«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
L’intensità delle parole: intervista alla poetessa Maura Del Serra
La poesia è un’esperienza interiore pervasiva, totalizzante e nutriente
PAESTUM\ aise\ – Il 27 giugno 2019, nell’ambito della XII edizione del Festival della Poesia Europea dove le parole di Goethe risuoneranno nella suggestiva cornice dei templi di Paestum, Maura Del Serra sarà una delle voci recitanti dell’evento. Vera e propria pietra miliare del mondo culturale italiano, poetessa eclettica che utilizza diversi registri artistici. Drammaturga.
Poeta. Saggista. Traduttrice. La sua scrittura si distingue per
un’intensa ricerca delle parole, del verso. Fra le sue opere ricordiamo L’opera del vento. Poesie 1965-2005 (2006) e Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (2010), Teatro (2015), che raccoglie tutti i suoi testi teatrali, Di poesia e d’altro.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra i
quali: il premio “Montale” per la poesia, il premio “Flaiano” per il
teatro e il premio “Betocchi” per la traduzione.
Critica letteraria. Drammaturga, ma anche e soprattutto poetessa. Ci parli del Suo universo poetico.
Il mio lavoro ormai annoso, che coincide e si trasla nella mia vita quotidiana, consiste nel dare corpo poetico, nello “scolpire” l’esperienza personale, traducendola, secondo le mie capacità, nell’universale, mettendo in comunicazione il visibile con l’invisibile che gli dà sostanza. Per me quindi la poesia è etimologicamente una “religio”, una “voce di voci” che tende a farsi onnicomprensiva degli stati dell’essere (umano, ma anche animale, vegetale e cosmico): ed è perciò un dono ed una grazia a cui cerco di conservarmi fedele, perché è capace – anche se apparentemente inascoltata od oscurata nel sociale – di riscattare l’indifferenza, il dolore e la disarmonia personale e collettiva attraverso la conoscenza empatica in cui immerge me e il lettore.
La poesia scava in ognuno di noi e ci regala grandi emozioni. Ci dia la Sua definizione del concetto di poesia.
La poesia è un’esperienza interiore pervasiva, totalizzante e nutriente, come quella degli elementi e delle forze naturali di cui viviamo (aria, luce, fuoco, acqua, terra, respiro, energia): elementi che l’anima e la mente plasmano in parole/forme “musicali”, cioè pertinenti alle Muse quali mitiche figlie dei Mnemosyne, la Memoria strutturante, che si muove fra tradizione ed invenzione. Da più di un trentennio le mie “voci” poetiche hanno assunto, come accennavo, anche una forma drammaturgica peculiare, il cosiddetto teatro di poesia – in versi, in prosa o in entrambe.
La poesia ci offre la possibilità di entrare nell’animo umano e di mettere in luce il mondo interiore del poeta. Che cosa vuole evidenziare con la Sua poesia?
Direi che la poesia, passando attraverso di me, mette in luce alcuni colori del suo prisma, ovvero della sua parabola nel triplice senso del sostantivo manifestando le sua qualità salutari, il suo potenziale di riscatto e di catarsi dagli errori e dalle illusioni, spesso violente, che abbagliano l’essere umano, restituendo senso alla parola come via verso una dimensione di certezza non più soggettiva, di verità come bellezza che sia anche un bene conoscitivo profondo, in ogni tempo ed oggi più che mai necessario alla nostra condizione, che è sempre borderline, sospesa tra ordine costruttivo e dismisura distruttiva.
Ci renda partecipi del Suo processo creativo. Che cosa prova quando riesce a fissare in un verso le Sue emozioni?
Provo un intenso e complesso stato di full immersion, insieme fluido e laborioso; il senso di essere parte di un’onda molteplice di forze e di forme che si plasmano in immagini simboliche; nelle quali la mia soggettività è insieme messa alla prova e superata come nella “cottura” di un crogiolo alchemico che filtra e ribolle (anche scottando l’alchimista!) per diventare cibo o bevanda per i visitatori. Io credo che la poesia, come diceva Pasternak, sia «una funzione organica della felicità dell’uomo»: una funzione da ritrovare e valorizzare continuamente, una “scena” da non lasciare mai vuota.
Le letture che più hanno segnato il Suo percorso culturale, ovvero chi sono gli autori/le autrici che hanno contato nella Sua formazione?
La mia formazione è avvenuta all’insegna dei classici antichi e moderni, come pure del romanticismo, del decadentismo e del modernismo europeo. Queste radici restano il mio centro gravitazionale. Ma devo moltissimo anche alla musica polifonica antica e a musicisti geniali come Monteverdi e Mozart, e così pure alla poesia/filosofia orientale, ai mistici sufi e zen e a filosofi come Spinoza e Simone Weil, che considero la mia maestra spirituale. Amo anche le arti visive, il cinema e la cosiddetta world music: da giovane ho molto amato i Beatles come ottimi “traduttori” e divulgatori inventivi della musica elisabettiana nel pop.
Nel mondo contemporaneo assistiamo ad atti di sopraffazione, di soggiogazione, di violenza, e spesso i diritti umani sono violati e calpestati. Ci parli del Suo impegno civile.
Questa dimensione è divenuta parte sempre più esplicita della mia poesia a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso coi suoi rivolgimenti epocali, ed è un “tema” ormai congenere a quelli etici, creaturali simbolici della mia opera. Da molti anni sono iscritta ad Amnesty International e mi sento coinvolta da tutti i movimenti non violenti di riscatto civile e sociale, ivi compreso quello femminile.
Il 27 giugno 2019, nell’ambito della XII edizione del Festival della Poesia Europea le parole di Goethe risuoneranno nella suggestiva cornice dei templi di Paestum e Lei sarà una delle voci recitanti dell’evento. Che cosa rappresenta per Lei Goethe?
Carmelo Bene definiva Goethe «l’assessore al classico»: al di là dell’humour insieme corrosivo ed omaggiante, l’espressione mi appare condivisibile, nel senso che Goethe per tutti noi è una sorta di gigante enciclopedico, fondatore della comparatistica europea, scienziato e poeta-ponte tra Illuminismo e Romanticismo (che egli definiva spiritosamente «una nobile malattia»). È stato per me un autore da assimilare, soprattutto nella sua monumentale riscrittura ed attraversamento della mitologia classico-medievale e romantica che è il Faust (il primo e il secondo); ma è stato importante per me anche come grande autore epigrammatico e teatrale (il Meister, ma anche il suo travagliato Tasso, da cui ho tratto qualche anno fa un moderno libretto d’opera scritto su commissione). E naturalmente il suo Viaggio in Italia è l’affascinante epitone di ogni Grand Tour come scoperta e discesa nella Grande Madre mediterranea e nella sua gioia vitale. Sono lieta che il Festival della Poesia Europea mi offra l’occasione di rivisitarne l’opera, così ricca di esperienza della natura umana.
