome di passione, così […] dobbiamo dire in generale che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione».

G. W. F. Hegel,  Lezioni sulla filosofia della storia (1837), I, 62-63, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pp. 73-74.

 

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Werner Jaeger (1888-1961) – L’importanza storica dei Greci quali educatori deriva dalla nuova e consapevole concezione della posizione dell’individuo nella comunità. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquistar coscienza delle leggi universali della natura umana.

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L’importanza storica dei Greci quali educatori
deriva dalla nuova e consapevole concezione
della posizione dell’individuo nella comunità.
L'educazione divenne per loro giustificazione suprema
dell’esistenza della comunità e dell’individualità umana.
La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo,
ma l’acquistar coscienza delle leggi universali della natura umana.


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Tutti i popoli che attingono un certo grado di sviluppo hanno naturalmente l’impulso a educare. […] La natura dell’uomo quale essere corporeo e spirituale dà luogo a speciali condizioni per la conservazione e la trasmissione del tipo umano e promuove speciali istituti materiali e morali, la cui essenza noi designamo con la parola: educazione. Nell’educazione, quale è praticata dall’uomo, opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della conoscenza e della volontà umana consapevoli.

Ne derivano tal uni corollari generali. L’educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. Il carattere di questa si imprime nei singoli suoi membri, e nell’uomo, zóon politikón, è sorgente d’ogni azione e comportamento in una misura che non ha riscontro nell’animale. Non v’è altro caso, in cui l’influenza determinante della comunità sui suoi membri si faccia valere maggiormente, che nel suo sforzo di plasmare consapevolmente secondo la propria idea, mediante l’educazione, i nuovi individui continuamente sorgenti dal suo seno. L’edificio d’ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte o non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d’una comunità umana, sia quella della famiglia, sia della professione o del ceto, sia delle associazioni più vaste, come la tribù e lo Stato.

L’educazione partecipa al processo di crescita e di vita della comunità con le mutazioni di questa, e così alle sue vicende esteriori come al suo sviluppo interno e alla sua evoluzione spirituale. A questa è soggetta anche la coscienza generale dei valori che interessano la vita umana; la storia dell’educazione è quindi essenzialmente determinata dalle trasformazioni della concezione dei valori in una comunità. La stabilità delle norme vigenti significa anche saldezza dei principii educativi d’un popolo; l’abbattimento e la dissoluzione delle norme genera incertezza e oscillazioni nell’educazione, sino a renderla impossibile affatto. Questa situazione si ha non appena la tradizione sia abbattuta violentemente o si corrompa internamente. D’altra parte la stabilità non è per se stessa sintomo sicuro di salute; essa domina anche in uno stato di irrigidimento senile, nel periodo tardivo delle civiltà […]

Un posto speciale spetta alla grecità.[continua a leggere]

 

Werner Jaeger, Introduzione a «Paideia» (estratti)

 

Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Vol. I, La Nuova Italia, 1977, pp. 1-22.

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Massimo Baldi – «Paul Celan. Una monografia filosofica». A rendere unica l’opera di Celan c’è la sua inesausta volontà di autocomprendersi e di correggersi, sempre nel cuore del poema, nella tensione che in esso si genera tra la lingua degli uomini e l’impiego spesso idiomatico che ne fa il poeta.

Celan

Paul Celan

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Massimo Baldi, Paul Celan. Una monografia filosofica,
Carocci editore, 2013, pp. 216, Euro 23.


