Alberto Meschiari – Il disincanto di Weber aveva ceduto alla tecnica. Ma oggi ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente. La razionalità neoliberista ha spinto sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione.

Alberto Meschiari 02

«Il disincantamento di cui parlava Max Weber all’inizio del Novecento si riferisce a un mondo in cui la magia premodema ha ceduto il posto alla tecnica. Ma oggi il disincanto ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente, esseri umani compresi, natura compresa, perché ridotti a cose, strumenti e non fini. Negli ultimi decenni la razionalità neoliberista ha spinto sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione. Le dinamiche che vigono in economia hanno finito per invadere e determinare anche la sfera privata e relazionale, portando a considerare se stessi, gli altri e la natura in un’ottica strumentale, di prestazioni e guadagno. Il Sé, l’altro e la natura sono stati ridotti a cose manipolabili per i fini del mercato. Questo significa oggi disincanto».

Alberto Meschiari, Il magico mondo dei libri. Perché un libro non solo un testo a stampa. Strategie del reincanto, Edizioni Tassinari, Firenze 2017, p. 163.

Paracadutista, alpinista, navigatore e fotografo, Alberto Meschiari è stato per trentacinque anni ricercatore di Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha studiato la filosofia tedesca a Berlino prima della caduta del muro. Si è occupato di storia della filosofia, filosofia del linguaggio, filosofia morale, storia della scienza e narrativa, pubblicando una quarantina di volumi. È autore, fra l’altro, della proposta di un’etica del reincanto e di cinque strategie del reincanto per riprendersi la vita. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: Psicologia delle forme simboliche (Le Lettere, 1999), Sul dialogo (Il Campano, 2008), Il libriccino del silenzio (Tassinari, 2012), Microscopi. Amici nella ricerca scientifica (Fondazione Giorgio Ronchi, 2014), Filosofia del camminare (Tassinari, 2014), La luna d’autunno (Tassinari, 2015), L’arte di amare (Tassinari, 2016) e A che servono i poeti? (Tassinari, 2018).

Alberto Meschiari – Gentilezza è presa di distanza critica dai disvalori, riconoscimento della comune vulnerabilità e del comune destino, esercizio consapevole di una protesta, è un atto etico nel rifiuto della reificazione delle relazioni umane.

Alberto Meschiari 01

«Oggi voglio parlarti della gentilezza. Ma non mi occuperò di cortesia, buone maniere, convenevoli o galateo. Comincerò invece col dirti che la gentilezza non è un sentimento, che ciascuno può coltivare anche solo dentro di sé, senza manifestarlo al di fuori. La gentilezza è una modalità della relazione, che ha bisogno di essere praticata. Ed è una modalità di confine, che può rivelarsi nella condivisione, nella solidarietà, nell’amicizia. È riconoscimento della comune vulnerabilità, del comune destino. È in questa estensione che m’interessa prenderla in considerazione qui. L’esercizio della gentilezza rappresenta nel mondo contemporaneo un atto etico, un modo di andare controcorrente, in un certo senso un comportamento antisociale ? non a sociale, bada bene ? nel momento in cui questa società mostra di fondarsi su valori opposti: sul rumore, la fretta, la distrazione, l’arroganza, la prepotenza, il disinteresse, il cinismo, l’aggressività. La gentilezza è azione, una presa di distanza critica da quei disvalori, l’esercizio consapevole di una protesta, è rifiuto della riduzione delle relazioni umane al modello delle relazioni con le cose».

Alberto Meschiari, Gentilezza, Edizioni Tassinari, Firenze 2017.

William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963) – Lo scopo della lotta è trasformare la speranza in atto progettuale e comunitario: non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi.

William E.B Du Bois 01
Sulla Linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti
Salvatore Bravo

La linea invisibile


La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini
Lottare è un atto linguistico
Compelle intrare”
Dispersioni
Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale
La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia
L’alternativa alla linea del colore è la comunità


Non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi.
W.E. B. Du Bois

La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini
La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini, è atto comunitario con il quale il soggetto esce dalla falsa sicurezza dell’ignavia per incontrarsi con se stesso attraverso lo sguardo degli altri: ha smesso di temere se stesso e la propria condizione materiale. Lo schiavo liberato ha categorie per leggere e condividere la cartografia sociale dell’esclusione. Non si nasce esclusi, non si nasce vittime, ma vi è un sistema – nella sua unità dinamica e olistica sovrastrutturale e strutturale – che lavora per produrre per servi.