Il monstrum del sistema capitale che invita al voto senza contenuto umano “Per tutti i gusti”: ecco la definizione che si può attribuire alle elezioni europee. In assenza di cittadini capaci di esprimere un voto consapevole, di cittadini che abbiano maturato una progettualità politica di lungo termine, ci troviamo dinanzi al monstrum del sistema capitale che invita al voto, lo declama, ne fa segno del riconoscimento immediato della democrazia europea in una pluralità di “prospettive politiche”. In realtà il voto è già inficiato in partenza dall’essere in generale espresso non dal cittadino consapevole ma dal suddito consumatore: si vota nella stessa maniera con cui si scelgono le merci. Le merci rispondono ad un bisogno immediato, possono essere scelte e consumate per essere sostituite senza scrupoli morali, senza progettualità, senza consapevolezza. Si vive nell’empirico, si sceglie, si desidera, si oblia per poi ricominciare l’eterno ritorno del medesimo. Si vota in modo simile, si sceglie il candidato su un unico asse: l’asse dei propri particolari interessi personali. Non ci si scandalizza delle contraddizioni, dell’incoerenza: Salvini che osanna i cieli e gli altari; Di Maio che insegue, solo al comando, un’improbabile partecipazione dal basso, falsificata da una piattaforma (povero Rousseau!, casaleggiato) che non ammette dialettica, ma che pure si chiama Rousseau, nome che ammicca palesemente alla democrazia diretta. Nessuno scandalo, in realtà, perché da decenni ormai si ripete che l’unico fondamento dell’esistenza di ciascun europeo sono i propri interessi privati, per cui le parole non sono ascoltate, valutate, misurate. Ci si sofferma solo sugli interessi economici che rispecchiano i propri gusti-interessi, il resto è una parodia neanche percepita. La sacralità atea ed informe del nichilismo dell’ultimo uomo è tra di noi, ha la forma brutale del capitalismo acquisitivo che martella nella mente, che ordina novello e terribile imperativo categorico a perseguire solo i propri privati interessi economici.
Percezione selettiva delle parole da parte del suddito consumatore votante Il martello dell’interesse privato è sempre in atto nella testa del suddito consumatore votante, guida ad una selezione fenomenologica delle parole, si dispone ad ascoltare soltanto le parole della quantificazione, parole orientare a sollecitare la pancia, ad irrobustire il proprio peso sociale, depotenziando la spesa sociale. Decenni di berlusconismo, di “sinistre” arrendevoli e complici, di immagini senza misura orientate all’acquisto smisurato, di forchettoni sempre in agguato, hanno avuto l’effetto sperato: non più dunque cittadino, ma consumatore integrale, quindi consumatore anche nella cabina elettorale. Ci si accosta alla politica con lo stesso approccio che si ha dinanzi ad un’immensa offerta di merci, si acquista l’utile immediato, si fa il pieno dei propri interessi. Pertanto le parole circolanti dei candidati sono sfrondate, qualora ci siano ancora dei significati non economici, si va all’essenziale, alla verità dell’epoca del capitalismo speculare. Si vota come ci si specchia, valutando i propri limitati interessi privati.
Il votante migrante I commenti del giorno dopo confermano l’integralismo del capitalismo speculare. Da destra a sinistra si espongono voti, si fanno calcoli, addendi e sottraendi sono sulla bocca di giornalisti che abbondano in numeri, ma non in concetti. Tutto è ridotto a spostamenti, allo sciamare dei migranti consumatori dei voti. In assenza di ideologia, i votanti consumano e migrano. Il successo di oggi di una compagine politica è il facile insuccesso di domani. Tutto è fluido, migrante in assenza di universale. Non resta che l’esperienza di brucanti che si spostano da destra a sinistra nel gioco della falsa cittadinanza. In verità destra e sinistra sono interscambiabili, per cui la commedia umana può proseguire all’infinito, perché nessun potere è minacciato, nessuna struttura e sovrastruttura è messa in discussione, non resta che la commedia. Si invita al voto senza timore, si minaccia il voto, coscienti che nulla cambierà, anzi il voto ha l’effetto duma, è uno sfogatoio per gli scontenti, si dà l’illusione di contare, si producono speranze nelle sacche marginalizzate delle periferie e non solo, ma gli scontenti utilizzano lo stesso linguaggio, l’economia, l’interesse privato li rende doppiamente vittime in quanto usano il linguaggio del vincitore.
Educazione alla cittadinanza politica In assenza di momenti di relazioni comunitarie di base che sul territorio aggreghino al progetto ed alla condivisione, in assenza di una scuola che educhi alla comunità e alla difficile arte del continuo porsi domande, il cittadino è lasciato solo a se stesso, è all’interno di una tempesta di stimoli che non sa governare, semplicemente si adatta al contesto, ragiona solo per calcolare sulle entrate e sulle uscite. Ogni cittadino, ormai sussunto al capitale non è che un atomo del sistema, atomo consumante-migrante. I luoghi di aggregazione sono consumanti, si sciama per vivere l’esperienza edonistica del momento. Nei luoghi di partecipazione si formavano le idee, si imparava con lo scontro a superare il naturale egocentrismo umano. Oggi tutto invita al narcisismo di massa, a perseguire interessi privati a discapito della collettività, per cui il voto in quanto gesto etico-universale è destituito di fondamento. Il voto è un gesto politico, in esso dev’essere contemplata la polis tutta, non si vota solo per sé, ma il voto esprime la partecipazione, la realizzazione con un semplice gesto della natura comunitaria dell’essere umano. La perversa rivoluzione antropologica a cui assistiamo invita solo a favorire l’immediato, animalizza minimizzando le spinte comunitarie, deprezzandole con un’attività mediatica che non conosce pari in altre epoche. L’informazione è sostituita dal messaggio nella forma di giornaliste e giornalisti che seducenti attraggono con l’immagine per occultare il vuoto.
Il senso del voto: il voto è un gesto che umanizza. Verso un voto che non sia utile, ma etico e partecipato Al voto andrebbe restituita la sua dignità. Il voto è un gesto che umanizza, che consente al singolo di passare dalla condizione di atomo oggetto di forze e dunque passivizzato, a soggetto, a cittadino che in modo attivo si pone verso la comunità, va oltre gli angusti confini degli interessi privati, per ascoltare il mondo, per elaborare percorsi collettivi, per uscire dalla caverna dell’immediato, dalla violenza del privato. Per operare tale rivoluzione è necessario il contributo di tutti gli uomini e di tutte le donne di buona volontà ovunque operino a discutere dello stato presente, a smascherare le false verità, ad insinuare il dubbio. Se il mondo dei media è colonizzato dalla manipolazione, la verità comunque non la si può annegare del tutto; essa vive nel quotidiano, per cui la parola può rimettere in moto la storia, può far sopravvivere una diversa idea di politica pronta a sbocciare nel caso la terribile congiuntura attuale declini. Non si deve dubitare che la verità possa toccare le vite di tutti, e l’onirico potrà essere spazzato via con i suoi limiti; al suo posto il principio di realtà dovrà spingere verso un voto che non sia utile, ma etico e partecipato. L’esperienza del voto misura il livello di democrazia di una nazione; oggi sappiamo che siamo molto distanti dalla democrazia, ma siamo in pieno flusso migrante. La voce dei non votanti non rientra nella quantificazione senza concetto del circo mediatico. Forse ai non votanti bisogna volgere lo sguardo, a quel bacino di scontenti in cui fortemente vive “la nausea” della condizione presente. La verità libera, si deve iniziare da questa verità, la si deve diffondere, perché circoli. Possiamo rifarci al mito di Prometeo nella lettura di Platone il quale insegna che senza politica non vi è sopravvivenza della civiltà umana; non vi è polis che nella partecipazione autentica. Altrimenti non vi è che la sofistica: il potere per il potere:
