Daniele Orlandi – Invito a un capolavoro. «Rosso Antico» di Simone Nebbia.

Simone Nebbia - Daniele Orlandi

Non regalate terre promesse
a chi non le mantiene.

Fabrizio De Andrè, Rimini

Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”.

Alberto Asor Rosa, parlando di Pasolini


Inizierei alla maniera dei recensori autentici. Simone Nebbia, Rosso antico, per i tipi di Giulio Perrone Editore, I edizione gennaio 2021, nella collana “Fiamme”. Brossura in 8° con ali, pp. 204. In quarta di copertina è riportata una citazione da p. 59:

Vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso. Ma vogliamo tutto o tutto quel che resta?

Nella prima parte il lettore riconoscerà il riferimento al romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, del 1971, che tentava, in una dimensione avanguardistica, un primo bilancio della stagione di lotte operaie alla fine degli anni Sessanta che sarebbe stata definita “autunno caldo”. Nella quaestio della seconda, Simone Nebbia, rovesciando l’assunto, introduce l’argomento di uno dei rari libri non banali che affollano gli scaffali delle librerie nell’anno in cui cade il centenario della fondazione del maggior partito comunista europeo, quello italiano. A bene vedere il mio discorso su Rosso antico potrebbe terminare qui se non fosse che tempo fa uno scrittore di successo, dopo aver avuto la fortuna di esaminare un manoscritto di Simone Nebbia, decretò: “Molto bene, ma il fatto è che ti sforzi di dire la tua sul mondo invece di raccontarlo”. Peccando di modestia, Nebbia incassò la lezione e si convinse che, in fondo, lo scrittore di successo avesse ragione. A me sembrò un vago pretesto d’uso per un rifiuto gentile, pescato magari da qualche pagina di I libri degli altri, di Italo Calvino, e mescolato con un po’ d’invidia perché lui, lo scrittore di successo, un libro così bello non lo aveva mai scritto. Ma non lo dissi a Nebbia, allora più giovane e suscettibile di adesso. Lo tenni per me confidando nella galanteria del tempo e in giudizi meno lividi. Era il 2009, mi pare, il manoscritto non era quello di Rosso antico e Simone Nebbia veniva da un periodo gravoso sul piano privato e sociale che cercava di scontare dentro una rivolta studentesca che gli aveva ispirato quelle pagine rifiutate. Da allora Nebbia ha fatto diverse cose, ha avuto e saputo sfruttare molte occasioni per “dire la sua” sul mondo attraverso testi e critiche teatrali, versi, canzoni, spettacoli, al punto che chiamarlo esordiente suona un tantino improprio.
Ad ogni modo, è bello aprire un libro e scoprire che non parli di pandemia o di camorra, di caporalato o di amori criminali, temi di per sé serissimi quando non vengano affrontati con quella morbosità cronistica – più per malafede dell’imprenditoria editoriale che per scelta libera degli autori – dalla narrativa contemporanea, quel fare le pulci a realtà che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, quel mostrarne il verso e il recto per poi, al momento opportuno, tirarsi indietro e avvertire: io vi ho solo mostrato ciò che accade, a voi il giudizio morale. No, non è così che si fa. Anzitutto perché se ti metti su quella strada e non sei Roberto Saviano rischi di diventarne uno stanco epigono; in secondo luogo perché romanziere e poeta non sono costretti ad essere anche sociologi, se è vero, come sosteneva qualcuno, che l’arte non ricerca la realtà ma pone le condizioni per ricrearla. E non c’è nulla di più artistico (e di più complesso) che creare la realtà dalla realtà stessa, vale a dire ingaggiando una strenua battaglia contro una micidiale forza centripeta.
Ecco che Simone Nebbia, volgendo le spalle a un passato storico che ha perfettamente assimilato e impastandosi al presente, crea in Rosso antico una realtà romanzesca dove il simile e il verosimile, la fonte e la sua messa in scena, si inseguono equiparandosi, alla maniera di un narratore onnisciente. Sì, perché la vicenda che trova spazio in Rosso antico è quanto di più antiévénementiel non si potrebbe immaginare. L’avvenimento è il Sessantotto, la braudeliana increspatura di superficie che un lento lavorio sottomarino ha preparato, ingigantito, e finito per sommergere del tutto generando una risacca vertiginosa (un tempo la si sarebbe detta lunga durata) che giunge fino al Duemilaotto, alle plaghe di una generazione, tra il dissoluto e il devoto ai paterni altari, impegnata in una mobilitazione studentesca ribattezzata “l’Onda” che ebbe il grande merito di arrivare dopo un lungo riflusso (intervallato da brevi esperienze, ricordiamo almeno la “Pantera” nel 1990) e il demerito (felix culpa) di non essere divenuta una òla per mancanza di ascolti, di credito, di sponde da parte di padri e quadri. Differenze, a volte, sottili.
Ma come raccontare un momento storico del quale tutti si sono sentiti in dovere di parlare, con cui tutti si sono misurati con esiti perlopiù deludenti, come mostrare l’essenza di un coriaceo rimosso che ha avuto il destino di rimanere sulla bocca di ognuno? Con grande finezza, Nebbia sceglie di affidare al Sessantotto il ruolo che gli compete nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni, quello del Grande Assente o del Grande Incompreso, del mito per sopravvivere. A cosa? Alla sua contropartita storica. Il Sessantotto, certo. Ma pochi mesi dopo, il 1969 ci presentava già un altro Paese, un’altra storia: Piazza Fontana e lo slittamento della lotta dai cortei unificati di studenti e operai all’asfalto delle strade coi feriti a vita o i morti ammazzati, alla clandestinità, alle leggi speciali e agli ergastoli piovuti giù a pioggia e mitigati soltanto dalla dissociazione. Pochi mesi, quindi, e si era già in viaggio verso la fine delle rivendicazioni salariali e studentesche, in una parola: di “classe”. Fino alla pietra tombale di qualunque possibilità di cambiamento radicale degli assetti sociali e culturali rappresentata dalla marcia cosiddetta dei “quarantamila” alla Fiat. Era il 1980.

Per non parlare di coloro (veramente tanti) che verificata la propria coscienza civica sulle barricate sessantottesche, si ritrovarono, di lì a pochi anni, perfettamente integrati in quell’establishment che avevano avuto in animo di ribaltare, vincenti o ripescati di una lotta che si era fatta puramente individuale, tutta interna alla borghesia figlia della borghesia:

“Ma avevamo ragione! […] Lo sentivamo il bisogno di collettività, di incidere nella relazione, inventare contesti, mescolare classi diverse e finalmente uscire dai blocchi della provenienza culturale”.

“Tutto giusto, ma noi oggi invece? Cosa siamo diventati?” (p. 142)

Pochi sono quelli che, smarrito il senso di un’appartenenza nella quale hanno giocato tutta la propria vita, rimangono di colpo maestri senza allievi, afasici oratori o scrittori senza lettere. È ciò che accade al sessantenne Luca Salomè, primo protagonista del romanzo, ordinario di Storia contemporanea e autore di libri di riferimento per generazioni di militanti e studiosi. Una mattina dell’inverno più freddo del secolo, Salomè, dalla scrivania del suo comodo appartamento si accinge a vergare, su commissione dell’editore, le pagine definitive sulla stagione sessantottina accorgendosi di non essere in grado di cominciare. Le parole non arrivano, i pensieri urtano con un sentimento profondo d’inutilità, le idee restano disarticolate (termine tristemente in voga negli anni appena successivi a quel fatidico anno). Dov’è finita quella storia nostra – si chiede Salomè – se oggi, sempre più spesso, non mi riesce che pensarla come mia?