«Nessun poeta del Novecento europeo ha attratto l’attenzione della critica filosofica quanto Paul Celan. Una delle peculiarità dell’opera di Celan e della sua ricezione sta forse proprio in questo continuo e duraturo interesse mostrato dai filosofi per la sua opera poetica.
Tra coloro che hanno dedicato impegnativi saggi e commenti alla sua poesia troviamo pensatori di assoluta rilevanza come Theodor W. Adorno, Maurice Blanchot, Jacques Derrida, Hans-Georg Gadamer, Emmanuel Lévinas, Peter Szondi. Non può essere poi taciuta la risonanza assunta, nella letteratura critica celaniana, dall’irrisolto rapporto tra il poeta e Martin Heidegger a partire dall’incontro che vi fu tra i due nell’estate del 1967 a Todtnauberg, quando Celan visitò il filosofo complice del nazismo nella sua Hütte nella Foresta Nera. All’antitesi delle domande che la stessa poesia di Celan pone al pensiero di Heidegger (non solo con l’omonima Todtnauberg, scritta come risposta a quanto in quell’incontro non trovò parola) vi è la profonda affinità tra la poetica celaniana e la filosofia di Benjamin. Un’affinità che trova un’esplicita conferma nel Meridiano, il celebre discorso che Celan pronunciò in occasione del conferimento del Büchner Preis». [Leggi tutto]

                                                                      Fabrizio Desideri, Prefazione

Prefazione di Fabrizio Desideri

 

 

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Celan nel 1938



 

«L’opera di Paul Celan, oggetto di questo libro, è una delle più complesse e affascinanti della storia della letteratura. Non a caso, tra quelle del secolo scorso, è una delle più studiate. Quale sia la sua peculiarità non è cosa facile da enunciare. In primissimo piano c’è la circostanza dell’appartenenza di Celan alla schiera delle vittime della “soluzione finale” – una circostanza che non ha mancato, tra l’altro, di dar luogo a equivoci e a letture sbrigative e cariche di sentimentalismo. Il significato dell’opus celaniano, infatti, non si esaurisce con il riferimento allo sterminio, per quanto in nessuno dei testi che lo compongono tale riferimento sia veramente assente.
Un altro elemento di risalto della poesia di Celan è stata la sua capacità di assorbire e rielaborare, non di rado in modo eminentemente critico, i dettami di tutti i grandi movimenti letterari e filosofici del XX secolo, dal simbolismo all’ermetismo, dalle avanguardie alla teoria critica.
Inoltre, a rendere unica l’opera di Celan c’è la sua inesausta volontà di autocomprendersi e di correggersi, di dar conto del proprio stesso procedere in forme mai didascaliche e spiacevolmente prosaiche, ma sempre nel cuore del poema, nella tensione che in esso si genera tra la lingua degli uomini e l’impiego spesso idiomatico che ne fa il poeta, di fatto problematizzandone le regole.
Va da sé che non si può cogliere il valore di un’opera così articolata e complessa se ci si costringe in un solo contesto disciplinare e se le armi del critico non si mettono al servizio del dettato poetico. Chi ha tentato di comprendere il testo celaniano con i soli strumenti della filologia, o della comparatistica, o – peggio ancora – di una spregiudicata ermeneutica filosofica ha sempre fallito nel suo intento. In Celan, infatti, tutto concorre alla costruzione di un senso: il richiamo ad altre opere letterarie del passato e del presente, il confronto con le altre forme di espressione artistica, la riflessione sulla storia e sull’attualità, il riferimento alle vicende biografiche». [Leggi tutto]

                                                                      Massimo Baldi, Introduzione

 

Introduzione di Massimo Baldi

 

Zur ausschließlichen Verwendung in der Online-Ausstellung "Künste im Exil" (www.kuenste-im-exil.de). Originaldateiname: Celan,Paul_02_Druck.jpg Eindeutiger Identifier: VA_KIE_FV_002.jpg



 

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Massimo Baldi è nato a Pistoia nel 1981, dove vive.
È autore delle raccolte poetiche
Dopoguerra delle vertebre. Poesie 2001-2007 (2008)
e di Perimetri domestici. Poesie 2007-2013 (2015).
Dottore di ricerca e professore abilitato in Estetica e Filosofia del linguaggio,
si è dedicato soprattutto allo studio del pensiero e della letteratura
della Germania del XX secolo,
con particolare attenzione a Walter Benjamin e Paul Celan.
Impegnato in politica, dal luglio del 2015 è consigliere regionale della Regione Toscana.