«Così provvisti, all’inizio gli uomini abitavano in insediamenti sparsi, e non esistevano città. Perciò morivano uccisi dalle fiere, poiché erano sotto ogni rispetto più deboli di esse, e l’arte artigiana che essi possedevano bastava loro a procurarsi cibo, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Cercavano quindi di unirsi e di salvarsi fondando città. Ma, una volta che si erano uniti, si facevano torti l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora, temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia. Ermes chiede a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini giustizia e rispetto: “Devo distribuirli seguendo lo stesso criterio con cui si sono distribuite le arti? Perché quelle vennero distribuite in questo modo: uno solo che possieda l’arte medica basta per molti che di quell’arte sono profani, e così per gli altri specialisti. Ebbene, giustizia e rispetto devo distribuirli fra gli uomini con questo criterio, o devo distribuirne a tutti?” “A tutti”, disse Zeus, “che tutti ne diventino partecipi. Perché non potrebbero nascere città, se solo pochi di loro ne avessero parte, come accade per le altre arti. Istituisci, anzi, una legge per conto mio: chi è incapace di partecipare di rispetto e giustizia sia messo a morte come flagello della città”. Così stanno le cose, Socrate, e queste sono le ragioni per cui gli Ateniesi, e gli altri, quando si tratta della competenza nell’arte di costruire o di qualunque altra competenza artigiana, credono che solo a pochi spetti il diritto di partecipare alle decisioni, e se uno, che sia al di fuori di quei pochi, si mette a dare consigli, non lo tollerano, come tu dici: e con ragione, dico io. Quando invece si riuniscono in assemblea su questioni che hanno a che fare con la virtù politica, questioni che vanno trattate interamente con giustizia e temperanza, allora, giustamente, lasciano che chiunque dia il proprio parere, nella convinzione, appunto, che a tutti spetti di partecipare di questa virtù, o non esisterebbero città . Questa, Socrate, ne è la ragione. Ma perché tu non creda di essere ingannato circa la mia affermazione che tutti ritengono che ogni uomo partecipi della giustizia e di ogni altra virtù politica, eccotene la prova. In tutte le altre competenze, come dici, se qualcuno afferma di essere, ad esempio, un abile suonatore di flauto, o di essere abile in qualsiasi altra arte in cui invece non lo sia, o ridono di lui o gli si adirano contro, ed i suoi di casa vanno da lui e cercano di farlo tornare in sé dandogli del pazzo. Quando si tratta invece di giustizia o di qualsiasi altra virtù politica, anche se tutti sanno che uno è ingiusto, quando costui dica contro il proprio interesse la verità di fronte a molta gente, la stessa cosa che nel caso precedente veniva considerata saggezza, cioè il dire la verità , in questo caso viene considerata segno di pazzia; e sostengono che tutti devono dichiarare di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di esserlo. E questo accade perché sono convinti che ognuno debba necessariamente, in un modo o nell’altro, partecipare di questa virtù, o che, nel caso contrario, non debba vivere fra gli uomini. Il concetto che ti ho ora espresso dunque, è che gli Ateniesi accettano con ragione che ogni uomo dia consigli quando si tratta di virtù politica, per il fatto che sono convinti che ognuno partecipa di essa. E il prossimo concetto che tenterò di dimostrarti è che questa virtù non è un dono di natura né del caso, ma che è insegnabile e che chi la possiede la raggiunge grazie all’impegno. Nel caso di quei mali, infatti, che gli uomini credono, gli uni degli altri, di avere per natura o per caso, nessuno si sdegna, né ammonisce o ammaestra o rimprovera quelli che li hanno, perché smettano di essere tali, ma ne provano pietà. Chi potrebbe, ad esempio, essere così insensato da mettersi a fare una cosa del genere coi brutti, coi piccoli o coi deboli? Tutti sanno infatti, ne sono convinto, che queste cose vengono agli uomini perché portate dalla natura o dal caso, ossia le belle qualità e i difetti corrispondenti».[1]
Nell’epoca cartesiana dell’hic et nunc, del trionfo del “moderno” e dei suoi “valori”, ha ancora un senso parlare dell’influenza del pensiero greco nella storia cristiana? C’è ancora spazio per questo grande patrimonio di sapere, di razionalità, di umanesimo? E, più in generale, l’umanesimo classico ha ancora un valore per la storia dell’Occidente? Il cristianesimo oggi pare inseguire e giustificare l’attualità, non più interessato a un giudizio su di essa; ma senza la mentalità filosofica greca delle domande, del dialogo, del desiderio di conoscenza, esso è prigioniero degli interessi e dei poteri dominanti. C’è una sola voce che è uscita fuori dal coro, il punto di vista lucido del Papa Benedetto XVI, sul quale è caduta la cappa del silenzio. Questo studio ripropone le ragioni di Ratzinger e del legame originario tra cristianesimo e pensiero filosofico greco, come germe di razionalità per la società multietnica contemporanea, vittima della banalità omologante che avvolge il mondo contemporaneo.
Sommario
Presentazione di Luca Grecchi Prefazione di Arianna Fermani
Introduzione Abbiamo ancora bisogno dei Greci L’humanitas antica nell’epoca dei vorticosi cambiamenti La grecizzazione del cristianesimo antico Paolo ad Atene Logos greco e Dio cristiano La discussione sulla deellenizzazione Conclusione
«Insegnare lingua inglese, storia e, a un certo momento, perfino etica, era stato insegnare conoscenze tecniche che aveva fatto proprie come accessorie alla formazione del proprio carattere. Se avesse studiato ponendosi come unico obiettivo quelle conoscenze, non avrebbe dovuto fare altro che aprire un libro in classe. Se si fosse accontentato di campare aprendo un libro, non sarebbe stato affatto diverso, in linea teorica, dal funambolo che campa camminando sulla fune, o dal giocoliere che campa facendo roteare i piatti sulla cima di un bastone.
Ma lo studio è cosa diversa dal funambolismo e dai giochi di destrezza.
Apprendere le conoscenze tecniche è marginale: lo scopo è la costruzione dell’uomo.
Lo scopo è fornirlo di una solidità che gli permetta di distinguere le cose grandi dalle inezie, di conoscere la differenza tra ciò che conta e ciò che non significa niente, di avere ben chiaro cosa ama e cosa no, di riconoscere senza esitare il confine tra il bene e il male, di non sbagliare nel giudicare intelligenza e stupidità, vero e falso, giusto e ingiusto.
Doya la pensava così. Per questo non disprezzava l’idea di sbarcare il lunario vendendo le proprie conoscenze ma, allo stesso tempo, considerava un abominio l’idea di allontanarsi dai fondamenti su cui si ergeva la sua formazione culturale. Il rifiuto di cui era oggetto ovunque andasse era effetto del suo basarsi sull’essenza stessa dei suoi studi, per cui, dato che lui stesso, analizzando il proprio intimo, non trovava alcunché di cui vergognarsi, non riteneva di essere uno smidollato. Gli insulti di chi vedeva in lui uno sciocco caparbio erano così assurdi, che non li avrebbe compresi nemmeno se avesse potuto posarli sul palmo della propria mano, per analizzarli con la lente d’ingrandimento, sotto una gronda esposta a sud, in un giorno d’estate!
Tre volte era diventato professore e tre volte era stato cacciato dal suo posto ma, nella sua mente, ogni espulsione valeva più di un dottorato di ricerca. Un dottorato sarà anche un titolo importante, ma in fondo si acquisisce tramite le conoscenze tecniche. Non è molto diverso da quando un ricco ottiene il quinto grado di nobiltà con una donazione per la costruzione della flotta.
Natsume Sōseki, Raffiche d’autunno, Lindau, Torino 2017, pp. 13-15.
Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.
Salvatore A. Bravo
L’albero filosofico del Ténéré.
Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve
Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve
L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.
La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.