La lotta è la speranza che infrange la cappa del presente per trasformare quella speranza in atto progettuale e comunitario. La rivolta nel segno della ragione-logos si esplica mediante parole, atti, gesti che costituiscono la trama che strappa dalla passività fatale, dallo stato di gettatezza per la prassi. La lotta è già vittoria, poiché il servo concede a se stesso una possibilità: non si legge e non si ritrova più nella lingua del vincitore.

Lottare è un atto linguistico
Lottare è un atto linguistico, è un nuovo segno significante che consente l’esodo dalla lingua dei padroni, e dunque è libertà. Il servo è tale se resta nel perimetro linguistico del padrone, se non rompe la barriera dei significati che si ergono minacciosi e tracciano linee di confine, orditi gerarchici indiscutibili. Nel linguaggio del padrone e signore la cultura è solo decorativa, l’orpello della propria vanità, il mezzo con cui tracciare il confine tra “inclusi ed esclusi”.

Per il lottatore liberato dalla lingua angusta del capitale, l’utile perde l’aureola per essere solo una delle innumerevoli manifestazioni dei significati umani, il lottatore reinventa con il suo linguaggio le sue relazioni. All’utile sostituisce il valore in sé, la libertà ai vincoli che stringono la mente nei lacci dell’utile. La cultura e la conoscenza non sono mezzi, ma la gioia di esserci e di conoscersi:

«Questo è lo scopo della lotta: essere un collaboratore nel regno della cultura, fuggire la morte e l’isolamento, e coltivare e utilizzare i suoi migliori poteri. Questi poteri, del corpo e della mente, sono stati in passato talmente sprecati e dispersi da far loro perdere ogni efficacia, e farli apparire come assenza di potere, come debolezza».[1]

Compelle intrare”
Il lottatore deve riconoscere “la linea del colore” che divide in modo ideologico lo sfruttato dallo sfruttatore. La linea del colore è il taglio netto che divide l’umanità, che costringe “compelle intrare”  (Luca 14, 23) i servi ad entrare in categorie che servono al vincitore per giustificare il potere, categorie superstiziose perché mai messe in discussione, poste fuori dello spazio e del tempo. Il nero è sulla linea del colore decisa dal bianco, ma per renderla eterna dev’essere naturalizzata, collocata in una dimensione indiscutibile, per cui si fa appello alla religione, a Dio, alla scienza. Di volta in volta la linea del colore si riempie di nuovi contenuti ideologici, di nuove rimozioni per restare fissa nella testa degli oppressori e degli oppressi:

 

«Questo sinistro commercio, cu cui l’Impero britannico e gli Stati Uniti d’America sono stati in gran parte costruiti, è costato all’Africa nera più di 100 milioni di anime, ha provocato la distruzione della sua vita politica e sociale e ha lasciato il continente in uno stato di indigenza tale da cagionare ogni forma di aggressione e sfruttamento. “Di colore” nel comune sentire del mondo è diventato sinonimo di “inferiorità”, la parola “Negro” ha perso l’iniziale maiuscola e “Africa” è solo un’altra parola per “barbarie” e “bestialità”. È così che il mondo ha cominciato a investire nel pregiudizio razziale. La “linea del colore” ha iniziato a fruttare i profitti».[2]

 

La linea del colore ha la sua verità, la sua sostanza: il profitto, per cui si sposta, assume nuove geometrie, è sempre vitale, ma nella sua metamorfosi, nel suo inseguire trafelata il profitto resta sempre uguale.

 

Dispersioni
La lotta è attività sempre minacciata dall’assimilazione, l’oppressore conosce bene quanto l’umiliato voglia dimenticare la condizione di suddito. Un essere umano, a cui è stata tolta la dignità di persona ed entificato, vuole fuggire da se stesso, dalla consapevolezza di essere stato mezzo e strumento nel disprezzo dell’oppressore. Il disprezzo subìto lede la capacità di credere in un futuro possibile e diverso dal presente. Pertanto il lottatore talvolta cade nella trappola della rimozione, perché non ha attraversato la potenza immane del negativo. Ancora una volta dinanzi alla visione della propria morte ha indietreggiato, per cui – per cancellare l’onta della dignità violata –, vuole essere uguale all’oppressore, desidera essere altro rispetto alla propria storia. È due volte vittima, perché si fonde e confonde con l’oppressore. La linea del colore scava in lui la sua traccia indelebile, si assimila e resta solo un servo con una nuova maschera sociale:

 

«Ogni passo in questa direzione viene oggi ostacolata dall’assurda filosofia Negra del “disperdersi, liquidare, aspettare, scappare”. Ancora oggi molti dei suoi leader più giovani e istruiti pensano addirittura che, visto che dove ci sono pochi Negri, o dove non ve ne sono affatto, il problema di razza non è così acuto, questa potrebbe essere una soluzione! Pensano infine che il problema di dodici milioni di Negri, in maggioranza lavoratori poveri e ignoranti, si risolverà con la graduale e continua fuga dalla propria razza di quelli tra noi che appartengono a classi benestanti e istruite, che entreranno tra le fila della grande massa del popolo americano, abbondonando il resto alla sofferenza, all’indifferenza e alla morte».[3]

Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale
La lotta è incrinata dal pregiudizio, dalla linea del colore che divide gli oppressi, al punto da impedire loro di verticalizzare la lotta. Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale, divide il fronte dei lavoratori, usa i pregiudizi, l’irrazionale quale mezzo per contrastare pericolosi fronti unitari. Si sollecitano i fantasmi razziali per compattare il fronte della razza padrona ed occultare il vero volto del potere:

 

«Il successo dell’aggressione economica richiede che in patria vi sia una stretta unione tra capitale e lavoro. Ora, le rivendicazioni della classe lavoratrice bianca non solo sul terreno salariale, ma più in generale su quello delle condizioni di lavoro e di una propria voce nella gestione dell’industria rendono difficile la pace industriale. La pacificazione dei lavoratori è stata raggiunta, da una parte, attraverso sforzi di ogni tipo per un socialismo di Stato, dall’altra, attraverso la minaccia esplicita di aprire la competizione con la manodopera di colore».[4]

La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia
W.E.B Du Bois non crede nel cammino inarrestabile della democrazia, anzi tale visione è utile al potere, perché rassicura i servi, insegna loro che la loro partecipazione alla prassi non è necessaria, ma è sufficiente attendere e la macchina della democrazia trionferà. A tale ideologia chi lotta deve opporre la domanda supportata da categorie veritative forti che possano smascherare i travestimenti del potere, la ridda delle forme in cui in modo demagogico si confonde. Bisogna imparare a porre domande, a cercare risposte per non cadere nella trappola dell’apparenza, del semplicismo e della pigrizia cognitiva:

«La teoria su cui si basa questo dispotismo democratico non è mai stata spiegata in modo chiaro. La maggior parte dei filosofi vede la nave dello Stato come trasportata da un’inarrestabile grande marea di democrazia, in cui alcuni vortici producono qua e là momentanei ritardi. Altri, quando cominciano a guardare le cose da vicino, diventano incerti. Stiamo tornando, si chiedono, all’aristocrazia e al dispotismo? Al dominio del più forte? Gridano e si stropicciano gli occhi: come possono non riconoscere che nella realtà che li circonda la democrazia si sta rafforzando?
È il paradosso in cui sono caduti molti filantropi, che ha curiosamente ingannato molti i socialisti e che ha riconciliato capitani di industria e imperialisti con la “democrazia”. È lo stesso paradosso che permette che il rapidissimo avanzare della democrazia dell’America proceda di pari passo, nei suoi stessi gangli vitali, con un crescente atteggiamento aristocratico e di odio nei confronti delle razze di colore, e che giunge a giustificare e difendere la disumanità che non esita a bruciare esseri umani sulla pubblica piazza».[5]

L’alternativa alla linea del colore è la comunità
L’alternativa alla linea del colore è la comunità che si fa guida senza i capi, perché la dimensione comunitaria è attività politica che entra nel quotidiano per unire, per guardare con sospetto ogni acclamazione sulla fine “della linea del colore”, perché la lotta ha un inizio, ma non ha una fine:

«Se il mondo scuro scoprirà lentamente che il socialismo è la sola risposta alla linea del colore, allora i popoli di colore del mondo diventeranno socialisti e i neri americani marceranno per forza tra le loro fila. Non tanto come guide, quanto piuttosto spinti dal loro stesso popolo».

Salvatore Bravo

***

[1] William E.B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, il Mulino, Bologna 2010, p. 107.