 

 


I giusti
che furono vinti in guerra
saranno invisibili trionfatori
della guerriglia di ogni attimo,
loro sarà il pane
che i bambini troveranno sulla tavola,
loro l'infaticabile umiltà
di chi ha irragionevolmente amato
e in ogni luogo
ha perdonato agli uomini
il cuore bramoso e l'uopo sconveniente.


Perimetri domestici

Perimetri domestici

 

Il libro propone una figura adunca di sé, dura e nuda; è dotato di straordinaria autorità (non senza qualche delicata tregua) e accompagnato dall’invisibile movimento degli anni fattisi puri numeri, una cortese e anche accorata sequenza di invisibile sui molti asfalti di questo libro. Finalmente abbiamo un libro cattivo, molto cattivo, in grado di sostenere una durissima guerra civile. Guerra fra due avventi della parola, fra due mondi. […] Questi Perimetri domestici sono una battaglia civile, e io penso che vi risplenda una segreta vittoria.
(C.L. Paganelli)


Dopoguerra delle vertebre

Dopoguerra delle vertebre

Quello di Baldi è un alfabeto orfano che sperimenta su di sé la distanza incolmabile tra parola e senso: il dopoguerra è l’intraducibilità delle cose, la loro sensatezza. Tutto si rovescia, tutto si contraddice […]. Il poeta ora è solo in questa sua nekya, in questa sua discesa e risalita dall’ade. Non rimane che un interrogativo finale, ma non conclusivo, un senso penultimo che veste il tono tragico di queste poesie con il taglio che separa e divide speranza e disperazione: “Quale nome / per noi / oltre il dopoguerra?” .

 


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F. Desideri. M. Baldi, Benjamin, Carocci

«Tutti coloro che si sono occupati in qualche modo di Walter Benjamin conoscono la difficoltà di definirne il pensiero, inserendolo in orizzonti disciplinari ben definiti come la filosofia della storia, del linguaggio, l’ontologia, l’etica, l’estetica e così via. Talvolta si è stati addirittura indecisi se assegnare la sua opera al genere testuale della filosofia o a quello della letteratura. In questo libro, si affronta in particolare l’ultimo Benjamin, quello del messianismo e della conseguente percezione messianica del tempo, in base al quale ogni secondo sarebbe “la piccola porta attraverso la quale può entrare il messia”. E la stessa porta della giustizia di cui Benjamin parla nel grande saggio su Kafka del 1934. Tuttavia permane una differenza tra tempo messianico e giustizia. Se vi fosse coincidenza, la giustizia cesserebbe di agire come una potenza critica, la stessa potenza da cui scaturisce l’etico e diverrebbe oggetto di possesso, oggetto di storica realizzazione». (dall’Introduzione)

 


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Werner Jaeger (1888-1961) – L’arte ha in sé una illimitata capacità di comunicazione spirituale, perché possiede ad un tempo quella universalità e quell’evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell’efficacia educativa. La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte le verità di ragione universali. La poesia è più filosofica della vita reale, ma è anche più piena di vita che la conoscenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale.

Paideia

«Ma ciò che resta, è dono dei poeti».
Friedrich Hölderlin
 

 

