Fernanda Mazzoli – Una vita consumata: a proposito di «La Peau de chagrin» di Balzac: un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza

Fernanda Mazzoli

Una vita consumata:
a proposito di
La Peau de chagrin

Un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società
che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva

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Il 25 febbraio del 1867,  poco prima di consegnare alle stampe il Primo Libro del Capitale, Karl Marx scrisse al suo amico Friedrich Engels suggerendogli di leggere due racconti di Balzac, «pieni di deliziosa ironia».

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«Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comèdie humaine  un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa».

F. Engels

 


Parigi 1831: si celebra con fasto sfrontato il matrimonio d’interesse fra la monarchia di luglio, esito moderato delle Trois glorieuses1 dell’anno precedente, e la borghesia degli affari e delle professioni. Invitata d’onore la stampa, chiamata a svolgere un ruolo di primo piano a garanzia del fruttuoso sodalizio che lega indissolubilmente potere politico e potere economico. Fuori dagli hôtels particuliers,2 teatro di feste sfarzose dove si concentrano, ostentano e sperperano fortune di dubbia provenienza, gli esclusi, per scelta o per necessità: repubblicani irriducibili, uomini di studio e di pensiero votati esclusivamente alla propria arte e poveri di ogni sorta.

Fra questi, Raphaël de Saint-Valentin, il protagonista di un folgorante romanzo di Honoré de Balzac, La Peau de chagrin,3 collocato nell’edizione del 1834 della Comédie humaine nella sezione Etudes philosophiques. La storia è presto detta: un giovane aristocratico rovinato, di grande intelligenza e cultura, di animo ardente e sensibile, ma condotto alla disperazione da una povertà che il suo talento non arriva a scalfire entra in possesso di un singolare talismano, la pelle di un onagro, un asino selvatico che vive in Asia. Il bizzarro mercante di antichità nel cui magazzino essa è custodita lo mette in guardia dal potere straordinario che risiede in questo lembo di pelle su cui è incisa una misteriosa iscrizione che promette a chi la possiede di possedere tutto, di vedere esaudite tutte le proprie brame. La contropartita a questo illimitato potere è, però, inquietante: ad ogni volere soddisfatto, la pelle si assottiglierà esattamente come i giorni di chi ha espresso il desiderio. Noncurante delle ammonizioni del vecchio mercante, Raphaël accetta lo sciagurato patto; in breve diventa incredibilmente ricco, ma con orrore deve constatare che l’iscrizione dice il vero: la pelle si è ridotta e lui comprende appieno in quale abisso si è lanciato. Rinchiuso nel meraviglioso palazzo che può ora permettersi, arredato con il gusto che la sua sensibilità d’artista gli suggerisce, conduce una vita triste e solitaria, oppresso dall’angoscia per la fine che sente ineluttabile e vicina. Per evitare di desiderare, cioè di accorciare la propria vita, smette di vivere, rinuncia alle ragioni stesse che rendono l’esistenza desiderabile, innanzitutto l’amore e l’amicizia. Ma la vita è più forte e finisce per valicare le spesse mura difese da un domestico devoto incaricato di frapporsi tra il giovane e il mondo. L’amore sa trovarlo e smuovere la sua voluta indifferenza, la pelle continua a ridursi, Raphaël, nel fiore degli anni, si ammala e a nulla valgono gli esperimenti che tenta con insigni scienziati per distendere il maledetto frammento. La minacciosa promessa contenuta nell’iscrizione si compie, trascinando l’avventato e sventurato ragazzo nelle braccia della morte.

Il racconto, concentrato in tre capitoli che scandiscono l’inesorabile marcia del protagonista dall’accettazione del patto all’agonia, è molto di più di una riflessione filosofica e/o di un apologo morale sul potere corruttivo e venefico della ricchezza e la sua inadeguatezza a garantire la felicità.

Con la forza visionaria che lo caratterizza, con la sua ambizione di cogliere e restituire la totalità sociale e attraverso essa i destini individuali, Balzac individua e isola con sorprendente precisione un carattere fondante della condizione umana nella società dove il capitale ha ormai imposto la sua legge: l’illimitata disponibilità di beni che esso promette e gli altrettanto illimitati desideri che esso accende finiscono per assorbire la vita fino alla sua negazione, nel momento stesso in cui sembrano consentirle di manifestarsi in tutte le sue possibilità, di coronare il suo sogno di pienezza.

L’orgia che riunisce giornalisti, artisti e cortigiane nella sontuosa dimora di un parvenu di dubbia fama e che spalanca all’aristocratico in miseria le porte di un mondo dove tutto è permesso, a condizione di disporre di faccia tosta e denaro, fornisce lo sfondo brillante e cangiante sul quale si muove un’umanità frenetica, piena di sé eppure insoddisfatta e rancorosa, pronta a giocare con tutte le opinioni, perché in fondo non crede in nulla, se non nel proprio diritto ad occupare un posto adeguato nel gran festino.

