Alessandro Leogrande (1977-2017) – Mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio nel «Martirio di San Matteo» non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. La violenza del mondo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

Leogrande Alessandro

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La violenza del mondo

 

Caravaggio nel martirio_bb   La violenza estrema atterrisce. Atterrisce la sua epifania priva di alternative. Al massimo si grida, si scappa, ma raramente si è pronti a intervenire. Così Matteo, la vittima, tra poco verrà finito. Da oltre quattrocento anni, per ogni sguardo che si pone sul dipinto, sta per essere trucidato. La porzione in cui compare il volto barbuto è un autoritratto, quella porzione di tela mi sembra un manifesto. Una riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva. Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera. Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

 

Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire.

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Caravaggio, Martirio di San Matteo.

In un pomeriggio assolato entro nella chiesa di San Luigi dei francesi. È insolitamente vuota, una manciata di turisti si aggira nella penombra. Mi dirigo automaticamente verso le tele del Caravaggio esposte sulle pareti della cappella Contarelli, la prima cappella alla sinistra dell’altare, e mi accorgo che sono anni ormai che non ci metto piede. Sono anni che non vedo la Vocazione e il Martirio di san Matteo, benché quei dipinti realizzati tra la fine del Cinquecento e gli albori del Seicento mi abbiano sempre accompagnato e siano rimasti in un angolo della mia mente, al fondo di tante riflessioni e di tante conversazioni.
Così mi ritrovo incantato a guardare il Martirio, che come sempre cattura i miei pensieri ancora più della Vocazione. In quella scena di cruda, assoluta, improvvisa violenza si affollano le nostre debolezze di fronte al mistero del male. Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire.
C’è un vecchio steso a terra, la barba grigia, i capelli stempiati, sembra essere scivolato pochi istanti prima. È Matteo. Ha una mano alzata verso l’alto, cerca di parare il colpo che sta per arrivare. Ma il polso, lo stesso polso che sostiene la mano aperta, è afferrato dalle dita del sicario.
È lui il fulcro del quadro. Il centro intorno al quale tutto ruota è l’ottuso carnefice, non la vittima. Quest’ultima è vestita. Lui invece è nudo, un lembo di stoffa copre i genitali. Fissa negli occhi Matteo: con una mano blocca il suo polso, con l’altra impugna la spada.
Caravaggio non ritrae l’uccisione, ma l’attimo prima della mattanza. Decide di fissare sulla tela l’istante prima che la violenza si compia. Sospende il tempo esattamente su quel momento. Ma quella stessa violenza, la cui intenzione si sprigiona come un tuono dal corpo del carnefice, è già esplosa per tutto il quadro. Si è già irradiata per cerchi concentrici verso i suoi quattro angoli.
Si sentono le grida, la tensione ferina, l’odore acre della paura. La scena è affollata di gente che si ritrae dalla mano del boia. Chi scappa, chi urla, chi inciampa nella fuga, chi alza a sua volta le mani. Sono tutti puntini di un cerchio che si sta dilatando. Nessuno compie il movimento contrario, né tanto meno prova a fermare la spada. Ed è la stessa reazione, penso, che avrebbe chiunque davanti a un’esecuzione di mafia o a un attentato terroristico realizzati in pieno giorno in mezzo alla strada o in un luogo affollato. È la stessa reazione che abbiamo tutti, in genere, di fronte alla violenza. Più precisamente davanti alle armi che stanno per provocare una morte violenta: davanti a una lama sguainata, a una pistola che sta per sparare.
La violenza estrema atterrisce. Atterrisce la sua epifania priva di alternative. Al massimo si grida, si scappa, ma raramente si è pronti a intervenire.
Così Matteo, la vittima, tra poco verrà finito. Da oltre quattrocento anni, per ogni sguardo che si pone sul dipinto, sta per essere trucidato. Manca una manciata di secondi. La vittima, in fondo, sa come andranno le cose.