«Educativa in senso proprio non può essere se non una poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi dell’essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio superiore dell’animo, un’immagine dell’umano che accomuni e vincoli gli uomini.
Ma appunto della poesia elevata dei Greci va detto che essa non ci dà soltanto un qualsiasi
frammento della realtà, bensì sceglie e contempla quella porzione dell’esistenza, ch’essa presenta, in relazione a un determinato ideale.
D’altra parte anche i valori supremi non divengono per gli uomini, per lo più, impressioni di valore permanente e d’efficacia suggestiva se non in quanto eternati dall’arte. L’arte ha in sé una illimitata capacità di comunicazione spirituale, di psicagogìa, come dicevano i Greci.
L’arte sola possiede ad un tempo quella universalità e quell’evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell’efficacia educativa. Mercé l’accoppiamento di queste due sorta d’efficacia spirituale essa supera tanto la vita reale quanto la rflessione filosofica.
La vita possiede l’evidenza sensibile, ma le sue esperienze mancano d’universalità, sono troppo commiste d’accidentale perché la vivacità delle impressioni ricevute possa sempre conseguire il grado estremo di profondità.
La filosofia e la riflessione, d’altra parte, si elevano bensì all’universalità e penetrano sino all’essenza delle cose, ma hanno efficacia soltanto su chi, mercé l’esperienza propria, può dare alle loro idee l’intensità interiore della vita vissuta.
La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte le verità di ragione universali, ma anche rispetto alla mera esperienza accidentale del singolo.
La poesia è più filosofica della vita reale (se è lecito parafrasare un noto detto d’Aristotele), ma è anche più piena di vita che la conoscenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale».

Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Vol. I, La Nuova Italia, 1977, pp. 88-89.


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Thomas Moore (1779-1852) – L’educazione è un “e-ducere”, un tirare fuori la nostra natura, la manifestazione della nostra essenza, il dispiegarsi delle nostre capacità, il rivelarsi delle nostre possibilità. L’educazione dell’anima porta all’incanto del mondo e all’accordo del sé. A volte sostare per il melisma dà all’anima la sua ragion d’essere

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P. Klee, Palloncino rosso

P. Klee, Palloncino rosso.

«Talvolta, durante i loro canti, i monaci approdano a una nota e la cantano in modo “fiorito”; una sillaba del testo tenuta per cinquanta note. Si chiama “melisma”.
Vivere una vita melismatica, a imitazione del canto “fermo”, vuol dire, per esempio, fermarsi su un’esperienza, un luogo, una persona, un ricordo, e lasciarsi andare con l’immaginazione all’entusiasmo che questi suscitano in noi. Alcuni amano meditare o contemplare in modo melismatico, mentre altri preferiscono disegnare, oppure costruire, dipingere o danzare qualunque cosa su cui caschi il loro occhio.
Vivere un punto dopo l’altro è una forma di esperienza, e può essere anche molto produttiva. Ma sostare per il melisma dà all’anima la sua ragion d’essere».

«Studiamo per ottenere diplomi, lauree e attestati, ma non immaginiamo altro scopo per una vita dedicata allo studio che quello di essere educati. Essere educati non è la stessa cosa di essere informati o essere addestrati. L’educazione è un “e-ducere”, un tirare fuori il nostro genio, la nostra natura, il nostro cuore. La manifestazione della nostra essenza, il dispiegarsi delle nostre capacità, il rivelarsi delle nostre possibilità fino ad ora nascoste – questi sono gli scopi dello studio dal punto di vista della persona. Da un altro lato, poi, lo studio amplifica la voce e il canto del mondo, rendendo la sua presenza più palpabile. L’educazione dell’anima porta all’incanto del mondo e all’accordo del sé».

«Il silenzio non è assenza di suono. Sarebbe un immaginarlo in modo negativo. li silenzio è un’attenuazione della statica interna ed esterna, del rumore che occupa non solo gli orecchi ma anche l’attenzione. Il silenzio consente di giungere alla consapevolezza a molti suoni, che altrimenti andrebbero perduti – i suoni degli uccelli, dell’acqua, del vento, degli alberi, delle rane, degli insetti – ma anche alla coscienza, ai sogni ad occhi aperti, alle intuizioni, alle inibizioni e ai desideri.
Si coltiva il silenzio non costringendo gli orecchi a non udire, ma alzando il volume della musica del mondo e dell’anima».

 

Thomas Moore, Nel chiostro del mondo. Pensieri per la vita quotidiana, Moretti & Vitali editori, 1996, pp. 62, 77, 86.

 


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Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) – Dignità dell’uomo e dignità della filosofia. La filosofia mi ha insegnato di dipender piuttosto dalla mia coscienza che dai giudizi altrui, e di pensar sempre non tanto a non esser giudicato male quanto a non dire o fare male io stesso.