E dunque si trovò costretto a costatare la secchezza dell’inchiostro: la mano destra, pure inarcata a covare il foglio, non faceva nascere nulla, mentre la sinistra aveva smesso ogni arabesco lasciandosi prendere dalla stanchezza a centro pagina; il professor Salomè chiuse le penne e le lasciò, parallele a farsi coraggio, in schiera militare, chiuse nel loro mutismo. (pp. 97-98)

Inizia qui una ricerca che somiglia alla discesa agli inferi di una vita illusa di essere stata spesa al meglio, nella piena onestà intellettuale, a viso e mani aperte dentro un Partito un tempo forte e strutturato – ma, è il caso di sottolinearlo, tutt’altro che vicino al Movimento, nel ’68 come in seguito -, ora disciolto nel patteggiamento storico (in ritardo di trent’anni) con un’annichilente voglia di Centro. Come in una famiglia sopravvissuta alla perdita di un figlio e che ogni dodici mesi si ostina, nelle cene silenziose di televisione, a immaginarne il compleanno. Cos’altro, in fondo, le resta? Il secolo breve del comunismo italiano, livornese per nascita, non per costumi. Come quando Salomè visita la vecchia sede del Partito, ora cantiere ridipinto di “un bianco così bianco da abbagliare” (p. 72), e a terra calcinacci di voci, di riunioni fumose e di sogni collettivi. Il bianco, vuoto metaforico che contiene, assorbendoli, tutti i colori, bianco come lo sfondo di uno scudo crociato, bianco come la resa, come i morti sotto i lenzuoli.
Chi, al contrario, non si è fatto fagocitare dall’erpice del “centralismo democratico” è l’amico e sodale di gioventù Bartolomeo Zerilli, come Salomè docente di Storia ma nell’antinferno di color che son sospesi, il limbo dei liceali. Zerilli ha salvaguardato le sue idee dietro la pelta del disincanto metodico, accettando che ad uccidere la vecchia casa di giovanili militanze sia stata proprio la sua stessa covata di figli prediletti dietro cui non è difficile intuire la nomenklatura degli ultimi anni del PCI e dei primi anni della svolta socialdemocratica. Con l’amico di sempre, protetto dal suo amato stinto maglione rosso a collo alto, Salomè tenterà, in una estemporanea gita al mare, l’estremo recupero di una storia comune uscita fuori vena, per capire se davvero quella generazione abbia poi ottenuto qualcosa o solo il suo disavanzo, pagato in sovrapprezzo al botteghino di un futuro narciso e postideologico.

Dura meno di un giorno, quindi, il Sessantotto smarrito di Luca Salomè, dall’alba al tramonto, correndo verso un esito imprevedibile mentre a dare continuità a quell’increspatura di superficie, nel quarantesimo anniversario di Valle Giulia, è uno studente nostro contemporaneo, che sta tenendo un diario fratello discreto cui affidare frammenti di un discorso politico ed esistenziale durante l’Onda. Si chiama Giovanni Praga, un po’ Emilio scapigliato tardoromantico, un po’ Drogo attendente eterno di nemici che non arrivano:

Siamo una generazione formata per perdere, la nostra coscienza civile è ferma allo scambio delle figurine, ci hanno cresciuti a non accettare caramelle da nessuno, neanche da un parente o un vicino di casa, così adesso non sapremmo riconoscere un essere umano neanche in un documentario di Quark. (pp. 75-76)

Si resta impressionati dalla saggezza di questo ventenne, di sinistra senza partito, e pensiamo con dolore a quanti come lui abbiamo perso per strada, a quanti di lui eravamo noi, a quanto non lo siamo mai stati, alle scintille lasciate a spegnersi per stanchezza o disattenzione. Praga, che dalla pancia del corteo segue ne percorre le zone esterne, ne disegna i percorsi, ne tiene ancora un capo, ancora una coda, necessario come un filosofo che sussurra dubbi dove altri gridano certezze.

Com’era? Noi vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso […] E per volerlo adesso bisogna andare chissà dove abbiano delocalizzato. Dispersivo seguire il lavoro che sguscia da tutte le parti come un pesce di fiume che proprio non ci vuole stare. Non è sparita la lotta, semmai – peggio – è sparito il campo di battaglia. (pp. 59-60)

La sua sul mondo, ricordate?
Praga e Salomè, destinati a sfiorarsi, nelle malebolge dello Studium Urbis, senza reciproca memoria, senza legittimazione o nell’ammirazione unilaterale del giovane per il maturo, tra l’abisso del reale e l’abisso dell’ideale, tra la pràxis e la theôrēsis, in una storia che consente asimmetriche sovrapposizioni ma mai saldature.
Leggevo il diario di Giovanni Praga, novello Chateaubriand a Waterloo, e ricordavo le mie peregrinazioni di tesista, in quei corridoi, secoli fa preposti alla discussione critica del sapere; leggevo e ricordavo, lì, al secondo piano della Facoltà di Lettere, un uomo mai visto né ascoltato (una stanzetta con targa annessa ne serba inadeguata memoria). Si chiamava Gustavo Vinay, emerito docente che nel 1967, alla fine di un’epoca storica, si rivolgeva ai suoi maestri degli anni Trenta e Quaranta, di un’università ancora imbevuta di quel crocianesimo sceso dall’alto come asserzione di verità, come religione, a quei professori amati e contestati ma certo infinitamente più grandi dei nostri: “Io ero sangue del vostro sangue, sangue della vostra storia-che-ha-un-senso e per voi io crepavo dentro prima di crepare fuori”.[1] A noi restavano invece quelli che volevano insegnarci l’Accademia coi figli sistemati nei migliori college statunitensi, quelli della ricreazione finita, quelli di Piazza Navona che “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”, quelli dello stringiamci a Coorte di assistenti e dottorandi di cui, forse, come diceva il celebre film, ne rimarrà soltanto uno, dietro i volti dei Salomè e dei tanti più tristi di lui poiché in carne e ossa. Gli intellettuali organici della dimenticanza. Non si leggono perciò senza saltare dalla sedia le parole che Giovanni Praga sembra aver strappato da ogni nostro silenzio di ex giovani ed ex lavoratori, ex studenti ed ex laureati:

Voi che occupate e gestite il potere, voi che conservate il vostro tempo come unico e ultimo degno, voi che pian piano morite non lasciando traccia, non siete che i figli rimasti, quelli che hanno conquistato posizioni dal disarmo degli altri, che hanno occupato posti che non gli spettavano, nutriti di sangue altrui. (p. 165)

Meditate che questo è stato. Davanti a cotanto inquisire solo il bacio di un cristo dostoevskiano potrebbe redimervi.
Ho toccato fin troppi punti, rapsodicamente e in modo confusionario. Me ne scuso ma Rosso antico è davvero un libro gremito come un termitaio, una di quelle opere che quando ne parli non sai come chiudere né vorresti. Dirò quindi che ciò che infine lo rende uno dei testi più originali degli ultimi anni è il linguaggio, l’ossessione di Giovanni Praga di “contemplare nella forma la bontà dei contenuti” (p. 89), lo strumento che gli scrittori usano per rimodellare il mondo, la guerra senza quartiere con le parole, il sacrificio di indietreggiare affinché vincano loro, o più semplicemente ciò che i critici chiamano stile. Simone Nebbia, come una forza del passato, raccoglie una tradizione sparita e si pone tra gli ultimi stilisti della narrativa novecentesca. Alto, immaginifico, raffinato fino alla poesia, ricercato senza cedere all’autocompiacimento e a quello “scrivere oscuro” di cui Manganelli tesseva l’elogio.
Un recensore, dalle colonne di un importante settimanale, ha parlato per Rosso antico di “una prosa lavorata”. Giungerei a dire fulgida, come mostra fin da subito quel Prologo vero e proprio pezzo di bravura, nel gioco elegante di citazioni implicite che vanno dall’incipit leopardiano: “Il vento è freddo in questa notte di mezzo inverno” (p. 9), alla descrizione di una metropoli che sdorme, avrebbe detto uno degli eteronimi di Pessoa, Bernardo Soares, quando Nebbia scrive della

realtà ululante dei supermercati chiusi ma con la luce ancora a giorno, telecamere nascoste, cimici, intercettazioni satellitari, i circuiti chiusi delle banche, grida nella notte questa città tappezzata di manifesti di propaganda elettorale, concerti, spettacoli, svuotacantine, oscuravetri attaccati ai semafori insieme con gli adesivi di battaglie perse prima ancora di essere combattute […] (pp. 10-11)

Un turbinio reso visibile dalla camera a schiaffo sulla penna di Nebbia, famelico e vigliacco brulichio di mosche che si riproducono per partenogenesi dalle crisi del capitalismo con evidente, sentito omaggio all’ultimo Paolo Volponi. Per chiudersi, e non è che l’inizio, con echi gaddiani ma spezzati come sul pentagramma di un verso:

 

Attorno la notte.
Sfinita, quasi l’alba. (p. 11)

 

Una scelta stilistica, sia chiaro, che non nasce dalla necessità (pur legittima) di mettersi in mostra da parte dello scrittore emergente ma che costituisce una consustanza del capolavoro e della materia di cui Nebbia s’è fatto scriba. Accettando, anzi, il rischio che tale partitura così impervia renda la lettura a tratti impegnativa.

