Friedrich Engels (1820-1895) – Gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola. Quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati della peggiore filosofia.

Friedrich Engels01

 

002Dove porta una lettura acritica e asistematica?

 

 

dialettica della natura

«Gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero e accolgono però queste categorie, senza accorgersene, dal senso comune delle cosiddette persone colte dominato dai residui di una filosofia da gran tempo tramontata, o da quel po’ di filosofia che hanno ascoltato obbligatoriamente all’università, o dalla lettura acritica e asistematica di scritti filosofici di ogni specie, non sono affatto meno schiavi della filosofia, ma lo sono il più delle volte purtroppo della peggiore; e quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati della peggiore filosofia».

Friedrich Engels, Dialettica della natura, Roma 1955, p. 203.


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Robert Havemann (1910-1982) – … con ciò comincia poi, nello stesso tempo, la funzione principale di una società comunista che si sviluppa sempre più liberamente: la formazione del giovane e la cura perché esso non venga distrutto in partenza, ma che possa al contrario sviluppare tutte le sue grandi capacità.

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L’elaborazione di una siffatta utopia comunista è un compito importante dei nostri tempi.

 

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«[…] qual è la vera aspirazione del comunismo?

Un ben determinato livello materiale di vita, un determinato standard di vita per tutti è, o no, premessa assoluta per il comunismo?
Cosa significa in generale comunismo?

Non credo che si possa definire il comunismo, o come altrimenti si voglia chiamare il nostro futuro ordinamento sociale che abbiamo di mira, con il fatto che ogni uomo debba avere un rasoio elettrico, ogni donna un apparecchio elettrico per ondularsi i capelli, o che ciascuno debba avere un televisore, un’automobile o una motocicletta oppure una barca a motore o una casetta nel bosco e così via.

Credo che non si faccia molta strada con siffatte definizioni tecnico-economiche, che sono tutte soltanto relative, e che rappresentano ancor sempre povertà, se comparate con la ricchezza che anche oggi si procurano i ricchi in tutta la terra.

Con siffatte definizioni di ricchezza non si potrà mai definire il comunismo.

Io trovo che le premesse essenziali per il comunismo stiano anzitutto nel fatto che non possono esistere persone privilegiate.

Non deve essere ammesso che ci siano persone che abbiano a disposizione dieci o cento volte più mezzi, materiali e altri, anche spirituali, di ogni altro uomo. Non deve essere ammesso che ci siano persone privilegiate, strati e gruppi privilegiati; al contrario, tutte le persone, tutti gli esseri umani debbono avere assolutamente le stesse possibilità, le stesse chances, debbono essere uguali tra di loro.

Questo è comunismo; questo, del resto, significa communis.

È necessario, che non sia un comunismo del bisogno e della miseria. La vita di ogni essere umano deve essere assicurata: devono essere assicurati la sua nutrizione, la sua vita, la sua abitazione, il suo sonno, i suoi indumenti, le cure della sua salute. Non deve cadere nel bisogno; anche a causa di malattia non deve soffrire più di quello che non debba soffrire per la malattia in sé. Deve esserci una completa sicurezza sociale per ogni individuo, per ogni membro della società. Questa è la seconda premessa decisiva.

I singoli individui debbono essere uguali rispetto alla libertà delle loro decisioni. Debbono avere la libertà di recarsi dove vogliono, cambiare di luogo e di paese, fare viaggi, scegliere l’oggetto del loro interesse secondo il loro gusto e i loro desideri, in modo che non possano essere diretti da una quale che sia istanza più alta, più potente, che li costringe a qualcosa che non vogliono.

Ciò che io ritengo assolutamente decisivo, è che tutti gli uomini abbiano accesso ai grandi valori culturali dell’umanità, mostrino interesse per essi; che esistano nella società gruppi, che si adoperano attivamente per coltivare e per destare l’interesse per la pittura, l’architettura, la musica; per liberare gli uomini dalla schiavitù della musica senza valore e kitsch, del mondo kitsch delle immagini, dell’atmosfera primitiva delle storie di delitti; per far sì che gli uomini scoprano infine che esiste una così immensa ricchezza di grande letteratura e di bellezza spirituale, e anche di profonda saggezza; che essi imparino a conoscere i grandi filosofi del passato, di tutti i paesi.

Tutto ciò deve diventare sempre di più il centro della vita associata, qualche cosa alla quale ci si interessa. E con ciò comincia poi, nello stesso tempo, la funzione principale di una società comunista che si sviluppa sempre più liberamente: la formazione del giovane e la cura perché esso non venga distrutto in partenza, ma che possa al contrario sviluppare tutte le sue grandi capacità.

Penso che se ci si immagina un mondo senza armamenti e senza gli insensati sprechi del capitalismo, si vede che un comunismo siffatto sarebbe già da lungo tempo realizzabile dagli uomini. In tutto il mondo, guardando le cose da un punto di vista puramente materiale, sarebbe possibile la realizzazione di questi semplici principi fondamentali.

Presto considereremmo il lusso degli sfruttatori come un risibile gravame, e disprezzeremmo, in definitiva, coloro che ne erano gli schiavi.

Credo che l’elaborazione di una siffatta utopia comunista sia un compito importante dei nostri tempi.

Credo che occorra delineare e sviluppare nuove finalità e prospettive, prima che ci si metta d’accordo sulla via che conduce ad esse. È una via verso una meta; questa meta è naturalmente fantastica e grandiosa e utopica. Come ogni utopia, essa è anche la forma nella quale ci rappresentiamo il superamento di tutte le cose inumane, per le quali oggi dobbiamo soffrire. Perciò anche la nostra utopia è sempre unilaterale, e reca l’impronta delle infelicità della nostra vita presente.

Sulla via verso questa meta ci sono pericoli terribili, perché naturalmente i potenti di questo mondo non abbandoneranno le loro posizioni di potere volontariamente, né tanto facilmente, bensì, in ultima istanza, commetteranno la follia di mettere in forse la vita di tutta l’umanità sulla terra, solo perché la loro via, l’unica giusta – così loro pensano – possa essere proseguita.

È follia che il capitalismo moderno non possa esistere se non con la crescita ininterrotta della sua produzione, con sempre nuovo spreco di lavoro e di intelligenza umani per scopi insensati.

È non meno insensato – a rifletterci – che in cento anni il consumo di energia e la produzione di energia si siano moltiplicati per mille. È una cosa che non va, che non può andare avanti alla lunga, che può portare semplicemente a una catastrofe.

La più grande follia è naturalmente l’armamento, la bomba atomica, la bomba all’idrogeno, i tanti spaventosi mezzi di distruzione di massa che vengono continuamente sviluppati, con i quali le grandi potenze si spiano reciprocamente e credono sinceramente che l’altra la aggredirebbe se potesse vedere una possibilità di successo mediante un qualche balzo in avanti di natura tecnica. Di conseguenza si pone il problema se si debba colpire subito l’avversario con un attacco preventivo, per impedire che esso possa utilizzare un vantaggio momentaneo.

Noi viviamo, tutta l’umanità vive in questa spaventosa condizione della più completa incertezza sulle decisioni di poche persone, molto limitate e di corte vedute. Mai in tutto il passato, c’è stata una situazione simile, una situazione nella quale gli abitanti di questo pianeta si siano preparati nel modo più perfetto per darsi essi stessi il colpo di grazia definitivo».

Robert Havemann, Un comunista tedesco, Einaudi, 1980, pp. 92-95.


Donande rispiste domande

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Dialettica senza dogma

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Fernanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.

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Locandina della Presentazione

Sabato 9 dicembre 2017, alle ore 17,30

Presso la libreria Odradek, Via dei Banchi Vecchi, 57  –  Roma

Piero Pagliani

presenterà il libro di Giancarlo Paciello

Coperta 270

No alla globalizzazione dell’indifferenza

ISBN 978-88-7588-193-1, 2017, pp. 448, formato 170×240 mm., Euro 30

 

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Fernanda Mazzoli

Il libro No alla globalizzazione dell’indifferenza

di Giancarlo Paciello

Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche.

Vi si dispiegano la curiosità intellettuale e la visione universalistica dell’autore permettono al lettore di costruirsi un suo proprio percorso.

Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana, pur nel riconoscimento delle diversità culturali.

Rivendicazione di una «ecologia integrale» che non può che scontrarsi con la voracità onnivora del «capitalismo assoluto» dei nostri tempi.

Defatalizzazione del mito del progresso, cui siamo tutti devoti da almeno duecento anni

Affermazione della necessità di una comune battaglia contro la «Divinità… falsa e bugiarda, l’Economia».


