«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Da tempo ormai il nuovo modo di lavorare, di organizzare il lavoro, la produzione e l’economia stavano cambiando l’uomo, il suo ambiente e le sue relazioni, ma mancavano alcuni indispensabili modi di discuterne. Certo, gran parte delle parole e dei concetti che noi oggi usiamo per parlare della grande fabbrica, dell’impresa, del primato dell’economia nella vita associata e di argomenti connessi erano disponibili da tempo – da Taylor a Marx –, ma chi aveva parlato dell’inconsistenza del soggetto, del vuoto mentale, chi aveva mostrato, o solo nominato, il legame psicologico del soggetto all’evanescenza persecutoria delle grandi costruzioni organizzative? Chi, pur parteggiando per i lavoratori, ne aveva narrato così bene la cecità, il vuoto interiore e le vuote illusioni e chi aveva altrettanto bene intravisto i contenuti profondi della progressiva e radicale atomizzazione degli individui?».
Così Luigi Ferrari, nel suo recente Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka (prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, editrice Vicolo del Pavone, pp. 312, euro 21) ci introduce ad analizzare con una lente non letteraria e non tradizionale l’opera di Kafka (1883-1924). Ideale continuazione del suo monumentale L’ascesa dell’individualismo economico, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2010, il lavoro di Ferrari è uno straordinario viaggio dentro il pensiero di Kafka «scrittore del lavoro, dell’economia e della realtà» e apre una prospettiva inedita nella comprensione della sua opera – restituita nella sua estrema varietà e complessità – e dei meandri di senso che sono all’origine dell’uso quasi universale del termine «kafkiano». Il libro si compone di una introduzione generale e di cinque capitoli che fanno perno su altrettanti nodi dell’interpretazione delle opere e delle lettere private dello scrittore praghese. Ne accenneremo qui per tratti fondamentali nella descrizione dei vari capitoli, certo non esaustiva del quadro ben più articolato che il lettore troverà nel volume.
L’analisi del primo capitolo (il Lavoro) è innovativamente centrata sulla relazione tra i temi di alcune opere fondamentali di Kafka (Le Metamorfosi, Il Digiunatore e Il Castello) e le approfondite conoscenze sull’organizzazione del lavoro – riflesse in varie «relazioni tecniche» riportate alla luce da Ferrari – che lo scrittore aveva acquisito come analista dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, a Praga, dove lavorerà tra il 1908 e il 1918. Lontano dall’immagine di «povero travet ‘scadente’ e svogliato, con il solo esclusivo interesse perla letteratura» che l’autore praghese, ancora prima dei suoi esegeti, ha voluto trasmetterci, Kafka aveva, in realtà, sempre rivestito un ruolo formale e soprattutto informale di primissimo piano nello studio tecnico, psicologico, legale e gestionale della prevenzione degli infortuni e, in senso lato, dell’organizzazione del lavoro. Così – sostiene Ferrari – i protagonisti delle opere di Kafka sono investiti – pur nei termini onirici che ne caratterizzano l’esperienza – dai processi e dalle condizioni che Kafka conosceva bene: l’interscambiabilità e fungibilità dei lavoratori nella produzione capitalistica; la perdita di senso dell’attività lavorativa del singolo; la sempre possibile e incombente sua «superfluità» e irrilevanza; l’immiserimento della vita interiore del lavoratore, il «vuoto mentale» che si produce in chi subisce. Nel secondo capitolo (Intermezzo metodologico) troviamo il tema degli strumenti metodologici – in particolare in attinenza alla scuola delle Annales – che permettono di comprendere il nesso tra storia oggettiva e soggettiva nell’opera kafkiana, con ampio riferimento ai processi descritti da Ferrarine L’ascesa dell’individualismo economico e la discussione di merito riguardo il senso della scelta della forma nell’apologo onirico, «ovvero di una narrazione al contempo sfrenata e imperturbabile e perciò adatta a riflettere il caos del nuovo nelle società» in comparazione con Freud dell’Interpretazione dei sogni. Di notevole importanza appare, poi, l’insieme delle considerazioni condotte nel terzo capitolo (Le Organizzazioni), che verte sull’analisi kafkiana delle forme del potere organizzativo, così come si mostra in opere quali Il Processo, Il Castello, La Colonia Penale. In questo capitolo, Ferrari capovolge l’interpretazione di Kafka come esegeta delle strutture organizzative totalitarie, monolitiche e impenetrabili nelle loro logiche occulte, mostrando come in realtà egli parli delle grandi organizzazioni come strutture deboli o meglio, indebolite, dal «brulicare», al loro interno, di interessi individuali e privati, da procedure vaghe e imprecise, da disordine organizzativo e resistenza al cambiamento – anticipando riflessioni che solo oggi l’evoluzione del lavoro e delle organizzazioni ha reso del tutto attuali. Il nodo della visione che Kafka mostra di avere dell’economia che si andava affermando e del lavoro dipendente in cui si identifica contrariamente al «destino» che la famiglia vorrebbe per lui, viene affrontato nel quarto capitolo (Affetti e denaro), con una disamina del groviglio intricatissimo di affetti e interessi economici che hanno riguardato la relazione tra KaIka e la sua famiglia, in particolare con la figura patema (Lettera al padre), nel contesto generale del precipitare, nel periodo, di quella «ribellione al padre» che andava maturando da molto tempo con il disgregarsi progressivo della società agrario-feudale.
Oltre l’individualismo, verso l’individualismo economico, tema del capitolo finale, si svolge sullo sfondo dei processi storici che sono alla base della riflessione di Ferrari. Vediamo così, attraverso le parole delle lettere, dipanarsi il pensiero di Kafka su se stesso, sul proprio individualismo e tendenza all’isolamento, sul suo rifiuto della famiglia e del matrimonio, sul «nucleo più interno dell’incipiente atomizzazione degli individui e dell’eclisse generalizzata della socialità», arrivando infine – tra altre opere – alla cupa visione che si esprime nella Tana (1923-24), scritto sei mesi prima della morte e rimasto incompiuto. In quel racconto, come vorrebbe oggi il liberismo economico, «il mondo è popolato solo da predatori e ogni forma di relazione con l’altro è un duello: non ci può essere cooperazione e dunque totalmente assente è la fiducia». Quindi, «il mondo è atomizzato: quella che inizialmente era la difesa dell’individuo dal collettivo si è poi trasformata nel primato dell’individuo e, infine, nel culto totalitario del singolo».
Sergio Finardi, Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari «Alle fonti del kafkiano». Luigi Ferrari, Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka, prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, a cura di V. Guerrini, D. Dondi, Editrice Vicolo del Pavone, Castelnuovo Scrivia AL 2014. La recensione di Sergio Finardi è stata pubblicata su il manifesto del 29-04-2014, p. 11.
«[…] tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
«La filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
«[…] il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: “Se solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali”. E soprattutto, nella Lettera 64: “Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta. Il sublime è quindi percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la conclusione della Critica della ragion pratica: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”. Torniamo alla frase della Lettera 64: il “mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta”. Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè sul mondo uno sguardo nuovo. Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’ineresse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili. Al contrario, è grazie a uno sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile, che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum, III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, l), Lucrezio (De rerum natura, Il, 1023 e ss.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34) ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E, per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale esperienza umana».
Pierre Hadot, Studi di filosofia antica, a cura e con una prefazione di Arnold I. Davidson, trad. di Laura Cremonesi, ETS, Pisa 2015,.
Questo libro raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti qui per la prima volta, dello storico della filosofia e filosofo Pierre Hadot. Scelti e raggruppati in cinque sezioni da Hadot stesso, questi testi offrono una visione d’insieme del lavoro dello storico francese, permettendo di coglierne i principali snodi tematici e metodologici. Da quelli più filologici, che indagano importanti concetti come quelli di pragma o di physis, a quelli storici, che mettono in luce i modi di procedere del pensiero antico, fino a quelli esplicitamente filosofici, che propongono nuove modalità interpretative della filosofia greca, ellenistica e romana, intesa come pratica e maniera di vivere, i testi si basano tutti su quella che era stata una delle maggiori preoccupazioni di Hadot: interpretare il mondo antico, le sue pratiche e il suo pensiero a partire dal contesto storico originale che li ha generati, senza però mai dimenticare le possibili connessioni tra la riflessione antica e i problemi e le questioni che segnano anche la nostra attualità.
Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado? Sono colui che ero e sarò sempre nella vita: non bestia, né albero, né schiavo, ma uomo! Ad aprire una strada non calcata da piedi, per focosi temerari sia in prosa sia in versi, ai cuori sensibili ed alla verità, io verso la paura e verso il carcere di IIimsk mi dirigo.
Il testo su Aleksandr Nikolaevič Radiščev, tradotto dal russo per la prima volta da Alessandro Niero (su «il manifesto» del 21-02-2006, p. 12), venne scritto dal grande critico letterario Jurij Michajlovič Lotmanper la Ucebnik po russkoj literature (Manuale di letteratura russa).