Che questo pericolo venga recepito come valore aggiunto di un libro di cui si sentiva da troppo tempo il bisogno è infine mia speranza.

Daniele Orlandi

[1] G. Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Spoleto, CISAM, 1993, p. 125.


Simone Nebbia (1981) è un critico teatrale, e ha una formazione interamente letteraria. Animatore del quotidiano di informazione teatrale online www.teatroecritica.net, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de «I Quaderni del Teatro di Roma», periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume Il declino del teatro di regia (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa) e collaboratore della rivista Orlando (Giulio Perrone Editore) diretta da Paolo Di Paolo. Ha collaborato con il programma di Rai Scuola Terza Pagina. Nel 2013, per l’editore Titivillus, ha pubblicato il volume Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine. Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maurice Blanchot (1907-2003) – Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. C’è domanda, eppure nessun dubbio. C’è domanda, ma nessun desiderio di risposta.

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«Lo iato teorico è assoluto. La frattura, di fatto, decisiva. Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. […] C’è domanda, eppure nessun dubbio; c’è domanda, ma nessun desiderio di risposta; c’è domanda, e nulla che possa essere detto, ma solo da dire».

Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore, Milano 2021.


Maurice Blanchot – La lettura fa del libro quel che il mare e il vento fanno con le opere forgiate dagli uomini. La lettura conferisce al libro l’esistenza brusca che la statua “sembra” dovere solo allo scalpello. Il libro ha bisogno del lettore per farsi statua.
Maurice Blanchot (1907-2003) – Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda. La risposta autentica è sempre vita della domanda.
Maurice Blanchot (1907-2003) – La cultura lavora per il tutto. Il suo orizzonte è l’insieme. L’ideale della cultura è di riuscire a comporre un quadro d’insieme, delle ricostruzioni panoramiche che permettano di situare in una stessa prospettiva Schoenberg, Einstein, Picasso, Joyce – e possibilmente anche Marx.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Günter Anders 10

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria.

Goffredo Fofi


Salvatore Bravo

I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo
di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità

***

 

Cinismo
Il cinismo dei nostri giorni ha bisogno d’essere compreso, trasformato in concetto per poter ipotizzare la possibilità della prassi e dell’esodo dal pantano dall’anomia etica in cui siamo intrappolati. Solo lo sguardo filosofico della civetta-filosofia può penetrare il buio senza distogliere la vista dal vorticoso nichilismo nel quale siamo immersi. Il nichilismo lasco nelle parole, e distruttivo nelle azioni è la verità con cui ci si deve confrontare senza infingimenti. Quando il reale storico con la sua violenza opportunistica aggredisce ogni energia positiva, ogni pensare creativo – rappresentandolo come “pia illusione” per poter giustificare la pratica del cinismo – è facile lasciarsi conquistare dalla cattiva politica per disperazione. Il nichilismo inquina le acque della creatività ed insidia ogni resistenza con la sua rappresentazione del reale come unico possibile, come un destino che fatalmente tutto divora senza speranza alcuna. A volte, rileggere i racconti brevi di Günther Anders, quasi degli aforismi, può essere di ausilio per vedere con gli occhi della mente ciò che solitamente rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare. La letteratura filosofica può essere un percorso di liberazione dal velo di Maya che offusca l’agire e la visione della verità. Essa è, con i suoi simboli-concetto, veicolo di attraversamento della notte oscura in cui siamo. Guardare il buio è già l’inizio di una nuova alba. Le contraddizioni sono la breccia verso un nuovo mondo: senza di esse non vi è prassi e non vi è vita degna di essere vissuta.

Lo sguardo dalla torre
Lo sguardo dalla torre è un breve testo scritto da Günther Anders nel 1932. Lo sguardo che cade dall’alto è il segno di una distanza che modifica il reale storico in sguardo psicotico, in fuga dalla realtà, per rifugiarsi in una distanza che non vuole vivere e pensare la tragedia con le sue contraddizioni. La distanza rende la verità un gioco, una finzione a cui si può assistere senza esserne coinvolti: pertanto è respinta la responsabilità etica e la sofferenza che comporta. La distanza diviene il rifugio da cui ci si protegge nell’illusione che ciò che accade non ci coinvolge e non ci chiama in causa. La torre descritta da Günther Anders è metafora dell’uso delle tecnologie che allontanano dall’impegno storico, esse sono il mezzo con cui il potere neutralizza la partecipazione. Lo sguardo della tecnologia si installa in noi ed educa alla distanza, all’anestesia del concetto e del sentimento. La sostituzione della realtà diretta con l’immagine di essa forma ad un comportamento “psicotico”: ci si rifugia in una torre interiore che non si lascia toccare da nulla. Si assiste, dunque, passivamente all’accadere storico. Anzi, l’inquietudine della realtà e l’incapacità acquisita ad orientarsi nelle tragedie storiche rafforzano l’eternizzarsi del gioco, del virtuale sul reale, eternizzando il presente. Scendere dalla torre interiore diviene, in tal modo, il primo atto di emancipazione senza il quale nulla può iniziare:

 

«Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica[1] gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò a malapena nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!”».[1]

 

Lo sguardo all’insù
Lo sguardo all’insù, del 1957, ancora una volta descrive la distanza da un’altra prospettiva. In questo caso dal basso. Non più un singolo, ma un gruppo umano – abituato ad un quotidiano senza emozioni – assiste al suicidio di un loro simile senza far nulla per la sua salvezza. Lo spettacolo del tentativo di suicidio è vissuto come un evento che rompe il ritmo quotidiano: pertanto è occasione per liberarsi dalla noia. Gli spettatori non si pongono domande, non empatizzano. Continuano, mentre assistono all’insolita rappresentazione, a gestire i loro affari. L’impazienza e la curiosità li solleticano a restare, perché desiderosi di sapere-vedere se il suicida porterà a termine il suo proposito. La distanza cinica è la vera protagonista del racconto. Ripiegati su se stessi, “educati” all’atomistica delle solitudini, quegli uomini sono ormai incapaci di sentirsi parte di un tutto, sono monadi abituate a consumare le loro vite come fossero pratiche burocratiche da espletare. Il suicida ha su di sé lo sguardo degli altri. Per la prima volta è oggetto, si può dedurre, dell’attenzione dei suoi simili. Deve accontentarsi di una sguardo anonimo, perché vive in una realtà di cecità emotiva assoluta. Il suicida è la disperazione della normalità che cerca di essere riconosciuta in modo distorto e assurdo, perché solo un gesto estremo può provocare l’attenzione di coloro che vivono nell’indifferenza. La disperazione cade dall’alto e si muove dal basso, le disperazioni si incrociano, ma sono diverse: il suicida ha un livello di consapevolezza più alto, ma senza prospettiva. La curiosità – alla fine – è soddisfatta: il suicidio si realizza, e quindi il gruppo raccogliticcio ed occasionale si scioglie e ritorna «alla patologica normalità di ogni giorno»:

 