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Fernanda Mazzoli,
Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello

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Fernanda Mazzoli

Giancarlo Paciello, con il libro No alla globalizzazione dell’indifferenza edito da Petite Plaisance, offre al lettore un testo singolare, per struttura e per respiro, coinvolgendolo in un percorso impegnativo e stimolante che spazia dalla storia all’economia, alla filosofia, al diritto, all’ecologia. Un invito a leggere il mondo contemporaneo, nelle sue diverse articolazioni e nella sua unità di fondo, con la lente critica di un pensiero forte che continua ad interrogarsi sulla storia e sulla condizione dell’uomo, un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche che, oggi più che mai, offuscano la realtà brutale dei rapporti di produzione capitalistici e che non rinuncia ad indicare possibili vie d’uscita a chi non crede che questo sia “il migliore dei mondi possibili”.

Il libro è costruito attorno ad una ricchissima, per quantità e qualità, rete di riferimenti testuali che fanno di questo saggio non solo uno strumento prezioso per chiunque aspiri ad una comprensione profonda, attenta ai fondamenti storici e filosofici, della società attuale, ma anche una via maestra di accesso alle ricerche e alle teorie di tanti, significativi studiosi. Non solo: la varietà degli ambiti conoscitivi in cui si dispiegano la curiosità intellettuale e la visione universalistica dell’autore permettono al lettore di costruirsi un suo proprio percorso, approfondendo certe tematiche e scoprendo relazioni non scontate tra fenomeni apparentemente distanti. Operazione legittima, a patto di non rinunciare a scoprire l’unità dell’insieme che può sfuggire ad una lettura frettolosa. È l’autore stesso, nella pagina iniziale, a fornirci la bussola da utilizzare in questo viaggio: con materiale di grande valore, cucito con il filo rosso della storia e della filosofia, ha messo a punto una «coperta dell’umanità».

Afflato universalistico, dunque: e proprio qui, nell’appassionata rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana, pur nel riconoscimento delle diversità culturali, si esercita la critica dissolvente di Giancarlo Paciello che prende le distanze dall’ideologia dominante dei «diritti umani», ricondotti alla loro precisa matrice storica (la Rivoluzione americana e quella francese) e demistificati in quanto espressione di una fasulla ed ipocrita universalità dietro la quale si celano interessi molto, troppo particolari – politici, militari, economici – che coincidono con quelli dell’Occidente liberista.

La visione universalistica si sviluppa, invece, in tutta la sua grandezza, e urgenza, nell’attenzione posta nella necessità di un ritrovato, armonioso equilibrio tra l’uomo e la natura: l’ecologia occupa un posto centrale nella riflessione di Paciello, fa da collante tra le diverse parti del suo lavoro, tesse richiami tra ambiti differenti dell’attività umana, istituisce uno sguardo alternativo sull’economia e disegna una prospettiva di uscita dalle secche dall’attuale sistema socio-economico.

Una «ecologia integrale» non può che scontrarsi con la voracità onnivora del «capitalismo assoluto» dei nostri tempi: sostenuto dalle argomentazioni di pensatori di grande rilievo, (basti qui citare Aristotele, Marx, Preve) e dalle ricerche di storici, economisti e sociologi (Hobsbawm, Bontempelli, Bevilacqua, Polanyi, Wallerstein, Michéa , Nebbia, Livi Bacci, e tanti altri) l’autore fa tabula rasa di una “mitologia” capitalistica contrabbandata come incontrovertibile verità scientifica, stabilmente installata nell’immaginario contemporaneo: l’economia neoclassica, riportata alla sua natura di crematistica, accumulazione di denaro fine a se stessa, la costruzione dell’individuo «razionale», calcolatore della teoria liberale, l’idea di un progresso infinito che disconosce il limite , l’«imbroglio ecologico» che ha occultato le radici capitalistiche della violenza contro una natura rimossa dalla sua dimensione storica, l’universalismo «farlocco» a stelle e strisce delle guerre «umanitarie».

Sfatare il mito del progresso, cui siamo tutti devoti da almeno duecento anni, è operazione che richiede una buona dose di coraggio intellettuale, anche perché implica fare i conti, in modo maturo e talora doloroso, con la tradizione ideale e l’esperienza politica della sinistra. La riflessione di Paciello, alimentata dalle tesi di Larsch, Michéa e Orwell, apre, qui, un terreno ancora in gran parte, almeno nel nostro Paese, da dissodare e che potrebbe essere foriero sia di un’adeguata interpretazione in sede storica, nonché politica di diversi fenomeni, sottraendoli innanzitutto alla categoria inconsistente e fuorviante del «tradimento», sia di una progettualità alternativa che sappia prendere le distanze da quanto in quella tradizione conteneva le premesse per la sua resa al modello economico e culturale dominante.

È, questo, un libro che ha il pregio di rispondere a molte domande essenziali del nostro tempo, ma, contemporaneamente, di suscitarne sempre di nuove, di fare il punto in modo rigoroso ed appassionato su numerosi temi e di dischiuderne altri. Il ruolo della dottrina sociale della Chiesa, cui l’attuale pontefice è particolarmente attento, è sicuramente, per chi scrive, uno di questi. Pur non disconoscendo l’elemento di rottura rispetto ai suoi predecessori rappresentatato da papa Bergoglio, né la bellezza e la grande umanità dell’Enciclica Laudato si’ (ampi stralci della quale sono proposti nella parte seconda) e pur comprendendo il carattere universale, come sottolinea Giancarlo Paciello, di un messaggio rivolto alle «persone di buona volontà», interessate alla «cura della casa comune», due sono le questioni aperte dalla scelta di dare una tale centralità all’Enciclica. La prima è piuttosto scontata, ma non perciò da accantonare: il divario tra l’accorata denuncia papale dello strapotere del denaro e la decisa presa in carico della sofferenza dei poveri stridono drammaticamente con l’effettiva potenza economica dello Stato del Vaticano e dell’istituzione religiosa, sì da prestarsi a confermare, nelle nuove circostanze, la giustezza del famoso detto di Marx sull’oppio dei popoli. La seconda, pur nella consapevolezza del debito storico e culturale verso l’universalismo cristiano, si interroga sul rischio, davanti allo sfacelo culturale, politico, sociale ed antropologico della tarda modernità, di un ritorno all’indietro, nell’alveo rassicurante di una comunità che trova nelle forme della religione uno dei suoi fondamenti, nonché un baluardo da opporre allo sradicamento devastante del capitalismo assoluto. Rischio di cui è ben consapevole Giancarlo Paciello il quale, pur auspicando un dialogo tra scienza, religione e filosofia in merito e alle sorti dell’umanità e alla necessità di una comune battaglia contro una «Divinità… falsa e bugiarda, l’Economia», rivendica, nel solco di Preve, la centralità della filosofia, distanziandosi ancora una volta dal conformismo culturale – accademico che riconosce solo l’alternativa tra scienza e religione, dopo avere delegittimato la filosofia, per sua natura poco disposta a piegarsi davanti alla nuova divinità economica che non teme la scienza di cui, anzi, si serve in funzione tecnologica, né la religione che supplisce all’insensatezza sociale creata dalla produzione illimitata di merci. Un’insensatezza che si alimenta della stessa indifferenza – al saccheggio dell’ambiente, a diseguaglianze sociali insostenibili, alla mercificazione di ogni ambito dell’esistenza – che produce e contro la quale questo libro costituisce un sicuro antidoto.

Fernanda Mazzoli


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

 

Giancarlo Paciello

Giancarlo Paciello

Giancarlo Paciello – Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati!”
Giancarlo Paciello – La Costituzione tradita. Intervista a cura di Luigi Tedeschi
Giancarlo Paciello – Ministoria della Rivoluzione cubana
Giancarlo Paciello – Diciamocelo: un po’ di storia non guasta. Dalle “battaglie dell’estate” del 1943 in Europa, all’avvento dell’Italia democristiana nel 1949
Giancarlo Paciello – Oggi 29 novembre! Oggi, ancora, solidarietà per il popolo palestinese.
Giancarlo Paciello – Uno scheletro nell’armadio dello Stato: la morte di Pinelli.
Giancarlo Paciello – Per il popolo palestinese. La trasformazione demografica della Palestina. Cronologia (1882-1950). Ma chi sono i rifugiati palestinesi? Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo: occupazione militare e colonie.
Giancarlo Paciello – Ascesa e caduta del nuovo secolo “americano” (Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?)