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Ma non è il solo. Nell’intreccio di sguardi che tiene insieme il quadro, ci sono innanzitutto gli occhi della vittima e del carnefice, incrociati tra loro e immensamente diversi. E, in secondo luogo, quelli di ripulsa, panico, indifferenza inebetita di tutti gli astanti, che convergono verso il centro, tanto quanto le onde della violenza esplodono verso l’esterno. Ma poi ci sono anche gli occhi di un uomo con la barba.

Caravaggio nel martirio

Caravaggio nel Martirio di San Matteo.

È alle spalle del sicario. Si trova alla sua destra, qualche metro più indietro. Guarda Matteo a terra, e anche lui sa perfettamente cosa sta per accadere.
Quell’uomo, come dicono tutti i testi critici sul dipinto, è Caravaggio. La porzione in cui compare il volto barbuto è un autoritratto. Eppure, più che un’immagine di sé da consegnare ai posteri, nella penombra della chiesa rotta dai faretti quella porzione di tela mi sembra un manifesto. Una riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva.
C’è un dolore misto a commiserazione nel suo sguardo: un’infinita tristezza. A differenza degli altri spettatori Caravaggio non fugge, guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor di più il genio dell’arte, non arresteranno il massacro. Può solo provare pietà.

Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose. Non impedirà l’omicidio di quell’uomo anziano caduto per terra, mentre prova a parare i colpi della lama a mani nude.

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Un-autoritratto del Caravaggio.

La luce che illumina il dipinto si spegne di colpo, e mi rendo conto di non avere più spiccioli nelle tasche per farla riaccendere. Mi giro intorno alla ricerca del sostegno di qualche turista, ma non c’è più nessuno.
Il dipinto di colpo è piombato nell’oscurità. Scorgo ancora il corpo del carnefice, ma il volto del Merisi si percepisce appena. Ormai è quasi sparito del tutto, perso nell’ombra.
[…] Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto della violenza politica o economica che li genera.
Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. Quando cioè quello sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte. Quando quello sguardo non è già, fin dal principio, connivente con la lama dell’aguzzino.
Non appena osserviamo il mondo con gli stessi occhi di Caravaggio, esso si rivela come un universo di violenza ferina. Tuttavia, non è la violenza a sgomentarci. Ma il fatto che, anche quando comprendiamo pienamente le sue leggi, non riusciamo ad arrestarle.
Si può ridurre il male? Si possono creare delle zone libere all’interno delle quali il suo impatto sia meno devastante? È possibile risolvere le cause che generano la fuga in massa di interi popoli? Riusciamo a dare a quelle cause il nome di stermini silenziosi?
E, soprattutto, riusciamo a capire che i viaggi vengono dopo tutto questo?
Attraversare mezzo mondo per ritrovarsi in Europa non è solo un fatto geografico, non riguarda soltanto le dogane, le polizie di frontiera, i passeurs, gli scafisti, i trafficanti, i centri di detenzione, le navi militari, i soccorsi, gli aiuti, i tir, le corse e le rincorse, gli stop e i respingimenti. Non riguarda solo questo, benché tutto questo possa coincidere, per molti, con l’evento saliente della propria esistenza. Ha a che fare innanzitutto con se stessi. Saltare i muri è innanzitutto un’esperienza individuale.
Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, talmente nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler fare altro che parlarne.
Allora, in quei momenti, hanno bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno, solo un altro viaggiatore può indicargli la strada della leggerezza. Tutti gli altri restano sempre a qualche metro di distanza, sulla terraferma, incapaci di afferrare il senso di ciò che viene detto.
Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.
Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti. Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni.

Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.

Quelle voci sono plasmate con la stessa pasta dei sogni. Si riempiono di rabbia e utopia, desiderio e paura, misericordia e furore.
La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi.
Sovente si infervorano. E allora gli occhi si sgranano e le bocche si torcono per afferrare le sillabe che compongono la parola da cui tutte le altre discendono. E ogni volta che viene pronunciata, il mondo nuovo si affretta a venire mentre quello vecchio scompare lentamente. Il desiderio cresce, la foga diviene innocente e i morti sembrano meno morti, tanto che la sorte può essere sfidata ancora una volta. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.

È la frontiera.

Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore.
Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze.
La frontiera corre sempre nel mezzo.
Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.

Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, 2017, pp. 309-314.