Logica conseguenza delle idee propagandate dall’illuminismo fu l’esigenza di libertà per tutti gli uomini, esigenza portata fino a riconoscere al popolo il diritto di conquistarsi questa libertà con la forza. Colui che, nella letteratura russa del XVIII secolo, formulò nel modo più completo e coerente questo pensiero fu Aleksandr Nikolaevič Radiščev. Di antica estrazione nobiliare, ancorché di una nobiltà non ricca, Radiščev studiò all’università di Upsia e nel 1790 pubblicò il libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca, che gli costò la condanna alla decapitazione. La pena fu poi commutata nell’esilio in Siberia, dove visse fino al 1796, data della morte di Caterina II. Nel periodo in cui regnò Paolo, dal 1796 al 1801, Radiščev visse esiliato in un villaggio. Alessandro I nel 1801 lo restituì all’attività di Stato, affidandogli un alto incarico nella «Commissione per la stesura delle leggi». Tuttavia Radiščev nel 1802 si suicidò. Le cause del suo gesto non sono chiare: i contemporanei vi lessero una sfida al governo. Viaggio da Pietroburgo a Mosca è l’opera più importante di Radiščev: il libro è redatto in forma di note di viaggio dal punto di vista di un viaggiatore che percorre in carrozza postale il tragitto che separa le due capitali dell’impero russo. Gli amici chiamavano Radiščev «colui che non vedeva tutto rosa». Guardava in faccia alla realtà russa del suo tempo e con eccezionale coraggio sottopose a giudizio sia il dispotismo politico dominante in Russia – l’arbitrio delle autorità, la mancanza di diritti dei sudditi – sia la terribile condizione dei contadini. Radiščev riconosce il diritto del popolo alla rivolta, sebbene non rigetti anche la possibilità che un governo illuminato possa compiere trasformazioni pacifiche. La serie di questioni contemplate nel suo libro è straordinariamente ampia: oltre ad essere in possesso di una formazione specifica in campo giuridico, egli era anche un insigne economista, un filosofo e uno storico. Il suo libro è una vera e propria enciclopedia dell’illuminismo del XVIII secolo. Proprio con Radiščev ha inizio l’intreccio fra la letteratura russa e la lotta per la libertà e la felicità del popolo, che di quella letteratura divenne il tratto caratteristico. Riservando nella lotta di liberazione un posto speciale alla parola dello scrittore, Radiščev era persuaso che è efficace soltanto quella parola per cui lo scrittore è disposto a pagare con la propria vita. Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna. Pagando con il sangue le proprie parole, egli si guadagna la fiducia dei lettori e la gratitudine dei posteri. Gli scrittori che aspiravano alla ricchezza e ai riconoscimenti, invece, erano chiamai da Radiščev «leccapiedi». Con Radiščev ha inizio nella letteratura russa la tradizione rivoluzionaria. Egli stesso in un breve componimento [riprodotto qui sopra] disse di avere «aperto la strada» per la Siberia. Quella strada fu percorsa in seguito dai decabristi, da Fëdor Dostoevskij, da Nikolaj Gavrilovič Černyševskije da molti altri scrittori russi.
Natura umana e finanza L’insocievole socievolezza nel secolo dell’economicismo è ormai la verità entro cui leggere e comprendere l’integralismo economico contemporaneo. Vi è la pressione all’individualizzazione di ogni comportamento, dietro cui si vela la riduzione di ogni rapporto alla sola categoria dell’utile economico. La reificazione si palesa nella forma seducente dell’immagine, della microfisica del controllo e della stimolazione al desiderio consumante. Si impedisce, in tal modo, alle personalità di fiorire secondo la celebre immagine di Aristotele. Lo sfruttamento non riguarda solo la forza lavoro, ma si concretizza nella forma della negazione dell’indole individuale. Il passaggio dalla potenza all’atto (ἐνέργεια) è inficiato con il concretizzarsi di nuove forme di sfruttamento e violenza.
L’amicizia filosofica contro l’economicismo Nella Repubblica (Πολιτεία, Politéia) Platone ha dimostrato che giustizia è rispetto della natura di ciascuno, per cui l’ingiustizia totalitaria contemporanea consiste nella perenne negazione della natura universale dell’essere umano e della sua espressione soggettiva. L’assedio alla vita, dapprima con le scienze sperimentali, oggi con l’economia finanziaria, opera attaccando frontalmente la Filosofia in quanto disciplina del pensiero, dell’ordine del senso. La Filosofia umanizza, poiché è educazione (dal lat. Educĕre trarre fuori, allevare), portar fuori la natura universale con le potenzialità del soggetto: essa è formatrice di comunità. Nel regno dell’economia, ma è preferibile dire della crematistica, nel caos del mercato, deve regnare il solo rumore delle transazioni finanziarie sempre più fitte, sempre più incontrollabili. Ortega Y Gasset ha ben descritto il senso di oppressione e limitazione a cui le vite sono sottoposte, sempre meno libere, sempre meno vitali, e sempre più oggetto dell’imperio della quantificazione. La negazione della filosofia coincide con la nientificazione dell’umano:
«La Filosofia restò schiacciata, umiliata dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori. Le scienze naturali dominavano l’ambiente e l’ambiente è un ingrediente della nostra personalità, come la pressione atmosferica è uno dei fattori che compongono la nostra forma fisica».[1]
Ovunque vi è Filosofia vi è amicizia. La dialettica filosofica è confronto tra eguali, è ascolto, poiché nessuno dei dialoganti possiede il sapere, ma lo ricerca per condividerlo. L’ostilità dell’economicismo nei confronti della Filosofia trova la sua ragione più profonda nella considerazione che la Filosofia è pratica di verità e di amicizia, mentre la parola d’ordine dell’economia della finanza (della crematistica) è competizione, plusvalore e controllo, pertanto è negazione del senso di comunità insito nella prassi filosofica:
«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”, diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[2]
L’economicismo ha, nel controllo, la sua essenza: esso deve addomesticare, ridisegnare comportamenti e gestualità. L’automa è l’ideale del nuovo integralismo: per controllare il lavoro deve sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. La Filosofia è emancipazione dalle ipostasi come dalla tradizione, si pone in un movimento opposto rispetto al potere dell’economicismo. Per Bauman la sostanza della Rivoluzione industriale è nel controllo, e tale matrice si storicizza e si trasmette fino all’attuale assetto economico:
«Così il problema cui si trovarono di fronte i primi imprenditori non era l’uomo preindustriale ostinatamente pigro, sordo all’appello della ragione economica; e la soluzione del problema da loro ricercata non consisteva nell’instillare una pia disposizione al lavoro nell’animo di gente non abituata a uno sforzo continuo. Il problema era piuttosto la necessità di costringere gente abituata a dare un significato al proprio lavoro, controllandolo, a spendere la sua forza e capacità nell’assolvere mansioni controllate da altri e pertanto prive di significato».[3]
Entificazione dell’umano Se l’essere umano vive e progetta nelle comunità e nelle circostanze che gli sono date, Dasein, la pressione anomala a cui è esposto ne impedisce la progettualità autentica riducendolo ad ente tra gli enti, ed è studiato come un qualsiasi ente. La pressione alla quantificazione sviluppa il metodo della parcellizzazione, della divisione incapace di cogliere il fondamento del tutto. Le scienze, come l’economia, rinunciano in modo aprioristico alla verità per l’esattezza, per la misurazione. La superstizione scientista è il fondamento attuale del potere tecnocratico, non vi è riflessione collettiva sulla teleologia delle scienze come delle tecnologie, esse sono “il bene” senza che vi sia pubblica discussione: pertanto le si persegue con determinazione scevra da ogni dialettica. Esse producono conoscenze sicuramente utili, ma non migliorano necessariamente la qualità della vita. La Filosofia deve avere il coraggio dell’universale, dell’assoluto, non può supinamente adattarsi all’attitudine delle scienze, rinunciando a se stessa; senza la conoscenza dell’universale l’essere umano è straniero a se stesso ed al mondo, è consegnato all’atomistica delle solitudini, è potenza passiva:
«Per questa ragione propongo che, nel definire la filosofia come conoscenza dell’Universo, intendiamo un sistema integrale di attitudini, nel quale si organizza metodicamente l’aspirazione alla conoscenza assoluta».[4]
Filosofia e verità Nessun dogmatismo, nessun integralismo. La Filosofia ha il compito di ricercare la verità, di fare appello alla sua inesauribile creatività e paziente attività filologica per ricercare il fondamento universale. La Filosofia è amica del concetto, è generazione di vita nella forma dell’universale condiviso, è processo di avvicinamento alla verità con le categoria della totalità, la rinuncia alla verità è rinuncia all’umanità. L’umanità, se abdica alla verità, si limita a vivere nella pochezza dei giorni, soddisfa desideri immediati, è travolta dalle circostanze a cui non riesce a dare il senso. In assenza di verità, tutto è possibile, tutto è ammesso. La verità come problema è assunzione di consapevolezza e responsabilità di una sfida necessaria per umanizzarsi nella dialettica, nell’argomentare logico ed intuitivo. La verità in quanto totalità è cogliere con lo sguardo della mente. Non gli enti nella loro malinconica separazione atomistica, ma nel loro sorreggersi l’un l’altro, nel loro ritrovarsi in relazione al tutto che li accoglie per svelare l’eterno nella storia. La Filosofia unisce dove la scienza separa:
«Intendo per Universo tutto quanto è. Ciò significa che al filosofo non interessa ognuna di quelle cose che esistono per sé, nella loro esistenza particolare diciamo privata, ma invece gli interessa la totalità di quanto esiste e, conseguentemente, di ciascuna cosa che è di fronte o accanto alle altre, la sua posizione, il suo aspetto e rango nell’insieme di tutte le cose: diciamo pure la vita pubblica di ogni cosa, ciò che si rappresenta e vale nella superiore dimensione pubblica della coesistenza di tutti gli esseri».[5]
Verità relazione La verità è dunque nella relazione. Ogni ente non vive la condizione dell’abbandono atomistico, ma la sua verità è la relazione con il suo contesto. Nella ricerca della verità l’essere si scopre come comunità, vive in modo consapevole la prassi della verità, il reale è razionale nella relazione veritativa, e l’essere umano è parte di tale realtà relazione, le dà voce, e dunque diviene creatore di comunità fondate nella verità dialogica con se stesso e la comunità. La scienza circoscrive l’oggetto, lo soppesa, lo isola, lo approfondisce in una solitaria attività d’indagine, perché separata dalla relazione con la vita. La Filosofia non nell’esattezza, ma nella vita, scopre la verità. Ogni astrazione dal tutto è astrarre linfa dalla vita, è un’esperienza che uccide per misurare. La verità della Filosofia è l’universale concreto:
«Che cos’è la vita? Non cercate lontano, non si tratta di ricordare conoscenze apprese. Le verità fondamentali devono essere sempre a portata di mano: solo in questo modo possono essere fondamentali. […] Vita è ciò che siamo e ciò che facciamo: è inoltre, fra tutte le cose, la più vicina a ciascuna».[6]
La Filosofia contro l’inerte Vivere è dunque comprendersi, intuirsi, disporsi in quanto parte di un tutto, ma specialmente vivere in perenne relazione con il tutto. I nemici della Filosofia sono palesi nel loro intento: favorire l’inerte sulla vita, la separazione sulla totalità, la quantificazione sulla qualità. Senza il contatto con la vita non vi è dialettica, il logos si frantuma in scientismo integralista negando se stesso. L’epoca della negazione dell’umano è negazione del logos, dell’unità che integra le differenze ponendo le condizioni dell’incontro. Il logos come razionalità del controllo, del dividere per definire, stimolare e manipolare è solo razionalità calcolante senza la sostanza vitale della parola che approssima i dialoganti senza coincidenze, in quanto la prassi della parola senza sovrapposizione è la contraddizione vitale che permette il dialogo eterno nella comunità. I nemici della Filosofia, del logos sono i detrattori della vita, la vorrebbero chiudere in categorie, consegnarla alla fine della storia per eternizzare un presente senza futuro e senza passato. Tra i nemici della Filosofia, vi sono i Filosofi analitici, coloro che riducono la Filosofia a pura imitazione dei metodi scientifici. Solo l’abituale relazione con la vita conduce alla domanda che scompagina le naturalizzazioni, gli stereotipi e gli universali sclerotizzati nella loro liturgia. Vivere è relazione con sé, il conoscersi per aprirsi al mondo con le nostre domande, con le nostre terribili aporie, anch’esse verità del nostro esserci:
«“Incontrarsi”, “informarsi di sé”, “essere trasparente” è la prima categoria della nostra vita, e, ancora una volta, non si dimentichi che a questo punto il sé non è solo il soggetto ma anche il mondo. Prendo coscienza di me nel mondo, di me e del mondo, questo è, in modo immediato, “vivere”».[7]
Fuga dall’agorà Dunque siamo nel mondo, relazione con il mondo da ciò non può che conseguire il nostro impegno nel mondo. La fuga dal mondo, dal pubblico, per il privato godereccio, è “ideologicamente” voluto, organizzato. La pressione economica e scientifica sulle esistenze ha dunque una verità che la Filosofia può svelare: la separazione dell’io dal mondo, la fuga dall’agorà per consentire il trionfo scientista e finanziario. La responsabilità della Filosofia è nel testimoniare l’impegno per la qualità della vita. Vita e pensiero sono sincronici, la vita è trasformazione, prassi, solo se c’è pensiero; affinché ciò possa essere è necessario ristabilire l’universale, ovvero la relazione tra l’in sé ed il per sé:
«Né certamente il pensare è anteriore al vivere, poiché il pensare vede se stesso come parte della mia vita, come un suo atto particolare».[8]
Vivere è attività in cui il presente ed il passato sono forme plastiche per il futuro. Lo scientismo economico, il regno animale dello spirito con la logica della sola produzione è assenza della dimensione del futuro. Dove regna la separazione e la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile, nell’attimo senza prospettiva, nell’offesa alla dignità dell’essere umano divenuto sempre più mezzo, e sempre meno soggetto di relazione.
Salvatore Bravo
[1] José Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia?, Marietti, Torino1973, p. 38.
[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2010, p. 48.
[3] Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987, pp. 80-81.
Nota critica a Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018 [da qui in avanti abbreviato in MI]; Mario Vegetti, Scritti sulla medicina galenica, Petite Plaisance, Pistoia 2018 [da qui in avanti abbreviato in MG]. Le abbreviazioni delle opere di Ippocrate e Galeno seguono le convenzioni stabilite nei repertori bibliografici curati da G. Fichtner e successivamente ampliati per il Corpus Medicorum Graecorum (consultabili online: http://cmg.bbaw.de [02.10.2019]). In entrambi i casi saranno segnalati, per brevità, esclusivamente gli estremi delle edizioni del CMG (se presenti) e delle rispettive edizioni di riferimento (per Ippocrate: E. Littré, OEuvres complètes d’Hippocrate, 10 voll., Bailliere, Paris-London 1839-1861; per Galeno: C.G. Kühn, Claudii Galeni Opera Omnia, 20 voll., Cnobloch, Leipzig 1819-1833).
Qui sotto si può scaricare sia l’estratto pubblicato in Syzetesis, sia il nuovo impaginato in PDF
Impresa editoriale e redazionale di proporzioni considerevoli, la raccolta degli scritti di Mario Vegetti (1937-2018) sulla medicina ippocratica e galenica, recentemente apparsa in due tomi (circa 900 pagine in tutto) per i tipi della pistoiese Petite Plaisance, consente un accesso sinottico ai risultati di un lavoro pluridecennale. Ciascuno dei contributi, disposti in successione diacronica, è testimone della temperie in cui origina e quindi tassello di un percorso per svariate ragioni impervio, che comincia a metà degli anni ’60 come esplorazione di un terreno affatto o marginalmente frequentato da filosofi e antichisti – i testi di tradizione ippocratica1 – per poi svilupparsi in parallelo al sempre crescente interesse per la storia del pensiero medico e scientifico greco2 fino alla pubblicazione, ancora in tempi recentissimi, degli studi sul cosiddetto “nuovo Galeno”.3 Profondamente convinto della storicità della scienza quale carattere essenziale che oltre a renderne comprensibile l’andamento non lineare ne giustifica, anzi ne rende imprescindibile, l’indagine filologica, Vegetti raccoglie consapevolmente il lascito metodologico del maestro Ludovico Geymonat4 e lo adopera in un recupero paziente, tra i documenti eterogenei e discontinui della tradizione testuale, (1) dei presupposti epistemologici della τέχνη ἰατρική dai suoi albori all’“enciclopedia” galenica, (2) della sua posizione nel contesto sociopolitico, (3) del suo rapporto con la filosofia. Sono questi, come credo, i temi portanti di un’attività di ricerca che si dipana con prudenza e senza mai cedere a preconcetti ma rimane pur sempre fedele alle sue questioni di fondo: in ragione di quali princìpi la medicina greca può legittimarsi, di epoca in epoca, come scienza? Come si configura il suo rapporto d’interdipendenza con il corpo sociale e con le dinamiche politiche? In cosa si differenzia il sapere del medico da quello, “concorrente”,5 del filosofo? C’è una storia affascinante – una narrative, si direbbe oltremanica – a tenere insieme queste domande, una storia che dalla Ionia dei Presocratici ci porta alla Roma imprevedibile e perduta di Galeno.
I. Dalla “rivoluzione” ippocratica alla sistematizzazione galenica
Per Vegetti, la φυσιολογία ionica e italica e l’ontologia eleatica da un lato, la medicina cnidia dall’altro rispondono, per strade diverse, al medesimo principio: l’identità tra λόγος ed ἐμπειρία, tra soggetto e oggetto dell’indagine scientifica: se la ragione ultima della realtà esperita, la sua αρχή (che sia unica o molteplice), è immanente alla realtà stessa, l’intervento dello scienziato sarà di necessità limitato a “vigilare” sulla natura che disvela il suo principio con l’immediatezza della via analogica.6 La svolta giunge con Anassagora, che introduce il νοῦς come istanza razionale distinta da una φύσις costituita di parti omeomere;7 sul versante tecnico è Alcmeone di Crotone a segnare il limite tra natura come agente esterno e individuo come organismo che reagisce a stimoli ad esso eterogenei.8 La via alla “rivoluzione” del metodo ippocratico è ora aperta. Tentare anche soltanto di tracciare i contorni di un’identità autoriale nel caso di Ippocrate è impresa cui Vegetti rinuncia con consapevolezza critica, preferendo sostituire ad un nome, nel senso se non nell’uso, la più cauta – ma non per questo meno feconda – nozione di «pensiero ippocratico» e alla ricerca ad ogni costo di un «profilo d’autore» lo sforzo di indagare, piuttosto, le condizioni di possibilità di quel pensiero.9 Lucido manifesto dell’attitudine ippocratica in merito ai fondamenti della scienza medica è senz’altro il trattato Περὶ ρχαίης ἰητρικῆς (De vetere medicina), primo testimone di una medicina conscia sui che dalla filosofia intende