Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza

 

Plato Silanion, Musei Capitolini

Socrate: Accetteresti tu, Protarco, di vivere tutta la vita nel godimento dei piaceri più grandi?

Protarco: Certo, perché no?

Socrate: Penseresti dunque di aver bisogno ancora di qualcosa se possedessi ciò integralmente?

Protarco: Nient’affatto.

Socrate:   Guarda bene: forse nell’avere senno, del pensare, del ragionare e di quante cose sono sorelle di queste, non avresti un po’ bisogno?

Protarco: E perché? Con il godimento avrei in un certo qual modo tutto.

Socrate: Se tu vivessi così sempre, per tutta la vita potresti godere i piaceri più grandi?

Protarco: Perché no?

Socrate: Ma senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, non avverrebbe necessariamente che tu ignori innanzi tutto proprio questo, se godi o non godi, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza?

Protarco: Necessariamente.

 

Platone, Filebo, Marietti edizioni, pag. 54.

Nina Nikolaevna Berberova (1901-1993) – «Il giunco mormorante»: C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla

Nina-Berberova

«Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità.

Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la «linea generale» dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro tempo e luogo.

L’Inquisizione oppure lo stato totalitario, sia detto per inciso, non possono assolutamente tollerare questa seconda vita che sfugge a qualunque tipo di controllo, e sanno quello che fanno quando organizzano la vita dell’uomo impedendogli ogni solitudine, eccetto quella della stanza da bagno. Nelle caserme e nelle prigioni, del resto, spesso non c’è neanche questa solitudine.

In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza. Forse in questa no man’s land gli uomini piangono, o bevono, o ricordano cose che nessuno conosce, o osservano i propri piedi scalzi, o provano una nuova scriminatura sulla testa calva, oppure sfogliano una rivista illustrata con immagini di belle donne seminude e muscolosi lottatori – non lo so, e non lo voglio sapere. Da bambini e persino da giovani (come probabilmente anche da vecchi) non sempre avvertiamo il bisogno di quest’altra vita. Ma non bisogna credere che quest’altra vita, questa no man’s land, sia la festa e tutto il resto i giorni feriali. Non per questa via passa la distinzione: solo per quella del mistero assoluto e della libertà assoluta».

Nina Nikolaevna Berberova, Il giunco mormorante, Adelphi, 1988, pp. 36-38.

Il giunco mormorante

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Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1998-1948) – Ieri ho pensato molto a «Il Capitale». Alla sua struttura, che nascerà dal metodo del linguaggio cinematografico, all’immagine …

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Ieri ho pensato molto a Il Capitale.
Alla sua struttura,
che nascerà dal metodo del linguaggio cinematografico,
all’immagine

PROSPETTIVE

«[…] Quando ci imbattiamo nella definizione di un determinato concetto, facciamo male a trascurare il metodo ddl ‘analisi meramente linguistica della stessa denominazione. Le parole che pronunciamo, talvolta sono molto più “intelligenti” di noi. Ed è affatto irrazionale la nostra ostinazione nel non volerci orientare in quella definizione depurata e ridotta a formula, che è, in rapporto al concetto, la sua denominazione. Bisogna dunque analizzare questa formula dopo averla sbarazzata dal bagaglio estraneo del materiale associativo “corrente”, quasi sempre tolto a prestito, che deforma la sostanza della questione. Naturalmente prevalgono le associazioni che corrispondono alla classe dominante nell’epoca della formazione o del massimo impiego di un dato termine o di una data denominazione. Noi abbiamo ricevuto tutto il nostro patrimonio “razionale” verbale e terminologico dalle mani della borghesia, con la comprensione e la lettura borghese predominanti di questo patrimonio, e con la struttura e il contesto associativi che le accompagnano, corrispondenti all’ideologia e all’impostazione borghesi.

Eppure, qualsiasi denominazione, come qualsiasi fenomeno, dispone di una duplicità della propria “lettura”, io direi della “lettura ideologica”: statica e dinamica, sociale e individualistica. Eppure il carattere tradizionale dell’“accerchiamento” associativo, corrispondente alla precedente egemonia di classe, riesce soltanto a confonderci. E, anziché procedere a una “differenziazione di classe” intraverbale, noi scriviamo, intendiamo e impieghiamo la parola-concetto in un senso tradizionale che non corrisponde affatto a noi sul piano classista …