 

Quarta di copertina

C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
È la frontiera.

 



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Viktor Borisovič Šklovskij (1893-1984) – Se la vita passa inconsciamente allora è come se non ci fosse mai stata: scompare trasformandosi in nulla. Per restiuire il senso della vita esiste ciò che si chiama arte.

Šklovskij Viktor Borisovič

Todorov_Russi_Einaudi


«Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente,

allora è come se non ci fosse mai stata».

Lev Tolstoj, Appunti dal diario, in Diario di Leone Tostoi (1895-99), Milano 1924, p. 90.


 

Ed ecco come Viktor Borisovič Šklovskij, commenta queste parole di Tolstoj:

«Così la vita scompare trasformandosi in nulla.

L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra. […] Per restiuire il senso della vita, per “sentire” gli oggetti, per far sì che la pietra sia pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come “visione” e non come “riconoscimento”; procedimento dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di “sentire” il divenire dell’oggetto, mentre il “già compiuto” non ha importanza per l’arte».

Viktor Sklovskij, L’arte come procedimento, in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, a cura di Tzvetan Todorov, Einaudi, 1968, p. 82.


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Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Il termine «mio» poggia unicamente su un basso, animalesco istinto degli uomini, istinto che alcuni chiamano «sentimento» di proprietà, o diritto di proprietà. Le parole che essi ritengono assai importanti sono: mio, mia, miei.

Tolstoj Lev 28

 

Quando più tardi ampliai l’orizzonte delle mie osservazioni, mi convinsi che il termine mio non si riferisce soltanto a noi cavalli, ma in generale poggia unicamente su un basso, animalesco istinto degli uomini, istinto che essi chiamano sentimento di proprietà o diritto di proprietà.

 

storia di un cavallo

Lev Tolstòj, Cholstomer. Storia di un cavallo

***

L’io narrante è un cavallo, che dice:

Quello che dicevano della flagellazione e del cristianesimo io capivo assai bene; a quel tempo però mi era ancora completamente oscuro il significato delle parole Il suo cavallo, dalle quali mi sembrava di intuire che, secondo l’opinione degli uomini, tra me e il padrone della scuderia dovesse esistere una qualche relazione. In che cosa consistesse questa relazione, allora non lo potevo comprendere. Solo molto più tardi, quando fui separato dagli altri cavalli, capii che cosa significasse quella espressione.

Ma allora io non potevo comprendere che cosa volesse dire in concreto la mia attribuzione in proprietà ad un uomo.

L’espressione Il mio cavallo si riferiva a me, un cavallo vivo, e mi appariva strana come le parole: la mia terra, la mia aria, la mia acqua.

Ad ogni modo queste parole mi facevano una grande impressione e ci rimuginavo su costantemente.

Il significato che gli uomini davano ad esse lo capii solo molto più tardi, quando ebbi fatto con loro le più svariate esperienze.

Questo significato è il seguente: nella vita umana l’essenziale non sono i fatti, ma le parole. Agli uomini non importa tanto la possibilità di fare o non fare qualcosa quanto la possibilità di parlare di qualsiasi oggetto usando determinate parole convenzionali.

Queste parole, che essi ritengono assai importanti, sono: mio, mia, miei; e si riferiscono alle cose più diverse; a esseri, a oggetti, persino alla terra, a uomini, a cavalli.

Gli uomini hanno stabilito che può essere soltanto uno di loro a chiamare mia una determinata cosa. E chi, in questo gioco che hanno inventato, riesce a chiamare mio il maggior numero di oggetti, viene considerato il più felice. Io non so perché le cose stiano così, ma in effetti stanno realmente così. Un tempo ho cercato di spiegarmele pensando che a questo riconoscimento fosse legato un qualche diretto vantaggio, ma questa supposizione si è rivelata erronea.

Ad esempio: molti tra gli uomini che mi definivano il loro cavallo, non mi cavalcavano; a cavalcarmi era tutt’altra gente. Neppure mi davano il foraggio; anche questo erano altri a farlo. Del bene me lo fecero non quelli che mi chiamavano Il mio cavallo, ma vetturini, veterinari o comunque persone estranee.