La campagna pubblicitaria sopracitata è un caso da manuale di quelle «identità costruite dal e per il marketing», destinate a naufragare «nei desideri del mercato», che si aggirano nel deserto su cui si appunta lo sguardo lucido di Salvatore A. Bravo nel suo ultimo libro, pubblicato da Petite Plaisance, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (in Nietzche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve. La traversata del deserto è impresa ambiziosa, urgente e rischiosa e richiede il coraggio intellettuale di un riorientamento radicale, capace di guardare negli occhi il nichilismo penetrato nella profondità del corpo sociale e di tagliare il nodo gordiano di appartenenze ideologiche che, incapaci di prendere atto delle nuove realtà storiche e di mettere in discussione schemi interpretativi e filosofici accettati fideisticamente, finiscono per legittimare e rafforzare il nichilismo dominante, con il quale condividono l’economicismo di fondo.
Per potere tentare la traversata, occorre innanzitutto sapere riconoscere l’aridità e la piattezza del deserto sotto le linee frastagliate e seducenti del paesaggio nel quale siamo immersi, occorre lacerare il velo delle illusioni – la promessa della felicità nella soddisfazione illimitata dei desideri e nella disponibilità di beni sempre nuovi – che coprono le sabbie mobili del ciclo produzione-consumo, assurto ad orizzonte esclusivo dell’esistenza. Occorre strappare l’esistenza dal hicet nunc di un presente senza storia, da cui l’universo delle merci trae motivo di legittimità, proclamando la propria naturalità e la propria intrascendibilità. Si disegna, così, una situazione paradossale che vede da un lato l’individuo sollecitato dall’ampio ventaglio della scelta e dall’altro, ridotto ad uno stato di impotenza sociale e di asservimento non dichiarato, in quanto la cornice entro la quale si muove vanta la pretesa totalizzante di essere la sola possibile.
Onnipotenza astratta e concreta impotenza, secondo la felice espressione di Lukàcs, sono le pareti della gabbia d’acciaio che delimita il perimetro entro il quale il soggetto può muoversi. Ecco allora imporsi la legge del nulla, all’insegna di una omologazione dove la speranza – tensione verso il possibile – piange disfatta e l’angoscia regna, come nel celebre sonetto di Baudelaire.[1] Il processo di naturalizzazione è andato così avanti, che è presumibile che la speranza non riconosca nemmeno la propria sconfitta, in quanto è scomparsa dall’orizzonte e, nel migliore dei casi, ride sguaiatamente, compiacendosi con spavalderia fintamente trasgressiva nel e del nulla.
L’immagine del deserto come metafora del nichilismo è stata coltivata da filosofi di grande notorietà – e con seguito accademico – come Nietzche e la Arendt che hanno lucidamente individuato una serie di dispositivi – termine che rinvia ad una presunta neutralità della tecnica – che hanno schiavizzato gli uomini, annullato l’individuo come lusso inutile, a vantaggio della massificazione burocratica ed economica, finendo per aprire la strada ad una nuova umanità privata della corrente calda della vita. Essi hanno denunciato efficacemente la desertificazione del pensiero, minacciato da macchinismo e totalitarismo e invocato la necessità dell’oasi. La Arendt la cerca in quegli ambiti della vita che esistono, in parte o in tutto, indipendentemente dalle condizioni politiche: l’isolamento dell’artista, la solitudine del filosofo, le relazioni affettive. La loro analisi, pur capace di cogliere aspetti importanti dell’alienazione che minaccia la condizione umana, resta interna al nichilismo, perché – osserva Salvatore Bravo – rinuncia al «fondamento veritativo della Filosofia».[2]
Né è superfluo ricordare, a tal proposito, che Nietzche teorizza l’esperienza elitaria del nichilismo attivo. L’oasi della Arendt assume nel testo di Salvatore A. Bravo la forma dell’Albero del Ténéré, un’acacia che, unica pianta per centinaia di chilometri tutt’intorno, in questa regione desertica del Sahara, a nordovest del Niger, costituiva per le carovane di cammelli il punto di riferimento obbligato. Guida per orientarsi e simbolo di vita – quasi miracolosa nella sua unicità – nella gran distesa uniforme di sabbia, l’Albero del Ténéré consentiva quella pausa necessaria per riprendere respiro e raccogliersi prima di continuare il cammino. Il sollievo momentaneo dell’oasi, infatti, non basta a Salvatore Bravo: è alla traversata, all’esodo dal deserto che egli ci invita. Impresa pericolosa, si diceva, tale da richiedere bussola e sguardo lungo e consapevolezza della fatica che attende il viaggiatore.
La bussola è offerta dal discorso filosofico di Costanzo Preve, uno dei pochi filosofi contemporanei che abbia avuto il coraggio di rilegittimare il valore veritativo della Filosofia e di rifiutarne la riduzione a semplice dossografia, elenco di opinioni e dottrine. Ha pagato questa scelta controcorrente con l’esclusione dai salotti buoni della filosofia, per i quali la ricerca del fondamento veritativo o è eluso, o si ritrova addirittura ad essere derubricato alla voce “totalitarismo”. E invece, l’approccio filosofico di Preve risponde proprio alla necessità di indagare la natura dei totalitarismi che l’opera di Arendt e Nietzche occultano più che rendere palese, afferrandone le manifestazioni epidermiche più che l’intima natura. La rimozione degli aspetti totalitari presenti massicciamente nel modo di produzione capitalistico rende innocua la loro critica che, non poggiando su un rigoroso fondamento, non può nemmeno offrire gli strumenti per osare la traversata. Costanzo Preve – e Salvatore Bravo che, con la sua riflessione filosofica, intende continuare il percorso da lui aperto – fa dell’intrinseco rapporto fra capitalismo e nichilismo la chiave di lettura del fenomeno. La quantificazione della vita, la quale ha subíto una decisa accelerazione nella globalizzazione liberista che ha sancito l’affermarsi del capitalismo assoluto – sciolto da qualsiasi limite –, ha ridotto i vissuti a cose e spezzato i vincoli comunitari, fino a fare di ogni individuo un atomo Robinson ritirato dal mondo e ripiegato su se stesso e dell’alienazione la normalità. Se il deserto è rinuncia al pensiero, riduzione dell’umanità al dato biologico e alla corsa verso l’accumulazione di beni, spetta alla Filosofia il compito di restituire il soggetto alla storia e alla propria umanità. Un compito arduo che la Filosofia può assolvere, solamente ponendosi come «scienza del fondamento, portatrice di verità condivise attraverso il dialogo».[3]
Solo il fondamento può ricondurre il molteplice all’unità, superare le scissioni per ritrovare la totalità, ristabilire gerarchie di valore e suscitare un giudizio responsabile: si crea così il presupposto per potere comprendere il nostro presente. Nel disordine e nell’omologazione si installano nichilismo e relativismo, il deserto si estende, le piste che conducono verso l’uscita vengono cancellate dai mulinelli di sabbia e le carovane sono sviate da rutilanti miraggi che mostrano un’oasi dove c’è solo un’altra duna, uguale alle precedenti. I punti di riferimento da rielaborare per definire tale fondamento, ovvero la verità oggettiva dell’essere umano mediata dall’esperienza storica, sono rappresentati per Preve dal mondo greco, da Marx, Hegel e Sorel. Nel dialogo creativo con questi autori, prende forma la connotazione della natura umana come razionale-comunitaria e generica. È razionale e valutativa, perché capace di determinare le giuste proporzioni per salvaguardare se stessa e la comunità; è generica, perché aperta sulla possibilità di determinare storicamente la propria natura. Può, dunque, perdersi nell’alienazione, qualora non riesca ad opporsi alle pressioni ed ai condizionamenti del potere, così come può affermare le proprie potenzialità. Perché ciò avvenga, è necessario un intreccio con la comunità, con la parola comunitaria. In questa individuazione della natura umana intervengono tre concetti fondamentali, strettamente legati: logos, limite, misura. Costanzo Preve recupera il significato originario della parola logos come calcolo del limite, di ciò che è necessario, contro la dispersione e l’estraniazione causate dall’eccesso, dalla crematistica (dal greco chrèmata, ricchezze) che indeboliscono il soggetto. La coscienza deve, con il logos, calcolare il limite, calcolo reso necessario dalla natura limitata dell’essere umano, destinato a morire e bisognoso di una comunità per sopravvivere. La parola métron (misura) non ha in Preve la connotazione datale poi dalla rivoluzione scientifica, ma, piuttosto, una declinazione sociale, è equilibrio dell’assetto sociale , calcolato dal logos. Non sfugga la portata di un approccio teoretico impostato sulla centralità della natura umana per la costruzione di una fondata e coerente prassi anticapitalistica. I nuovi riduzionismi, che nelle neuroscienze trovano un modello trionfante, apportatore di utili suggerimenti utilizzabili anche dal marketing, rappresentano l’uomo come un essere plasticamente determinabile, riconducibile ad un meccanismo stimolo-risposta, alimentando l’idea che la natura umana sia infinitamente manipolabile.