«”Coraggio, sbrigati!” gridava la folla verso l’alto, dove alcuni avveduti – stavano ancora indicando all’insù coi loro bastoni da passeggio – avevano individuato sul davanzale della più alta finestra della torre qualcosa di minuscolo, riconoscibile dai nuovi sopraggiunti solo dopo pochi istanti, qualcosa di nero, che non poteva essere nient’altro che un uomo arrampicatosi fin là per buttarsi nel vuoto “Coraggio, sbrigati!” gridavano, perché, come annunciava uno sprezzante brusio, era già da un’ora buona che quell’uomo stava perdendo tempo, e dopo quest’ora buona non era ancor riuscito a prendere la sua decisione – “Coraggio, sbrigati!” gridavano, e alcuni: “Salta, deciditi!” e altri: “Per quanto tempo ancora dovremo aspettare in piedi?” – e poco a poco le loro voci sfociarono in un generale mormorio collettivo, e poi in un generale gridare spazientito e indignato, come se egli, per il fatto di starsene lassù in alto, avesse assunto l’obbligo di fare ciò per cui loro erano appostati lì con le bocche aperte: vale a dire, o lasciarsi cadere come una pietra, oppure – cosa che avrebbero forse preferito vedere – esibirsi in un perfetto tuffo di testa attraverso il blu del cielo di mezzogiorno; e come se costoro, dal momento che era proprio per amor suo che erano rimasti lì in piedi, e per amor suo avevano abbandonato i loro affari, avessero diritto non soltanto a questo spettacolo, ma anche a che egli non continuasse a rimandarlo di un altro istante; e come se quel che si trovava lì sotto di lui non fosse la marea di tetti della città, ma il mare vero nel quale gettarsi e immergersi, in questa caldissima giornata d’agosto, per poter rimediare un invidiabile refrigerio. Ed era per lui, che in maniera così imperdonabile veniva meno ai propri doveri, che essi ora là sotto, altrimenti così tanto coscienziosi, stavano sottraendosi ai loro doveri – cosa che comunque continuavano a giudicare inconcepibile–; e se poi egli, mentre si raccoglieva per la sua ultima decisione impiegandoci così tanto tempo, potesse in qualche modo distinguere la folla che da laggiù, accalcata testa a testa, lo stava scrutando, e se avesse percepito il baccano dell’affollamento, se egli facesse in qualche modo riferimento a questo chiasso, sempre che l’avesse percepito, se egli intuisse che fra coloro i quali avevano perso la pazienza, perché la lunga attesa cominciava a essere un peso per tutti e perciò iniziarono tutti insieme a gridare in coro, se intuisse che fra questi vi fossero anche conoscenti o suoi amici, non ci è dato saperlo con certezza. È certo invece che il loro numero cresceva di minuto in minuto. E che a nessuno, fra le persone bloccate tra la folla in attesa già da un’ora, parve saltar in mente di abbandonare lo spettacolo prima dell’atto conclusivo, o addirittura tentar di defilarsi dalla folla per dare seguito ai propri affari. In ogni caso rimasero tutti così immobili, come se quel giorno fosse stato un giorno di festa in cui a nessuno sarebbe potuto sfuggire qualcosa, e con lo sguardo fisso verso l’alto; ed è verosimile che costoro sperassero al tempo stesso non soltanto ch’egli finalmente saltasse giù, ma anche che non saltasse proprio adesso, no, forse che addirittura non saltasse mai, perché dopo il salto sarebbe tutto tornato come un tempo – una situazione estremamente sgradevole e mortalmente noiosa che, già adesso probabilmente, nessuno vedeva di buon occhio, tanto quanto il fatto che l’uomo non fosse ancora saltato giù. Solo dopo, quando l’attesa fu interrotta dal suo lancio nel vuoto, e senza nessun preavviso per altro, cosicché molti di loro mancarono scandalosamente il momento cruciale; solo dopo che egli, rotolando in aria più volte su se stesso come un sacco o una pietra, si era lanciato sfiorando il muro della torre, per poi schiantarsi a terra con un tonfo, laggiù dove egli (sicuramente il più irriconoscibile) si era ferito mortalmente assieme a tre dei curiosi che la folla aveva spinto direttamente ai piedi della torre; solo dopo essersi rassicurati, perché «era proprio ora», solo in seguito iniziarono tutti a spingersi lentamente l’un contro l’altro, molti col viso indispettito, e solo in seguito iniziarono a confessarsi che gli affari, tuttavia, sarebbero continuati, e che forse erano addirittura continuati nel frattempo».[2]

 

Il fuori che è andato perduto
Dove fuggire in un mondo reso omogeneo dalla tecnocrazia, dalla violenza dell’efficientismo orbo di ogni ideale e senso?
In Il fuori che è andato perduto, del 1958, Günther Anders descrive il pianeta ormai globalizzato e sussunto al pensiero-governo unico, in cui le nazioni sono scomparse perché il potere è globale. Il pianeta è una grande prigione senza speranza e senza politica, non vi sono modelli sociali alternativi, non vi è la dialettica politica, ma regna solo la violenza del pensiero unico. Il racconto sembra parlarci dell’attualità e del futuro prossimo possibile, in cui l’imperio della lingua unica, l’inglese, si associa al modello economico unico, il liberismo, che penetrano ogni spazio geografico e mentale per restituirci la trasformazione del globo in un’immensa gabbia d’acciaio senza uscita e prospettiva:

 

«Quando nell’anno 2058, mezzo secolo dopo la fondazione dello Stato mondiale, un alunno lesse nella ‹Storia del 20° secolo› la frase: “Nei momenti in cui qua e là il peso delle dittature diveniva insopportabile, c’erano sempre folle di fuggiaschi”, chiese – perché per lui che il mondo fosse uno ed ermeticamente chiuso era assolutamente scontato: “Folle di fuggiaschi? Ma che significa? E dove mai poterono scappare? C’era davvero un fuori?” – Ed esclamò, colmo di disprezzo, come se per lui queste domande fossero già state risolte, e come se la condizione misera in cui era nato potesse essere un motivo d’orgoglio o addirittura un merito personale: “Guarda un po’, un ‹peso› le avevano definite quelli!” – Dal che si deve imparare che dovremmo riflettere tre volte prima di fondare uno Stato mondiale. Perché laddove ve ne è soltanto uno, allora non rimane più nessuno spazio al di fuori. Quindi nemmeno alcun rifugio possibile».[3]

 

Günther Anders tratteggia con la sua scrittura pungente e priva di “ogni morbidezza” i pericoli del tempo presente, in lui lo sguardo filosofico diviene “senso storico” e capacità di inseguire le dinamiche storiche nel loro sviluppo futuro. Günther Anders ci avverte dei pericoli a cui andiamo incontro, descrive il tempo presente con la lucidità e l’onestà tipica di un inattuale come lui, che – per comprendere – si è reso disorganico ad ogni potere.
La resistenza è sempre possibile ed è sempre in fusione combinata con la concettualizzazione del reale storico. Ma resistere non basta, è necessario partecipare alla creazione di una nuova visione del mondo, è necessario sottrarsi all’accettazione passiva degli automatismi indotti in ogni sfera e ri-forgiare l’umanità di ogni atto umano, consapevole e/o spontaneo, al fine di poter contribuire allo sviluppo un nuovo umanesimo comunitario.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Günther Anders, Lo sguardo dalla torre: Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, Mimesis, Milano 2011, pp. 8.

[2] Ibidem, pp. 106 107.

[3] Ibidem, pp. 57-58.