Quando più tardi ampliai l’orizzonte delle mie osservazioni, mi convinsi che il termine mio non si riferisce soltanto a noi cavalli, ma in generale poggia unicamente su un basso, animalesco istinto degli uomini, istinto che essi chiamano sentimento di proprietà o diritto di proprietà.

L’uomo dice: La mia casa anche se non vi abita mai, anche se si occupa soltanto della sua costruzione e della sua manutenzione.

Il commerciante dice: Il mio negozio; ad esempio: Il mio negozio di stoffe, ma non si fa confezionare i suoi abiti neppure con le migliori stoffe che vi tiene.

Vi sono uomini che chiamano loro un pezzo di terra e non hanno mai visto questa terra né vi hanno mai messo piede.

Vi sono uomini che dicono mio a proposito di altri uomini pure senza averli mai visti e sebbene l’unico rapporto con loro consista nel farli soffrire.

Vi sono uomini che dicono La mia donna, anche se questa vive con altri. E nella vita questi uomini non tendono a fare ciò che ritengono buono e giusto ma a definire come loro il maggior numero possibile di cose.

Io sono convinto adesso che la differenza sostanziale tra noi e gli uomini sta proprio qui. Già per questo semplice fatto – e anche trascurando tutti gli altri vantaggi che abbiamo rispetto a loro – abbiamo il diritto di affermare che, nella gerarchia degli esseri viventi, noi stiamo un gradino più su degli uomini. L’attività degli uomini, almeno di tutti quelli con cui io ho avuto a che fare, è determinata dalle parole, non dai fatti».

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Lev Tolstòj, Cholstomer. Storia di un cavallo, in Id., Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. II (testo, nella traduzione di Serena Prina), Vol. II, pp. 1408-1410, Commento e note ai testi, I Meridiani, V ed., maggio 2005.


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero
Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …
Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.
Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

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Adriana Zarri (1919-2010) – Cosa ci stai a fare nel mondo, se non hai occhi, se non hai mani per toccare la vita? Ciò che ci manca sono gli occhi, l’incantamento, lo stupore per un mondo sempre diverso, per una vita sempre nuova.

Adriana Zarri
Un eremo non è un guscio di lumaca

Un eremo non è un guscio di lumaca

«Come? Non hai visto la diversità e la ricchezza della vita? Le albe sempre diverse, i tramonti con rossi e viola che cambiano ogni sera, e le foglie che cadono, dorate o rosse o rugginose e i fili d’erba che i tuoi piedi calpestano incuranti ma che nascondono miti pratoline dalle ciglia rosate che, la sera, si chiudono quasi per dormire e riaprirsi all’indomani?
Non hai mai visto il cielo, le nubi, la notte, le stelle?

Cosa ci stai a fare nel mondo,
se non hai occhi, se non hai mani per toccare la vita?
[…].

Ciò che ci manca sono gli occhi,
l’incantamento, lo stupore
per un mondo sempre diverso, per una vita sempre nuova
».

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011.

 

 


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Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.

Italo Calvino_Notte d'inverno un viaggiatore

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«Leggere
significa affrontare qualcosa
che sta proprio cominciando a esistere».

 

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, 1979

Un viaggiatore, una piccola stazione, una valigia da consegnare a una misteriosa persona… Da questa premessa si possono snodare innumerevoli vicende, ma sono dieci quelle che l’autore propone in questo sorprendente e godibilissimo romanzo. “E’ un romanzo sul piacere di leggere romanzi: protagonista è il lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l’inizio di dieci romanzi d’autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro.” (Italo Calvino)


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.

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Gustave Flaubert (1821-1880) – Non leggete per divertirvi, né come leggono gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere. Si tratta di lavorare, mi avete capito? Leggi per vivere, lavora, appaga il tuo spirito.

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«Non leggete come leggono i ragazzi, per divertirvi, né come leggono gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere. […] Si tratta di lavorare, mi avete capito?».

È un invito accorato alla cara amica scrittrice e a se stesso:
«Non essere un lettore esteriore, non tralasciare una lettura per superficialità, non abbandonarti a significati e interpretazioni solo apparenti. Leggi per vivere, lavora, appaga il tuo spirito». Giugno 1857.