Ebbene, voglio vivere nell’eccesso, ribatte, afferrando convulso la pelle magica, il protagonista alle argomentazioni dell’antiquario che non gli nasconde i rischi del talismano che riunisce in sé volere e potere, a un’intensità tale da condurre agli eccessi più temibili e distruttivi. E così, il romantico mal di vivere, nobile ed inesausta aspirazione dello spirito insofferente dei limiti della propria umana natura verso l’Infinito e l’Ignoto, si trasforma, nel nuovo contesto sociale e politico contrassegnato dal trionfo della borghesia, in mal di consumo, in cui a finire per essere letteralmente consumata è la vita stessa.

Intuizione poetica e lucidità dello sguardo si intrecciano sotto le sapienti mani del romanziere a creare una potente metafora della reificazione della vita, ridotta ad oggetto che si usura al ritmo dei desideri che realizza, fino all’annientamento.

Doppiamente peau de chagrin: la pelle di asino, un oggetto fra i tanti in un polveroso magazzino di antichità, si rivela in realtà pelle di dolore,4 quanto mai provvisorio ed infelice di un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva.

Anche se Raphaël mancasse di perspicacia, la brutale materialità della pelle che sotto le sue dita gli segna il tempo lo riporterebbe immediatamente all’enormità della sua scelta, gli farebbe comprendere la tragica portata del passo che, distogliendolo momentaneamente dal suicidio con cui aveva deciso di risolvere una situazione di intollerabile esclusione, lo ha portato comunque alla morte, ma attraverso una desolazione, un rimpianto e un’angoscia anche più grandi, scontati ogni giorno. Il giovane, per proteggersi dai propri desideri – da se stesso in definitiva – che gli accorciano la vita, deve abdicare alla vita per continuare a vivere. Insomma, lui che aveva sognato amori splendidi, forti emozioni, squisite sollecitazioni dei sensi si ritrova a salvaguardare la propria salute con l’attenzione paranoica di un vegliardo minacciato dalla stessa aria che respira e naturalmente la perde. La vita, infatti, si prende gioco della nuda vita, della vita biologica che le arranca dietro senza poterla raggiungere, nemmeno sfiorare.

Come tutti i libri che vale la pena leggere, anche questo interroga direttamente il lettore su una questione fondamentale, ineludibile: che cosa è vivere, che cosa è una buona vita? Raphaël, cercando di dare un senso a questa domanda, si è cacciato in una tragica impasse, ha sconfessato tutte le promesse che erano dischiuse per lui alla nascita, ha ceduto alle lusinghe dell’affermazione sociale, ha sacrificato alle divinità del suo tempo (sostanzialmente le stesse del nostro), si è perso nel cattivo infinito dei desideri che dalla società rimbalzavano fino al suo cuore.

Sfortunato eroe di una fiaba moderna senza lieto fine, l’incontro con l’oggetto magico che consentiva al giovane smarritosi nel bosco di rovesciare una situazione svantaggiata, se non disperata, segna la sua perdita: nel racconto di Balzac, infatti, tale oggetto è al centro di una scelta, non si tratta di un dono non cercato e accettato con noncuranza. È una scelta etica in cui si traduce una certa idea della vita, è una prova senza appello che il protagonista non supera. Né l’oggetto è di alcuna utilità nei confronti di mostre e streghe appostati sulla sua strada: prendendone possesso, è proprio alla loro corte che liberamente e baldanzosamente corre, credendo di potersi sedere da pari alla loro tavola imbandita. Confidando nella forza e nel potere, è la debolezza estrema che stringe, è il nulla. Ha tradito se stesso, ha calpestato le buone qualità che natura ed educazione gli avevano generosamente elargito per un riflesso di bonheur inviatogli da uno specchio menzognero. Lo specchio si è infranto, la verità gli si è rivelata, spalancandogli innanzi il pozzo di una sofferenza senza fondo, ma ormai il gioco non è più nelle sue mani. Se lo è lasciato scappare da quando le ha tese bramoso di afferrare la pelle di zigrino, questa pelle che ci ammicca da tutte le vetrine, da tutti i palcoscenici, da tutti i banchetti già apparecchiati e dove resta un posto scoperto, un posto da occupare, e forse è proprio il nostro.

1 Vengono così denominate le tre giornate di insurrezione del luglio 1830 (27, 28 e 29) che portarono alla caduta della monarchia assoluta e all’ascesa al trono di Louis-Philippe d’Orléans, roi des Français e non più de France, vale a dire sovrano costituzionale.

2 Lussuose dimore spesso occupate da una sola famiglia.

3 H. de Balzac, La peau de chagrin, Gallimard, Paris, 2003; ha conosciuto in italiano numerose traduzioni, sotto il titolo La pelle di zigrino, pubblicate da diverse case editrici.

4 Chagrin è termine appartenente al campo semantico della sofferenza: dolore, dispiacere, pena …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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