La possibilità, categoria di primaria importanza nella caratterizzazione data da Preve, si trova ad essere esclusa e, con essa, qualsiasi alterità rispetto al sistema dei rapporti sociali dominanti. Né è da trascurare, a giudizio dello scrivente, l’impatto devastante che prossimamente potrebbe avere un’ideologia come il transumanesimo che fa del superamento degli stessi limiti biologici dell’essere umano, “potenziato” dalle macchine con cui entra in simbiosi fisica, la propria cifra, ultimo approdo di una hybris i cui tratti distintivi di negazione del limite e di infinita flesibilità e adattabilità dell’essere umano, nell’ottica dell’efficienza e della performatività, rispondono appieno al cattivo infinito sotteso alla logica del capitale, per il quale l’uomo deve essere tabula rasa su cui scrivere in assoluta libertà, realtà sensoriale da soddisfare, innanzitutto attraverso il baratto. Il capitalismo ha vinto – per ora – la partita, puntando tutto sulla quantità infinitamente in espansione, sull’illimitato di desideri potenzialmente inesauribili da soddisfare, ma ha eluso e mortificato la domanda di senso che è costitutiva dell’uomo. La ricerca di Costanzo Preve ha avuto il grande merito di porre al centro della riflessione filosofica questa domanda e di fornire gli strumenti teoretici per risposte non semplici e non subordinate al paradigma dominante, all’altezza della sfida posta dalla condizione umana nell’epoca del capitalismo assoluto. L’esodo dal deserto ha bisogno di durevole passione filosofica, di caparbia intelligenza critica, capaci di squarciare il velo delle illusioni e di pensare un «cambio di prospettiva». Un cambio di prospettiva che si intreccia strettamente con il concetto di “comunità”, articolazione fondamentale nel pensiero di Preve e al quale l’autore del saggio dedica pagine illuminanti. Da Aristotele, come già si è detto, Preve mutua il concetto di “essere umano” come “zoon logon echon”, animale razionale. Il logos (di cui logon è l’accusativo) è nodo di straordinaria densità concettuale: rinvia sia al «linguaggio come strumento di convincimento razionale comunitario», sia alla «ragione universalmente diffusa in tutti gli uomini», sia «al calcolo geometrico applicato alla giusta distribuzione del potere e delle ricchezze»,[4] unico argine al dilagare della prepotenza del singolo e del caos. La democrazia comunitaria, in cui il dialogo (dia-logos) garantisce la comunicazione e vigila sul mantenimento del limite, consente agli esseri umani di ritrovare la loro natura e di porla a sostanza della comunità stessa.[5]
È a partire da questo ideale regolativo che Preve ripensa il comunismo: la comunità vive nel trascendimento delle divisioni sociali, ma anche per evitare il tragico fallimento del comunismo novecentesco realizzato (cui il filosofo riconosce, comunque, numerosi meriti nella lotta all’imperialismo e nell’impulso dato ai diritti sociali) deve mantenere la tensione tra individuo e comunità, e sottrarsi alla tentazione della fusione i cui esiti non possono che essere distopici. Salvatore Bravo sottolinea come il comunitarismo previano recuperi la radicalità della libertà nel pensiero di Marx, in cui la Storia diventa l’incontro tra le scelte degli uomini e le circostanze storiche. Lo sguardo lucido e privo di compiacimento che Preve getta sulle esperienze rivoluzionarie del Novecento, viziate dall’economicismo e sfociate in dominio burocratico che ha costretto gli uomini nella stessa passività e solitudine del capitalismo,[6] non inficia la grandezza e la necessità – oggi più che mai – di una lotta per una comunità senza oppressione, condizione sine qua non perché fioriscano le potenzialità di ciascuno. Dunque, il pensiero di Preve orienta verso l’esodo dal deserto, rimettendo in azione il motore della storia di cui molti avevano decretato il funerale, a tutto vantaggio di un intrascendibile presente, e lo fa radicandosi in una lunga tradizione filosofica che egli rilegge liberamente, all’insegna della pratica comunitaria della filosofia inaugurata da Socrate. La Filosofia è, infatti, dialogo, è logos che diventa comunitario. Il saggio di Salvatore Bravo evidenzia come l’esperienza culturale, nonché la vita di Preve, siano la dimostrazione che l’incontro tra l’io e il noi costituisce la condizione imprescindibile per l’esistenza stessa della Filosofia, e di una filosofia che, attraverso la catena dei perché, divenga atto emancipativo dalla falsa coscienza, dall’ideologia che piega le coscienze all’ obbedienza e all’adattamento. Essa fonda l’universalismo umanistico, dimostrando il fondamento ontologico comune dell’umanità e, a partire da esso, fonda la resistenza ai processi di alienazione e la possibilità di una prassi coerente con il contesto storico. Il testo di Bravo è una sorta di commento “esemplare” – costruito con passione dialogante e rigore argomentativo – della concezione dello studioso di filosofia antica Pierre Hadot, secondo la quale si tratta di dimostrare «che il discorso filosofico fa parte del modo di vivere» e «che la scelta di vita del filosofo ne determina il discorso».[7]
È, questo, un libro non per “esperti” della disciplina filosofica, (che, comunque, vi troverebbero non pochi fondamentali elementi di riflessione e confronto) ma, innanzitutto, per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo, laddove tutte le posizioni sembrano occupate dai poteri forti dell’economia e dalle costellazioni ideologiche che intorno ad essi ruotano.
Fernanda Mazzoli
*** * ***
Note
[1] Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, Spleen.
«Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis, Et que de l'horizon embrassant tout le cercle Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l'Espérance, comme une chauve-souris, S'en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds pourris; Quand la pluie étalant ses immenses traînées D'une vaste prison imite les barreaux, Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux, Des cloches tout à coup sautent avec furie Et lancent vers le ciel un affreux hurlement, Ainsi que des esprits errants et sans patrie Qui se mettent à geindre opiniâtrément.
- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique, Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir, Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir».
«Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve schiaccia l'anima che geme nel suo tedio infinito, e in un unico cerchio stringendo l'orizzonte fa del giorno una tristezza più nera della notte;
quando la terra si muta in umida cella segreta dove, timido pipistrello, la Speranza sbatte le ali contro i muri e batte con la testa nel soffitto marcito;
quando le strisce immense della pioggia sembrano le inferriate d'una vasta prigione e muto, ripugnante un popolo di ragni dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,
furiose a un tratto esplodono campane e un urlo tremendo lanciano verso il cielo, così simile al gemere ostinato di anime senza pace, né dimora.
- Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza, Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica, pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero».
[5] Si pone in antitesi, pertanto, alla democrazia formale, le cui procedure sono finalizzate alla riproduzione del potere. Il rito di una democrazia non autentica si consuma stancamente, si rivela essere un’ «atomistica delle solitudini», espressione, fra le altre, di disgregazione nichilistica.
[6] Preve rifiuta categoricamente la lettura liberale del comunismo novecentesco come semplice totalitarismo.
[7] Per la citazione completa di P. Hadot, cfr. Ivi, p. 106.
Creare è vivere due volte, è dare una forma al proprio destino. (Albert Camus) Adoro gli esperimenti folli. Li faccio in continuazione. (Charles Darwin) La logica ti porterà dalla A alla B. L’immaginazione ti porterà ovunque. (Albert Einstein) Non soffocare la tua ispirazione e la tua immaginazione, non diventare schiavo del tuo modello. (Vincent Van Gogh) L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana. (Giacomo Leopardi)
Liberando il possibile compresso nel dato, l’immaginazione con ciò stesso libera il divenire, ovvero il “poter-essere-altrimenti” delle cose.
«L’immaginazione è la regina del vero, e
il possibile è una provincia del vero. Essa è concretamente congiunta
con l’infinito. […] Facoltà misteriosa, questa regina delle facoltà! Essa
coinvolge tutte le altre; le eccita, le spinge alla lotta. […] L’immaginazione
è la sensibilità. L’immaginazione
invero ha appreso all’uomo il senso morale del colore, del contorno, del suono
e del profumo. Essa ha creato, al principio del mondo, l’analogia e la
metafora. Essa scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e
disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea
un mondo nuovo, produce la
sensazione del nuovo. […] L’immaginazione è l’analisi e, nello stesso tempo,
è la sintesi. Senza di lei, tutte le facoltà, per quanto solide o acute,
sarebbero ridotte a nulla. […] Coloro
che sono privi di immaginazione, divengono i copisti del dizionario».
Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Id., Scritti
sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Einaudi, Torino, 1992, p.
223-224, 227).
AL CENTRO DELLE EMOZIONI: A FRANCOFORTE IL FESTIVAL DELLA POESIA EUROPEA
È giunto alla XII edizione il Festival di Poesia Europea di Francoforte sul Meno e la sua vitalità testimonia come la poesia riesca a parlare e a giungere negli angoli più reconditi dell’anima degli uomini e delle donne del nostro tempo. Festival vivo e vitale che rappresenta un punto d’incontro tra esperienze e culture diverse, e dove è possibile esprimere la parola poetica che doni emozioni.
Il Festival patrocinato dal Comune di Francoforte sul Meno, sindaco Peter Feldman, sempre al passo con i tempi e che, per la prima volta, si articolerà in tre tappe. Sarà la dott.ssa Maria Mazza, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Colonia che patrocina l’evento culturale che il 16 maggio, alle ore 20:00 nella prestigiosa sede Deutsch-Italienische Vereinigung di Francoforte sul Meno lo inaugurerà.
Seguirà l’omaggio a Goethe con la conferenza “Die Schule des Sehens – Goethes Italienische Reise”, conferenza che vede la presenza della dott.ssa Heike Spies, vice direttrice del Goethe Museum di Düsseldorf. Spetterà alla poeta Barbara Zeizinger poliedrica esponente della poesia contemporanea tedesca, leggere alcuni brani in lingua tedesca di Goethe mentre la lettura in italiano sarà curata dall’attore Moreno Fabbri, uno degli attori più interessanti del panorama culturale italiano.
Il 17 maggio, alle ore 11, happening al Giardino Botanico, senza ombra di dubbio uno degli eventi più suggestivi e magici di questa prima tappa del Festival, isola verde nel cuore della città di Francoforte sul Meno, dove tra luci impalpabili e colori sfavillanti, e fiori e piante rare ed alberi si giungerà all’albero-icona di Goethe dove i poeti reciteranno letture e poesie dedicate al sommo poeta tedesco. La poeta e direttrice artista, Marcella Continanza leggerà alcune liriche già pubblicate e tradotte in inglese, francese e spagnolo mentre Moreno Fabbri interpreterà brani dal Faust come La notte, Elegie romane e Epigrammi. Dunque, il Giardino Botanico diventerà lo scenario perfetto per amplificare il flusso d’emozioni che solo la grande poesia riesce a regalare. Inoltre, il programma prevede anche altri appuntamenti da non perdere come alle ore 15:00 – Visita al museo – Schirn Kunsthalle, alle ore 19.00 al Café am Dom, Weckmarkt 13-15, Frankfurt / Main Reading da Goethetexten con Moreno Fabbri – Modererà il Dr Wolfgang Schaffstein e per concludere, alle ore 21.00 Al tavolo con Goethe, tutti a cena per gustare i cibi preferiti dal poeta, creando un felice connubio tra arte e cucina.
Il 27 giugno ci sarà un altro skyline per la seconda tappa della XII edizione del Festival. Uno skyline fatto soprattutto di templi che si scagliano nel blu cobalto del cielo, fatto di luce sospesa del giorno e del groviglio di profumi e colori che preannunciano la bella stagione: Paestum. Perché anche questo è il ruolo del Festival: creare punti di contatto tra mondi diversi come la poesia e l’archeologia.
Nel marzo 1787, Goethe durante il suo viaggio in Italia, si recò anche nella città salernitana e proprio in questo scenario suggestivo e carico d’emozioni i poeti italiani Anna Santoliquido, Maura Del Serra, Moreno Fabbri leggeranno alcune pagine del “Viaggio in Italia” di Goethe e in particolare i brani relativi al suo soggiorno a Napoli e a Paestum mentre il critico Vincenzo Guarracino avrà l’onore di illustrare l’opera di Goethe. L’evento sarà patrocinato dal comune di Paestum. Il saluto di benvenuto sarà affidato al dr. Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico Nazionale di Paestum.