programmaticamente distinguersi:10 è Empedocle il principale avversario, attaccato ὀνομαστί (Vet. Med. 20 [CMG I 1 p. 51 = vol. 1 p. 621-622 Littré]) e colpevole di “lasciar ricadere nella filosofia” una ricerca, quella sulla natura dell’uomo, che ha senso soltanto se subordinata alla dietetica e quindi alla terapeutica.11 All’ipotesi delle “ρχαί-elementi si oppongono, nel De vetere medicina, una vocazione fortemente empirica e con essa una ferma coscienza dei limiti della τέχνη.12 La crisi di tale metodo (cfr. infra, § 2) è tangibile già nell’opera del Corpus che più delle altre l’opinione comune, sotto l’influsso della rilettura galenica, erroneamente collega al pensiero di Ippocrate: il Περὶ φύσιος νθρώπου (De natura hominis) composto da Polibo, in cui si legge la prima e più importante formulazione della teoria umorale (Nat. Hom. 4-5 [CMG I 1, 3 p. 172-178 = vol. 6 p. 40-43 Littré]): per Vegetti, l’ipotesi dei quattro fluidi non è che una concessione, anzi un regresso, al sistema metafisico di Empedocle. Non se ne discosterà Platone, che nel Timeo assegna alle quattro figure semplici il ruolo di στοιχεῖα,13 e a Platone e al De natura hominis tornerà a sua volta Galeno, contemperandoli l’uno con l’altro, con l’intento di (ri)fondare un ippocratismo in fin dei conti “virtuale”, che nasce sotto il suo calamo per poi imporsi senza rivali fin oltre le soglie del Moderno.14 Nella ricostruzione di Vegetti, che ricorre sovente e con appassionata militanza agli strumenti dell’analisi materialistico-dialettica, la storia del pensiero non è mai scissa dai rivolgimenti della storia politica e istituzionale. La compenetrazione arcaica di ragione ed esperienza trova posto entro le coordinate di regimi eterodiretti come il dominio persiano, la tirannide, l’aristocrazia:15 è il tempio nella sua sacralità atemporale, lontana dalle attività del quotidiano, il luogo simbolico in cui alberga un sapere che non necessita di legittimazione.16 Teatro della riforma anassagorea, e quindi della nuova razionalità ippocratica, è invece la πόλις democratica ateniese17 con la piazza pubblica (“γορά) in cui sono attivi gli esponenti delle τέχναι, i δημιουργοί (il fabbro, il commerciante, il medico stesso): un gruppo di professionisti accomunato dall’esercizio di un’arte che incide consapevolmente sulla natura e sul suo ordine divino ma è impossibilitata, per ragioni strutturali (non in ultimo un assetto economico comunque saldamente basato sulla proprietà terriera), a costituirsi come «forza sociale» trainante.18 In tale contesto, la peste del 430 a.C. porrà il medico dinanzi all’incapacità di comprendere e arginare il male ma favorirà, d’altro canto (cfr. infra, § 2), l’elaborazione di un modello di medicina profondamente (e positivamente) consapevole dei suoi limiti.19 Il declino progressivo dell’esperienza democratica coincide con il già visto ritorno al paradigma dogmatico-elementale che è presupposto della teoria umorale del De natura hominis.20 Il sapere si disloca ora nei confini o della scuola veritativa della tradizione sapienziale arcaica e l’esigenza di un apparato retorico-argomentativo espressa dalla πόλις (è il programma platonico),21 oppure in quelli della corte, che, se offre alla scienza un’istituzione, di fatto ne neutralizza il potere ideologico.22 Recuperare alla scienza, e quindi alla medicina razionale, un ruolo egemonico nella società in cui e per cui offre il suo servizio, sanandola dalla decadenza culturale in cui versa, sarà l’ambizioso (e solo in parte compiuto) programma di Galeno (cfr. infra, § 3):23 è senza dubbio vero che non vi fu mai effettiva opposizione o, tanto meno, concorrenza tra la ἰατρική religiosa del santuario, quella di Asclepio, e quella empirica del medico di tradizione ippocratica, né in origine né per lo stesso Galeno;24 nondimeno, è forte in lui l’intento di contrastare, contrapponendovi una medicina di alto profilo intellettuale, una diffusione di tendenze irrazionalistiche tra le fila dell’aristocrazia romana, suo principale bacino di clientela.25
II. Epistemologia
Al nucleo ippocratico originario (seconda metà del V a.C.) Vegetti riconduce, attorno al cardine metodologico rappresentato dal Περὶ “ρχαίης ἰητρικῆς, oltre ai trattati chirurgici sulle ferite traumatiche, il Περὶ διαίτης ὀξέων (De victu in acutis), sulla dietetica, il Προγνωστικόν (Prognosticon), sui segni utili alla prognosi, i libri I e III degli Ἐπιδημιῶν, con le loro storie cliniche, il Περὶ έρων, ὑδάτων, τόπων (De aëre, aquis, locis), sulle precondizioni geoclimatiche di complessioni fisiche e stati morbosi, il Περὶ ἱηρῆς νούσου (De morbo sacro), lettura in termini laici del male epilettico, volgarmente ritenuto di origine divina.26 Considerate quale gruppo coerente, queste opere sviluppano ciascuna un aspetto centrale della medicina cosiddetta ippocratica: dal regime come via regia alla ricostituzione e alla preservazione della salute (ὑγίεια) alla previsione prognostica come strumento di cura, ma anche di legittimazione e tutela professionale; dalla raccolta d’informazioni sull’eziologia e sul decorso patologico ad uso personale e a beneficio dell’arte all’istanza di razionalizzazione che sottrae al mistero religioso il dominio delle cause. E proprio alla questione dell’αἰτία e della sua collocazione in termini logico-epistemologici risponde, col suo netto rifiuto del modello dei φυσιoλόγοι, il De vetere medicina. Vegetti ne descrive la portata teorica come un «dislocamento della spiegazione naturalistica dalle cause prime alle cause seconde»:27 se l’immanentismo ionico-siceliota riconosce in “ρχαί astratte le ragioni ultime dei fenomeni (e quindi anche dei fenomeni fisio-patologici), la nuova scienza ippocratica, “slittando” di un livello, si ancora all’empiria e cerca nei fenomeni stessi cause/concause (αἰτίαι) e fattori scatenanti (προφάσεις) di una possibile alterazione dello stato naturale.28 La nuova eziologia è conseguenza diretta dell’affrancamento dell’ἐμπειρία dal λόγος inaugurato da Alcmeone e Anassagora (cfr. supra, § 1): non più un principio logico-ontologico che informa e spiega dall’interno i dati d’esperienza, bensì un’esperienza che, nella sua autonomia, viene corroborata (e all’occorrenza corretta) dal ragionamento adatto, ossia non-contraddittorio (λόγισμὸς προσήκων).29 Il nuovo paradigma del De vetere medicina è quindi quello “debole” di una scienza imperfetta ma perfettibile, non statica (come invece pare descriverla, sotto l’influsso eleatico, l’autore del Περὶ τέχνης)30 perché impensabile senza la storia in cui si sviluppa.31 L’errore, l’aporia, il fallimento sono possibilità concrete cui la medicina non può sottrarsi e, nel contempo, opportunità di progresso.32 L’esattezza della prognosi non può più confidare nell’indistinzione dell’analogia, che riconosce l’“ρχή ovunque essa si riveli, ma necessita di un sistema di segni che preludano, con un grado accettabile di prevedibilità, a un’evoluzione della malattia in un senso determinato: di qui l’elaborazione di un metodo semeiotico, che trasformi la φύσις come semplice dato in σημεῖον dell’ignoto. La rivoluzione epistemologica del De vetere medicina non trova seguito perché non riesce a dar conto dei suoi princìpi in un contesto altro dalla pratica clinica, laddove la mancanza di una fissazione teorica ne limita fortemente la comprensibilità e quindi la trasmissibilità.33 A “restaurazione” oramai avvenuta, sarà Galeno ad assolvere al compito di fornire al suo personale ippocratismo l’armatura teorica di cui esso necessitava. La costituzione di una medicina come scienza unificata, sottratta all’arbitrio delle dispute settarie e basata, ad un tempo, su di un metodo oggettivo e sull’avallo di un’autorevole tradizione è il progetto che Galeno persegue per una vita intera, dalla giovanile frequentazione delle scuole filosofiche nella sua Pergamo al bilancio disincantato del Περὶ τῶν ἑαυτῷ δοκούντων (De propriis placitis).34 L’idea di una medicina “trans-istituzionale”35 nasce da un meticoloso confronto critico con le tre αἱρέσεις da Galeno stesso ricostruite e descritte: la dogmatica, l’empirica, la metodica. Tenuta ferma l’inservibilità dei princìpi dei metodici, accoliti di un atomismo antiprovvidenzialista ed esponenti di una versione pericolosamente semplificata della τέχνη (cfr. infra, § 3), l’opzione è per una sinergia virtuosa tra lo spirito di sistema dei dogmatici e la pratica osservativa degli empirici, di cui né l’uno né l’altra può sussistere in autonomia.36 La medicina rifondata comprende quindi (1) una base filosofica rappresentata da una teoria degli elementi di origine aristotelica fusa insieme con la fisiopatologia umorale e da un teleologismo forte, benché non privo di punti incerti (soprattutto nella definizione delle δυνάμεις φυσικαί e nella pratica terapeutica, cfr. infra, § 4);37 (2) un’anatomo-fisiologia che recepisce criticamente la ricerca alessandrina ed è prova del finalismo che governa la struttura e il funzionamento del corpo; (3) una teoria della cura (allopatia, dietetica)38 e un’etica medica (φιλανθρωπία) allineate a un ippocratismo ricostituito ad hoc. Il metodo scientifico che Galeno propugna è evidentemente debitore al De vetere medicina: criteri di verità sono la correttezza dei procedimenti logici (nella forma del sillogismo aristotelico)39 e l’osservazione empirica;40 la struttura di questo sapere dovrà conformarsi alle matematiche, che progrediscono nel tempo per teoremi e confutazioni di teoremi, senza perdersi nell’indecidibilità delle dispute di parte.41 A tale paradigma si contrappone (intenzionalmente?) negli stessi anni, secondo una suggestiva tesi di Vegetti, l’“antienciclopedia” scettica di Sesto Empirico.42 Ma non è soltanto