[2] Ibidem, p. 235.

[3] Ibidem, p. 291.

[4] Ibidem, p. 241.

[5] Ibidem, p. 237.

Sandro Mezzadra, Introduzione a W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore, Il Mulino, Bologna, , 2010.

William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963), storico e sociologo, teorico politico e romanziere, è stato non soltanto la più importante figura nella politica e nella cultura afroamericana del Novecento, ma a tutti gli effetti uno dei più grandi intellettuali statunitensi del secolo: un “gigante”, come lo definì Martin Luther King nel suo ultimo discorso pubblico prima di essere assassinato. Du Bois fu anche tra i fondatori della più importante organizzazione americana per i diritti civili e padre del movimento panafricano. A lui si devono concetti divenuti ormai d’uso corrente nel mondo anglosassone,da quello di “doppia coscienza” a quello della “linea del colore”. Il volume presenta per la prima volta al lettore italiano un’ampia raccolta degli scritti politici del sociologo afroamericano, documentando l’intera parabola di sviluppo del suo pensiero. A guidare la lettura, l’introduzione di Sandro Mezzadra, che colloca l’opera e l’azione politica di Du Bois nel contesto della storia afroamericana del Novecento.

W. E. B. Du Bois nel 1904
W. E. B. Du Bois nel 1918
Frontespizio della seconda edizione di The Souls of Black Folk

Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – La musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.

Platone Musica 02
L’epitaffio di Sicilo (II-I sec. a.C.)

Insegnerei ai bambini musica, fisica e filosofia; ma soprattutto la musica, per i motivi musicali e tutte le arti che sono le chiavi per l’apprendimento.

La musica […] dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.

La musica e il ritmo trovano la loro strada nei luoghi segreti dell’anima.

Platone

Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?

Elias Canetti (1905-1994) – È necessario lasciar riposare di tanto in tanto le proprie conclusioni, metterle da parte, non usarle, quasi dimenticarle, farvi entrare un po’ d’aria, allentarne la tensione, riempirle del respiro di anni.

Elias Canetti 012a

«I respiri non si lasciano condensare in conclusioni».

Elias Canetti
Il cuore segreto dell’orologio

«È necessario lasciar riposare di tanto in tanto le proprie scoperte e conclusioni, metterle da parte, non usarle, quasi dimenticarle. Proprio ciò che vi è di coatto in alcune di esse comporta la necessità di farvi entrare un po’ d’aria, di allentarne la tensione, di riempirle del respiro di anni. Possono diventare qualcosa che somigli alla natura soltanto se hanno sacrificato la loro forza cogente».

Elias Canetti, La rapidità dello Spirito, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1996.

 
Elias Canetti – Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli …
Elias Canetti (1905-1994)– L’opera sopravvive perché contiene pura quantità di vita e lo scrittore coinvolge tutti coloro che sono con lui nell’immortalità dell’opera.
Elias Canetti (1905-1994) – È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria.
Elias Canetti (1905-1994) – Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici. È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.
Elias Canetti – Lo scrittore è il custode delle metamorfosi. Questa la sua legge: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno».

Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Enrico Berti-Emanueke Severino- Martin Heidegger-Nietsche-nichilismo

«[…] dopo Hegel, nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia, dimenticando che essa deve essere anche la comprensione concettuale del proprio tempo e la critica di questo, una comprensione ed una critica determinate, concrete, storicamente situate e quindi anche personalmente compromettenti. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, nemmeno quello di essere confutati dalla storia, se non anche quello di essere ancor più gravemente penalizzati, ma deve costar caro […]».

Enrico Berti, Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino, saggio pubblicato in «Filosofia oggi», 1980, pp. 501-509.

Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Berti – Per una nuova società politica
Enrico Berti – La capacità che una filosofia dimostra di risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”.

Enrico Berti – Ciò che definisce l’uomo è anzitutto la parola. Non è del tutto appropriata la traduzione latina della definizione di uomo messa in circolazione dalla scolastica medievale, cioè animal rationale, la quale si basa sulla traduzione di logos con ratio. Certamente l’uomo è anche animale razionale, ma il concetto di logos è molto più ricco di quello di “ragione”.

Enrico Berti – Nichilismo moderno e postmoderno

Enrico Berti – È risonata più volte la proclamazione heideggeriana della fine dell’epoca della metafisica. Di fatto è esistita, e quindi ha una storia. Anche le più famose negazioni di essa sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa.

Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Sergej Vasil’evič Rachmaninov (1873-1943) – Comporre è una parte essenziale di me, come respirare e mangiare, è l’espressione dei miei pensieri più profondi. La musica nasce dal cuore e si rivolge al cuore. È amore. Sorella della musica è la poesia, e madre la sofferenza.

Sergej Rachmaninov Musica

«Comporre è una parte essenziale di me, come respirare e mangiare; è l’espressione dei miei pensieri più profondi e il mio costante bisogno di comporre è difatti la mia necessità più recondita di dare un suono a quei pensieri. Scrivo quello che sento; la mia musica è pertanto un esito del mio temperamento. E per questo, ovunque io viva, è musica russa».

«La musica deve esprimere il paese di nascita del compositore, le sue pene amorose, la sua religiosità, i libri che hanno destato il suo interesse, i dipinti che ha amato: deve essere il risultato totale delle sue esperienze di vita… La musica nasce dal cuore e si rivolge al cuore. È amore. Sorella della musica è la poesia, e madre la sofferenza».

«Quale altra funzione può mai avere la musica se non risanarci? Come sapete, il titolo di una delle mie prime canzoni pubblicate era Il raccolto del rimpianto: “Venti freddi spazzavano i campi distruggendo il prato dei miei sogni, disseminando qua e là i semi maturi che domani toccheranno il suolo per morire o germogliare i semi soffocanti e benedire il raccolto del mio rimpianto…”. Ecco, forse ora possiamo ritrovarci nel raccolto e sanare i nostri rimpianti».

«Posso rispettare l’obiettivo artistico di un compositore se arriva al cosiddetto linguaggio moderno dopo un intenso periodo di preparazione… Tali compositori sanno cosa stanno facendo quando infrangono una legge; sanno contro cosa reagire, perché hanno avuto esperienza nelle forme e nello stile classici. Avendo padroneggiato le regole, sanno quali possono essere violati e quali dovrebbero essere rispettati. Ma, mi dispiace dirlo, ho scoperto troppo spesso che i giovani compositori si tuffano nella scrittura di musica sperimentale con le loro lezioni scolastiche solo a metà imparate. Troppa musica radicale è pura finzione, proprio per questa ragione: il suo compositore inizia a rivoluzionare le leggi della musica prima di impararle da sé».

Sergej Vasil’evič Rachmaninov

Le mani di Sergej Rachmaninov

Guillaume De Lorris (1200-1238), Jean de Meun (1250-1305) – La vera nobiltà nasce dal buon cuore e nella capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. Chiunque vi aspiri si guardi dall’orgoglio e dall’ignavia, si dedichi allo studio, si liberi da ogni villania. Gli amori muoiono quando gli amanti vogliono imporsi come signori.

Guillaume De Lorri-Jean de Meun-Romanzo della Rosa

La vera nobiltà nasce dal buon cuore, perché la nobiltà ereditaria non è una nobiltà di valore quando le manca la nobiltà del cuore; per questo vi si deve mostrare il valore degli antenati che la conquistarono con le grandi opere che seppero compiere. La nobiltà degli intellettuali si misura sulla loro capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. La nobiltà nell’intellettuale si nutre dello spirito dell’antico per trasformarla in carne vissuta. Non vi è nobiltà nel chierico corrotto come nello studioso che lascia i grandi del passato tra le righe del manuale e non li rende attuali.
La nobiltà dell’intellettuale vive nello studio, nella gioia che sospende l’utile per la contemplazione attiva del sapere.

Salvatore Bravo

Leggere «Il Romanzo della Rosa»