La nostra concezione tradizionale e la poca voglia di ascoltare attentamente le parole, la nostra ostinazione nel voler ignorare questo settore di studio, è fonte di molte afflizioni e causa di un inutile dispendio di energie da parte dei vari temperamenti polemici! Ad esempio, quante baionette si sono spuntate contro la questione della “forma e del contenuto” ! Soltanto perché l’atto dinamico, attivo ed efficace del “contenuto” (con-tenuto, quale “trattenere fra loro”) veniva sostituito dall’interpretazione amorfa, statica, passiva del contenuto in quanto tale […]. Quanto sangue d’inchiostro si è sparso a causa del veemente desiderio di intendere la forma soltanto come derivante dal greco formos: canestro di vimini, con tutte le “conclusioni di carattere organizzativo” che ne derivano!

Un canestro di vimini, nel quale, ondeggiando sui torrenti di inchiostro della polemica, galleggiava questo disgraziato “contenuto” in quanto tale. Eppure sarebbe bastato guardare il dizionario, e non quello greco, ma semplicemente quello delle “parole straniere” in cui risulta che “forma” in russo vuoi dire immagine. Ora, l’immagine si trova all’incrocio tra i concetti di obrez e obnaruzenie (taglio e palesamento). […] Due termini che caratterizzano brillantemente la forma da ambedue i punti di vista: da quello statico-individuale (an und fuer sich), quale “obrez” – separazione di un determinato fenomeno da altri concomitanti […] lo “obnaruzenie”, palesamento, distingue invece l’immagine anche dall’altro aspetto dello “obnaruzenie”, cioè dal punto di vista dello stabilire un nesso sociale tra un dato fenomeno e quanto lo circonda. Il “contenuto” – atto del trattenere – è un principio di organizzazione, diremmo noi, in termini più semplici. Il principio dell’organizzazione del pensiero rappresenta per l’appunto il “contenuto” effettivo dell’opera. Un principio, che si materializza in un complesso di stimoli socialfisiologici, mentre la forma rappresenta appunto un mezzo per rivelarlo […].

In che cosa consiste dunque l’errore nell’uso del termine “conoscenza”? Il suo nesso radicale con il Kna (posso) da qui l’inscindibilità, nella lingua tedesca, di konnen (potere) da kennen-erkennen (conoscere) degli antichi germani del nord, con il “biknegan” dell’antico sassone – prendo parte – viene eliminato interamente dal concetto unilateralmente contemplativo di “conoscenza” quale funzione astrattamente contemplativa, di “pura conoscenza delle idee”, cioè si tratta di un concetto profondamente borghese. Noi non riusciamo a compiere dentro di noi un riorientamento della percezione dell’atto della “conoscenza” quale atto di una risultante direttamente efficace […]. Il distacco del processo conoscitivo da quello produttivo non può aver posto per noi. […] Per noi colui che conosce è colui che partecipa. In questo ci atteniamo al termine “biblico”: “E Mosé conobbe la moglie sua Sara […]”, e questo non significa affatto che egli fece la sua conoscenza! Colui che conosce è colui che costruisce! La conoscenza della vita è indissolubilmente costruzione della vita, la sua ri-creazione […].

Non esiste arte senza conflitto. Arte quale processo […]. Dappertutto c’è lotta. Una creazione suscitata dallo scontro fra le contraddizioni, e la cui presa di possesso cresce d’intensità per l’inserimento di sempre nuove sfere della reazione sensoriale di colui che le percepisce. Per ora, all’apogeo, egli non è implicato per intero. Non quale unità, quale individuo, ma come collettivo, come pubblico […]. Il libro. La parola stampata. Gli occhi. Occhi-cervelli. Va male. Il libro. La parola. Gli occhi. Il camminare da un angolo all’altro. Va meglio … Chi non ha sgobbato, correndo da un angolo all’altro di un recinto chiuso tra quattro mura, con un libro in mano? Chi non ha battuto il tempo con il pugno cercando di ricordare … “il plusvalore è … ?”. Cioè chi non ha aiutato lo stimolo visivo inserendo un movimento nel tentativo di ricordare delle verità astratte?

L’autoritario-teologico “così è” va a farsi’ friggere. Il carattere assiomatico di ciò che si deve credere salta per aria! “All’inizio era il verbo …” o, forse, non “era”. Il teorema nelle sue contraddizioni, che esigono una prova, implica il conflitto dialettico. Implica l’essenza del fenomeno che si può afferrare in maniera dialetticamente risolutiva nelle sue contraddizioni […]. Con un massimo di intensità. Avendo mobilitato per questo scontro interiore fra punti di vista contrapposti gli elementi risolutivi della logica e del temperamento personali […]».