l’oggettività del metodo a garantire saldezza al nuovo edificio teorico: l’appello alla tradizione gioca un ruolo non trascurabile di Beglaubigungsapparat. Il recupero dei frammenti “utili” di questa tradizione avviene attraverso la via della filologia: Galeno riesamina le fonti, filosofiche e mediche, individuandovi modelli veritieri secondo il doppio criterio appena visto (accanto a Ippocrate ci sono Platone, Posidonio, Erofilo ed Erasistrato). La forma prediletta è quella del commentario;43 gli strumenti critico-letterari, quelli propri della filologia alessandrina (collazione, cronologia interna, varianza linguistica):44 l’una e gli altri consentono a Galeno di dispiegare un’ermeneutica che è insieme ricostruzione e (soprattutto) costruzione di quelli che Vegetti chiama «segmenti di tradizioni».45 La compatibilità reciproca di dottrine eterogenee, se è assicurata in potenza dalla loro conformità al vero, trova dimostrazione pratica nella traducibilità dei loro diversi linguaggi,46 magistralmente esemplificata dal tentativo di sovrapporre, con opportuni aggiustamenti, la teoria umorale alla teoria platonica degli elementi (Timeo), da un lato, e a quella aristotelica delle δυνάμεις primarie (fluido, solido, caldo, freddo), dall’altro.47 La tradizione scientifico-filosofica non è esente da errori. Sia Platone sia Aristotele devono essere sottoposti a rettifica prima di essere incorporati nel sistema, e la causa è imputabile per lo più – così Galeno – alla loro (giustificabile) imperizia anatomica: Platone ha erroneamente attribuito alle vene e al sangue la conduzione dello pneuma psichico (MG, 325), Aristotele è stato fautore della falsa dottrina cardiocentrica (MG, 73). Dove Ippocrate «sbaglia», Galeno espunge o tace; dove Ippocrate tace, Galeno ne (ri)costruisce teorie in realtà prive di attestazioni esplicite, come nel caso della ricomposizione di una dottrina ippocratica degli elementi nel Περὶ τῶν κατ’ Ἱπποκράτην στοιχείων (De elementis secundum Hippocratem).48 È questo un modo di esercitare quel προσθῆναι, quell’«aggiunta» al sapere dei παλαιοί che, secondo il medico di Pergamo, rappresenta il motore del progresso della scienza.49 E a ragion veduta parla Vegetti di “segmenti” di tradizione, giacché il recupero della tradizione è, in fondo, una selezione oculata di ciò che sopravvive al vaglio severo della sillogistica scientifica e della prova empirica; tutto il resto (vi rientrano la cosmologia, la teologia speculativa [qualità ed essenza del divino], la psicologia filosofica [immortalità dell’anima]) “decade” al rango del πιθανόν, è retorica utile, se mai, a corroborare la verità, ma non a dimostrarla.50
III. Medicina e società
L’esercizio della medicina, oggi come in antico, non può prescindere dai destini degli uomini e dalle loro esigenze, e in quanto individui e in quanto membri di un corpo sociale.51 Alla definizione della posizione del ἰητήρ/ἰατρός nei diversi contesti sociopolitici di Grecia e di Roma Vegetti riserva ampio spazio, con l’intento di tracciare i modi dell’interazione non sempre armonica tra il professionista e le strutture ideologiche, culturali e istituzionali in cui si trova a operare. Il medico greco nasce come un privato che pone al servizio di chi ne necessiti l’arte che ha appreso all’interno dell’ambiente di famiglia:52 istituzionalmente solo, non gode di altra legittimazione che non sia la discendenza o la δόξα acquisita sul campo. A partire dal V secolo almeno, un riconoscimento ufficiale emerge occasionalmente con l’istituzione di figure (individuali, del resto) come il «medico pubblico» (δημόσιος ἰατρός), poi del «medico di corte» (“ρχιατρός) ellenistico, ed è solo in età imperiale che si scorgono segnali di un inquadramento della categoria professionale mediante provvedimenti statali quali l’esenzione fiscale;53 ciononostante, l’aspetto fondamentale della «solitudine»54 non abbandona mai – è la tesi di Vegetti – l’attività del medico antico, chiamato a giustificare e differenziare da una concorrenza di potenziali impostori, attraverso il suo solo operato, la τέχνη che professa.55 Per il medico ippocratico la dimensione politica sembra acquistare rilevanza non tanto come orizzonte entro cui esercitare o, meno ancora, legittimare la professione, quanto piuttosto come concausa di caratteristiche determinate in popolazioni diverse. Vegetti ravvisa, in particolare nel De aëre, una sorta di “determinismo politico”, per cui la forma di governo non soltanto incide sul carattere degli uomini, rendendoli più o meno predisposti al lavoro intellettuale, alle tecniche, al combattimento, ma anche corregge, se necessario, gli influssi ambientali.56 L’ovvietà del prestigio sociale che spetta oggi al medico e alla sua competenza non ha paralleli nell’Antichità. Ancora nei primi secoli dell’età imperiale, Galeno dovrà riscrivere i fondamenti della disciplina e ideare un complesso programma di rifondazione culturale della figura del ἰατρός per riscattare entrambe dal rango della semplice δημιουργία (il mestiere dell’artigiano). Attraverso la sua stessa biografia (o meglio, attraverso l’autobiografia che trasferisce il vissuto sul piano della rappresentazione letteraria), Galeno costruisce il personaggio, di matrice ippocratica, di un medicus gratiosus, filantropo per vocazione e disinteressato a fama e onori, filosofo e intellettuale in grado di ascoltare e comprendere la società del suo tempo e influire su di essa positivamente.57 Essenziale a tale intento è l’opera di divulgazione che egli intraprende, coerentemente sostenuta dalla scelta di un linguaggio che, rifuggendo il tecnicismo, sappia rivolgersi a categorie di lettori istruiti ma estranei alla pratica clinica: è il pubblico di quei τεχνίται colti in cui si rispecchia neppure troppo velatamente il ricordo del padre Nikon, architetto e uomo di scienza il cui ruolo fu determinante nell’educazione che Galeno ricevette in gioventù.58 Esempi diversi di uno stesso sforzo comunicativo sono opere di storiografia filosofica come il Περὶ τῶν Ἱπποκράτους καὶ Πλάτωνος δογμάτων (De placitis Hippocratis et Platonis) sulla questione psicologica dell’egemonico, ma anche testi su temi propriamente medici calibrati per un uditorio di profani, come quelli raggruppati da Galeno stesso sotto la dicitura Τοῖς εἰσαγομένοις (A coloro che ricevono una prima introduzione).59 L’“enciclopedia” scientifica (cfr. supra, § 2) che Galeno promuove dev’essere argine alla decadenza morale e culturale della società di cui egli è testimone soprattutto durante gli anni romani e i cui vizi si riflettono in un ritratto al rovescio del medico ideale: Tessalo di Tralles (I d.C.), esponente di spicco della scuola metodica. Ambizioso e dedito al guadagno, questo perfetto «antigaleno» è riuscito a interpretare e sfruttare per il proprio tornaconto le debolezze di una società che andava, piuttosto, pazientemente rieducata.60 Affidarsi al pressappochismo dei Metodici, che pretendevano d’insegnare in sei mesi l’arte medica e professavano una semplificazione estrema degli stati morbosi (secondo la dilatazione dei «passaggi» [πόροι] in cui si muovono le particelle costituenti la materia [ὄγκοι]: stato «stretto», στένωσις, stato «lasso», ῥύσις, e stato «misto») e delle relative ἐνδείξεις («indicazioni») terapeutiche,61 significa, infatti, cedere all’errore di un mondo senza senso, quello prospettato dall’antiprovvidenzialismo di un Asclepiade (I a.C.) e dei rappresentanti dell’atomismo, Democrito ed Epicuro. Al polo opposto sta il rischio dell’irrazionalismo (cfr. supra, § 2 e n. 24) fomentato dal monoteismo mosaico e protocristiano, in cui il mondo è sì governato da un dio, ma contemporaneamente in tutto esposto al suo imprevedibile arbitrio.62 L’intuizione dei Metodici sta nell’aver saputo uniformare i trattamenti terapeutici alla fiacchezza morale della società contemporanea. La scelta delle strategie di cura è essenziale, tanto quanto l’attendibilità della prognosi e, nel caso ideale, la guarigione finale, alla costruzione di una buona reputazione e all’ottenimento del favore del paziente e l’etica ippocratica prevede notoriamente l’instaurazione di un’“alleanza” tra medico e malato contro la malattia che è nemico comune;63ma la ritrosia ad affidarsi a cure eccessivamente invasive, estenuanti o, peggio, dolorose induce alcuni clinici a proporre, per piaggeria più che per coscienza, terapie basate su pratiche “gentili”, che richiedano poco o nessuno sforzo.64 Una tendenza analoga critica Platone nel libro III della Repubblica (405d), in cui dei κομψοὶ Ἀσκληπιάδαι (Vegetti vi riconosce il profilo di Erodico di Selimbria, fautore di una terapeutica «attendista»)65sono accusati di “nutrire” piuttosto che curare le malattie (νοσοτροφία, 407b), col risultato di contribuire alla τρυφή e alla πλησμονή di uno Stato moralmente malsano, alla stregua di un corpo fuori esercizio.66 L’alternativa è, per Platone, una medicina fortemente «politicizzata» (MI, p. 247), che metta da parte una dietetica inefficace per ritornare a pratiche assai più drastiche e immediate come la somministrazione di farmaci catartici, l’incisione e la cauterizzazione. La terapia dovrà interessare miratamente affezioni ben determinate (MI, p. 244).67 Obiettivo è formare cittadini pronti a sopportare la fatica del lavoro e del combattimento: chiunque si riveli inadeguato al compito perché fisicamente o moralmente inservibile alla società va escluso e, se necessario, abbandonato al suo destino o condannato a morire.68 Vedremo subito in che termini Vegetti descriva la ripresa, da parte di Galeno, del problema della rilevanza politico-morale della malattia soprattutto psichica, suggerendo una sostanziale inversione di ruoli tra medico e filosofo.