 

 

La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese. Con testi di Henry Laurens, Francis Jennings,  Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir.
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Quale processo di pace? Cinquant’anni di espulsioni e di espropriazioni di terre ai palestinesi
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La nuova Intifada. Per il diritto alla vita del popolo palestinese.
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Luce Irigaray – La carezza è gesto-parola che oltrepassa l’orizzonte o la distanza dell’intimità con sè. Accarezzare è stare attenti alle qualità velate nella vita comunitaria.

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Essere due

 

La carezza è gesto-parola che oltrepassa l’orizzonte o la distanza dell’intimità con sè. È vero per chi è accarezzato, toccato, per chi è avvicinato nella sfera della sua incarnazione, ma è anche vero per chi accarezza, per chi tocca e accetta di allontanarsi da sé per questo gesto. Allora il gesto di chi accarezza non è cattura, possesso, sottomissione della libertà dell’altro affascinato da me nel suo corpo, ma diviene dono di coscienza, regalo di intenzione, di parola indirizzata alla presenza concreta dell’altro, alle sue particolarità, naturali o storiche.

Accarezzare è stare attenti alle qualità velate nella vita comunitaria, qualità che leggi e vita civile dovrebbero garantire come proprie, sottratte alle violenze di un quotidiano che non si cura di intersoggettività. La carezza è risveglio a te, a me, a noi.

Luce Irigaray, Essere due, Bollati Boringhieri, 1994.


Luce Irigaray – L’«a» è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze ma le renda alleate.

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Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. Il desiderio è coscienza. Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro. Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza.

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L’essere e il nulla

 

Senza alcun dubbio, chi desidera sono io, ed il desiderio è un modo singolare della mia soggettività. Il desiderio è coscienza […]. Tuttavia non si deve pensare che la coscienza che desidera sia differente dalla coscienza cognitiva solo, per esempio, per la natura del suo oggetto.

[…] Il desiderio non è solamente voglia, chiara e trasparente voglia che, attraverso il nostro corpo, tende verso un certo oggetto. Il desiderio è definito come turbamento. E questa espressione di turbamento può servirci a determinare meglio la sua natura: si oppone un’acqua torbida ad un’acqua trasparente; uno sguardo torbido ad uno sguardo chiaro. L’acqua torbida è sempre dell’acqua; non ha perso la fluidità ed i suoi caratteri essenziali; ma la sua trasparenza è «turbata» da una presenza impercettibile che fa tutt’uno con essa, che è ovunque e da nessuna parte e che si dà come intorbidimento dell’acqua provocato da se stessa. Certo, la cosa si potrà spiegare adducendo la presenza di finissime particelle di solidi, in sospeso nel liquido: ma questa, è la spiegazione dello scienziato. Secondo la nostra percezione originaria, l’acqua torbida ci si presenta come alterata dalla presenza di qualche cosa di invisibile che non si distingue dall’acqua stessa e si manifesta come pura resistenza di fatto.

Se la coscienza che desidera è torbida, vuol dire che presenta un’analogia con l’acqua torbida. Per precisare questa analogia, conviene paragonare il desiderio sessuale con un’altra forma di desiderio, per esempio con la fame. […] Nel desiderio sessuale, certamente, si può ritrovare questa struttura comune a tutti gli appetiti: uno stato del corpo. […]

Tuttavia, se ci fermiamo a descriverlo così, il desiderio sessuale si manifesterebbe come un desiderio secco e chiaro, paragonabile al desiderio di bere o mangiare. […] Ora tutti sanno che un abisso separa il desiderio sessuale dagli altri appetiti. […] Perché non si desidera una donna tenendosi del tutto fuori dal desiderio, il desiderio mi compromette; io sono complice del mio desiderio. […] Ma il desiderio è consenso al desiderio. […] Nel desiderio la coscienza sceglie di esistere la sua fatticità su un altro piano. Non la fugge più, tenta di subordinarsi alla sua contingenza, in quanto sente un altro corpo – cioè un’altra contingenza – come desiderabile. In questo senso, il desiderio non è solamente manifestazione del corpo d’altri, ma rivelazione del mio corpo. […]

Il desiderio è un tentativo di svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell’altro. Solo in questo senso le carezze sono appropriazione del corpo dell’altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie […].

La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la possa ridurre a semplice contatto, ed allora vien meno al suo significato. Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro. Ma, si può obbiettare, non era forse già incarnato? No. La carne dell’altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il corpo dell’altro in situazione; non esisteva per lui perché la trascendeva verso le sue possibilità e verso l’oggetto. La carezza fa nascere l’altro come carne per me e per lui. […]

Così la carezza non si distingue per nulla dal desiderio: carezzare cogli occhi o desiderare è la stessa cosa; il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio.

[…] Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro; e la carezza, realizzando l’incarnazione dell’altro, mi manifesta la mia incarnazione; cioè io mi faccio carne per indurre l’altro a realizzare per-sé e per me la sua carne e le mie carezze fanno nascere per me la mia carne […].

Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza […] per realizzare l’incarnazione dell’altro.

[…] Il desiderio, quindi, non giunge alla coscienza come il cuore giunge al pezzo di ferro che io avvicino alla fiamma. La coscienza si sceglie desiderio. Per questo, certo, conviene che essa abbia un motivo: io non desidero una persona qualunque o in qualsiasi momento.

[…] Il desiderio è un pro-getto vissuto che non presuppone nessuna deliberazione preliminare, ma che comporta da sé il suo significato e la sua interpretazione.

GIOTTO-BACIO

 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, trad. di Giuseppe Del Bo, NET, 2002, pp. 438-445.

 

 

 


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Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini

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Filosofare

Luca Grecchi

Educazione classica: educazione conservatrice?

Festival della filosofia di Roccabianca, 11 giugno 2017

 

 

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Luca Grecchi,
Educazione classica- educazione conservatrice?

 


Il fine della formazione classica
è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità

La cultura classica, la filosofia classica, aiuta a comprendere l’essenziale,
ossia come vivere per essere felici

Se non si può scegliere il fine di una vita, non c’è libertà;
e se non c’è libertà, non c’è felicità

I classici ragionavano innanzitutto in termini di intero,
di totalità sociale

Gli antichi criticavano anche il mercato,
che Aristotele definiva appunto «contro natura».

È il fine che determina l’essenza delle cose

La filosofia classica insegna  a ragionare
in termini di intero

Tre luoghi comuni

Il primo luogo comune

Il secondo luogo comune

Il terzo luogo comune

L’educazione classica serve a capire
cosa è realmente importante per essere felici


Immagino che la maggior parte delle persone, anche quelle qui convenute, risponderebbe in modo affermativo alla domanda che dà il titolo al mio intervento. Ebbene, se anch’io pensassi che l’educazione classica fosse un’educazione conservatrice (verso la realtà per come è oggi), probabilmente non avrei svolto questa relazione. Penso, invece, esattamente in modo contrario. Cercherò, dunque, di chiarire bene le mie tesi, che non sono molto di moda. Vi anticipo comunque innanzitutto alcune tesi che non sosterrò.

Non sosterrò, nella mia relazione, la tesi oggi dominante su questa tematica, argomentata ad esempio da Martha Nussbaum e da altri studiosi (alcuni dei quali ospitati, anche di recente, dall’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, che mi pare faccia ormai da tempo di questa tesi un refrain), secondo cui la cultura classica è importante in quanto abitua i nostri ragazzi ad una maggiore duttilità mentale, rendendoli più flessibili, più aperti, ecc. Di fronte ad un mondo del lavoro in continua evoluzione, la cultura umanistica, il greco, il latino, la filosofia, ma anche la scienza e la matematica, offrirebbero la possibilità di uno sguardo d’insieme più ampio, e pertanto una maggiore duttilità mentale: ecco ciò che si sente ripetere spesso. E sono convinto che queste argomentazioni siano la causa principale che spinge molti genitori ad iscrivere i figli al Liceo Classico (che ultimamente sta conoscendo una discreta risalita degli iscritti), unita al fatto che solitamente questo tipo di scuola ospita adolescenti meno problematici, ed anche per questo si preferisce mandare lì i propri figli: bisogna sempre dire la verità se si vogliono spiegare bene i fenomeni.

Chi sostiene questa tesi, ossia che la cultura classica apre la mente più della istruzione tecnico-professionale, non sostiene una tesi falsa. Quanto costoro affermano è infatti corretto, come dimostrano i risultati mediamente più brillanti, in università, degli studenti provenienti dal Liceo Classico.

Il fine della formazione classica è dare ai giovani
la “forma” della compiuta umanità

Tuttavia, come sempre, bisogna ragionare sul fine per comprendere l’essenziale. Qual è il vero fine della cultura classica? Ecco allora la tesi che sosterrò oggi: il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini, di persone, che la cultura umanistica antica evidentemente favorisce molto più della cultura tecnica contemporanea.