 

 

Lettres à Mademoiselle Leroyer de Chantepie di Gustave Flaubert

Lettres à Mademoiselle Leroyer de Chantepie di Gustave Flaubert

Les lettres de Flaubert à Marie-Sophie Leroyer de Chantepie sont la première invitation à ce voyage atypique en Littérature. On y voit bien le bourreau de travail, celui qui consacrera plusieurs années de recherches et d’écriture pour chacun de ses ouvrages. On y voit aussi un Flaubert attentif aux plaintes d’une aristocrate provinciale perdue dans ses idéaux, ses scrupules, incapable d’insuffler à sa vie le souffle nécessaire pour son bonheur. Enfin on y voit un Flaubert encourageant, multipliant les tentatives et les conseils, admonestant aussi – par lassitude –, pour offrir à sa correspondante ce supplément d’âme par lequel lui-même, pourtant peu enclin à penser la vie comme une aubaine, s’y est malgré tout battu pour l’oeuvre que l’on sait. On y voit somme toute l’homme devant sa création.

Anno pubblicazione 2008, collana La petite française, a cura di Jean-Baptiste Fabien.

Sophie Leroyer de Chantepie par anonymeMusée du pays de Château-Gonthier

Sophie Leroyer de Chantepie. Musée du pays de Chateau-Gonthier

 


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Walter Benjamin (1892-1940) – Che cos’erano per me i miei primi libri? Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto.

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«Che cos’erano per me i miei primi libri?

 Per ricordarmene dovrei prima cancellare dalla memoria ogni altra cognizione di libri. È certo che tutto ciò che so oggi si basa sulla prontezza con cui allora mi aprii ai libri; ma mentre ora il contenuto, l’argomento, la meteria sono estranei al libro, come oggetto, allora ne erano parte essenziale e intrinseca, come la carta e il numero delle pagine. Il mondo che si rivelava nel libro e il libro stesso erano assolutamente indivisibili. Come il libro, anche il suo contenuto, il suo mondo, era palpabile, si poteva toccare con mano.
E parimenti quel contenuto e quel mondo gtrasfiguravano ogni parte del libro. Vi ardevano dentro, irradiavano da esso; inscritti non solo nella copertina e nelle figure, erano racchiusu nei titoli dei capitoli e nei capilettera, nei paragrafi e nelle colonne.
Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto».
Walter Banjamin

 

 

La mia biblioteca

La mia biblioteca

Walter Benjamin, La mia biblioteca, Elliot, 2016

Quarta di copertina

Nel 1931 un trasloco costrinse Benjamin ad affrontare la mole sterminata dei volumi accumulati nel corso degli anni. Dal mezzogiorno alla mezzanotte, senza essere riuscito a terminare l?impresa, il filosofo tedesco aprì le casse che contenevano la sua biblioteca. Le ore passate tra la polvere e gli scatoloni ispirarono questo saggio. Dalla tensione non risolta tra ordine e disordine, alla presenza massiccia di libri mai letti sugli scaffali, passando per gli acquisti memorabili e le tattiche da adottare nelle aste pubbliche: tutto concorre a delineare la figura del collezionista, il cacciatore di libri, il flâneur che, perdendosi nelle grandi e piccole città, va alla ricerca di una botteguccia antiquaria o di una sperduta cartoleria. Un testo curioso, qui presentato insieme ad altri due scritti, Presso il camino e Come si spiega un grande successo editoriale?, nei quali Benjamin indaga la magia della lettura e le cause che possono rendere un trattato sulle erbe un imprevedibile best seller.


Walter Benjamin sul collezionismo librario: “Disfo la mia biblioteca”


Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.
Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera
Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.

 


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Paul Valéry (1871-1945) – «Le livres ont le mêmes ennemis que l’homme: le feu, l’umide, les bêtes, le temps; et leur propre contenu». Possiamo tradurre «les bêtes» con «la stupidità».

Paul Valéry 01
Valéry Littérature

P. Valéry, Littérature

 

Le livres ont le mêmes ennemis que l’homme:

le feu, l’umide, les bêtes, le temps;

et leur propre contenu.