Sergej Michajlovič ĖjzenštejnTeoria generale del montaggio, Marsilio Editori, 1985, ried. 2004.

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto

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«Io non parlo dei piaceri carnali, anche se in proposito ci sarebbe molto da dire, né dell’innamoramento, su cui c’è meno da dire. Con questi due fenomeni il mondo tirerebbe avanti, ma l’amore deve essere considerato separatamente […]. Esso modifica l’amante e l’amato, che sia in meglio o in peggio. Già dall’esterno gli amanti appaiono […] come produttori di un ordine elevato. Essi rivelano la passione e l’irrefrenabilità, sono molli senza esser deboli, sono sempre in cerca di atti cortesi che potrebbero compiere (nella forma compiuta dell’amore non soltanto verso l’amato). Essi costruiscono il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. Per loro la differenza tra nessun errore e un solo errore – una differenza che il mondo può tranquillamente ignorare – è enorme. Se fanno del loro amore qualche cosa di straordinario, lo devono solo a se stessi, se falliscono possono tanto poco scusarsi con gli errori dell’amato quanto, ad esempio, i capi del popolo con gli errori del popolo.
Gli impegni che si assumono sono impegni verso se stessi; nessuno potrebbe giungere alla severità cui essi giungono di fronte alle trasgressioni degli impegni. È essenziale per l’amore […] che gli amanti prendano sul serio molte cose che altri trattano alla leggera, gli infimi contatti, le sfumature meno avvertibili. I migliori riescono a armonizzare pienamente il loro amore con altre attività produttive; allora la loro cortesia diventa universale, il loro spirito inventivo diventa utile a molti, ed essi favoriscono tutto ciò che è produttivo.

[…]

Me-ti disse a Lai-tu: “Ti ho visto accendere il fuoco. Se non ti conoscessi, mi sarei certo offeso. Avevi l’aria di qualcuno che è costretto ad accendere il fuoco, e siccome ero presente soltanto io, dovevo supporre di essere io quello sfruttatore”. Lei disse: “Volevo scaldare la stanza il più presto possibile”. Me-ti disse sorridendo: “Quel che volevi, io lo so. Ma tu lo sai? Tu volevi che io, il tuo ospite, me ne stessi a mio agio, al calduccio; si doveva fare alla svelta, perché si potesse cominciare a conversare; io dovevo amarti; il legno doveva cominciare a bruciare; l’acqua del tè doveva bollire. Ma di tutto questo riuscì appunto solo il fuoco. Lattimo andò perduto. Si fece alla svelta, ma la conversazione dovette aspettare; l’acqua del tè bollì, ma il tè non fu pronto; ogni cosa fu fatta per l’altra, ma nessuna per se stessa. E quante cose si sarebbero potute esprimere nell’accendere il fuoco! Vi è dentro un antico costume, l’ospitalità è qualche cosa di bello. I gesti con cui la bella legna viene accesa possono essere belli e suscitare amore; l’attimo può essere sfruttato, e non ritorna. Un pittore che avesse voluto dipingerti mentre accendevi il fuoco al tuo maestro avrebbe avuto ben poco da dipingere. Non c’era gioia in questo modo di accendere il fuoco, era solo schiavitù”».

 

Bertolt Brecht, Me-Ti. Libro delle svolte, Einaudi, 1975, pp. 176-178.

Me-Ti

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) – Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda

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“Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda”.

“La nostra destinazione nella società è un perfezionamento comunitario, un perfezionamento di noi stessi grazie all’uso della libera azione degli altri su di noi e un perfezionamento degli altri mediante l’influenza della nostra azione su di essi come enti liberi”.
                                           J.G. Fichte, La missione del dotto.

“Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi”.
                                         J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca

“L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fine assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera”.
                                         J.G. Fichte, Sistema di etica
J.G. Fichte

Rudolf Nurejev (1938-1993) – L’essenza della vita è nel suo divenire e non nell’apparire: si ama perché si sente il bisogno di farlo.

Rudolf Nurejev

«[…] dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.

Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica […].
Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.

Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi.

Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi.

Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.

Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta.

Era questa la differenza tra me e lei.
Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.

Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi.
Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso.

La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare.
Ero pittore, poeta, scultore.

Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte.
Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza.

Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso.
Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere.

Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore.

Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire.

Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.

Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera.

È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità.

Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita…».

Rudolf Nurejev, Lettera alla danza.

