«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Perché ci si deve appassionare alla costruzione di una biblioteca? Perché è cosa affatto lodevole, generosa e degna di un coraggio, che spira immortalità, trarre dall’oblio, e conservare e rimettere in piedi […] tutte queste immagini non dei corpi, ma degli spiriti di tanti degni uomini che non hanno risparmiato né il loro tempo né le loro veglie pur di lasciarci la testimonianza più viva di ciò che in essi c’era di più eccellente».
Gabriel Naudé, L’Advis pour dresser une bibliotheque” [1627]. trad. it. Avvertenze per la costituzione di una biblioteca, a cura di V. Lacchini, Clueb, Bologna 1994, p. 13.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Durante la lavorazione di “Uccellacci e uccellini”.
«Ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece!».
«Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un “tollerato”. La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una “tolleranza reale” sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al “tollerato” – mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua “diversità” – o meglio la sua “colpa di essere diverso” – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della “diversità” delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi –certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal “ghetto” fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato. Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. II negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza. Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere “tinta” dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria».
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, Milano 2015.
«Si lasciò trasportare dalla sua convinzione che gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma che la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé».
Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, Mondadori, Milano 2016.
«Non solo la scrittura influenza la lettura, ma questa condiziona quella: ne determina infatti il significato. Affermare, come fa Fortini, che l’opera crea il suo pubblico meno di quanto il suo pubblico non la crei, vuol dire che il significato di un’opera è inseparabile dal processo della ricezione e che la storia della letteratura dovrebbe essere soprattutto storia della trasmissione e della ricezione, della fortuna e dei gusti, dei canoni e del pubblico, insomma dei processi di valorizzazione e attualizzazione dei testi».
Romano Luperini, Su Fortini saggista e teorico della letteratura, 2005. Cfr. Romano Luperini, La critica secondo Fortini.
Cfr., anche, Romano Luperini, Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, 2007. [In questo volume Romano Luperini raccoglie le testimonianze di una lunga fedeltà: venticinque anni di recensioni, articoli, interventi, saggi dedicati a Franco Fortini, di cui è stato amico e interlocutore (talvolta anche polemico) per trent’anni, dal 1965, quando l’ha conosciuto poco dopo essersi laureato, fino alla morte del poeta, ed era ormai suo collega all’Università di Siena. Li ha divisi il tempo di una generazione, li ha uniti la stessa passione politica. Gli interventi qui riuniti definiscono il profilo di Fortini, ma ne colgono anche aspetti diversi, con il commento di singole poesie, l’esplorazione di alcuni temi (soprattutto quelli della memoria e dell’oblio, del passato e del futuro) e l’analisi delle posizioni teoriche in campo critico-letterario. In particolare Fortini viene considerato in contrappunto rispetto ad altre due personalità – quelle di Pasolini e di Calvino – con cui è stato protagonista del dibattito letterario negli anni Sessanta e Settanta. Ne esce così un affresco storico delle patrie lettere nel secondo Novecento, quando gli scrittori erano ancora dei grandi intellettuali capaci di scrivere poesie o romanzi, ma anche di elaborare saggi critici, filosofici, politici, storici, sociologici, e di occupare una posizione di primo piano nella formazione dell’opinione pubblica e della cultura nazionale.].
«È l’avidità del guadagno che ha fatto uscire le arti di moda. Nel buon tempo andato, quando gli uomini amavano ancora la verità senza orpelli, allora le arti fiorivano veramente … Non vi meravigliate se la pittura non è piu in auge: ora che dèi e uomini insieme cospirano a glorificare un mucchietto d’oro».
Gaio Petronio Arbitro, Satyricon, capitolo 88, Rizzoli, Milano 1987.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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