Qual è invece il fine della formazione classica teorizzato da alcuni studiosi, e che passa, tramite il senso comune, ai politici, ai genitori ed agli stessi giovani? Il fine sembra essere quello di formare lavoratori efficienti, produttivi, più competitivi rispetto agli altri nel mercato del lavoro. Cosa dovrebbe portare ai giovani la realizzazione di questo fine? Forse, in un futuro lontano, remunerazioni un po’ più elevate, impieghi un po’ meno umili, ma al contempo anche un maggiore impegno lavorativo in una attività magari non congeniale, un maggiore coinvolgimento nel ciclo lavoro-consumo, un minor tempo per se stessi e per i propri figli, ecc.

Tutto ciò renderà i nostri giovani più felici? Questa è la sola domanda che occorre porsi, proprio perché è la felicità l’argomento principale della filosofia classica, che è “educata” a ragionare sulle cose essenziali. Ebbene: se la felicità, il bene per un uomo, è la realizzazione della sua natura, di ciò che egli è nella sua essenza, io penso che con il falso fine dell’efficienza e della produttività non si rendano i nostri giovani più felici. E penso ciò, insieme a Platone ed Aristotele – che sono una bella compagnia –, proprio in quanto la natura dell’uomo è quella di essere un ente razionale e morale, un ente cioè che sta bene, che si realizza compiutamente, quando conosce con verità (non quando resta ignorante), e quando vive in armonia con gli altri (non quando vive nel conflitto). La verità ed il bene sono i due grandi temi della filosofia classica.

È evidente, dunque, che chi propone il Liceo Classico come strumento finalizzato alla maggiore produttività sul mercato del lavoro capitalistico, non ha capito l’essenziale della cultura classica. E chi non capisce l’essenziale, scusate la durezza, non è che non capisce qualche dettaglio: non capisce proprio niente! Oggi, ad esempio, sono stato invitato qui a parlare di filosofia, ma se, vedendo un palco ed un microfono, cominciassi a eseguire – peraltro senza base – tutto il repertorio di Iva Zanicchi, è evidente che non avrei capito l’essenziale del mio invito, ossia non avrei capito niente!

La cultura classica, la filosofia classica, aiuta a comprendere l’essenziale,
ossia come vivere per essere felici

La cultura classica, la filosofia classica, aiuta a comprendere l’essenziale, ossia come vivere per essere felici. E siccome viviamo in relazione agli altri, la nostra felicità non è indipendente da come in generale si vive, da cosa si produce, da come lo si fa, ecc. Questo insegna la filosofia classica, l’educazione classica (che è cosa diversa dalla istruzione, la quale fornisce meramente strumenti: l’inglese, l’informatica, l’economia; ma gli strumenti non sono il fine, e ciò che occorre scegliere bene è innanzitutto il fine della propria vita). Quando deve analizzare i tipi di vita, i bioi, che possono o meno portare alla felicità, Aristotele afferma chiaramente che una vita destinata a massimizzare il denaro è una vita insulsa, in quanto il denaro può al più essere un mezzo per realizzare cose buone, ma non può, per sua natura, essere un fine. Ora, se vale così per la parte, ossia per le singole persone, a maggior ragione ciò deve valere per l’intero, per la totalità sociale: una totalità sociale che ha come fine quello di massimizzare il profitto, è evidentemente una totalità sociale insulsa e degradante, che condanna le persone all’infelicità.

Se non si può scegliere il fine di una vita, non c’è libertà;
e se non c’è libertà, non c’è felicità

Se non si può scegliere il fine di una vita, non c’è libertà; e se non c’è libertà, non c’è felicità. Ma, affinché ci sia libertà occorre conoscenza (perché si è liberi solo se si conosce bene cosa si sceglie), e soprattutto occorre che ci siano le condizioni generali – economiche e politiche in primis – affinché essa possa essere esercitata, ossia affinché si possa scegliere un tipo di vita desiderabile.

Il pensiero di Platone ed Aristotele, ma anche di molti poeti e filosofi precedenti, a saperlo leggere bene, in questo senso ci insegna molto. La loro critica alle strutture economiche ancora fondamentali nel nostro tempo – ossia proprietà privata, mercato, denaro –, è fortissima! Eppure, nei tanti ripropositori moderni della classicità, che sono solitamente docenti universitari, questi contenuti sono completamente trascurati. Si trascura però, così facendo, l’essenziale, e sapete oramai cosa capisce chi trascura l’essenziale… Oggi – ma ciò accade quanto meno dal Rinascimento – è proposta una classicità che esclude queste tematiche. Ma è proprio su queste tematiche, specie nel nostro tempo in cui la privatizzazione e la mercificazione invadono tutti gli spazi di vita, che si misura il carattere classico, e pertanto sempre valido, sempre attuale, del pensiero greco, che invita in primo luogo a pensare con la propria testa per realizzare una vita buona.

Nietzsche diceva, grosso modo, che se il modo di produzione ha bisogno di lavoratori e di consumatori per funzionare bene (oggi, peraltro, dei secondi più che dei primi), ossia per aumentare il profitto (perché il profitto è appunto il suo fine – ovvero, per esso, l’essenziale), l’ultima cosa che bisogna fare è educare i giovani con la filosofia, la letteratura e la storia, ossia farli pensare con la propria testa, fargli avere dei fini propri. Questi nostri studiosi che tessono le lodi della cultura classica – filosofica o scientifica che sia –, e dunque del Liceo classico competitivamente inteso, non hanno capito che lo ripropongono a vantaggio di un mondo che il classico, nella sua essenza umanistica, lo vuole abolire. Perché pensare con la propria testa, volere realizzare il bene della totalità sociale, confligge con il buon esito dei processi economici privatistici e mercificati. Consentitemi, allora, una breve sintesi di alcune tesi della filosofia classica su questi temi oggi così importanti, volte a mostrare quale critica della attuale “economia” avrebbero fatto i classici. Sarà forse un po’ straniante, e ciò in quanto siamo abituati ad ascoltare tesi diverse non solo nei salotti televisivi, ma anche in libri di pensatori considerati “di sinistra”, o “radicali”. Tuttavia, vedrete presto con quale maggiore serietà questi temi erano affrontati oltre duemila anni fa.

I classici ragionavano innanzitutto in termini di intero, di totalità sociale

In generale i classici ragionavano innanzitutto in termini di intero, di totalità sociale, perché spesso è il funzionamento dell’intero che determina il funzionamento della parte. Per questo si occuparono delle strutture fondamentali dell’economia – ossia del processo che consente agli uomini di sussistere –, ovvero delle forme della produzione e della distribuzione sociale dei beni, della proprietà privata e del mercato, che costituivano anche allora i cardini del sistema. E le criticavano. Perché le criticavano? Innanzitutto perché non sono forme naturali, e pertanto non sono immodificabili, dunque “incriticabili”. Non si deve infatti necessariamente vivere in un mondo in cui i mezzi della produzione sociale (cioè della produzione del necessario per vivere) siano privati, ed in cui tutto (anche l’uomo e la natura) sia merce. Inoltre, la proprietà privata era criticata in quanto essa, anche etimologicamente, rinvia al fatto che chi la detiene, ossia chi ha il possesso di certi mezzi della produzione sociale, può privare gli altri di quei mezzi e dei prodotti che ne derivano. Se alcune multinazionali possiedono il brevetto di alcuni farmaci, decidono loro a chi dare i farmaci (a chi paga); e questo può valere per tutto, anche per l’acqua. Questa cosa, secondo voi, favorisce la realizzazione di quella armonia sociale così necessaria alla buona vita di tutti? Se una minoranza di ricchi proprietari – ed il modo di produzione capitalistico, come mostrano le statistiche, va strutturalmente in questa direzione – può escludere una maggioranza di persone anche da beni e servizi essenziali, si viene secondo voi a creare un mondo più giusto in cui vivere?

Gli antichi criticavano anche il mercato,
che Aristotele definiva appunto «contro natura».

Gli antichi criticavano anche il mercato, che Aristotele definiva appunto «contro natura». Come ho già detto in altre occasioni, se il fine è il profitto, tutto diventa strumento (per quel fine), e quindi merce: anche l’uomo e la natura. C’è un mercato del lavoro, dell’acqua, addirittura dell’inquinamento. Peccato che il mercato, “luogo” in cui si dà solo per avere in cambio qualcosa di più, sia l’opposto della comunità (ben rappresentata dalla famiglia), luogo in cui si dà per il semplice piacere di dare. E la comunità, dove regna l’amicizia, è per la filosofia classica il solo contesto sociale in cui si vive bene, poiché vi regna l’armonia. Secondo voi, un modo di produzione incentrato sul mercato, che è l’opposto della comunità, può favorire un modo comunitario, amicale, fraterno di vita?