Infine, il Festival ritornerà in Germania a Friedrichshafen e in quest’ultima tappa, il Festival collabora con l’Associazione Italiana Culturale di Friedrichshafen. Il 27 settembre appuntamento al Centro culturale e congressuale Graf-Zeppelin-Haus, Alfred Colsman Saal, Olgastr. 20, Friedrichshafen dove ci sarà il saluto di benvenuto di Giovanni D’Amicodatri, Presidente dell’Associazione Italiana Culturale di Friedrichshafen e del sindaco della città. Seguirà una conferenza stampa con i poeti Titos Patrikios (Grecia), Presidente del Comitato del Festival, Maura Del Serra e Moreno Fabbri (Italia), André Ughetto (Francia), Barbara Zeizinger (Germania), Casimiro De Biro (Portogallo), Mila Haugova (Slovacchia), Francesc Parcerisas (Spagna). Poi Il caffè con i poeti momento che contribuisce a creare un forte legame tra i poeti e il pubblico. Alle ore 19.00 la Tavola rotonda sul coinvolgente e quanto mai attuale tema “Quo vadis Europa?” Da dove nasce tutto questo interesse per l’Europa? L’economia non può certamente essere l’unico valore su cui creare le basi per un unione tra i diversi popoli europei. L’Europa non si costruisce solo attraverso interventi economici ma soprattutto attraverso i suoi artisti, attraverso la voce dei suoi scrittori, dei suoi poeti. Ed è proprio questo il fine ultimo del Festival della Poesia Europea di Francoforte sul Meno riuscire a essere uno spazio dove sia possibile creare una rete culturale europea che edifichi il tessuto europeo. Il 28 settembre, a chiusura del Festival, è prevista la visita al Museo Zeppelin e successivamente, alle ore 17.00 l’attenzione sarà focalizzata sul libro Poesia al Cinema a cura di Marcella Continanza (puntoacapo Verlag, 2017) dove si parlerà della relazione che intercorre tra queste due forme d’arte. Inoltre verrà letto l’intenso e vibrante intervento critico di Nadia Cavalera “Bausch e Wenders: un intreccio poetico al quadrato”. Barbara Zeizinger leggerà l’intervento in tedesco mentre a Moreno Fabbri sarà affidata la rilettura in italiano e per conclude, alle ore 19.00 la Lettura dei Poeti d’Europa.
Dunque è la stella di Goethe a brillare e a unire tra loro tutte le tappe di questo Festival della Poesia Europea di Francoforte sul meno. Il filo rosso che si dipana tra queste tre tappe del Festival è l’opera di Goethe che riesce a creare emozioni che arrivano direttamente al cuore.
Il Festival è promosso dall’Associazione Donne e Poesia Isabella Morra, dal giornale Clic Donne 2000 e dal Comitato del Festival. Oggi più che mai abbiamo bisogno della poesia, della sua energia travolgente, della sua forza trascinante e appunto per questo abbiamo bisogno di Marcella Continanza, la vera anima del Festival della Poesia Europea di Francoforte sul Meno. Giornalista, poeta, ideatrice e direttrice artistica del Festival ed è grazie alla sua energia, alla sua passione se ogni anno si rinnova la magia di questo raffinato evento culturale.
La verità del capitalismo assoluto Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo. In nome del valore di scambio – demofobico per necessità – il capitalismo addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio; ovvero, attraverso l’addestramento al lavoro all’interno dell’istituzione scolastica si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di un quantità di denaro finalizzata al consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino:
«Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci».[1]
L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. È necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.
Formare alla plebe L’integralismo economicistico – nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo – rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente. Il capitalismo assoluto sottrae, con il tempo storico, la possibilità di dare un senso al tempo e forma all’impotenza, la quale ha lo stesso valore paralizzante del terrore dei totalitarismi riconosciuti. Capitalismo assoluto e plebe coincidono: l’uno è la sostanza dell’altro. Il capitalismo può espandersi, disintegrare ogni legame sociale in nome del consumo, delle disuguaglianze, della assenza di ogni attività propositiva da parte dei popoli. Le plebi – vittime delle lobby del capitale – in assenza di consapevolezza, fruitrici del mito del benessere ad ogni costo, mito astratto, in assenza di consapevolezza delle conseguenze etiche ed ambientali dello sviluppo illimitato in nome della quantità senza qualità:
«Come abbiamo detto, chiamiamo ‘capitalismo assoluto’ questa fase dello sviluppo capitalistico, e questo meccanismo ha conseguenze distruttive. Il rapporto sociale capitalistico, quando diventa non solo il rapporto dominante, ma l’unico modello di rapporto sociale accettato, tende a dissolvere il legame sociale. Il legame sociale è infatti basato su una complessa rete di relazioni che toccano tutte le dimensioni della vita sociale e si innervano nella psicologia degli individui. Riducendo questa complessità all’unica dimensione del contratto fra privati in vista di un profitto quantitativamente misurabile, il ‘capitalismo assoluto’ rende il legame sociale estremamente fragile. Ed è proprio questa sotterranea distruzione del legame sociale che ci sembra alla base del malessere diffuso nelle nostre società».[2]
Con l’aziendalizzazione si ha l’obiettivo di inibire sul nascere il modello pedagogico hegeliano: l’idealismo si contraddistingue per l’essenzialità valoriale della processualità dialettica, ovvero, il risultato è in realtà secondario rispetto all’importanza del processo. Il risultato non è che il momento finale di un processo, i cui momenti devono essere giustificati in funzione del momento finale. Inoltre, per giustificare i momenti logici-processuali, si utilizzano una pluralità di categorie che colgono lo stesso momento da lati diversi. Tale procedura pedagogica, è un modello educativo, razionale e comunitario. Il modello azienda predilige invece il risultato al processo ed utilizza la categoria della quantità quale strumento per decodificare il processo logico nella sua unità e globalità. La motivazione è nel risultato, che determina l’agire, i mezzi e le sequenze intermedie fino a predeterminare la volontà del soggetto. Nel decreto sull’alternanza scuola-lavoro (istituita tramite la Legge 53/2003 e il Decreto Legislativo n. 77 del 15 aprile 2005, e ridefinita dalla Legge n. 107 del 13 Luglio 2015) le finalità riportate sono all’articolo 2:
«1. Nell’ambito del sistema dei licei e del sistema dell’istruzione e della formazione professionale, la modalità di apprendimento in alternanza, quale opzione formativa rispondente ai bisogni individuali di istruzione e formazione dei giovani, persegue le seguenti finalità: a) attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica; b) arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; c) favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; d) realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, nei processi formativi; e) correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio».
Il linguaggio pedagogico, l’appello all’indole personale, alla cultura, al sociale non sono che distrattori di massa. Nella realtà la scelta dello studente dipende dai contesti, dalle aziende a cui si deve elemosinare l’eventuale disponibilità alla formazione. Nessuno sceglie, la legge è calata dall’alto, presso le aziende le istituzioni vivono una condizione di sudditanza.
Antiumanesimo dell’alternanza scuola-lavoro L’alternanza scuola-lavoro si presenta come un modello pedagogico antiformativo in senso umanistico, poiché la parola pratica è intesa come contrapposta e superiore alla conoscenza teorica-teoretica. In realtà, ancora una volta i legislatori-pedagoghi dimostrano di ignorare o vogliono cancellare la cultura umanistica e filosofica. La relazione tra teoria e prassi, la capacità di pensare l’empirico per ridefinire i fini ed individuare le contraddizioni, tale operazione deve necessariamente prevedere l’epochè, la contemplazione del dato; invece si punta a formare un’umanità capace soltanto di risolvere – con intuitiva immediatezza o mediante l’uso di mezzi tecnici – problemi che emergono dalla pratica empirica. Il passaggio teorico teoretico è giudicato un limite, poiché implica la sospensione della produzione, ma specialmente la possibilità che il soggetto possa – maturando il dubbio sui fini – sfuggire agli automatismi che si vorrebbero inoculare. Il soggetto non deve vivere l’esperienza hegeliana della coscienza infelice, la contraddizione tra particolare ed universale, non deve avere la simbolizzazione dei fini oggettivi, il suo stato dev’essere di perenne scissione dal concetto, dalla verità. Deve eliminare la metariflessione per perseguire l’esattezza della quantità nella produzione, nell’adesione ai tempi della produzione, allo scopo di strutturare in modo granitico il lavoro astratto e non il valore concreto. Il lavoro astratto, già definito da Marx, è funzionale al valore di scambio, dunque è la forma espressiva dell’alienazione. Nei Grundrisse il lavoro astratto è lavoro che ha perso non solo l’espressione simbolica del lavoratore, ma è lavoro parcellizzato, specializzato nelle singole fasi, in cui regna l’addestramento alla divisione dell’operaio da se stesso e dagli altri. Il nichilismo della cultura aziendale si fa qui evidente, nella scissione tra teoria e prassi; è questa una delle scissioni sottintese che operano nell’aziendalizzazione della comunità: la scissione opera nella forma dell’individualismo che rompe ogni vincolo solidale, poiché il progetto autentico è sostituito dall’azione di adattamento al regime del capitalismo assoluto. Il fine dell’alternanza è, quindi, la spendibilità delle competenze del singolo alunno, addestramento alla flessibilità o meglio iperattività senza cultura teoretica, o sua riduzione minimale nel disprezzo presunto della stessa, perché non richiesta dal mercato del lavoro, che condiziona l’attività didattica. Pertanto la libertà didattica è un proposito giuridico e non effettuale.