 

Paul Valéry, Littérature, Gallimard, 1930.

 

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Salvatore Gullì – Opporsi al cinismo e alla sopraffazione dei poteri dominanti, nell’intento di suscitare un moto di indignazione che faccia nascere, nella coscienza di ciascuno, un germe di resistenza civile.

Salvatore Gullì
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Rivolta a venire: etica e utopia

Salvatore Gullì, Rivolta a venire: etica ed utopia, Città del Sole, 2015

 

 

Rivolta a venire è un volume di versi civili e di meditazioni in prosa attraverso cui l’autore ambisce a mettere in luce la valenza etica di figure esemplari, eroiche e geniali. La rivisitazione di tali figure – capaci di ampliare i confini del possibile e di favorire positive riflessioni – avviene in tempi di decadimento civile e culturale nel mondo politico e in quello economico-finanziario, con gravi ricadute sul comportamento dei singoli e delle collettività.
L’autore lancia il suo grido di accusa contro il cinismo e contro la sopraffazione dei poteri dominanti, nell’intento di suscitare un moto di indignazione che faccia nascere, nella coscienza di ciascuno, un germe di resistenza civile, alimentata da inestinguibili idealità e da imprescindibili spinte utopistiche. La rivolta a venire attende fautori disposti a contrastare la negativa corrente prevalente e prefigura una scossa che, accompagnata da crescita di consapevolezza – nel solco del concepimento di un avveduto progetto di cambiamento – potrà contribuire al risanamento delle comunità e alla restaurazione dell’etica. Ma anticipare il senso di un libro equivale a tradirne la funzione. Spetta perciò esclusivamente al volenteroso lettore decidere di rendersi fino in fondo partecipe e di scoprire il percorso ideale lungo il quale l’autore Salvatore Gullì, Rivolta a venire: etica ed utopia si prefigge di far affiorare verità vive ed attive.

***

Salvatore Gullì è laureato in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma. Esercita la professione di avvocato. Studioso di filosofia, di teoria generale del diritto e di etica, è anche autore di testi e di brani musicali.


Un brano per musica di Salvatore Gullì.

1992

Alba fumosa,
lucciole in posa,
congreghe chiuse,
liquami a iosa,
siringhe e sporco,
sirene e pianto,
buio nei cuori
mercato e luci,
alti palazzi,
brutto che impera:
e quando arriva la primavera ?
E quando arriva ?
Soffoca la città !

Servono eroi.
Mancano eroi.
Eroi ne esistono ?
Eroi che salvino ?

Banche di culto,
mala e denari,
carceri piene,
mercati e cene,
mastica amaro chi più fatica,
chi non ne vede tanto cammino,
chi non ne vede segni di bene,
né leggi fatte come conviene,
ché è messa in gabbia l’anima di città.

Fragili noi,
subiamo noi,
Eroi ne esistono ?
Eroi che salvino ?

Teatri chiusi,
bambole-oche,
nuove catene,
mercati e seme,
maschere e feste,
si offende il vero,
vecchi reclini,
giovani muti,
destino in borsa
anime in gioco,
e chi decide è re di denari,
proprio non resta traccia di bene.

Servono eroi.
Mancano eroi.
Eroi ne esistono ?
Eroi che salvino ?

Bombe di mala,
anime in aria,
per sempre spenti in aria i buoni,
potere ignavo che, pur di stare, si volge indietro,
devia lo sguardo:
eccoli i frutti di azioni omesse !
In aria i giusti, in aria spenti,
per sempre spenti in terra i nostri eroi.

Fragili noi,
quanti rimpianti,
in tempi cupi fragili noi:
non ci eravamo neppure accorti
che c’era in gioco ciò che risplende,
ciò che per nulla al mondo si scambia,
ciò che per nulla al mondo si cambia,
ciò che fa luce nel buio che c’è.

Salvatore Gullì

 


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Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Gli dei non odiano chi è nobile d’animo, soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente.

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«Gli dei non odiano chi è nobile d’animo,
soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente».

Euripide, Elena, vv.1678-1679.

 

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