Dalla Prefazione

di Goffredo Fofi

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria. Che non sentono affatto il peso di quella «vergogna prometeica» che pure è avvertita più o meno coscientemente anche da persone comuni e senza studio: la nostra dissociazione dalle cose che noi e quelli come noi hanno prodotto, la perdita di senso della nostra esistenza divisa tra le immense potenzialità della tecnica (dei suoi prodotti continuamente rinnovati, e tutti in definitiva destinati alla distruzione, il cui solo scopo è quello di venir distrutti) e la nostra possibilità di intenderli, l’incapacità di ciascuno di elaborare una morale del loro uso, la nostra sottomissione ai nostri prodotti, l’acquiescenza ai messaggi mediatici che ce li impongono e che, imponendoceli, impongono altresì l’adesione al sistema che ce li offre.
L’uomo stesso, dice Anders, sta scomparendo, grazie all’oscura azione della tecnica e della genetica, e cambia di sensibilità e di conformazione, secondario alle cose e infinitamente più deteriorabile delle cose a cui ha dato forma e presenza, cui ha permesso il diritto a un’esistenza che ci oltrepassa. L’uomo è diventato antiquato, non può che contare sempre di meno rispetto al concreto inganno in cui si è involto, e se ci saranno ancora uomini, a costoro – come già ci accade così spesso di constatare –, delle qualità che hanno caratterizzato nei secoli l’umano resterà ben poco: mutanti e mutati, astorici per la mutazione stessa della storia.
Tra poco, se sopravviveremo – perché è di noi medesimi che parliamo –, e già ora per notevole parte, saremo irriconoscibili a noi stessi.
Abbiamo conosciuto per primo l’Anders del «pilota di Hiroshima», del rischio atomico, del pacifismo radicale, grazie, in Italia, all’opera di traduttore e diffusore di Renato Solmi presso le edizioni Einaudi. Anders venne a Torino nei primissimi anni sessanta e ricordo, al Centro Gobetti, un incontro non felice con il gruppo dei Quaderni Rossi, ancora presi di rivoluzione operaia e di «marxismo critico» e troppo chiusi sull’immediato dei «rapporti di proprietà» per accettare una visione del presente e del futuro più ampia e, per dirla tutta, post-socialista… Anche coloro che, vicini all’area nonviolenta dei movimenti di quegli anni di «prima del ‘68», non mi pare capissero fino in fondo la novità e l’attualità del discorso di Anders, poiché tutti, dico tutti, eravamo imbevuti di quell’ideologia del progresso che si era imposta al senso comune negli anni della ricostruzione, e da quell’illusione di rivoluzione che, in vario modo, attraversava allora il pianeta – una guerra perduta. Il contingente ci velava il soggiacente, il mutamento irreversibile che pure, a saper guardare, era più che evidente.
Ritrovammo Anders molti anni dopo, nel pieno di quegli anni ottanta che volevano sancire la «fine della storia» e che ormai rendevano evidente la sua attualità e la centralità del suo pensiero, capace di spingersi più oltre di qualsiasi altro e vedere quel che ci si era ostinati e ancora ci si ostinava a non voler vedere. Fu sulle colonne di “Linea d’ombra”, dove la firma di Anders comparve più e più volte grazie alla nostra affettuosa insistenza sullo stesso Anders, per il tramite di un’amica che lo visitava spesso a Vienna comunicandogli la nostra ammirazione e il nostro affetto, Ea Mori.
Ora Anders veniva infine conosciuto e studiato anche nel nostro paese. E veniva infine nuovamente tradotto permettendoci di scoprire le molte facce della sua attività e, tra l’altro, la durezza della sua critica al generico pacifismo e alle superflue marce domenicali dei nonviolenti, da lui definite happening. Il suo sarcasmo ci colpì e ci convinse, con la proposta che ne stava al fondo, dell’indispensabilità di un’azione ben più dura nei confronti di un nemico senza volto che ossessivamente trasformava il mondo – e che oggi il movimento degli Occupy ha finalmente individuato, senza nessuna possibilità di errore, in Wall Street e in genere nella grande finanza. Di fronte all’enormità dell’aggressione, occorrevano – occorrono – risposte adeguate che, se in Anders non rifuggivano più dall’appello alla violenza, in altri avrebbero ben potuto essere quelle, mai praticate o fiacchissimamente dai movimenti pacifisti e nonviolenti, della disobbedienza civile. E questo non è un altro discorso!
Ma esiste un terzo Anders, a fianco dell’Anders filosofo e dell’Anders della guerra e della pace, ed è l’Anders letterato e scrittore, critico e interprete non soltanto nei modi tradizionali dell’esercizio della filosofia e della critica, ma aperto alle commistioni, poiché sempre di una stessa cosa egli deve – e si deve infine parlare –, anche per essere ascoltati oltre l’ignobile chiacchiericcio dei media e dei pensatori autorizzati.
In questo prezioso ed esaltante volume curato da Devis Colombo scopriamo infatti un altro aspetto dell’opera di Anders: un eccezionale talento del racconto icastico e sintetico, che egli definisce favola ma che è qualcosa di più e di diverso dalla favola. Intanto, perché si tratta di favole adulte per adulti – vicine all’aforisma e per più versi, non sappiamo dire quanto ci se ne debba sorprendere, vicine a una tradizione ugualmente adulta che è quella esercitata talvolta dal suo contemporaneo Bertolt Brecht (maestro comune Karl Kraus?).
Vicine formalmente, ma diverse nelle intenzioni e nella morale, poiché l’elemento dell’immediata comunicatività e della «lezione», sembra contare meno per Anders a tutto vantaggio della profondità, della complessità, della provocazione al lettore perché ci metta del suo, ci lavori sopra, perché si lasci interrogare dal racconto e lo interroghi, perché si interroghi. […]

 

Goffredo Fofi

Günther Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di Devis Colombo. Prefazione di Goffredo Fofi, Mimesis, Milano 2011.


Quarta di copertina

Lo sguardo dalla torre raccoglie le favole che Günther Anders scrisse tra il 1931 e il ’68. In un tempo in cui l’umanità fatica a mantenere il passo con lo sviluppo della tecnica, occorre rivedere radicalmente il nostro modo di pensare, abbandonando le tradizionali categorie del discorso. Così questa scelta narrativa del filosofo tedesco non è dovuta a una semplice ragione di stile, ma a un’esigenza concreta di resistenza all’impoverimento del linguaggio che l’incontrastata proliferazione degli apparati tecnici porta con sé. Per far fronte al senso d’inferiorità originato dalla sempre più autonoma funzionalità dei prodotti da lui stesso creati – ciò che Anders definisce “vergogna prometeica” – l’uomo tende ad assorbire le modalità univoche e immediate dei segnali delle macchine, perdendo quella capacità dialogica e riflessiva di comunicare che costituisce il fondamento dell’essere umano, e dalla quale dipende la possibilità di immaginare e di provare sentimenti. Le favole diventano allora uno strumento, tanto critico quanto salvifico, di riflessione, a partire da uno sguardo rinvigorito, fantasioso quanto provocatorio che soltanto la forma favolistica è in grado di offrire. Prefazione di Goffredo Fofi.


Opere di A. Paul Weber

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.
Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hermann Hesse (1877-1962) – Dobbiamo fare assegnamento su quella fonte di energia che è la meditazione, sul sempre rinnovato accordo dello spirito e dell’anima.

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«[…] quanto più pretendiamo da noi o quanto più il nostro compito pretende da noi di volta in volta, tanto più dobbiamo fare assegnamento su quella fonte di energia che è la meditazione, sul sempre rinnovato accordo dello spirito e dell’anima. E quanto più intensamente […] un compito ci tiene occupati e ora ci sprona e incalza, ora ci stanca e deprime, con tanto maggior facilità trascuriamo questa fonte […]. I veri grandi della storia universale o sapevano meditare o conoscevano, sia pure inconsapevolmente, la via per giungere là dove ci porta la meditazione. Gli altri uomini, anche i più intelligenti e robusti, hanno finito col naufragare e soccombere perché il loro compito o il loro sogno ambizioso era giunto a dominarli […]».

Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, trad. di E. Pocar, Introd. Di H. Mayer, Mondadori, Milano 1984, p. 105.



Hermann Hesse – I libri hanno valore soltanto se conducono alla vita
Hermann Hesse (1877-1962) – Perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Albertine Sarrazin (1937-1967) – Un fiammifero controvento. Non conoscevo Albertine. Ho letto «L’astragalo», seguendo il consiglio di Patti Smith, che ne firma la prefazione.