La verità vive nelle opere degli esseri umani: emerge improvvisa dopo il suo andamento carsico. Il Romanzo della Rosa (1237) poema allegorico di 21.780 ottosillabe di Guillaume De Lorins e Jean De Meun ne è un esempio. È l’odissea della verità nelle sue disavventure, è l’affrontamento tra verità e opinione, tra processi di umanizzazione ed entificazione dell’essere umano. Dominio e  suo smascheramento. Ipostatizzare, rappresentare i rapporti di potere come immutabili, sclerotizzare i processi di conoscenza per impedire alla verità di riemergere e riavviare il cammino dell’uomo nella storia è sempre un risultato parziale e momentaneo. La verità in forme inaspettate nel tempo riemerge, smaschera, accusa l’ideologia e la falsa coscienza. Nel Medioevo – perennemente posto sotto accusa dalla ragione illuministica e tecnocratica – il Romanzo della Rosa rivela una verità eterna degli esseri umani: la relazione di potere aliena, nega la naturale disposizione alla condivisione, al dono. La relazione di coppia è il luogo emotivo nel quale la prassi comunitaria si concretizza nel governo delle passioni duali che divengono modello per una giusta comunità. La relazione si umanizza nella libertà dell’uguaglianza, dei bisogni autentici ascoltati. Se la sovrastruttura di potere rende disomogenee le geometrie delle relazioni, se le fissa in ruoli predeterminati dalle gerarchie di potere, senza la condivisione, si disperde l’essenza umana, e resta solo uno scheletro formale privo di linfa vitale. Nel regno del potere l’essere umano è solo un atomo chiuso in se stesso, incapace di elaborare relazioni ontologicamente fondate, e si attua la morte dello spirito nella cecità da cui siamo avviluppati nel pensare e sentire l’altro:

«Compagno, ecco lo stupido villano geloso, sia gettata ai lupi la sua carne! Che io vi porgo come esempio: egli è gonfio di gelosia e vuole essere il padrone della donna; ma anche lei non deve far da sola padrona, ma essere sua pari e sua compagna, come loro consiglia la legge. E anche lui deve essere il suo compagno senza farsene signore e padrone; e quando lui la sottopone a quei tormenti e non la considera come sua eguale, e anzi la fa vivere in un tale disagio, credete che questo a lei non dispiaccia e che l’amore tra di loro non fallisca, checché ne possa lei dire? Sì senza dubbio. Mai sarà amato dalla sua donna colui che vuole esserne chiamato il signore, perché è normale che gli amori muoiano quando gli amanti vogliono imporsi come signori».[1]


Le gerarchizzazioni sono innaturali, costringono in ruoli, disegnano emotività che impediscono il naturale fluire delle passioni, della comunicazione. Al loro posto la struttura sociale costringe il corpo vissuto in un’armatura innaturale. Le donne – come ogni essere umano – non nascono nel segno delle catene. Non esistono oppressioni ed oppressori per natura. È la cultura delle civiltà che elabora i codici dell’oppressione, che cade nella trappola di Tucidide, ovvero della paura, del bisogno di controllo acquisitivo; solo con la violenza perpetua ed il controllo continuo può tenere salda l’armatura del potere. La verità non può essere scalfita dalle sovrastrutture, per cui silenziosa riemerge: la natura oppressa, rimossa, calcificata nelle abitudini del cattivo potere riprende il suo territorio:

 

«D’altra parte le donne sono nate libere; la legge le opprime, togliendo loro la libertà in cui erano state messe da Natura; perché Natura non è così sciocca, se ci pensiamo bene, da aver fatto nascere Mariotta soltanto per Robin, né Robin per Marietta, o per Agnese o per Pierina, ma ci ha fatto caro figliolo, non dubitarne, tutte per tutti e tutti per tutte, ognuno in comune per ognuno, e ognuno in comune per ognuna; e anche quando loro sono fidanzate, prese legalmente e maritate per evitare le separazioni, le contese e le uccisioni, e per favorire la buona crescita dei figli dei quali insieme hanno cura, le signore e le signorine, siano brutte o siano belle, si danno da fare in tutti i modi per ritrovare la loro libertà».[2]

 

La vera nobiltà
La nobiltà non è di ordine acquisitivo
, non è un possesso del blasone o genetico. Ogniqualvolta un gruppo sociale o culturale si dichiara nobile per natura, ponendo un confine tra sé e gli altri, costruisce la trama ideologica del potere. La nobiltà è potenzialmente in ogni essere umano, prescinde le condizioni materiali di provenienza. Ciò smentisce ogni sistema di esclusione che si autorappresenta come legittimo referente della natura e della nobiltà. La nobiltà è “nel buon cuore”, nella capacità di ascoltare ed accogliere. Solo tali attitudini sono degne di dare la patente di nobiltà, perché universalizzano, favoriscono il passaggio dal singolare all’universale. Ci si rende piccoli per poter aprirsi all’alterità, l’intero corpo vissuto diviene intenzionalità dell’ascolto:

«La vera nobiltà nasce dal buon cuore, perché la nobiltà ereditaria non è una nobiltà di valore quando le manca la nobiltà del cuore; per questo vi si deve mostrare il valore degli antenati che la conquistarono con le grandi opere che seppero compiere, perché quando essi lasciarono questo mondo portarono via con sè tutte le loro virtù, e lasciarono agli eredi gli averi, senza che quelli potessero da loro ricevere di più. Hanno gli averi, ma senza nulla di più, né nobiltà di valore, a meno che non facciano in modo di essere nobili in grazia della loro intelligenza o delle loro virtù. I chierici sono in maggior vantaggio in fatto di cortesia, nobiltà e saggezza, rispetto ai principi e ai re che sono privi di cultura letteraria, e ora ve ne dico la ragione: perché il chierico vede nelle scritture […] tutte le malvagità da cui ci si deve allontanare e tutte le bontà che si devono praticare. Vede nelle vite degli antichi le villanie di tutti i villani e tutti gli atti degli uomini cortesi e la somma delle cortesie; insomma, egli vede scritto nei libri tutto ciò che si deve evitare o seguire […]. E quelli che non sono di cuore nobile, sappiano che ciò avviene perché hanno il cuore malvagio, […]. Per questo i chierici che non hanno cuore nobile e generoso valgono meno di tutti, perché schivano il bene che conoscono e inseguono i vizi che vedono; e davanti all’imperatore celeste i chierici che s’abbandonano ai vizi dovrebbero essere puniti più severamente dei laici sciocchi e ignoranti, che non vedono nelle scritture le virtù che quelli disdegnano e disprezzano. […] Chiunque aspiri alla nobiltà si guardi dall’orgoglio e dall’ignavia, si dedichi […] allo studio, e si liberi da ogni villania. Abbia cuore umile, cortese e gentile, in ogni luogo e verso ogni persona, tranne soltanto verso i suoi nemici, quando non si può fare pace con loro».[3]

La nobiltà degli intellettuali si misura sulla loro capacità e volontà di vivere i valori che a parole si propugnano. La nobiltà nell’intellettuale si nutre dello spirito dell’antico per trasformarla in carne vissuta. Non vi è nobiltà nel chierico corrotto come nello studioso che lascia i grandi del passato tra le righe del manuale e non li rende attuali.
La nobiltà dell’intellettuale vive nello studio, nella gioia che sospende l’utile per la contemplazione attiva del sapere.

Il Romanzo della Rosa ci narra di un Medioevo sconosciuto che parla a tutta l’umanità, travalica i confini del tempo per ricongiungersi all’eterno radicarsi della verità nella storia.

Salvatore Bravo

 

[1] Guillaume De Lorris, Jean De Meun, Il Romanzo della Rosa, Feltrinelli, Milano 2016, p. 188.

[2] Ibidem, p. 260.

[3] Ibidem, pp. 336-337.

 

 

 

Guillaume de Lorris
Jean de Meun
Jean de Meun
I due autori, Jean de Meun e Guillaume de Lorris.

Due testi e molti misteri. Il “Romanzo della Rosa” è costituito da due parti scritte da autori diversi a distanza di una quarantina di anni. Due parti molto diverse e la seconda sembra essere la palinodia della prima. I dubbi sull’identità degli autori, su eventuali interpolazioni di Jean de Meun nella prima parte, sul senso del poema come opera complessiva sono ripercorsi nell’introduzione di Mariantonia Liborio. Quello che sembra sicuro è che il “collage” dei due testi mostra come in quel mezzo secolo di iato fra la prima e la seconda metà del XIII secolo fossero profondamente cambiati i modelli culturali: dagli ideali e dalle forme letterarie cortesi del Roman di Guillaume de Lorris all’approccio filosofico-enciclopedico di Jean de Meun. E un passaggio che si verifica, in forme diverse, anche nella letteratura del sì fra i poeti siciliani e Dante. È dunque importante rileggere il “Romanzo della Rosa” nella sua diversificata completezza. Al di là dei problemi filologici e narratologici, il poema è davvero uno dei fondamenti della cultura europea: una rilettura dell’ars amandi ovidiana che diventa una fenomenologia della conquista amorosa e del desiderio; una perfetta compenetrazione di allegoria e narrazione che anticipa la Commedia dantesca.

Evanghelos Moutsopoulos – «La musica nell’opera di Platone». La musica è autentica bellezza nel momento in cui persegue ciò che è meglio per l’uomo, e trova il suo coronamento nell’amore del bello, dove si manifestano il bene e la verità.