Ebbene, su queste ed altre “piccole” questioni riflettevano i classici. Se non ci credete, ve ne fornisco la prova. Ometto tutta una serie di citazioni che si potrebbero fare – da Omero ai Presocratici –, in cui già comunque è presente la critica alle strutture privatistiche e mercificate; mi limito solo ai “classici classici”, Platone ed Aristotele.

Per quanto concerne Platone, la inumanità di un modo di produzione sociale finalizzato all’accumulazione di denaro, si trova delineata in più dialoghi. Mi limito ad una sola citazione, tratta da uno dei suoi testi più maturi e più ampi, ma forse meno studiati, ossia le Leggi: «Lo Stato primo, la costituzione e le leggi più perfette, si trovano là dove l’antico detto I beni degli amici sono davvero comuni trova la sua più completa realizzazione» (Leggi, V, 739 B). Non è la consueta tirata contro la proprietà od il denaro, ma una tesi costruttiva, progettuale. Ebbene: cosa voleva dire Platone – ma prima di lui Pitagora, cui la massima risale – con l’affermare che i beni degli amici devono essere comuni? Voleva dire che si crea veramente amicizia in una società (e l’amicizia è ancor più importante della giustizia, in quanto la prima implica la seconda, quindi è più vasta, mentre la seconda non implica la prima) solo se le cose essenziali sono a disposizione di tutti. Questo, come Platone sapeva bene, non accade in un mondo in cui domina la privatezza della proprietà.

È il fine che determina l’essenza delle cose

Fatemi citare anche Aristotele. Fra i suoi testi principali, in merito, vi è il I libro della Politica, in cui egli distinse fra «economia» e «crematistica». La distinzione è data dal fine. La crematistica è una modalità di produrre beni o servizi finalizzata a ricavare il massimo profitto; l’economia è un modo di gestire la produzione di beni e servizi finalizzata a soddisfare equamente i bisogni di tutti. La differenza è nel fine, ed è una differenza radicale, essenziale appunto. È il fine che determina l’essenza delle cose.

Platone ed Aristotele mostravano dunque che occorre guardare non ai dettagli, ma alla struttura del modo di produzione sociale. Perché ci sono tanti bisogni sociali insoddisfatti per i poveri (cibo, medicine, assistenza, ecc.), ed al contempo tanti beni di lusso (gioielli, abiti, cellulari, ecc.) soddisfatti per i ricchi? Semplice: perché i ricchi possono pagare, ed i poveri no, per cui i primi creano una domanda (ed una conseguente offerta) di mercato, i secondi no. Perché ci sono tanti bisogni sociali insoddisfatti e tante persone disoccupate che vorrebbero lavorare? Altrettanto semplice, in quanto dipende sempre dalla struttura complessiva di funzionamento del modo di produzione sociale: perché i poveri non possono pagare, quindi non possono trasformare i loro bisogni in domanda di mercato (di lavoro in questo caso), la quale dunque non produce l’offerta, sicché restano da un lato molte persone in difficoltà, e dall’altro molte persone disoccupate (spesso le due categorie, peraltro, coincidono). Hai voglia a dare gli incentivi alle imprese per assumere, se questa è la struttura di funzionamento del sistema. È come immettere una cascata d’acqua in un acquedotto che ha le condutture bucate! Certo, qualche goccia in più alla fine può arrivare, ma il problema è appunto la struttura di funzionamento del sistema idrico. Una bella differenza – non trovate? – rispetto ai discorsi che sentite fare in TV dagli attuali politici…

La filosofia classica insegna  a ragionare in termini di intero

La filosofia classica insegna dunque a ragionare in termini di intero, di totalità sociale, di strutture fondamentali, di ciò che è giusto, vero, buono, del fine da porre in essere per condurre una vita felice. Ciò si scontra con l’attuale modo di vivere capitalistico? Certo che si scontra. Possiamo sicuramente, nei confronti dell’attuale modo di produzione, essere ribelli, ossia dire che l’euro fa schifo, che l’alta finanza è fatta da sanguisughe, che i politici sono tutti dei disonesti, ecc. Ma tutto questo è “ribellismo” con scarsa base teoretica; e senza una base teoretica non si costruisce nulla, non si progetta. L’educazione classica, la filosofia classica, insegna proprio questa base, ossia insegna a comprendere e valutare la totalità sociale in cui si vive, alla luce dei veri fini che l’uomo – fondamento del senso e del valore – si deve porre per essere felice.

Tutto il discorso fatto finora tende a mostrare che si è realmente critici solo se si è anche progettuali: e questa dimensione progettuale è il fulcro, sul piano politico, della educazione classica. La critica fine a se stessa, anche se urlata, non conduce da nessuna parte; mentre una progettualità fondata ed argomentata, forse, sì. In ogni caso, essa è per i giovani l’unica guida educativa possibile.

Tre luoghi comuni

Utilizzerò ora gli ultimi minuti del mio intervento, per applicare questo discorso generale a tre luoghi comuni del nostro tempo, che corrispondono a tre famose dichiarazioni di ministri sui nostri giovani. Non mi interessano i nomi, né le aree politiche di appartenenza di questi ministri, perché, in quanto luoghi comuni, questi temi sono condivisi anche, appunto, dalla gente comune.

Il primo luogo comune

Il primo luogo comune consiste in tutte quelle dichiarazioni, svolte anche da docenti universitari, in cui sostanzialmente si plaude alla mobilità dei giovani, e li si invita a non fare i bamboccioni a casa propria, ma a girare il mondo alla ricerca della occupazione migliore, con cui evidentemente si identifica la realizzazione nella vita. Ora: su questo punto è necessario intendersi. Se la scelta di vivere all’estero fosse realmente libera, ossia rispondesse davvero ad un desiderio autonomo consapevole di lasciare la famiglia e gli amici, potrei chiedermene il perché – non è naturale abbandonare chi si ama –, ma essa sarebbe accettabile. Tuttavia, il fenomeno che quotidianamente si verifica è un altro. Quando non è fuga per mero bisogno, ad esempio nelle regioni del Sud Italia, questa fuga è spesso nei giovani laureati inseguimento di un miraggio che il modo di produzione capitalistico fa balenare davanti agli occhi, ma che – come tutti i miraggi – svanisce non appena ci si arriva vicino. Non discuto che in altri paesi le condizioni lavorative siano migliori che in Italia, ma occorre sempre essere consapevoli che lo sradicamento, l’allontanamento dalla famiglia di origine, è una perdita fondamentale di felicità per ogni essere umano. Come tale, quanto meno, essa non dovrebbe essere propagandata, specie da istituzioni politiche ed accademiche.

Mi giunge voce che un docente universitario piuttosto noto abbia detto, a lezione, che è meglio vivere sotto i ponti che accettare di vivere nella casa lasciata in eredità dai nonni: come se la comunità famigliare fosse una prigione, e non anche un luogo di realizzazione personale! Pensate che la radice greca da cui deriva la parola eleutheria, che traduciamo con “libertà”, ospita proprio l’idea del crescere in un ambiente protetto, famigliare, comunitario, in cui si può gradualmente divenire “autonomi”, ossia appunto – sempre etimologicamente – essere “legge a se stessi”. Lo schiavo invece (così come oggi il giovane precario sradicato) non aveva questo contesto favorevole di crescita, e ciò gli provocava perdita di identità ed umanità, dunque incapacità di essere pienamente libero, autonomo. In una commedia di Menandro si legge che per lo schiavo «solo il padrone è legge e giudice di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto». Oggi “il padrone” sono queste false idee funzionali ai processi capitalistici di mercato.

Vi chiedo allora: davvero è da considerare così deprecabile voler continuare a vivere, magari accontentandosi di meno dal punto di vista economico, nel paese in cui si è sempre vissuti, ed in cui si condividono con gli altri, quanto meno, lingua e tradizioni, oltre che radici e rapporti? Io auguro a tutti i giovani qui presenti di trovare dei compagni o delle compagne che vorranno loro un bene enorme per tutta la vita, ma tenete conto che ben difficilmente, nella vita, si potrà trovare anche una sola persona che vi vorrà bene come la vostra mamma o come il vostro papà (salvo eccezioni, purtroppo ahimè sempre possibili in natura). Tenetelo sempre presente nelle vostre scelte di vivere o meno all’estero.