IV. Medicina e filosofia
Si è già detto all’inizio (supra, § 1) secondo quali direttive la scienza ippocratica entri in dialogo (e spesso in polemica) con le filosofie del VI-V sec. a.C.: in opposizione ferma ad ogni ipostatizzazione o del λόγος o dell’ἐμπειρία, la medicina del Περὶ αρχαίης ἰητρικῆς rifiuta la metafisica elementale di Empedocle, la staticità dell’εἶναι eleatico, ma anche l’empirismo assoluto di certa sofistica gorgiana.69 La τέχνη nascente ha bisogno di definirsi, di distinguere campi di appartenenza.70 Il filosofo puro non ha nulla da insegnare al medico pratico, la natura dell’uomo non si palesa a chi cerchi le αρχαί ma all’osservazione sostenuta dal corretto ragionamento. Commette, quindi, un errore storiografico chi attribuisca all’ippocratismo originario (ossia non identificato con la più tarda – e più «filosoficamente compromessa» – patologia umorale), una forma di teleologia ricondotta alla massima νούσων φύσιες ἰητροί (Epid., 6 5, 1 [vol. 5 p. 314 Littré]), per lo più nota nella versione latina vis medicatrix naturae:71 vi si può identificare al limite, secondo Vegetti, di un’«inerzialità» della natura, che tende a ripristinare un equilibrio della cui precarietà il medico è ben consapevole.72 Di teleologia si può – si deve – parlare nel caso di Galeno, una teleologia debitrice e critica allo stesso tempo verso il finalismo di Aristotele e dello Stoicismo e di certa derivazione platonica (il referente primario è la teoria del Demiurgo esposta nel Timeo).73 Due testi in particolare veicolano l’idea galenica di una φύσις che non opera mai κατὰ τύχην (trova qui posto la polemica indefessa all’indirizzo del meccanicismoatomistico), ma sempre secondo uno scopo determinato: il Περὶ δυνάμεων φυσικῶν (De naturalibus facultatibus) e il monumentale Περὶ χρείας μορίων (De usu partium). Nel primo, del resto centrale per l’intera fisiologia, è esposta la dottrina, di chiaro stampo aristotelico, delle facoltà naturali,74 intese alla stregua di un «codice» iscritto negli organi semplici che permette a ciascuno di essi di esercitare la sua funzione specifica.75 L’idea è, in realtà, empiricamente indimostrabile: Vegetti ci mostra un Galeno intellettualmente onesto, conscio del fatto che la sua proposta non è che un’ipotesi, pur essenziale, per spiegare in termini finalistici fenomeni dall’eziologia altrimenti oscura: μέχρι γ’ αγνοῶμεν τὴν οὐσίαν τῆς ἐνεργούσης αἰτίας, δύναμιν αὐτὴν ὀνομάζομεν.76 Il secondo testo, definito «un enorme commento al De partibus animalium» di Aristotele,77 intende dimostrare il fine proprio di ciascuna delle strutture anatomiche che costituiscono il corpo umano. L’impostazione è marcatamente sistematica e mira a fornire un’esposizione esaustiva, capillare: è il modo in cui Galeno supera e “corregge” la teleologia di Aristotele, che ancora mostrava zone opache all’operato della causa finale per la mancanza di un’adeguata conoscenza dell’anatomia (Vegetti menziona spesso l’interpretazione aristotelica della crescita dei peli come esempio di una non-incidenza del τέλος-forma su alcuni processi biologici).78 L’ancoraggio dell’idea di una φύσις provvidenziale alla figura platonica del Demiurgo rende, di fatto, la teleologia galenica una vera e propria teologia immanentistica, in grado di controbattere alla concezione neoplatonica e gnostica di una materia come privazione d’essere – in tutto obbediente al piano della φύσις, la materia non oppone alla forma resistenza alcuna.79 La fiducia in un ordine prestabilito si fa, tuttavia, assai più sommessa man mano che si discende dal piano sopraindividuale a quello del singolo. Galeno non crede, come parte della tradizione stoica, in un’anima naturalmente razionale: più vicino agli sforzi di mediazione di un Posidonio, egli non esclude la possibilità che esista «un principio di malvagità innato nell’uomo», ossia la possibilità di una sostanziale disfunzione psichica.80 E il corpo (che con la psiche è in rapporto d’interdipendenza) è una macchina, se pure mirabile dal punto di vista anatomico, costitutivamente esposta alla malattia: è il motivo per cui la materia, anche nella sua fragilità, non può essere portatrice, come vorrebbero certe metafisiche contemporanee a Galeno, di una deficienza ontologica, bensì è reale tanto quanto gli apparati del corpo in teoria destinati inderogabilmente ad assolvere a una funzione specifica.81 Il versante clinico-terapeutico della produzione galenica mostra dunque un profilo assai meno ottimistico dell’arte, in cui il medico non disvela meravigliosi e perfetti congegni ma s’impegna, su base stocastica – quindi senza la certezza del successo – a riparare ciò che ha perduto la sua funzionalità originaria.82 La distanza dall’atteggiamento di “umiltà epistemologica” del medico ippocratico è qui minima. Se la prospettiva provvidenzialistica è in fondo una sorta di “prestito” che, attraverso la rilettura di Galeno, dalla filosofia passa alla medicina senza per questo causare sostanziali travalicamenti dei rispettivi campi di competenza, diverso è il destino di un altro nodo teorico tradizionalmente demandato alle cure della speculazione filosofica: il rapporto tra σῶμα e ψυχή. L’intero volume sulla medicina galenica è attraversato da una questione che a Vegetti è stata particolarmente a cuore: la psicopatologia ed il suo ruolo nella questione della responsabilità morale.83 Come nel caso della teleologia, anche la teoria psicopatologica di Galeno si lega ad un’opera specifica, il trattato dal titolo Ὅτι ταῖς τοῦ σώματος κράσεσιν αἱ τῆς ψυχῆς δυνάμεις ἕπονται (Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur). Punto di partenza è la dottrina platonica dell’anima tripartita esposta nella Repubblica e nel Timeo.84 La prima offre a Galeno lo schema di base (parte razionale, emozionale, nutritiva)85 su cui innestare, sulla falsariga del più tardo dialogo, il collegamento con le rispettive parti organiche, nell’ordine: cervello e diramazioni nervose (νεῦρα), cuore e vasi arteriosi (αρτηρίαι), fegato e vasi venosi (φλέβες).86 Le diverse facoltà dell’anima costituiscono, aristotelicamente, la forma-funzione dell’organo corrispondente, alla stregua della vista per l’occhio:87 come dalla condizione fisica dell’occhio deriva una vista migliore o peggiore, così dalla κρᾶσις umorale dell’organo corporeo conseguirà (ἕπεσθαι) una manifestazione, patologica o meno, a livello psichico.88 Le conseguenze filosofiche di questa forma di riduzionismo89 sono, fondamentalmente, due: (1) la revoca in dubbio dell’immortalità dell’anima razionale, il cui sussistere viene a dipendere dalle sorti del complesso anatomo-fisiologico dell’encefalo;90 (2.1) la deresponsabilizzazione della perversione morale, che dipende, in ultima istanza, da una condizione di discrasia chimica: deresponsabilizzazione che non significa, ciononostante, depenalizzazione, giacché l’individuo incurabile rimane nocivo al corpo sociale e va per questo, mediante pena capitale, affrancato dal suo male (cfr. Gal., QAM, 11 [vol. 4 pp. 814-816 Kühn]); (2.2) di conseguenza, la cura (e eventualmente il giudizio) dell’anima individuale diverrà competenza primaria del medico, non più del filosofo-educatore di memoria platonica:91 la medicina scalza la filosofia in uno dei suoi ambiti di pertinenza più peculiari.
V. Conclusioni
Che se ne condividano o meno determinati aspetti, l’impresa ermeneutica che Vegetti ha condotto nell’ultimo cinquantennio sui testi medici antichi offre una chiave interpretativa di eccezionale unità. Com’è proprio di ogni teoria scientifica euristicamente fertile, la sua ricerca rileva tendenze storiche e culturali macroscopiche e cionondimeno si dimostra efficace se applicata alla spiegazione di fenomeni singolari. È forse questo il lascito maggiore, e anche il maggiore carattere di originalità, degli scritti raccolti nei due volumi qui discussi. Credo sia difficile rintracciare, nella letteratura scientifica degli ultimi decenni, un tentativo altrettanto poderoso di comprendere in un discorso unico le ragioni epistemologiche, storico-sociali, filosofiche del pensiero medico antico e uno sforzo altrettanto coerente di ricondurle ad un numero minimo di ipotesi. Non minore è, del resto, il merito di aver mostrato, controcorrente rispetto ad un modello imperante di scienza medica che spesso declassa la sua stessa storia ad ausilio erudito, l’importanza dell’indagine sul passato, da un lato, per una comprensione della diacronia della scienza, che si definisce come sistema in movimento e suscettibile di sviluppo attraverso la confutazione e l’errore; dall’altro, per una corretta impostazione di problemi epistemologici e (bio)etici oggi quanto mai attuali, quali la posizione della medicina rispetto alle scienze dell’uomo e il suo compito educativo verso la società, il rapporto tra malattia psichica e responsabilità individuale, l’esigenza di una ricerca biomedica e di una pratica clinica disinteressate, che non disperdano le forze in gioco a favore di settarismi e interessi particolari, infine il ruolo del medico nel processo di cura, la natura del suo rapporto individuale con il paziente e le direttive morali che lo regolano.
Vincenzo Damiani
vincenzo.damiani@uni-ulm.de
Questo saggio è già stato pubblicato da: Syzetesis – Rivista di filosofia. Pubblicato da ΣΥΖΗΤΗΣΙΣ Associazione Filosofica – ISSN 1974-5044. Anno VI – 2019 (Nuova Serie) Fascicolo 2, pp. 519-535.