Claudio Abbado (1933-2014) – Nell’arte e nella letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica

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«Avvicinandomi all’arte e alla letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica. Quando studiavo le opere di Musorgskij come il Boris Godunov o la Khovanscina ritrovavo la disperazione e insieme la fantasia della cultura russa che avevo amato nelle pagine di Puskin, Gogol’, Dostoevskij, Cecov, Tolstoj o Pasternak. […]».

Claudio Abbado, La musica scorre a Berlino. Conversazioni con Lidia Bramani, Bompiani, 2015.

Musica scorre a Berlino

Musica sopra Berlino

Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera

Walter Benjamin,1928

Walter Benjamin, 1928.

«C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».

Walter Benjamin, dalle tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, pp. 35.

 

Paul. Klee, Angelus NovusPaul Klee, Angelus Novus.

Fabio Pecoraro – Salvatore Satta nei suoi «Soliloqui e colloqui di un giurista». Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza

Salvatore Satta 01

Salvatore Satta

Carissimo Carmine,

raccolgo il tuo invito a dare un piccolo contributo al blog Petite Plaisance. Ci siamo conosciuti in occasione del mio lavoro, più volte abbiamo parlato di giustizia e di diritto ed è per questo, ma non solo per questo, che rivolgo ai  lettori, un invito alla lettura certamente ardito, per il tecnicismo di alcuni contenuti, ma di grande spessore umano. Si tratta, peraltro, di una lettura quasi impossibile anche dal punto di vista del reperimento del volume ed è per questo che trascriverò alcuni passaggi che ho particolarmente apprezzato, procurando, se non altro, beneficio a coloro i quali avrebbero, comunque, saltato i passaggi più strettamente giuridici. Il libro è una raccolta di scritti di Salvatore Satta, edita da Ilisso nel 2004, intitolato Soliloqui e colloqui di un giurista. E giurista è stato, Satta, tra i più grandi del secolo scorso, allievo di grandi maestri e a sua volta maestro di molti studiosi. Come giurista, si è occupato, prevalentemente, di diritto processuale civile, ma come un altro grande suo contemporaneo, Piero Calamandrei, egli è stato anche un “letterato”, capace di una accuratezza di linguaggio che, più che esser figlia di un certo modo di studiare o di abitudini di lettura ormai quasi scomparse, sembra, più radicalmente, figlia di un modo di vivere e di un mondo che, rassegnamoci, non c’è più.

Salvatore Satta

Salvatore Satta

Di Satta ho sentito parlare, per la prima volta, nel 2001, dal Prof. Ferdinando Mazzarella, allora titolare della cattedra di diritto processuale civile presso l’Università degli studi di Palermo. Mazzarella, quell’anno, avviò il ciclo di lezioni con un suggerimento letterario ed esso riguardava il piccolo volumetto di Satta, edito da Adelphi, Il mistero del processo. «Potete studiare la materia su qualsiasi libro – ci disse – perché questa materia si studia sul codice, ma questo libro, se potete, leggetelo». Lo comprai e confesso che, sulle prime, non fu una lettura facile. Dopo alcuni anni, dopo la laurea, quando il processo mi era diventato più familiare, per quotidiana frequentazione delle aule di giustizia, sentii il desiderio di ritornare a quel suggerimento. A quel punto, la lettura mi rivelò, non solo e non tanto un contenuto che, la prima volta, non avevo colto, ma la grandezza stessa dell’autore; decisi, così, di procurarmi altre opere. Comprai La veranda (Ilisso 2002), De Profundis (Ilisso 2003, riedizione di una precedente uscita CEDAM del 1948) e con l’aiuto di un amico libraio, riuscii a procurarmi anche Soliloqui e colloqui di un giurista. La veranda è un romanzo di grande intensità, tratto da una esperienza personale dell’autore di soggiorno in un sanatorio. Descrivendolo farei un torto all’opera, ma voglio accennare ad una particolarità di questo libro, perché esso risale al 1927, epoca in cui il giovane Satta non era ancora il grande studioso che poi sarebbe divenuto e coltivava, forse, ambizioni di scrittore come, probabilmente, molti di noi a quell’età. De profundis è un libro scomodo, tutt’altro che allineato, che tratta dell’ultimo quarto di secolo della nostra storia patria, rivelando la grande capacità dell’autore di guardare la realtà nel suo concreto estrinsecarsi, fuggendo al fascino ed alla convenienza che certi inquadramenti formali, certe entificazioni, esercitano.