Evanghelos Moutsopoulos Musica01

 

 

Evanghelos Moutsopoulos, La musica nell’opera di Platone [La musique dans l’œuvre de Platon, Paris, Presses universitaires de France, 1958], Vita e Pensiero, Milano 2002.

Non si può comprendere a fondo Platone senza considerare la sua peculiare concezione della poesia, e quindi anche della musica, che nella cultura greca alla poesia era intimamente connessa. La funzione della poesia nel mondo antico era essenzialmente educativa e formativa, lontana dal risolversi in un divertimento spirituale di carattere prevalentemente estetico. Per questa ragione, al contrario di quanto comunemente si crede, Platone accorda alla poesia un ruolo importante, mantenendola nello Stato ideale, sia pure con una riforma strutturale. Se infatti la poesia e la musica non possono essere sottostimate a causa del loro potere di interpellare e influenzare la parte non razionale dell’anima umana, tale potere deve essere sottratto a ogni occasione di abuso e reso un immancabile strumento di formazione. Agli occhi di Platone, la musica è autentica bellezza solo nel momento in cui persegue ciò che è meglio per l’uomo, ovvero la verità. In questo saggio Moutsopoulos ripercorre la teoria platonica sulla musica in un quadro che delinea le coordinate spirituali dell’essenza stessa della grecità, nella quale la musica trova il suo coronamento nell’amore del bello, dove si manifestano il bene e la verità.

****
***
**
*

Questo secondo volume di Evanghélos Moutsopoulos dedicato alla filosofia della musica nel pensiero greco (il precedente del 2002 è sulla musica in Platone, e corrisponde al n. 88 della collana) completa il quadro di una concezione della musica che non è solo estetica, ma cosmologica e ontologica. È l’armonia del mondo che viene riprodotta e amplificata dal musico, e poi recepita dall’uomo colto grazie a una sua naturale ‘musicalità’, che nelle sue linee fondamentali è interpretata ed espressa dal filosofo. Qui sta il punto focale della ricerca di Moutsopoulos: c’è un rapporto stretto fra filosofo e musico che consiste nell’identità dell’oggetto, ossia nell’essenza eterna del bello, la quale da Platone in avanti è l’essenza eterna del Bene e in ultima istanza dell’Essere. Se Platone poneva in luce questa relazione, lasciando però un dislivello fra la visione intellettuale del bene e quella estetica, Proclo avvicinava i due livelli, facendo della musica una copia del Bene, esattamente come il cosmo fisico è un’immagine dell’Idea del Bene. Fra i due poli, quello platonico e quello procliano, passano circa otto secoli, ma lo sfondo teoretico è il medesimo e l’ispirazione è comune. A Moutsopoulos va il merito di aver saputo esprimere questa continuità con chiarezza, precisione e nel rispetto scrupoloso dei testi.

Evanghelos Moutsopoulos, La filosofia della musica nel sistema di Proclo, Vita e Pensiero, Milano 2010.

Nato ad Atene nel 1930, Evanghélos Moutsopoulos è stato professore presso le Università d’Aix-Marseille, di Tessalonica e di Atene, dove è stato anche rettore, prima di essere eletto membro dell’Académie d’Athènes. Ha creato e dirige il Corpus Philosophorum Graecorum Recentiorum (CPGR), nell’ambito della sua attività di presidente della Fondation de Recherche et d’Editions de Philosophie Néohellénique, la rivista filosofica internazionale “Diotima” e la rivista “Philosophia” dell’Académie d’Athènes. È autore di numerose opere, scritte per la maggior parte in francese, ma anche in inglese e in greco, e tradotte in diverse lingue. Tra esse ricordiamo: “La dialectique de la volonté comme fondamente de l’estétique, et le système de Schopenhauer” (1958); “Le problème du beau chez P. Vraïlas-Arménis” (1960); “La conscience de l’espace” (1969); “Les catégories esthétiques. Introduction à l’axiologie de l’object esthétique” (1996); “Philosophie de la kairicité” (1984); “Les structures de l’imaginaire dans la philosophie de Proclus” (1985); “Philosophes de l’égée” (1991); “Kairos. La mise et l’enjeu” (1991); “Poiésis et techné. Ideés pour une philosophie de l’art” (1996); “Philosophie de la culture greque” (1998).



1 111 112 113 114 115 251