1 Cfr. M. Vegetti (ed.), Opere di Ippocrate, UTET, Torino 1965. 2 Cfr. M. Vegetti-D. Lanza (eds.), Opere biologiche di Aristotele, UTET, Torino, 1971; M. Vegetti-I. Garofalo (eds.), Opere scelte di Galeno, UTET, Torino 1978. 3MG, pp. 419-431; M. Vegetti (ed.), Galeno: Nuovi scritti autobiografici, Carocci, Roma 2013. Sui testi di Galeno ritrovati nel 2005 nel ms. Vlatadon 14, cfr. ora P.N. Singer, Note on MS Vlatadon 14: A Summary of the Main Findings and Problems, in C. Petit (ed.), Galen’s Treatise Περὶ λυπίας (De indolentia) in Context, Brill, Leiden-Boston 2019, pp. 10-37. 4 Cfr. S. Gastaldi, Ricordando Mario Vegetti, «Elenchos» 39/1 (2018), pp. 1-5, p. 1; cfr. L. Geymonat, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano 1977, p. 51. 5 Sul rapporto di “concorrenza” tra filosofia e medicina nel mondo antico, cfr. L. Edelstein, The Relation of Ancient Philosophy to Medicine, «Bulletin of the History of Medicine» 26 (1952), pp. 299-316 (rist. in: O. Temkin-L.C. Temkin [eds.], Ancient Medicine: Selected Papers of Ludwig Edelstein, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1967, pp. 349-366). 6 Cfr. MI, pp. 127-132; 160-163; 324-330. 7 59 B 12 DK = VI 25 D27 Laks/Most. Cfr. MI, pp. 165-168; 335-341. Sul rapporto tra Anassagora e il Corpus Hippocraticum, cfr. in part. MI, pp. 95-124. 8 24 A 5 DK = V 23 D11-19 Laks/Most. 9 Cfr. MI, pp. 375-387. Sulla cosiddetta questione ippocratica, cfr. E.M. Craik, The ‘Hippocratic Question’ and the Nature of the Hippocratic Corpus, in P.E. Pormann (ed.), The Cambridge Companion to Hippocrates, Cambridge University Press, Cambridge 2018, pp. 25-37. 10 Sul trattato cfr. M.J. Schiefsky (ed.), Hippocrates. On Ancient Medicine, Translated with Introduction and Commentary, Brill, Leiden-Boston 2005. 11 Cfr. MI, pp. 251-264; cfr. E.M. Craik, The ‘Hippocratic Corpus’. Content and Context, Routledge, London-New York 2014, p. 282, con riferimenti ulteriori. 12 Cfr. MI, pp. 30-37. 13 Plat., Tim., 54d-55c. 14 Cfr. MI, pp. 151-153; MG, p. 253. Sulla fortuna di Galeno cfr. ora P. Bouras-Vallianatos-B. Zipser (eds.), Brill’s Companion to the Reception of Galen, Brill, Leiden-Boston 2019. 15 Cfr. MI, pp. 163-164. 16 Cfr. MI, pp. 203-208. 17 Cfr. MI, pp. 164-168. 18 Cfr. MI, pp. 191-202. 19 Cfr. MI, pp. 199-200. 20 Cfr. MI, pp. 179-182. 21 Cfr. MI, pp. 208-210. 22 Cfr. MI, pp. 213-215. 23 Cfr. MG, pp. 15-19; 151-195. 24 Cfr. F. Steger, Asklepios: Medizin und Kult, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2016, pp. 64-65. 25 Cfr. MG, p. 155. 26 Cfr. MI, p. 384. 27MI, p. 142. 28 Palese l’influsso sull’eziologia storica tucididea (cfr. MI, pp. 144-145). 29Vet. med., 14 (CMG I 1 p. 45 = vol. 1 p. 601 Littré), cfr. MI, p. 135. 30 Cfr. MI, pp. 13-91. 31 Cfr. MI, pp. 51-52. 32 Cfr. Art., 47 (vol. 4 p. 212 Littré). Assai più ottimistica, al contrario, la visione espressa dal De arte – la medicina è infallibile all’interno del suo dominio, i cui limiti, pur non assoluti, sono φύσις e τύχη: cfr. MI, p. 61 – e, nonostante un’attenzione alle variabili individuali che è necessario considerare nella pratica terapeutica, dal Περὶ τόπων τῶν κατὰ ἄνθρωπον (De locis in homine), dove l’errore deriva, socraticamente, da un difetto di sapere: cfr. MI, pp. 120-121. 33 Cfr. MI, pp. 149-150. 34 Sul De propriis placitis cfr. supra, n. 3. 35 Sulla “trans-istituzionalità” della medicina galenica, cfr. V. Damiani, Protreptic and Medicine: Galen, in O. Alieva-A. Kotzé-S. Van der Meeren (eds.), When Wisdom Calls: Philosophical Protreptic in Antiquity, Brepols, Turnhout 2018, pp. 313-314. 36 Cfr. MG, pp. 155-173. 37 Cfr. MG, pp. 304-316. 38 Cfr. MG, p. 181. 39 Sulla sillogistica di Galeno si veda l’Εἰσαγωγὴ διαλεκτική – tradotta e commentata in J. Mau (ed.), Galen: Einführung in die Logik, Akademie-Verlag, Berlin, 1960 – con B. Morison, Logic, in R.J. Hankinson (ed.), The Cambridge Companion to Galen, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 66-115. 40 Cfr. MG, p. 273. 41 Cfr. Hipp., Vet. med., 2 (CMG I 1 p. 37 = vol. 1 p. 572 Littré): Ἰητρικῇ δὲ πάντα πάλαι ὑπάρχει, καὶ ρχὴ καὶ ὁδὸς εὑρημένη, καθ’ ἣν καὶ τὰ εὑρημένα πολλά τε καὶ καλῶς ἔχοντα εὕρηται ἐν πολλῷ χρόνῳ, καὶ τὰ λοιπὰ εὑρεθήσεται, ἤν τις ἱκανός τε ἐὼν καὶ τὰ εὑρημένα εἰδὼς, ἐκ τουτέων ὁρμώμενος ζητέῃ, con Gal., Pecc. Dign., 2 5 (CMG V 4,1,1 p. 59 = vol. 5 p. 86 Kühn): οὐδὲ γὰρ εὗρεν αὐτὰ βίος νδρὸς ἑνός, λλὰ κατὰ σμικρὸν προῆλθεν ἡ γραμμικὴ θεωρία πρῶτον μὲν τῶν στοιχειωδῶν ἐν αὐτῇ θεωρημάτων ζητηθέντων αὐτῇ, ὁπότε δ’ εὑρέθη ταῦτα, προσθέντων [αὐτῶν] αὐτοῖς τῶν ἐφεξῆς γενομένων “νδρῶν τὴν θαυμασιωτάτην θεωρίαν, ἣν ναλυτικὴν ἔφην ὀνομάζεσθαι. Cfr. MG, p. 176. 42 Cfr. MG, pp. 119-148. 43 Cfr. R. Flemming, Commentary, in R.J. Hankinson (ed.), The Cambridge Companion to Galen, cit., pp. 323-354. 44 Cfr. MG, pp. 68-70. 45MG, p. 70. 46 Cfr. MG, pp. 271-277. 47 Per Platone cfr. supra, n. 13; cfr. Aristot., PA, II 1, 564a. Cfr. MG, pp. 252-253. 48 Cfr. MG, pp. 80. 328. 49 Gal., UP, 14 5 (vol. 4 p. 157 Kühn). Cfr. MG, p. 86. 50 Cfr. MG, pp. 76-78; 133; 323. 51 Si veda a proposito I. Andorlini-A. Marcone, Medicina, medico e società nel mondo antico, Le Monnier, Firenze 2004, spec. pp. 164-182. 52 Da questo punto di vista, il Giuramento (Ὄρκος, Iusiurandum) dovrà essere letto come testimonianza relativamente tarda di un processo di aggregazione corporativa già avviato, in cui il legame di sangue tra maestro e discepolo non è più prerequisito esclusivo: cfr. C.-H. Leven, Ethics and Deontology, in P.E. Pormann (ed.), The Cambridge Companion to Hippocrates, cit., pp. 176-177; V. Nutton, Ancient Medicine, Routledge, London-New York 20132, p. 69. Cfr. MI, pp. 290-291; cfr. inoltre Gal., AA, 2 1 (vol. 2 p. 281 Kühn). 53 Cfr. I. Andorlini-A. Marcone, Medicina, medico e società, cit., pp. 164-174. Cfr. anche H.W. Pleket, The Social Status of Physicians in the Graeco-Roman World, in Ph.J. Van der Eijk-H.F.J. Horstmanshoff-P.H. Schrijvers (eds.), Ancient Medicine in Its Socio-Cultural Context, vol. 1, Rodopi, Amsterdam-Atlanta GA 1995, pp. 27-34; I. Mazzini, Letteratura e medicina nel mondo antico, Università La Sapienza, Roma 2011, pp. 19-37. 54 Solitudine che significa, tuttavia, nel rispetto del principio di non-maleficenza, anche libertà di azione e soprattutto di sperimentazione: cfr. MI, p. 308. 55 Cfr. MI, pp. 283-284. 56MI, pp. 223-227. 57 Cfr. MG, pp. 31-32. Sull’immagine della società romana riflessa nell’opera di Galeno cfr. H. Schlange-Schoningen, Die römische Gesellschaft bei Galen: Biographie und Sozialgeschichte, De Gruyter, Berlin-New York 2003. 58 Cfr. MG, pp. 11. 32-33. 59 Gal., Lib. prop., 1 1-2; 8 4 (ed. V. Boudon, Galien. Tome I. Introduction générale, Sur l’ordre de ses propres livres, Sur ses propres livres, Que l’excellent médecine est aussi philosophe, Les Belles Lettres, Paris 2007, pp. 136-137, 158-159); Ord. lib. prop., 1 1-4 (ed. V. Boudon, Galien, cit., pp. 91-92). 60 Cfr. MG, pp. 153-155; 276. 61 Cfr. MG, pp. 168-173. Cfr. M. Frede, The Method of the So-called Methodical School of Medicine, in J. Barnes-J. Brunschwig-M. Burnyeat-M. Schofield (eds.), Science and Speculation: Studies in Hellenistic Theory and Practice, Cambridge University Press Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1982, pp. 1-23. 62 Cfr. MG, p. 125. 63Hipp. Epid. 1,11 (vol. 2 p. 636 Littré). Cfr. MI, pp. 305-312. 64 Cfr. Cels. III 4, 1; V. Nutton, Hellenistic and Roman Medicine, in A. Jones-L. Taub (eds.), The Cambridge History of Science, vol. 1: Ancient Science, Cambridge University Press, Cambridge 2018, p. 334. Cfr. MI, pp. 316-344, spec. pp. 304; 312-314. 65 Cfr. Plat., Resp., III 406a-d; Anon. Lond. col. 9, 20-36 (ed. A. Ricciardetto, L’Anonyme de Londres. Un papyrus médical grec du Ier siècle, Presses Universitaires de Liège, Liège 2014; D. Manetti, Anonymus Londiniensis. De medicina, De Gruyter, Berlin-New York 2011). 66 È la πόλις τρυφῶσα (Pl. R. 372e), cfr. MI, pp. 231-240. 67 Platone pare qui ritrattare l’appoggio, espresso nel Carmide (156b-c), a una medicina “olistica”, in cui non è possibile curare la parte trascurando il tutto, né il corpo trascurando l’anima (cfr. MI, p. 245). 68 Plat., Resp., III 410a, cfr. MI, p. 245. 69 Cfr. MI, p 130. 70 Cfr. MI, p. 257. 71 Cfr. M. Vegetti, La medicina in Platone, «Rivista Critica di Storia della Filosofia» 21/1 (1966), pp. 3-39, p. 31, n. 28. Ma cfr. anche J. Jouanna, Hippocrates, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1999, pp. 346-347. 72 Cfr. MI, p. 354. Cfr. ora sul tema E.M. Craik, Teleology in Hippocratic Texts: Clues to the Future?, in J. Rocca (ed.), Teleology in the Ancient World: Philosophical and Medical Approaches, Cambridge University Press, Cambridge 2018, pp. 203-216; sull’interpretazione di Galeno in proposito K.A. Stewart, Galen’s Theory of Black Bile. Hippocratic Tradition, Manipulation, Innovation, Brill, Leiden-Boston 2019, pp. 31-32. 