Il secondo luogo comune

Il secondo luogo comune è quello che ritiene i giovani schizzinosi. Ricordate infatti che un famoso ministro, anche lei docente universitario, disse una volta che i giovani non devono essere troppo schizzinosi nello scegliere il lavoro, ossia, specie all’inizio, devono prendere quello che gli capita, perché il curriculum inizia anche così. Questa disponibilità a fare di tutto è infatti molto apprezzata dalle aziende. E ci credo che è apprezzata! Se poi lo si fa gratis – con un bello stage – è ancora più apprezzata!

Ovviamente, la questione va analizzata sempre a prescindere dalla simpatia/antipatia che suscita chi ha detto la frase, e quanto meno da un duplice punto di vista, individuale e sociale. Sul piano individuale, è evidente che se si è in estrema difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, si è costretti a non essere schizzinosi e ad accettare quello che arriva. È naturale. Semmai, la politica dovrebbe fare di tutto per evitare almeno queste situazioni. I giovani che però non sono in queste condizioni, come di solito non lo sono i giovani laureati, perché dovrebbero farlo? Perché dovrebbero fare la prima cosa che trovano? Se la loro umanità, la loro vita, indipendentemente da quello che hanno studiato, si arricchisce di più – ed è così – passando del tempo facendo, ad esempio, volontariato con gli anziani, o con persone in difficoltà, o accudendo i genitori, perché dovrebbero scegliere il peggio per sé stessi, anche se ciò assume la forma di un lavoro remunerato? A mio avviso la politica, e la filosofia su cui essa dovrebbe appoggiarsi, dovrebbe iniziare a smitizzare il lavoro, il quale – almeno nelle condizioni capitalistiche nelle quali ci troviamo, in cui non si può scegliere cosa fare in base alla utilità sociale di quel che si fa, o in base a ciò verso cui siamo portati: ci si può solo adattare a cosa offre il mercato in base alle aspettative di profitto delle imprese – come tale può solo essere uno strumento, ma non il fine della vita stessa. Il fine giusto per la vita può essere solo la felicità, ossia la piena realizzazione di sé in un mondo che si deve cercare di rendere il più possibile armonico (perché vivere in un mondo armonico consente a tutti di essere più felici). Un lavoro che abbrutisce, anche se svolto in giacca e cravatta, non è una opportunità, ma è qualcosa che ci plasma negativamente facendoci diventare peggiori! Le abitudini non sono mai prive di effetti. Aristotele diceva che, ferma restando la natura di ciascuno, le abitudini – apprese da piccoli dai genitori, e poi dai contesti sociali che si praticano – creano una sorta di “seconda natura”, che talvolta anche l’educazione migliore fa fatica a modificare.

Ecco perché chi ha modo di influire sulla politica e sulla educazione non deve fare entrare nella testa dei giovani il messaggio per cui ciascuno deve pensare principalmente a sé stesso. Il messaggio da dare ai giovani deve essere sempre un messaggio educativo, il quale mostri – come diceva appunto Platone – che non si pensa realmente a sé stessi senza al contempo pensare anche agli altri, al mondo nel suo complesso, poiché nessuno può essere pienamente felice in un mondo infelice e conflittuale. Per questo motivo ai ragazzi occorre consigliare non di non essere schizzinosi, ma di stare sempre attenti nelle scelte, ossia di cercare sempre di scegliere bene, avendo rispetto e cura di sé stessi e degli altri. Le scelte che si fanno a 18 anni, o a 20 anni, non sono irreversibili, ma comunque condizionano. Un’attività lavorativa avvilente condotta per un certo periodo di tempo, un fidanzato sbagliato, anche una singola esperienza sbagliata fatta magari con leggerezza, a volte segnano la vita per sempre. Alcune ferite non si rimarginano mai. Il più delle volte si può certo tornare indietro, ma le esperienze, dunque le scelte, non sono solo opportunità, ma hanno anche dei costi: qualcosa si paga sempre. Io sarò forse un po’ troppo protettivo, da papà quale sono di una bambina che va alle scuole elementari, ma occorre davvero oggi essere sempre prudenti, e dunque saggi, nel porre in essere le proprie scelte.

Per tornare comunque al tema degli schizzinosi, alle scuole superiori, con le ultime riforme, centinaia di ore saranno dedicate alla cosiddetta alternanza scuola/lavoro. Ciò lancia purtroppo chiaramente ai ragazzi il messaggio che a scuola, nel migliore dei casi, stanno ricevendo istruzione (strumenti per andare a lavorare), non educazione (formazione di una umanità compiuta, necessaria alla loro felicità). I ministri peraltro, di tutti gli schieramenti, su questo tema gongolano: “Ecco, grazie a noi i ragazzi iniziano finalmente ad entrare già da adolescenti nel mondo del lavoro…”. Ora: a parte il fatto che anche mia nonna, 90 anni fa, lavorava già alle scuole elementari – evidentemente era avanti sui tempi –, mi chiedo perché non si ragioni mai su cosa queste attività “lavorative” tolgono ai ragazzi. Queste centinaia di ore investite nella letteratura, nella storia, nella filosofia, non favorirebbero giovani, e poi cittadini, più intelligenti e consapevoli? Forse il punto è proprio qui, come aveva capito Nietzsche: all’attuale modo di produzione servono lavoratori docili e consumatori frenetici. Per questo motivo la cultura classica, l’educazione, con la loro riflessione e lentezza, risultano di impaccio.

Il terzo luogo comune

Vengo al terzo ed ultimo luogo comune, frutto della superficialità di un ministro dell’attuale governo, che ogni tanto fa qualche gaffe, e che qualche mese or sono pare abbia detto che per trovare lavoro è quasi meglio andare a giocare a calcetto con le persone giuste, che non avere degli ottimi curriculum. E su questa frase, come ricorderete, polemiche a non finire. Il ministro si è in realtà subito affrettato a chiarire il proprio pensiero, dicendo che non voleva affatto sminuire il valore del curriculum, ma che constatava comunque che il lavoro oggi, in Italia, si trova più per conoscenze che per capacità.

Evidente che, per quanto colga un aspetto di verità, la giustificazione rischia di essere peggiore della gaffe. Il ministro in questione infatti non si è accorto nemmeno – questa la cosa più grave, a mio avviso – di avere invertito il fine con i mezzi. Il fine di una buona vita è infatti, come dicevamo, l’essere felici e, come scrisse Aristotele, dei veri amici costituiscono una componente imprescindibile della felicità, in quanto anche la più grande fortuna, o il più grande successo, non sono nulla senza amici veri con cui condividerli. Ora: lasciare intendere che è preferibile scegliersi le amicizie in funzione del vantaggio occupazionale che un domani potrebbe derivarne, mi fa proprio pensare ai tre tipi di amicizia di cui parlava Aristotele. Lo Stagirita teorizzava infatti tre tipi di “amicizia”, l’ultimo soltanto dei quali, però, propriamente tale. Il primo tipo è la cosiddetta amicizia “per il piacere”: si sta insieme a qualcuno soltanto finché costui – è cosa tipica dei giovani – è bello, simpatico, affascinante, ecc.; ma se gli capita qualche accidente, lo si abbandona subito. Evidente che questa amicizia non è stabile, dunque non è tale. Il secondo tipo è la cosiddetta amicizia “per utilità”: si sta insieme a qualcuno soltanto finché costui – è cosa tipica degli adulti – è potente, ricco, in grado comunque di aiutarci; quando costui smarrisce il proprio potere, lo si abbandona. Evidente che anche questa forma di amicizia non è tale, ossia non è conforme al suo concetto. Il terzo tipo è la cosiddetta amicizia “per il bene”: si sta insieme a qualcuno perché questo qualcuno ha delle doti che riteniamo buone, perché condividiamo quello che fa, perché in certo modo ci assomiglia, sicché tutto ciò che gli accade di buono è come se accadesse a noi (questa la philia greca, che è un po’ come l’amore: il sostantivo greco indica infatti sia l’amicizia che l’amore). Evidente che questa amicizia è realmente tale, e pertanto è destinata a durare, a crescere, a perfezionarsi. Ecco: nella sua giustificazione ex post del calcetto, è come se il ministro consigliasse di strumentalizzare, ossia un po’ di mercificare, anche le relazioni sociali, dunque l’amicizia. Sicuramente lo ha fatto senza cattiva volontà, ossia in modo inconscio. Questa, tuttavia, è a mio avviso una aggravante, in quanto significa che il senso comune, cui i politici spesso si attengono, reputa ormai normale la strumentalizzazione di ogni aspetto della vita.