Albertine Sarrazin - Patti Smith

«Per la prima volta non ho voglia di conoscere il seguito e nemmeno la fine di quest’avventura. Sono lì, nuda, sulla poltrona, a guardare Julien che dorme; vorrei rimanere così, stagnante, tiepida, nel silenzio rotto soltanto dal nostro respiro regolare, senza più dover fare i gesti, dire le parole che ci trasformano e ci tradiscono; quel minuto è vero e vivo, e lo faccio diventare eterno».

Albertine Sarrazin, L’astragalo


Ilaria Rabatti

Un fiammifero controvento

Non conoscevo Albertine. Incuriosita dal titolo, ho letto L’astragalo, seguendo il consiglio di Patti Smith che ne firma la prefazione nella quasi nuova edizione Bompiani (2016), curata da Fabrizio Ascari. Albertine Sarrazin (1937-1967) è un “personaggio” splendido e straziante. Se nel nome è scritto il destino, tra Proust e Balzac, Albertine fa bene la propria parte. Dolorosamente, maledettamente bene. La vita breve non le risparmia i graffi più feroci, i colpi più duri. Lascio a chi vorrà incontrarla leggendone i libri e le poesie (divenute canzoni, bellissime, ma quasi intraducibili) scoprire la sua storia. Stregata dallo sguardo, ho osservato a lungo il suo volto in copertina tra le volute di fumo di una Gauloise. Accennando un sorriso, Albertine sembra così consapevole del vuoto che le si spalanca intorno. Un’immensità di speranza e di nulla. In fuga sempre, dalla prigione e dalla vita…

«Il cielo si era allontanato di almeno dieci metri. Rimanevo seduta, tranquilla. L’urto doveva aver rotto le pietre, nel buio la mia mano destra sentiva dei frammenti. Via via che riprendevo fiato, il silenzio attenuava l’esplosione di stelle le cui cascate mi crepitavano ancora nella testa. Gli spigoli bianchi delle pietre illuminavano debolmente l’oscurità: la mia mano, staccandosi dal suolo, passò sul braccio sinistro, risalì fino alla spalla, scese lungo le costole fino al bacino: niente. Ero intatta, potevo continuare» (incipit de L’astragalo).


Leggi l’estratto ↓


Può forse sembrare disdicevole parlare di se stessi scrivendo di un’altra persona, ma mi chiedo proprio che ne sarebbe stato di me senza Albertine. Senza la sua guida, avrei fatto la sbruffona nello stesso modo, avrei fronteggiato le avversità con la stessa tenacia? Senza I.’astragalo come libro prediletto, le mie poesie giovanili sarebbero state così mordaci?
L’ho scoperta per caso girando per il Greenwich Village il giorno di Ognissanti del 1968, come ho annotato poi nel mio diario. Benché avessi fame e voglia di un caffè, ero andata prima a dare un’occhiata alle promozioni della libreria sull’Ottava Strada. Sui tavoli si accatastavano copie dell’ Evergreen Review e traduzioni oscure pubblicate dall’Olympia e dalla Grove Press, nuovi testi sacri rifiutati dalla plebaglia. Cercavo qualcosa che avrei dovuto assolutamente possedere: un libro che fosse più di un libro, pieno di indizi in grado di orientarmi verso un cammino ignoto. Fui attirata dal volto singolare (un’ombra viola su uno sfondo nero) sulla copertina polverosa del romanzo di questo “Genet al femminile”. Costava 99 centesimi, il prezzo di un toast con prosciutto e formaggio e un caffè al Waverly Diner, sulla Sesta Avenue, di fronte. Avevo in tasca un dollaro e un biglietto della metropolitana, ma mi bastò leggere le prime righe per innamorarmi … una fame ne scacciò un’altra e comprai il libro.
Il libro s’intitolava L’astragalo, e il volto sulla copertina apparteneva ad Albertine Sarrazin. Aprendo la mia copia sciupata nella metro che mi riportava a Brooklyn, ho appreso che era nata ad Algeri, che era orfana, era stata in prigione, aveva scritto tre libri, due dietro le sbarre e uno in libertà, ed era morta di recente, a pochi mesi dal suo trentesimo compleanno nel 1967. Perdere una potenziale sorella nel momento stesso in cui la trovavo mi ha profondamente colpita. Stavo per compiere ventidue anni, ero abbandonata a me stessa, lontano da Robert Mapplethorpe. L’inverno si preannunciava duro, avevo lasciato il calore di un abbraccio per altri, più incerti. Il mio nuovo amore era un pittore, che arrivava senza avvertire, mi leggeva dei brani di Nostra Signora dei Fiori, mi scopava e poi spariva per settimane.
Tutte quelle notti tumultuose, passate ad attendere la mia musa e lui, mi procuravano un tormento delizioso. Caduta nella mia stessa trappola, non trovavo nulla che riuscisse a placare la mia agitazione. Le mie parole non bastavano, solo quelle di un’altra potevano trasformare il mio sgomento in fonte d’ispirazione.
Le parole le ho trovate ne L’astragalo, un romanzo scritto da una ragazza più grande di me di otto anni e già morta. Il suo nome non figurava nei dizionari di letteratura, toccava dunque a me rincollare i pezzi della sua vita attraverso ogni sua sillaba (come avevo fatto per Genet), ben consapevole che la verità di un poeta si scopre al di là delle sue menzogne. Mi sono preparata del caffè, ho sprimacciato i cuscini del mio letto e ho iniziato la lettura. Con L’astragalo, la realtà e la finzione finalmente si fondevano.

[…]

Un giorno mi recherò sulla sua tomba con un thermos di caffè nero. Mi siederò accanto a lei e cospargerò di profumo di mughetto la sua lapide a forma di astragalo, come aveva voluto Julien. Quanto l’amavo, la mia Albertine! I suoi occhi scintillanti mi hanno permesso di superare i tormenti della mia giovinezza. È stata la mia guida in quelle notti tumultuose.

Patti Smith, Prefazione a: Albertine Sarrazin, L’astragalo, Bompiani, Milano 2016, pp. 5-6 e 11.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Jonathan Lethem – La maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato. Non è possibile un capitalismo egualitario

Lethem Jonathan 01

È un sollievo che Trump non sarà più alla guida, ma la storia di questi quattro anni, culminata nella pandemia e nell’invasione del Campidoglio, è che la maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato, non si può non vedere che stanno travolgendo i nostri corpi come una supercar. Non si può più credere alle scuse per cui sarebbe possibile un capitalismo egualitario e la governance globale delle élite potrebbe essere controllata e portarci gentilmente per esempio verso l’energia solare, senza però distruggere i piaceri del consumismo e le fantasie della predominanza culturale bianca che sembrano normali, ma non lo sono affatto.

La creazione di miti è un processo seducente, ma devi chiederti che tipo di storia stai creando, di che cosa stai diventando complice. Costruiamo sogni sociali senza un vero esame delle conseguenze. I sogni che Steven Spielberg vuole che tu abbia sono diversi da quelli di Stanley Kubrick. […] Ma alla fine mi associo al protagonista, Journeyman [il viaggiatore di The Arrest), e ai corvi sulla torre, nel ritenere che siamo stanchi delle vecchie storie, abbiamo bisogno di sentirne di nuove».

 

Jonathan Lethem, Basta con Hollywood, serve un altro sogno, Intervista a Jonathan Lethem, «La lettura», Corriere della Sera, 10-01-2021, p. 7.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Per i nostri padri una ‘casa’, una ‘fontana’, il loro vestito, erano infinitamente più intimi che per noi. Ora dall’America s’affollano tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, imitazioni della vita …

«Ancora per i nostri padri una ‘casa’, una ‘fontana’, una torre a loro familiare, perfino il loro vestito e il loro cappotto, erano infinitamente di più, infinitamente più intimi che per noi; ogni cosa quasi un’urna, in cui trovavano sempre un che di umano da mettervi in serbo. Ora dall’America s’affollano tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, imitazioni della vita … Una casa, nello spirito americano, una mela americana o una vite di laggiù non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui la speranza e la meditazione dei nostri avi era lentamente penetrata. Le cose vive, vissute e ammesse alla nostra confidenza, a poco a poco scompaiono, e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose. Su di noi pesa la responsabilità di serbarne non solo il ricordo (ché sarebbe poca cosa, né darebbe alcun affidamento), ma il loro valore larico e ‘umano’ (‘larico’ nel senso delle divinità domestiche). […] Non vi è né un al di qua né un al di là, ma solo una unità immensa […] con un sentimento puramente, profondamente, beatamente terrestre bisogna introdurre le cose viste e toccate quaggiù in un cerchio più ampio, nel più ampio di tutti. Non in un al di là, la cui ombra oscuri la terra, ma in un tutto, nel Tutto».