73 Cfr. MG, p. 380. 74 Cfr. supra, § 2, n. 47. 75 Cfr. MG, pp. 306-307. 76 Gal., Nat. fac., 1 4 vol. 2 p. 9 Kühn. Cfr. MG, pp. 45-46; 238. 77MG, p. 44. 78 Cfr. MG, p. 43. Cfr. E. Berti (ed.), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 183. 79 Cfr. MG, pp. 46-47. 80MG, p. 37. 81 Cfr. supra, n. 79. 82 Cfr. MG, p. 129. 83 Sulla psicopatologia nella medicina antica cfr. ora C. Thumiger-P.N. Singer (eds.), Mental Illness in Ancient Medicine. From Celsus to Paul of Aegina, Brill, Leiden-Boston 2018. 84 Plat., Resp., IV 435c-441c; Tim., 69d-72d. 85 La sostituzione della funzione desiderativa con quella nutritiva, che «desessualizza» e «depsichicizza» la prima, è una rettifica alla teoria platonica necessaria alla riconduzione di questa parte al sistema fegato-vene: cfr. MG, pp. 258-259; 327; 370-371. 86 Galeno rigetta consapevolmente l’associazione delle vene col cuore, propria dell’anatomia alessandrina (cfr. MG, p. 369). 87 Cfr. MG, p. 349. Ma il rapporto anima-corpo nel corpus Galenicum non è del tutto univoco: nel De usu partium, ad esempio, il corpo è detto ὄργανον dell’anima (vol. 2 p. 2 Kühn; MG, pp. 345; 352-354). 88 Cfr. MG, pp. 312-313; 328-329. 89 Al programma galenico di “riduzione” delle funzioni psichiche a forme degli apparati organici corrispondenti appartiene, secondo Vegetti, anche l’interpretazione dei moti psichici in termini meccanico-pneumatici: questi sarebbero prodotti da una vaporizzazione del πνεῦμα (che ha luogo grazie al riscaldamento operato dall’organo cardiaco) e dalla sua successiva trasmissione attraverso i nervi molli (MG, pp. 91-115). 90 Cfr. MG, pp. 265; 329. 91 Cfr. MG, pp. 264; 313; 330-332; 351; 372; 410-415.
Stanley Kubrick ha usato la cinepresa per mettere a fuoco una filosofia profonda e totale. Che filosofo fu Kubrick? Anche Kant amava Arancia Meccanica formula in parole ciò che il grande regista americano ci ha mostrato in immagini affrontando domande filosofiche fondamentali. La visione dell’uomo, del cosmo e della società di Kubrick sono solo alcune delle tematiche di un libro scritto con l’amore per il cinema e la penna del filosofo.
«Mi piacciono le canzoni in lingua minore, ho sempre cantato un’umanità marginale, e i personaggi anonimi di Creuza parlano una lingua dell’anonimato. Pasolini diceva che il dialetto è il popolo, e il popolo è autenticità. Ne deduco che il dialetto è 1’autenticità. […] Le lingue nazionali al confronto con quelle dialettali sono morte, non si rinnovano […] il dialetto non va a morire ma riemergerà dal disastro del capitalismo […]».
Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni, Einaudi, Torino 1999, pp. 226-227.
«Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace».
Milan Kundera,L’arte del romanzo [1986], Adelphi, Milano 1988, pp. 68, 70.
Francesco Petrarca scriveva a Giovanni Anchiseo (Familiari, III, 18) della sua insaziabile brama di libri: «Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri. Probabilmente ne posseggo piu del necessario ma con i libri succede come con le altre cose: il riuscire ad avere ciò che si cerca stimola ulteriormente il desiderio. Nei libri c’è anzi un fascino particolare. L’oro, l’argento, le pietre preziose, le vesti di porpora, i palazzi di marmo, i campi ben coltivati, i dipinti, i palafreni con splendidi finimenti e tutte le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale, mentre i libri ci offrono un godimento molto profondo: ci parlano, ci danno consigli e, vorrei dire, vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante familiarità. A chi legge non offrono soltanto se stessi ma suggeriscono anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio».
Francesco Petrarca, Le familiari. Ed. critica, 4 voll., Le Lettere, Firenze 19997, a cura di V. Rossi, U. Bosco.
«I primi filosofi, quando hanno usato lo scritto, lo hanno fatto con pochi fogli di papiro su cui nasceva una discussione, il dialeghein: non un ripetere cose, ma il modo di arrivare alla determinazione di un concetto. Prendiamo Socrate. Uno dava una risposta a un certo problema e lui diceva “non basta quello che dici. Non potresti esprimermelo meglio?”. E questo turbava moltissimo. Prima di allora bastava come risposta il verso di un poeta. Quando Socrate chiedeva “cos’è il bello?” e gli si rispondeva “una bella ragazza, un bell’uomo”, lui replicava: “No. Non ti ho chiesto degli esempi: ma cos’è il bello”. Per arrivare a una determinazione del concetto, il dialogo è necessario».
«All’interno delle scuole si coltivava il dialogo. E le varie scuole si confrontavano tra loro. Il caso più tipico di opposizione paradigmatica è quella fra epicurei e stoici».
«Per il filosofo greco il problema di fondo era: come essere felice? L’eudaimonia è il motivo del suo impegno. Naturalmente l’eudaimonia è qualcosa di molto più forte ci ciò oggi si intende per felicità. Niente a che vedere col benessere. Per il greco, tu puoi essere felice se capisci il cosmo, se capisci chi sei e di conseguenza ti collochi in quel cosmo. Platone e Aristotele davano più peso concettuale alla struttura. Gli altri invece puntavano prevalentemente sull’effetto. Perché? Perché fino ad Aristotele c’era la polis, che per il greco era la struttura del vivere anche morale. Con Alessandro è stata distrutta la struttura in cui l’uomo greco viveva. C’è stato un ribaltamento di valori tale per cui andava tutto ricostruito. Per la prima volta la vita del singolo diventa emergente. Per Aristotele l’uomo è un animale politico. Non sei uomo se non sei nella polis. Poi, al legame che una città stabilisce con gli uomini si sostituì il concetto di amicizia. È la dimensione soggettiva degli uomini che porta i problemi dell’individuo in primo piano. Fino ai primi del Novecento questo fatto spingeva ad avere una visione negativa di queste filosofie. Poi le cose sono cambiate. Io difendo anche Epicuro. La felicità per lui era assenza di dolore. Però diceva anche: “A colui a cui non basta ciò che è necessario, nulla mai basterà. E sarà un infelice”. Ciò indica la dinamica in cui si deve entrare per trovare la felicità».
«La felicità dipende da te, e non dalle cose. Felicità in greco si dice eudaimonia, deriva da eu-daimon, è felice colui a cui è toccato in sorte un buon demone. I presocratici rovesciano il punto di vista: il demone te lo scegli tu. Platone lo dice nella Repubblica: sei tu che scegli il tuo demone e la virtù non ha padroni».
«Oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia. Si ritira in una sorta di metalivello, indaga solo le caratteristiche formali facendo astrazione dal loro contesto. Invece con i greci la filosofia si chiedeva: come devi vivere per vivere bene».
«Purtroppo oggi si pensa con la categoria del particolare. Si è dimenticata la visione tipica della Grecia che era l’intero. La problematica dell’intero è quella che ti dà la cornice dei problemi. Oggi molti partono dal particolare e con il particolare colloquiano. Ma il particolare non ha la cornice dell’universale. Il problema difficile per i giovani è quello di elevarsi a questo livello. Quello che mi preoccupa nei giovani oggi è che non affrontano i problemi legati a questa dimensione più elevata. A me pare che con tutte le soddisfazioni che l’uomo di oggi ha, anziché sentirsi pieno si sente vuoto. Perché emerge ciò che manca. Molti dicono che è la scoperta della sofferenza ciò da cui si scappa di più».
«Attraverso la sofferenza cresci. Non è lei che diventa padrona, ma tu di quella e arriverai al sapere. Al sapere non si accede se non soffrendo. Non è la felicità banale o edonistica del piacere, ma quella dello spirito dell’uomo che è capace di essere sofferente anche dentro. La cultura scientifica di oggi ti insegna a fare cose, quella umanistica aveva un altro scopo. Ti insegnava a diventare uomo. Marco Aurelio diceva: “Quando al mattino ti svegli e sei stanco devi dire a te stesso: alzati per compiere il tuo mestiere di uomo”. Il messaggio della mia opera è questo: guarda che la scienza ti insegna tante cose ma non a fare il mestiere di uomo».
«Ai giovani abbiamo dato tutto tranne la capacità di affrontare i problemi. Alcuni hanno capito per intuizione che dalla scienza non viene la soluzione dei problemi. Io adoravo la matematica. Passavo le vacanze a risolvere i problemi del libro di algebra. Che la scienza sia uno degli strumenti più potenti che l’uomo ha messo in atto è fuor di dubbio. I giovani devono usarla in “giusta misura”, come i greci insegnavano. Ma la scienza non risolve tutti i problemi. Di certo non quelli ultimativi, che oggi vanno riproposti».
Giovanni Reale, Intervistato da Armando Massarenti, Domenicale de Il Sole 24 Ore, n° 329, 28-11-2004.
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