L’educazione classica serve a capire cosa è realmente importante per essere felici

Ecco a cosa serve l’educazione classica: a capire cosa è realmente importante per essere felici, e come cercare di agire concretamente per realizzarlo. Se ciò richiede anche di modificare l’attuale modo di produzione sociale, perché le strutture privatistiche e mercificate impediscono la buona vita, ebbene, allora sarà in questo senso che occorrerà iniziare a riflettere e ad agire.

Mia figlia – che mi vede spesso con i libri anche alla sera, perché per me la filosofia è una vera passione – mi chiede spesso: «Papà, perché studi filosofia?». Lei probabilmente ancora associa la filosofia ad una rottura di scatole che mi fa giocare meno con lei. La domanda non è comunque da poco. Io le rispondo così: per cercare di capire bene le cose importanti che ci fanno vivere meglio, in quanto, se non si comprende cosa è importante e cosa non lo è, si vive male. A questo serve la educazione classica: a riflettere sui fini migliori da dare alla vita, sia sul piano individuale che sul piano sociale, perché la filosofia classica nasce politica, e questo fatto non può essere rimosso.

Luca Grecchi

 


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
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Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
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Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.

 


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Elsa Morante (1912-1985) – Hanno trasformato tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare.

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«Hanno trasformato il lavoro degli altri in titoli di borsa, i campi della terra in rendita, e tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare».

 

Elsa Morante, La Storia, Einaudi, 1974.


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Ipazia di Alessandria (355/370-415 a.C.) – Verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.

Ipazia di Apessandria01

Hypatia_Great_Female_Philosopher_Alexandria

Ma è nel fuoco che bisogna ardere.
Niente si addice alla parola più che la temperatura del fuoco […]
Non c’è ritirata possibile, Sinesio.

(M. Luzi, Libro di Ipazia)

Leva dunque, lettore, all’alte ruote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote […]
E se le fantasie nostre sono basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse.
(
Dante, Par. X)

***

Ipazia rappresentava il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio cominciò quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tentò di soffocare la ragione.

Margherita Hack

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Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole,
vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura
“.

Pallada

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“Quando tracciava una nuova mappa del cielo, Ipazia stava indicando una traiettoria nuova – e insieme antichissima – per mezzo della quale gli uomini e le donne del suo tempo potessero imparare ad orientarsi sulla terra e dalla terra al cielo e dal cielo alla terra senza soluzione di continuità e senza bisogno della mediazione del potere ecclesiastico […]. Ipazia insegnava ad entrare dentro di sé (l’intelletto) guardando fuori (la volta stellata) e mostrava come procedere in questo cammino con il rigore proprio della geometria e dell’aritmetica che, tenute l’una insieme all’altra, costituivano l’inflessibile canone di verità”.

Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti.

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“Poiché tale era la natura di Ipazia, era cioè pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei”.

Damascio

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“A causa della sua straordinaria saggezza tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.

Socrate Scolastico

01 Ipazia in un dipinto del 1885 di Charles William Mitchell

Ipazia in un dipinto del 1885 di Charles William Mitchell

 

Particolare del dipinto di Raffaello Sanzio - La scuola di Atene

Ipazia, Particolare del dipinto di Raffaello Sanzio – La scuola di Atene

 

 

Jules Gaspard, Ipazia, 1908

Jules Gaspard, Ipazia, 1908

 

 

Gemma Beretta, Ipazia d'Alessandria

Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria

 

Hypatia of Alexandria. Mathematician and Martyr di Michael A.B. Deakin

Hypatia of Alexandria. Mathematician and Martyr di Michael A.B. Deakin

 

Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo

Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo


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Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli

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ALCUNE CONSIDERAZIONI INTORNO AL LIBRO

L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA

DI MASSIMO BONTEMPELLI

Il lettore di questo libro pubblicato nel 2000 dall’Editrice C.R.T. resta colpito più ancora che dall’ acutezza dell’analisi e dalla profondità della visione culturale che l’alimenta dall’indubbia attualità del testo. Una qualità che, in questo caso, preoccupa più che rallegrare, in quanto sottolinea che i processi individuati all’epoca da Bontempelli come agenti di un disastro educativo e culturale hanno continuato a lavorare il corpo travagliato della scuola italiana, fino all’esaurimento progressivo della sua funzione culturale ed educativa, sancito dall’ultima riforma, la buona scuola, cioé la scuola subordinata alle esigenze del mercato.

Una lunga agonia, progettata nel corso degli anni ’80 nei piani alti delle oligarchie economiche transnazionali su diretto suggerimento delle organizzazioni industriali europee e realizzata da chirurghi governativi di diverse appartenenze partitiche e di comune fede nelle virtù salvifiche del mercato, con l’ausilio di solerti assistenti reclutati nel variegato mondo delle burocrazie ministeriali, dei sindacati confederali e dell’Università.

Massimo Bontempelli si è trovato a vivere la riforma Berlinguer che, attraverso l’autonomia scolastica, ha aperto la strada alla scuola-azienda, diventata oggi il modello organizzativo della scuola italiana, la cui impostazione gerarchica è garantita dalla presenza di un Dirigente manager e di uno staff di docenti collaboratori, dall’ossessione della misurazione di abilità e competenze di alunni e insegnanti, da una soffocante burocratizzazione del lavoro dei docenti, dalla flessibilità delle loro mansioni e dalla differenziazione del loro trattamento economico in base ad un presunto merito che premia tutto fuorché il concreto impegno didattico nelle classi.

È, quest’ultimo, uno snodo cruciale, come Bontempelli aveva ben compreso: il pauroso impoverimento culturale della scuola va di pari passo con la sua trasformazione in senso aziendale, ne costituisce il presupposto e il coronamento e passa necessariamente per un cambiamento di funzione dell’insegnante, non più intellettuale ed educatore (almeno sul piano più alto), ma organizzatore e coordinatore di progetti, animatore, somministratore (sic) di test, nonché addestratore a competenze specifiche ritenute utili al mercato del lavoro.

Questo risibile ircocervo che già muoveva i primi baldanzosi passi con la riforma berlingueriana in questi anni è stato amorevolmente nutrito a più mani ed è cresciuto fino ad allargare i suoi tentacoli e a soffocare l’idea stessa di una formazione culturale disinteressata e di un pensiero critico capace di leggere la realtà nella sua complessità, humus indispensabile per lo sviluppo armonioso di un essere umano e di un cittadino consapevole, piuttosto che di un lavoratore usa e getta e per di più soddisfatto della sua condizione.

L’ alternanza scuola-lavoro, introdotta dalla legge 107 e fulcro della nuova idea di scuola subordinata alle esigenze delle imprese locali alle quali è pronta a fornire manodopera gratuita sotto il pretesto di un apprendistato a competenze professionali spendibili più tardi, rende indispensabile quel richiamo avanzato da Massimo Bontempelli a ripensare “su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido” la relazione tra scuola e società, attualmente appiattita meccanicamente su una dimensione economicistica, quando non apertamente e servilmente prona alle richieste immediate della produzione .

È un invito che merita di essere ripreso, perché attorno a questo nesso si gioca una partita importantissima che rischia di consegnare inerme un’intera generazione al tritatutto del mercato, sotto la copertura demagogica della promessa di uno sbocco occupazionale, la cui mancanza viene vergognosamente attribuita all’inadeguatezza della scuola rispetto alle dinamiche del presente, invece che alle politiche neoliberiste del lavoro e agli scenari economici del mondo globalizzato.

Lo svuotamento culturale trova puntuale conferma nell’assenza, denunciata da Bontempelli, di un preciso asse culturale nella riforma berlingueriana che si disegna, in definitiva, come una goffa combinazione di tecnicismo didattico e di aziendalismo organizzativo. A distanza di quasi vent’anni dalla sua lucida analisi, possiamo misurare quanto puntuale fosse la sua previsione della direzione verso cui veniva trascinata la scuola italiana, e con essa, l’idea stessa di educazione: pesante invadenza burocratica nella didattica,condizionamenti economici,culto delle misurazioni valutative e delle prove standardizzate, incentivi alla concorrenza fra scuole e,all’interno delle stesse, fra colleghi, trasmissione sempre più ridotta e banalizzata dei contenuti, deconcettualizzazione delle discipline a profitto dell’apprendimento nozionistico e acritico di un fumoso “saper fare” e di modelli di comportamento “corretti”.