R. M. Rilke, “An Witold von Hulewicz” (12 novembre 1925), in Briefe aus Muzot, Leipzig, Insel, 1937, trad. it. a cura di N. Saito, in R. M. Rilke, Del poeta, Torino, Einaudi, 1955, pp. 98-99.

 


Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – On voudrait avoir les yeux toujours ouverts, pour avoir vu, avant le terme, tout ce que l’on perd.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Le mani di Rodin hanno vissuto come cento, una vita in cui tutto è vivo e presente nello stesso sitante e nulla è perduto. Cercava la grazia delle grandi cose e una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Diceva: «Non bisogna avere fretta».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanza Fiorillo – «Non dirmi che hai paura» non era il mio genere di libro. Ma adesso lo è diventato. Mi ha aiutata a comprendere una realtà che non avevo compreso appieno. Ho capito l’importanza di Avere un sogno e di essere protagonisti della propria vita, perché vivere significa rischiare tutto per qualcosa in cui si crede.

Samia Yusuf Omar - Costanza Fiorillo

A Samia Yusuf Omar dedico questi miei pensieri 
e il video che ho preparato come lavoro per la scuola.

Costanza


Samia, disegno di Costanza Fiorillo

Non dirmi che hai paura non era il mio genere di libro.
O, almeno, così dicevo prima di averlo letto.
Ma adesso lo è diventato.

Mi ha aiutata a comprendere una realtà che non mi era estranea ma che, finora, non avevo compreso appieno.
Grazie a questo libro ho capito cosa significa davvero nascere in un paese in guerra, dove si rischia la vita anche solo uscendo di casa. Un paese dove un fratello arriva ad uccidere un altro fratello per denaro, dove non c’è libertà di esprimersi.
Ma, cosa più importante, ho capito per davvero cosa rappresenta “il viaggio” per molte persone migranti. Si è disposti ad affrontare di tutto, il deserto, il mare, pur di raggiungere una nuova vita, per poi essere destinati o a morire in mezzo all’acqua o alla sabbia, o, peggio, ad essere riportati indietro quando manca così poco a raggiungere il proprio sogno, così come è accaduto a Samia.
E spesso quel sogno si scontra anche con il disprezzo e l’ignoranza delle persone che non sanno accoglierlo e riconoscerlo. Questo è accaduto e accade anche adesso spessissimo. Lo abbiamo visto purtroppo anche recentemente con i porti italiani chiusi allo sbarco delle navi che hanno soccorso i migranti in mare.
Samia Yusuf Omar corre per non deludere suo padre, corre per onorare il suo Paese, corre per riscattare le donne che si nascondono sotto al burqa, ma soprattutto corre per realizzare un sogno: partecipare alle Olimpiadi con la bandiera della Somalia. Una ragazzina che, nonostante la guerra, le minacce e l’integralismo islamico non perde la forza e il coraggio di sperare che il suo sogno possa avverarsi.
Io penso che sia sempre importante avere un sogno da inseguire con determinazione senza lasciare che la paura di non poterlo realizzare ci impedisca perfino di provarci. Perché tutti dovrebbero essere protagonisti della propria vita e perché vivere significa rischiare tutto per qualcosa in cui si crede.
Grazie abayo.

Costanza Fiorillo

Liceo artistico Statale Policarpo Petrocchi, Pistoia, Prima D



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Raffaeli – Jules Vallès, ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi.

Raffaeli Massimo . Jules Vallès

Solo l’esito infelice della Comune e il successivo esilio a Londra fecero di Jules Vallès uno scrittore e, anzi, uno dei più singolari del suo tempo. Prima era stato un giornalista di estrema sinistra sotto Napoleone III detto il Piccolo, collaboratore di fogli più o meno effimeri quali La Rue e poi fondatore di un giornale, Le Cri du peuple (chiaro omaggio all’archetipo di Jean-Paul Marat), che della Comune sarebbe divenuto l’emblema. Alverniate di origine, allevato in una famiglia piccolo-borghese che in realtà è un universo concentrazionario (suo padre insegnante contegnoso, ligio al governo, sua madre contadina prodiga di castighi e di pregiudizi), Vallès fa parte della generazione che esce dalla sconfitta del 1848 e dalle barricate parigine di giugno di cui dicono le pagine più tese di Herzen in Passato e pensieri.
Nella capitale fin dal 1851, che è l’anno del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, non ha un preciso apprendistato politico se non quello che gli viene dalla inquietudine degli studenti e, in clandestinità, dai propositi rivoltosi di taluni circoli operai: Vallès è un libertario o in sostanza un socialista rivoluzionario (e, va anche detto, un anti-marxista dichiarato), i suoi autori sono Proudhon e lo storico Jules Michelet di cui è assiduo alle lezioni di storia nel Collège de France. Quella che appare già sua, viceversa, è una scrittura che gli deriva dagli autori di un tribolatissimo baccalaureato, specie Sallustio e Tacito, una scrittura rapida, ritmica, scandita da inversioni, impennate, brucianti aforismi e perciò lontana dalla tipica retorica umanitaria con accenti calligrafici degli autori della II Internazionale.

 

Le inchieste nei «Refrattari»
Argomento pressoché esclusivo di Vallès giornalista (che non ama la politica politicante e malvolentieri, durante la Comune, accetta la elezione a deputato del XV arrondissement) è l’esistenza quotidiana degli individui marginali e reietti, la folla di umiliati e offesi di cui la dittatura fondiaria e/o bancaria dell’Impero sta affollando le strade di Parigi: nel 1865 (l’ultima edizione italiana, da SugarCo, risale invece al 1980) riunisce le sue inchieste in un volume dal titolo programmatico e persino autobiografico, I refrattati, che chiude virtualmente la vicenda di giornalista.
Testimone fino all’ultimo della Comune nella cosiddetta «settimana di sangue», sottrattosi rocambolescamente alla caccia all’uomo dei versagliesi di Thiers, poco incline alle diatribe dei reduci e alla frequentazione degli altri comunardi in esilio, è dunque a Londra che Vallès progetta qualcosa che combini il suo tracciato autobiografico, insomma un memoir, con il meccanismo di un romanzo di formazione scritto da chi peraltro non si vuole un letterato à la page ma solo un fervente lettore di Balzac, di Victor Hugo e di Charles Dickens. Titolo complessivo è un nome assonante con il suo, ]acques Vingtras, e si tratta di una trilogia aperta da L’enfant (1879) che prosegue con Le bachelier (1881) e si conclude con L’insurgé (1886) immediatamente postumo.
Ora, dopo una assenza lunghissima, escono in contemporanea, grazie a due appassionati studiosi e a due piccoli benemeriti editori, Il diplomato (a cura di Enrico Zanette, edizionispartaco, «Dissensi», pp. 309, € 16.50) che è una princeps italiana in assoluto, e L’insorto (a cura di Fernanda Mazzoli, Petite Plaisance pp. 318, € 27.00) la cui versione precedente di Giacomo Cantoni uscì nel 1953 per la Universale Economica, libretti dalla copertina gialla o arancione immancabili nelle sezioni dei partiti operai. Nel primo, Vingtras è già a Parigi e vive la vita di bohème che Henri Murger, ai propri occhi, ha edulcorato e di fatto ha tradito. Tra infime bettole e sottotetti di fortuna, egli è alla ricerca disperata di un impiego da scritturale, da insegnante o da giornalista, ma quando lo ottiene (e al quotidiano Le Figaro, addirittura) se lo gioca rifiutando di piegare la schiena e di adattarsi, parlando d’altro, ai tabù del regime napoleonico: epicentro è il Quartiere Latino, che il protagonista draga nel suo dedalo di miseri ritrovi come un uomo di continuo risucchiato tra la folla di reietti come lui ma nel frattempo delegato a loro portavoce nella clandestinità di quanti si oppongono, ancora mutamente, alla dittatura.
Romanzo della miseria piccoloborghese e della etimologica viltà di un ceto che la lotta di classe sta per annientare, Il diplomato è il luogo di fermentazione di «un’opera di lotta», così la definisce Enrico Zanette, che culmina nella partitura oramai polifonica de L’Insorto. Vallès qui ripercorre la parabola della Comune, il suo sguardo è al solito portato dal basso e il luogo del protagonista è collocato a latere: chi dice «io» in effetti dice «noi», senza doverlo proclamare con enfasi perché qui la scrittura – nota puntualmente Fernanda Mazzoli – è un «riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente».