Soliloqui e colloqui di un giurista

Da frequentatore del diritto, però, la lettura più formativa è stata proprio quella dei diversi “pezzi” da cui è composto Soliloqui e colloqui di un giurista. La selezione di articoli comparsi su riviste specializzate, di prolusioni, discorsi commemorativi ed altro ancora, è stata fatta dallo stesso Satta che, in questo modo, mette il lettore nelle condizioni di cogliere, leggendo tra le righe di specifici soliloqui o colloqui, il senso stesso della sua natura «intranquilla» di studioso e prima ancora di uomo.
Trattandosi di una raccolta di scritti eterogenei, è necessario che il mio invito alla lettura manifesti subito la ratio della selezione che ho operato, scegliendo quelli in cui minore è il peso del linguaggio tecnico giuridico, anche se i Tuoi più attenti lettori non potranno non apprezzare, in Satta, una spiccata capacità a parlare delle cose della vita affrontando argomenti tecnici dimostrando, così, vere doti di docente, oltre che di studioso.
Il libro si compone di sei parti (Soliloqui, Il libro delle prefazioni, Confessioni e battaglie, Saggi critici, Colloqui, Res gestae) e di una Appendice sullo Spirito religioso dei Sardi. Il passo che segue, è tratto dai Soliloqui e tratta del «formalismo nel processo».
Spesso, il linguaggio, lo stile di scrittura e l’esistenza stessa (nella vita quotidiana extra lavorativa) di chi pratica il diritto nei tribunali è permeato, in modo più o meno voluto e ricercato, da un certo formalismo che inevitabilmente allontana “gli altri”. Il cittadino che “incappa” in questioni giuridiche che abbisognano di esser discusse nelle aule dei tribunali, incontra una realtà spesso incomprensibile fatta di particolari di assoluto rilievo ed evidenze irrilevanti. L’occasione, per Satta, è il quarto Convegno dell’Associazione Italiana fra gli studiosi del processo civile, tenutosi il 4 ottobre del 1958

«Il formalismo comincia dove il diritto finisce. Esso rappresenta veramente una frattura dell’esperienza giuridica: al posto dell’esperienza e del suo libero movimento si pone una falsa esperienza, cioè l’immobile vuoto, che si tratta come cosa salda, modellandolo in forme che essendo forme del vuoto, hanno il pregio di essere infinite» (p. 72).

L’attaccamento al concreto che, da giurista, Satta manifesta in queste parole rappresenta un motivo conduttore, forse, della sua intera opera. Basta leggere il suo De profundis per cogliere la sua propensione al racconto ed alla analisi di una verità fatta di cose reali, anche a costo di omettere passaggi che, per molti, sono invece di essenziale importanza. Il formalismo di cui Satta parla «è unico e unitario, come l’esperienza della quale è in certo modo la scimmia», ma l’attenzione dell’autore è posta a ciò di cui il giurista “vive”.

«Nel suo profondo lavoro di astrazione il giurista elabora dei concetti, vale a dire, comprende, secondo l’etimologia della parola, la realtà, ne scopre e ne fissa l’essere, cioè la forma essenziale, l’ordine per cui essa è giuridica. Nulla è più legittimo di questa elaborazione, che costituisce il proprium della scienza giuridica, e la rende eccellente su tutte le altre, perché i concetti che essa elabora hanno un effettivo valore, sono la stessa realtà. Il grave pericolo di questa elaborazione, comune a tutto il pensiero speculativo, ma particolarmente sensibile per il giurista, è che a un certo punto le posizioni si capovolgano, come in quel singolare esperimento della topologia per cui dalla superficie dritta si passa invisibilmente alla superficie rovesciata, cioè si aboliscono le due superfici: e così i concetti acquistino una tale assolutezza da diventare generatori della realtà, in luogo di essere generati, un arcano immobile mondo al quale il concreto mutevole mondo dell’esperienza deve adeguarsi. È una sorta di teologismo o di donchisciottismo giuridico, una posizione diametralmente opposta a quella dell’empirismo, e di questa non meno pericolosa per la conoscenza. Nessuno dubita, ad es., della verità del concetto di ordinamento giuridico, e della sua adeguatezza a rappresentare la realtà stessa, in quanto appunto si presenta ordinata. Ma questo stesso concetto acquista a un certo punto tanta forza di suggestione che si stacca dalla realtà ordinata, della quale si presenta come ordinatrice, un Ordinamento con la o maiuscola, una personificazione o deificazione, del quale si dice che si attua, che si concreta, che si viola, che ha i suoi ministri, e al quale gli uomini sono soggetti ed estranei» (p. 76).