Una zavorra tenuta insieme dall’insipienza culturale e da un piatto conformismo nei riguardi di ogni innovazione governativa che ha condotto la già sconquassata nave scuola verso le secche di un supermercato della formazione, terreno di caccia ideale per le scorribande di enti di ogni tipo alla famelica ricerca di promozione commerciale e di concreti incentivi economici, dietro erogazione di attività di ogni risma che stanno trasformando la scuola in un “progettificio”. È, questo, un approdo consacrato dalla legge 107 (filiazione legislativa della buona scuola), ultimo in ordine di tempo, ma non definitivo, scalo della deriva aziendalistica del sistema dell’istruzione pubblica

Di fronte a questo disastro, frutto di scelte politiche e culturali in sintonia con il credo totalitario neoliberista, assume un rilievo particolarmente significativo, capace di innervare la necessaria – oggi come venti anni fa – resistenza culturale l’individuazione da parte di Massimo Bontempelli della scelta della dimensione storica come “orizzonte di problematicità” dei diversi percorsi conoscitivi. Un’indicazione preziosa che, sottraendo la scuola all’appiattimento sul presente e alla rincorsa delle mode del momento, le fornisce quell’indispensabile asse culturale coerente con la sua funzione educativa.

L’agonia della scuola italiana, pur facendo con grande rigore argomentativo tabula rasa della ratio che ha ispirato la riforma dell’autonomia, è un libro profondamente costruttivo, perché sempre attento a definire la dimensione culturale ed etica entro cui inscrivere i processi educativi. Un libro indispensabile per chiunque rifiuti la mercificazione della cultura e dell’educazione e veda, al contrario, in esse un potente strumento di liberazione umana.

Fernanda Mazzoli


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Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.

 

 

FERNANDA MAZZOLI

SCUOLA LIQUIDA

LA LIQUIDAZIONE DELLA SCUOLA PUBBLICA

La Legge 107 varata nel luglio 2015, la cosiddetta “buona scuola”, è il tentativo più recente di dare profilo istituzionale alla deriva aziendalistica e consumista dell’istruzione voluta dalle oligarchie cui non sfugge l’alterità della conoscenza e del pensiero critico rispetto alla logica del profitto. Scuola azienda, dove impianto verticistico e addestramento alle competenze specifiche si combinano a formare lavoratori poco qualificati, destinati a precariato e sfruttamento, in ossequio alle politiche neoliberiste. Scuola supermercato, dove allo studente-cliente si apre il ventaglio di un’offerta abbondante, allettante e intercambiabile, indirizzata a un consumatore onnivoro. Scuola leggera, fortemente impoverita nella sua dimensione formativa e culturale, subordinata alle esigenze immediate del mercato, obbediente al pensiero unico del totalitarismo digitale e tecnologico. Ecco i muri portanti per collocare l’istruzione pubblica nel poderoso edificio ideologico che fa da supporto alla gigantesca controffensiva proprietaria scatenata negli ultimi decenni. Ambizioso progetto di controllo sociale che mira alla privatizzazione della scuola pubblica e passa per una ridefinizione del docente che la nuova pedagogia di Stato svuota della sua identità culturale e trasforma in animatore, organizzatore, compilatore di schede. Diventa necessario, allora, rovesciare il paradigma di subordinazione culturale al mercato, individuando proprio nella scuola il terreno fertile per un’apertura verso una visione diversa della società e della vita.

Fernanda Mazzoli si è occupata di letteratura orale e processi di stregoneria in area centro-europea, collaborando a diverse riviste. Insegna francese in un Liceo linguistico.

Sensibili alle foglie, 2016

ISBN 978-88-98963-55-3

p. 120


 

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Premessa


Indice

 

LA ROTTAMAZIONE DELLA SCUOLA
A buona scuola cattivi maestri – Gli inadeguati… – … si adeguano …

DALLA SCUOLA ALL’AZIENDA
Cucito o spremitura delle olive? – TreLLLe in cattedra –Ma in presidenza c’è l’Europa – Competenze per competere – Fondata sul lavoro – Il totalitarismo digitale – Alfabetizzazioni – Dalla “buona scuola” alla Legge 107 – Un silenzio assordante – Buona scuola e cattiva lingua

INSEGNANTI SENZA SEGNO
Quantificare – Valorizzare – Controllo qualità – Valutare – La gestione manageriale – Autonomia … da che cosa? – Uno, nessuno, centomila

IL PROGETTIFICIO
Autonomia dall’insegnamento – Animare e facilitare – Dacci oggi la nostra animazione quotidiana – La scuola supermercato – Cosa metto nel carrello? – Docenti a consumo e docenti consumati – Prove di arrembaggio – La dismissione

UNA SCUOLA ALTRA
Lasciateci lavorare – La resistenza culturale – Per una scuola forte – Aperture – Dalla nuova religione digitale… – … Alla Lectio – Non di solo digitale – Elogio della difficoltà – Scommessa per il futuro


Scuola liquida. Fernanda Mazzoli – YouTube


La Strega nella tradizione ugro-finnica e in quella occidentale

La Strega nella tradizione ugro-finnica e in quella occidentale

 


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Augusto Cavadi – Commento al libro di S. Latouche, «Baudrillard o la sovversione mediante l’ironia».

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Baudrillard o la sovversione mediante l’ironia

Baudrillard o la sovversione mediante l’ironia

 

S. Latouche, Baudrillard o la sovversione mediante l’ironia, Jaca Book, Milano 2016, pp. 78, euro 9,00

 

Con questo agile volumetto Serge Latouche aggiunge un anello alla preziosa collana, da lui stesso diretta, “I precursori della decrescita”. Come avverte l’autore sin dalle prime righe, “può sembrare incongruo presentare Jean Baudrillard come un precursore della decrescita”. Egli è infatti, sì, “un critico insuperabile della società dei consumi”, ma – se si passa dalla diagnosi alla terapia – non lo si trova con chiarezza a fianco nella battaglia per “una società conviviale di abbondanza frugale”. E ciò per almeno tre ragioni: “Anzitutto perché la dimensione ecologista è quasi del tutto assente dalla sua riflessione”; “in secondo luogo, perché, patafisico ironico e provocatore distaccato, sfiora, nonostante i suoi dinieghi, una forma di nichilismo”; infine perché “la sua pungente ironia lo avvicina a un atteggiamento ‘radical-chic’ di cui si compiacciono i bobos”, vale a dire i bohémien borghesi (bourgeois bohémien).

Nonostante queste solide ragioni in contrario, Latouche inserisce Baudrillard nell’elenco dei “precursori della decrescita” perché, pur essendo “un autore inclassificabile”, dissemina le sue opere d’intuizioni che possono essere raccolte e rielaborate in un quadro propositivo più organico. Tra questi apporti: la critica dell’economia (come scienza che si pretende esatta e come ‘cosa’ che si pretende assoluta), la messa in guardia dai pericoli della tecnica, la segnalazione dei limiti del sistema rappresentativo e – soprattutto – il rifiuto dell’ideologia del progresso.

Quest’ultimo aspetto si articola su “due elementi forti e imprescindibili: in primo luogo, l’analisi della festa consumistica della società di crescita e, in secondo luogo, la critica della globalizzazione e della società dello spettacolo, due facce della stessa medaglia”. Sul primo punto: la crescita “produce contemporaneamente beni e bisogni, ma non li produce con lo stesso ritmo”, sì da causare “una pauperizzazione psicologica” (un perenne senso di insoddisfazione) che capovolge la “società della crescita” nell’ esatto “opposto” di una “società dell’abbondanza”. Questo perenne senso di povertà – passiamo così al secondo punto – è compensato (illusoriamente), e alimentato (realmente), dall’esibizione spettacolare del lusso, del surplus, del “troppo”: super e iper mercati, comprando e rivendendo merci da tutto il pianeta (con etichette rigorosamente in un’unica lingua dominante), le espongono in modo da diventare “il paesaggio primario e il luogo geometrico dell’abbondanza”.

   Che si può fare per invertire la rotta? La risposta di Baudrillard è più o meno: nulla. Alle proposte preferisce la derisione: “sostituire finalmente l’eterna teoria critica con una teoria ironica”. Per questo Latouche ritiene che il suo maestro vada considerato “non avversario, ma (ironicamente) estraneo alla serena utopia dell’abbondanza frugale”. Eppure, forse, la speranza si annida nel fondo oscuro del bicchiere: se ci sono osservatori acuti come Baudrillard, e discepoli come Latouche che ne rielaborano e diffondono il pensiero, e recensori che recensiscono Baudrillard e Latouche, e lettori che leggono Baudrillard, Latouche e i loro recensori … si può essere sicuri che non ci sia nessuna possibilità di mutare il corso della storia?

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


Augusto Cavadi – Ideologia “gender” e dintorni. Qualche chiarimento lessicale.

Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»

Augusto Cavadi – Perché il Sud non decolla?

 


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