 

Il «ragazzo» latitante
Infatti lo scrittore può persino permettersi un finale avventuroso, da racconto picaresco. E qui va detto che è un peccato continui a latitare dal 1973 (catalogo di Feltrinelli, versione magnifica di Lisli Basso) l’incipit della trilogia, Il ragazzo, un autentico capolavoro. Scritto stavolta al chiuso di una monodìa della sofferenza adolescente e nello stile esplosivo di quella che Vallès chiamava langue verte (cioè gergale ma anche ruvida, acerba), il romanzo rappresenta un atto di accusa contro la famiglia tradizionale e le altre istituzioni, a partire dalla scuola, che assortiscono l’universo disciplinare dell’infanzia.
Ambientato nei borghi della Alvernia nativa, il piccolo Jacques Vingtras vi conosce la pedagogia delle gifles, le sberle, le atroci penombre di una provincia ignorante e bigotta, infine il sussiego di una piccola borghesia che si immola per imitare, vanamente, le grandigie della classe superiore; ma Vingtras qui può anche vivere, almeno a momenti, l’estasi di un contatto carnale con la natura, errando per i boschi e le vaste praterie lontano dalla ferula dei suoi istitutori. Memore di Hugo (in particolare di Gavroche, le gamin, il monello de I Miserabili) e anche dell’Oliver Twist di Dickens, Il ragazzo ha ispirato espressamente il personaggio di Bardamu ne il Viaggio al termine della notte (e Céline, di solito avaro di riconoscimenti, ranunenta Vallès ancora nelle tarde interviste di Meudon) ma ha influenzato anche un paio di capolavori della cinematografia francese, Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo, piccola bibbia della ribellione impubere, e il folgorante esordio di Francois Truffaut, Les Quatre Cents Coups (1959) il cui protagonista Antoine Doinel è quasi un redivivo Jacques Vingtras, una vittima sacrificale della famiglia e della scuola.
«Vi si vedrà come il pane, il denaro, l’habitat, la promozione sociale, i valori borghesi e rivoluzionari, la ricchezza e la povertà, l’oppressione e la rivolta, le classi sociali siano solo investimenti in cui i genitori hanno il ruolo di agenti di produzione e di antiproduzione particolari, sempre là a prendersi per l bavero con altri agenti che essi esprimono tanto meno in quanto sono alle prese con loro nel cielo e nell’inferno del bambino. E il bambino dice: perché?»: sono parole tratte da un libro molto amato dalla generazione antagonista, L’anti-Edipo (Einaudi 1975) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, e sono scritte giusto a proposito del capolavoro di Jules Vallès.

Massimo Raffaeli, Vallès. Ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi, «Alias», il manifesto, 27-12-2020, pp. 3-4.


Jules Vallés (1835-1885) – «L’insorto». Libro “della” Comune e “nella” Comune di Parigi. La passione durevole di Vallès per una prassi di emancipazione comunitaria.

Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi

Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.

Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.


Massimo Raffaeli, filologo e critico letterario, è nato a Chiaravalle nel 1957. Scrive su quotidiani (La Stampail manifesto) e collabora con le riviste Nuovi ArgomentiIl Caffè illustrato. Ha scritto testi per programmi radiofonici di Rai Radio 3 e della Radio Svizzera Italiana (RSI). Ha curato testi di autori del Novecento (fra cui Primo Levi e Paolo Volponi) e ha tradotto opere di Antonin Artaud, René Crevel, Louis-Ferdinand Céline, Jean Genet, Roger Nimier e Tony Duvert. Si è interessato dell’intreccio tra calcio e letteratura in L’angelo più malinconico (2005) e Sivori, un vizio (2011). Parte della sua produzione è raccolta, da ultimo, nei volumi I fascisti di sinistra e altri scritti sulla prosa (Aragno 2014), Il pane della poesia. Epicedi 1994-2013 (Cadmo 2015) e L’amore primordiale. Scritti sui poeti (Gaffi 2016). Nel 2019 è uscito Marca francese, frutto di un ventennale confronto con gli autori e le pagine più belle della letteratura francese moderna e contemporanea.


Dobbiamo smarcare la letteratura dall’intrattenimento”: dialogo con Massimo Raffaeli

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Massimo Raffaeli


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Mathias Énard – La frontiera può rappresentare qualcosa di molto violento, quando si chiude di fronte al desiderio e al bisogno di attraversarla, ma può incarnare una possibilità, un’occasione offerta al cambiamento, al passaggio, all’incontro.

Énard Mathias 01

Più passa il tempo e più mi convinco che sarebbe utile abbandonare questa presunta coppia dialettica, Oeriente/Occidente, a favore di una definizione di ovest/est, qualcosa che si limiti a parlare soltanto di coordinate geografiche e non di altro. Questo perché si tratta di termini così profondamente segnati dall’eco di una visione orientalista, propria dell’età coloniale, che porta con sé la fascinazione per l’esotico ma anche l’idea di dominio. In realtà, quando si mettono in contrapposizione questi elementi si rompe in modo artificiale una linea di continuità che esiste da sempre, pur se tra rotture e passaggi. Un esempio? Quando Antoine Galland tradusse per la prima volta dall’arabo nel 1704 l’opera di origine persiana Le mille e una notte, aggiunse la figura del marinaio Sinbad alla raccolta di racconti che possedeva e che sarebbe stata usata nelle edizioni arabe del Cairo negli anni Ottanta del XIX secolo. Le prime versioni turche saranno poi tradotte dal francese, riprendendo questa versione che era stata scritta a Parigi.

La frontiera può rappresentare qualcosa di molto violento, quando si chiude di fronte al desiderio e al bisogno di attraversarla – pensiamo alle politiche dell’Unione europea che provocano decine di morti in mare ogni giorno – ma, al tempo stesso, può incarnare una possibilità, un’occasione offerta al cambiamento, al passaggio, all’incontro. C’è una sorta di contraddizione in termini nell’idea stessa di frontiera come limite, perché è un luogo che separa e che unisce allo stesso tempo. Per questo la nozione di frontiera non si limita soltanto ad una linea tracciata su una carta geografica, ma può essere più o meno profonda, iscritta in un orizzonte più largo di confronto, più essere la condizione formale di una scoperta. Del resto, nel momento in cui la frontiera definisce un’idea di limite, contribuisce a costruire la figura del contrabbandiere. E sul piano letterario un contrabbandiere è colui che fa passare dei testi da una parte all’altra, dall’uno all’altro. La frontiera crea la necessità della traduzione.
In lingua basca c’è una bella espressione per definire il contrabbando, lo chiamano «il lavoro della notte». E il mestiere dello scrittore assomiglia un po’ a questo: non solo il lavorare la notte, come diceva Marcel Proust, ma il trasportare da un luogo all’altro, da un contesto all’altro dei racconti, delle storie, delle narrazioni.

 

Mathias Énard, “Letteratura e poesia come strumenti diviaggio che intrecciano le culture e interrogano le memorie”, il manifesto, 6-12-2020, p. 10.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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