In questo passaggio, che prosegue con un altro esempio (che ometto per brevità), Satta sembra esprimere quello scollamento dalla realtà che, il più delle volte, rende il diritto qualcosa di estraneo ai membri della societas, di cui pure è espressione tra le più alte.

«Non vi è bisogno – prosegue l’Autore – di illustrare i guai che questa deformazione produce: e sarebbero guai sopportabili se restassero sul piano della conoscenza teorica. Alla fin fine, il mondo uno se lo concepisce come vuole. Ma purtroppo nel diritto la conoscenza è esperienza; e non esiste dualismo tra teoria e pratica».

Le conclusioni cui Satta giunge in questa sua riflessione, sono in linea con il suo sentire, tenacemente attaccato alla concretezza delle cose, in una prospettiva profondamente “umanistica”:

«[…] non esiste una ricetta, non esiste una formula che, operando dall’esterno, elimini il formalismo. Non leggi, non ordinamenti, non costituzioni, non soprattutto riforme imposte dall’alto, nulla vale a distruggere questo singolare atteggiamento dello spirito umano: anzi, come ho detto, la storia ci insegna che ogni tentativo fatalmente conduce ad esasperarlo. Per raggiungere qualche risultato bisogna operare dall’interno, cioè da noi stessi, compiere quel profondo atto di umiltà di fronte alla vita che è stato espresso per i medici, ma che vale per tutti: cura te ipsum. Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza; ammettere che tutte le nostre costruzioni, i nostri sistemi sono relativi; o se si vuole, che il concreto, cioè la vita nel suo continuo mutamento, richiede un’adesione spirituale che trascende i limiti della scienza» (p. 82).

Il costante richiamo al “concreto”, secondo me, è uno dei più grandi insegnamenti che Satta lascia agli studiosi del diritto e credo che il nostro Paese – attraversato da continui, ma sempre deboli e poco ispirati, venti di riforme, promosse da una classe politica incapace di correggersi, per la quale la “riforma” è pura velleità – il nostro Paese, dicevo, sarebbe un posto più semplice in cui vivere, se i costruttori di leggi realizzassero quale è il compito del giurista:

«Ogni giorno di più acquistavo coscienza di quello che era il mio compito, e il compito di ogni giurista: non costruire, ma vedere, ma leggere con semplicità nei fenomeni, e descriverli nella loro genesi e nella loro funzione. La costruzione non è opera del giurista, sia esso legislatore o interprete, che non è e non deve essere creatore. Sotto questo angolo visuale, tutto acquistava concretezza e chiarezza, perché concreta e chiara è la realtà dei rapporti sociali» (p. 137).

Il passo è tratto dalla prefazione al volume Esecuzione forzata del 1937. Sono parole che, se poste idealmente al cospetto delle ardite costruzioni, proceduralizzazioni, astrazioni di cui il nostro ordinamento è saturo (e che lo rendono altamente inefficace sia sotto il profilo della disciplina dei rapporti tra privati, che sotto quello delle norme che regolano il funzionamento della pubblica amministrazione), fanno emergere la violenta “presunzione” di molti operatori del diritto.

Voglio avviarmi a concludere questo mio piccolo scritto, su un autore che meriterebbe migliore e maggiore attenzione di quella che le mie risorse e la pazienza di chi vorrà leggere permettono, virando il discorso su un profilo più strettamente “umano” che traspare nell’opera di Satta continuamente, ma che egli, di tanto in tanto, permette a se stesso, indugiando in ricordi, malinconie e – perché no – qualche sana arrabbiatura. A tal proposito, la prefazione del volume sull’Esecuzione forzata, del 1937, chiude con una dedica al fratello Filippo, preferito, per questo scopo, al padre morto da anni, proprio perché vivo ed in grado di apprezzare la dedica di un libro giuridico che, come egli stesso afferma non può e non deve appartenere alla vita interiore di chi lo scrive (p. 138). Alla voce malinconie, colloco il riferimento, carico di suggestioni, a Francesco Carnelutti, grande antagonista scientifico di Satta, da questi definito «grande uomo». La presentazione della settima edizione del Manuale di diritto processuale del 1967 così recita:

Francesco CarneluttiFrancesco Carnelutti

Piero CalamandreiPiero Calamandrei

Giuseppe CapograssiGiuseppe Capograssi

«Nel 1948 mi lanciavo con questo libro verso gli anni a venire; oggi mi par di procedere come gli indovini di Dante, col capo voltato sul dorso. Gli ultimi grandi esponenti della scienza postchiovendiana, Calamandrei, Redenti, Carnelutti, se ne sono andati, se ne è andato Capograssi, se ne è andato Ascarelli, precursori di una scienza nuova. (Io sono rimasto. Ma non ne sono tanto sicuro. Forse sono ibernato.) C’era, in quegli anni, un’atmosfera da grandi colloqui, e nei colloqui si rifletteva una terra sconvolta dalle più dure esperienze, la paura di queste esperienze, il coraggio di volerle comprendere, anche a costo di ricominciare da capo. Dove sono le male parole che Carnelutti scagliava contro ogni mio libro, a cominciare da questo: dove le mie irriverenti risposte? Non ho mai capito il principio del contraddittorio come da quando il grande uomo non c’è più» (p. 151).

Quando leggo queste parole, il confronto con il livello attuale dello scontro tra portatori di pensieri differenti è impietoso. L’atmosfera di «grandi colloqui» a cui Satta fa riferimento è certamente, almeno nell’immediato, circoscritta all’ambito del diritto, così come erano certamente circoscritte ad esso le «male parole» che egli riceveva, ricambiando con «irriverenti risposte», da Carnelutti, ma quanta differenza, quanta distanza tra quei colloqui e quelli a cui oggi siamo abituati!

Sul finale della stessa presentazione, Satta rivolge al lettore altre parole di grande suggestione:

«Bisogna che il pensiero rinasca, e imponga la sua legge. E questo non può avvenire in un giorno o in un anno, o forse in cento anni, né può essere opera collettiva, poiché i tempi della follia collettiva sono passati, e la speranza è ormai riposta nella follia individuale. Bisogna che ognuno, nel suo piccolo, riconosca per sé e per gli altri l’esigenza del pensiero nihil inde sperans. O meglio, avendo come sola remunerazione la speranza» (p. 154).

Se avesse voluto dirlo in inglese, forse, avrebbe scritto “stay foolish”, come qualcun altro, molti anni dopo, avrebbe detto.

Nella presentazione al primo volume del Commentario al codice di procedura civile, anno 1959, Satta spiega «come ha studiato» e lo fa con queste parole:

«Di solito, lo studio evoca l’idea di una biblioteca, e di un signore che legge e legge col proposito e col risultato di aggiungere, negli scaffali e nel catalogo, un altro volume. Ci possono essere, nelle scienze così dette sperimentali, alambicchi e storte, ma la cosa non muta gran che. Dico subito, a scanso di equivoci, che questo studio è non solo legittimo, ma assolutamente essenziale. Nessuno può pensare di avere una voce viva se non ha ascoltato le grandi voci morte, se non ha vissuto in comunione coi padri, se non ha ripercorso le loro vie, oserei affermare se non ha creduto più che nelle loro verità, nei loro errori. Al di fuori di questo, tutto è sterile dilettantismo. Personalmente aggiungo, ho trascorso coi libri gli anni più belli della mia vita, e se di una cosa mi dolgo è di non aver potuto, per pochezza di forze e per private vicende, abbracciare tutto il pensiero di quelli che mi hanno preceduto» (p. 155).

Nella prefazione al secondo volume del medesimo Commentario, pubblicato un anno dopo, l’Autore sembra voler precisare:

«Ma se noi possiamo capire il linguaggio dei padri, non possiamo, non dobbiamo più parlarlo. Insistendo a farlo, ci riduciamo, nel migliore dei casi, a puristi del diritto, usiamo veramente parole che sono un mero suono, concetti che non hanno più alcun contenuto, non ‘comprendono’ più nulla» (p. 162).

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Chiudo con alcuni passi tratti da una polemica che coinvolse Satta, nel 1967. Mazzarella aveva pubblicato un libro dal titolo “Contributo allo studio del titolo esecutivo” e la Rivista di diritto processuale, già diretta da Carnelutti, lo recensisce in un modo che provoca in Satta una vivace, nostalgica, reazione:

«Quando osservo la nuova copertina della Rivista di diritto processuale, e al posto di Carnelutti e della sua imponente solitudine vedo una sfilza di nomi, allineati in bell’ordine come consiglieri di amministrazione, mi vien fatto di pensare a quel mitico drago, cui, dopo la morte, furono strappati i denti, e dai denti seminati vennero fuori tanti soldatini, che si misero a costruire le mura di una città. Il mito, se non erro, è quello di Cadmo, la regione dove il mito nacque fu chiamata Beozia, e fu la patria di Esiodo e Pindaro.
È stata davvero un’idea curiosa quella di credere che la sede vacante potesse essere riempita da un governo di massa, come a dire che la quantità potesse sopperire alla qualità. E pazienza se gli uomini di quantità si fossero assunti il compito devoto quanto assurdo di mantenere nel tempo un’opera che col suo creatore usciva fuori dal tempo: ma essi si sono presi sul serio, hanno creduto di essere, per il solo fatto della
inscriptio, figli del drago, draghi essi stessi, nove draghi al posto di uno. È di ieri una recensione di V.D. (trasparente sigla di uno dei dragonetti) a un libro di Massa che comincia così: ‘Il Massa appartiene alla schiera (per fortuna non troppo numerosa) di coloro che credono che il pensiero di Capograssi non solo esprima una personale e irripetibile esperienza, ma possa anche fornire un metodo valido per gli studi giuridici in genere e per quelli processualistici in particolare’. Avete capito? V.D. e Capograssi, quel Capograssi davanti al quale Carnelutti si faceva, e si diceva piccolo piccolo, il cui metodo è tanto poco valido (meglio si direbbe tanto poco metodo) che ricreò Carnelutti, e ricreò la sua stessa rivista, come può agevolmente vedersi scorrendo le annate dalla fine della guerra fino all’avvento di V.D.
È di oggi un’altra recensione, stavolta del dragonetto E.G., che mi ispira queste note. Ma prima voglio sottolineare che i successori a titolo originario di Carnelutti hanno avuto l’imprudenza di conservare la famosa rubrica delle recensioni, dalla quale il drago ha dominato a suo modo per quarant’anni giusti la scena della vita giuridica italiana. Non hanno inteso che questa sì era una esperienza irripetibile, perché Carnelutti capiva i libri senza leggerli, mentre essi li leggono senza capirli. Questo è appunto il torto che io faccio a E.G.: di aver letto il libro di Mazzarella,
Contributo allo studio del titolo esecutivo» (p. 268).

Poco più avanti, prima di addentrarsi nel merito, l’affondo:

«È chiaro che io non intendo qui fare una controrecensione: ci penserà M., se crederà, a difendersi nella stessa rivista, come ne ha anche giuridicamente diritto. A me interessa parlare del libro unicamente perché E.G., dopo averlo bistrattato, mi ha tirato imprudentemente in causa, rendendomi praticamente responsabile del fatto che il libro (come a dire la mia opera) confonda, più di quanto non chiarisca, le idee agli studiosi del titolo esecutivo.
Come un libro possa confondere le idee ‘agli studiosi’ mi pare difficile capire a meno che E.G. non identifichi gli studiosi con se stesso, o con gli intangibili professori di ruolo in generale. Comunque dimentichiamoci di avere davanti E.G. anziché Carnelutti, e vediamo di dire qualcosa che possa tornare utile alla scienza
».

Il seguito alla pubblicazione di questo scritto, la Rivista di diritto processuale pubblicò, a firma della direzione, un trafiletto nel quale additavano Satta come «un cattivo esempio ‘per aver offeso il diritto fondamentale che ha ogni studioso, al pari di ogni uomo, al rispetto della sua dignità’». La risposta di Satta, pubblicata nella postilla alla ristampa del medesimo articolo, rivela la profondità e la sagacia dell’uomo:

«La Rivista di diritto processuale è padrona di abbrunare la sua bandiera. Ma l’equivoco è evidente. È incontestabile che ogni uomo possiede bergsonianamente la sua dignità, per il solo fatto di essere uomo, né io credo di aver mai offeso la dignità di nessuno. Ma lo studioso non ha una sua dignità, cioè per lui il problema non si pone in termini di dignità, ma di valore. Sulla sussistenza di questo valore il giudizio è libero, né costituisce mai, salvo assurdi privilegi, offesa. Pertanto io non solo non ho dato un cattivo esempio, ma ne ho dato uno ottimo, e i giovani farebbero bene a seguirlo in ogni occasione» (p. 274).

Con queste parole, davvero, concludo, ringraziando te per l’occasione che mi hai dato di riaprire Soliloqui e colloqui di un giurista ed i tuoi lettori, per la pazienza e per l’attenzione.

                                                                                                         Fabio Pecoraro

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