Pico

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«[…] Queste son le ragioni […] che non soltanto mi animarono, ma mi costrinsero allo studio della filosofia: e ch’io non avrei certo esposto se non per rispondere a coloro i quali sogliono condannare lo studio della filosofia quasi del tutto negli uomini in alto stato e del tutto poi in quelli che vivonoin condizione mediocre. Tutta questa speculazione filosofica è infatti piuttosto ragion di disprezzo e d’oltraggio – infelicità del nostro secolo – che d’onore e di gloria. Tanto ha invaso le menti di tutti questo esiziale e mostruoso convincimento che niente affatto, o da pochi soltanto, abbia a coltivarsi la filosofia quasi che l’avere dinanzi agli occhi e alla mano esploratissimi i perché delle cose, le vie della natura, la ragione dell’universo […] a nulla giovi se uno non abbia a coglierne un qualche favore o a ricavarne per sé un qualche utile. Giacché si è, ahimè!, giunti al punto che non si stiman sapienti se non coloro che riducono mercenario lo studio della sapienza: talché si può vedere la pudica Pallade, dimorante per dono divino tra gli uomini, rigettata, cacciata, fischiata: non avere chi l’ami, chi le dimostri favore se non a patto quasi di prostituirsi ella stessa, e ricevuto il meschino provento della deflorata verginità, versar nello scrignetto dell’amante il mal procacciato denaro. Le quali cose tutte io non senza dolore grandissimo e indignazione dico […] contro quei filosofi che ritengono e vanno blaterando non esser il caso di accudire alla filosofia dal momento che nessuna mercede, nessun premio sono stabiliti al filosofo; quasi che non dimostrino, con questo soltanto, di non esser filosofi. Giacché, tutta la loro vita essendo posta nel lucro o nell’ambizione, non abbracciano la conoscenza della verità per se stessa. […] Io non ho mai filosofato per nessuna altra ragione che per filosofare, né ho mai sperato né cercato mai dai miei studi, dai miei pensamenti, altro guadagno o frutto se non la coltura dell’anima e la conoscenza della verità da me sopra tutto, sempre, desiderata. Della quale verità, sempre, fui tanto bramoso e amatissimo da dedicarmi tutto […] alla contemplazione, dal quale nessuna calunnia di invidiosi, nessun’invettiva dei nemici della sapienza né poteron fin qui né potranno poi distogliermi mai. La stessa filosofia mi ha insegnato di dipender piuttosto dalla mia coscienza che dai giudizi altrui, e di pensar sempre non tanto a non esser giudicato male quanto a non dire o fare male io stesso».

Giovanni Pico della Mirandola, De Hominis Dignitate (1486), Dignità dell’uomo, trad. di Bruno Cicognani, Le Monnier, Firenze, 1943,pp. 47-49.

 

 

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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.

Holderlin

«Ero uscito dalla pigra rassegnazione,
dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla».
 Iperione

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«Ma questo nuovo colpo mi riportò comunque alla vita. Ero uscito dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla, da quella calma di morte che, con tutta l’apparenza di saggezza con cui la difendono i vigliacchi, è la condizione più infame in cui l’uomo può ricadere. Nessuno si giustifichi dicendo che il mondo lo ha ucciso: è lui stesso che si è ucciso, in ogni caso».

«La Grecia fu il mio primo amore e non so se posso dire che sarà anche l’ultimo. […] Non mi interessa affatto che sia originale; originalità per noi significa novità, e le cose che amo di più sono invece quelle antiche come il mondo. Per me l’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito. Ma di tutto questo, ora come ora, si vuol saper poco, almeno nell’arte […]».

«[…] soffrivi, quando ti conobbi, non tanto per una sventura precisa […] bensì per l’impotenza, per la volgarità; era l’insipido nulla che ti faceva soffrire, la morte insipida, l’insipida e mostruosa vacuità dei tuoi contemporanei […]».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015, pp. 759, 761, 877.

 

***

Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.

Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.

Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.

 

 

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