Quale «organico orientamento» ? Naturalmente l’organico orientamento al mercato del lavoro ben poco si concilia con la libera espressione/vocazione individuale, la quale è ammessa ed incoraggiata fin quando si favoriscono le professioni spendibili sul mercato del lavoro. Il termine spendibile svela e rileva l’unica finalità dell’ASL, cioè formare consumatori dipendenti dal mercato per il superfluo come per il loro orientamento lavorativo. Il risultato è una mutazione antropologica: l’istituzione pubblica deve formare il suddito ad immagine e desiderio del mercato, mentre l’autonomia è solo un mezzo per rompere ogni vincolo universalistico e comunitario e fare della scuola una costola del mercato. Le competenze che si dovrebbero affinare sono correlate alla capacità di risolvere problemi per ottenere risultati… L’ASL è inserita all’interno dell’offerta formativa alle famiglie (articolo 4, comma 6) che risponde ai bisogni del tessuto economico, locale in primis, e nazionale. Il lavoro diviene in tale ottica, malgrado l’intento dichiarato di valorizzazione dei singoli, omologazione, poiché si chiede l’adattamento necessario e passivo al sistema produttivo, alle sue esigenze, ai suoi ritmi:
«Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall’analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz’altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l’uno all’altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale. Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce».[3]
Diseducare alla qualità per affermare solo la quantità L’istituzione pubblica con la sua offerta formativa deve astrarre il tempo vissuto, l’individualità profonda per renderla secondaria rispetto alla formazione al tempo omologato. In tale clima educativo il docente che dovrebbe educare alla formazione delle singole personalità nella concretezza della comunità-classe è così doppiamente mortificato nella sua autonomia intellettuale e formatrice, dalla gerarchia dell’azienda-scuola e dell’azienda produttiva: si rafforzano le spire della barbarie, si agisce dall’interno per svuotare il senso della formazione e debilitare gli attori della formazione. Tutto avviene nel nome della categoria della quantità, la sostanza del presente storico. L’alternanza scuola lavoro è già superata sul nascere, poiché il sistema produttivo necessita sempre meno di manodopera, mentre necessita sempre più di idee. Inoltre, in un sistema che produce ed annichilisce l’ambiente umano dove l’essere umano dovrebbe vivere, avrebbe avuto senso insegnare in modo massiccio al riuso, come a limitare gli effetti dei comportamenti singoli e collettivi sull’ambiente. L’alternanza scuola-lavoro è visione del lavoro novecentesca, tanto più che il sistema produttivo è così liquido e veloce da rendere inutile ciò che il lavoratore-studente impara nei tre anni nell’addestramento al lavoro. Una scuola buona e vera dove si impara la disciplina del pensiero, il rigore dello studio potrebbe essere più proficua che l’addestramento lavorativo. Evidentemente in tale iniziativa l’intento vero è sottrarre ulteriori energie alla formazione di cittadini per formare sudditi laboriosi ed ubbidienti. Ecco la monocategoria che astrae da ogni esperienza del vivere civile la qualità per immetterla in una perversa conversione che alla fine rende impossibile il riconoscimento delle differenze. È il monismo parmenideo nella forma più esasperata e perversa: la qualità, le differenze, i fini sono cancellati, sono giudicati un impaccio, apparenza. Pur di arrivare sulla linea d’orizzonte della quantità si astrae da quest’ultima ogni segno di vitalità, si stigmatizza come negativo ogni fine accettato e perseguito per i valori qualitativi e umanistici cui mira. Il processo di alienazione deve impedire il pensiero della qualità.
La resistenza antropologica deve dunque trasformarsi in prassi negli educatori. Ovvero i docenti non devono essere fruitori passivi dei cambiamenti in corso, ma devono averne la chiarezza dei fini per poter mutare e proporre un asse educativo alternativo, per limitare gli effetti dell’integralismo liberista. Senza un’opposizione attiva e propositiva e l’elaborazione di un modello alternativo, il liberismo continuerà a formare “musulmani”. Con tale terminologia nei campi di sterminio si indicavano i prigionieri ridotti a solo corpo, dall’aspetto florido, ma uniformati unicamente alla categoria della quantità, creature astratte ed alienate da se stesse e dalla comunità in un contesto di distruzione irreversibile dell’ambiente e della storia umana.
Salvatore A. Bravo
[1] Karl Marx Il Capitale, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 85.
[2] Marino Badiale – Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale: un’apologia contro la barbarie che viene, Il canneto editore, Genova 2009, pp. 262-263.
[3] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, ousia, p. 5.
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le rifªlessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come “eu prattein”, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Ognuno è responsabile della propria vita o, per meglio dire, della sua riuscita, come un artista è responsabile della propria opera («come testimonia anche il fatto che la qualità di un individuo si giudica dalle opere», si legge Etica Eudemia).[1] Perché, se da un lato, attraverso uno sguardo dall’interno mirante a descriverne il funzionamento, la vita felice si configura come energeia, come operare incessante e inesauribile della vita su se stessa, d’altro canto, osservata nella sua manifestazione esteriore, la felicità si esplica come ergon, come opera. E la nostra opera siamo noi; noi, autori di noi stessi, produttori e prodotto, energeia ed ergon. Scrive Aristotele
«e infatti esistiamo per il fatto di vivere e di agire in atto, però l’opera è in qualche modo identica alproduttore; quindi egli ama la sua opera perché ama la sua stessa esistenza. Ma questo è naturale. Infatti l’opera esprime, in atto, ciò che noi siamo in potenza».[2]
Fare di se stessi la propria opera, allora, significa, letteralmente, realizzarsi, compiere se stessi, attuarsi, ovvero dar forma a ciò che si è solo in potenza. Ed è proprio attraverso l’energeia, e nell’energeia, ovvero in quell’operare proprio dell’uomo in cui l’uomo stesso ha la possibilità di esprimere la propria umanità, che l’essere umano stesso si realizza come ergon, che l’individuo si fa opera. I due livelli interagiscono continuamente, rappresentando i due profili, le due facce (una interna e una esterna) di una stessa figura. Ecco perché si può dire, come fa Aristotele, che
«l’opera è un’attività (to gar ergon … energeia)».[3]
Chi ama, infatti, come si legge sempre nel testo dell’Eudemia, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, alimentandosi quest’anelito ininterrotto come il battito del cuore, dà forma a quella complessa alchimia di fattori mentali, psicologici, emozionali, e con essi scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera; un’opera, scrive Aristotele, che «non è all’esterno, ma in colui stesso che ama».[4] È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma, che il capolavoro della vita felice viene compiuto. Opera e operare, ergon ed energeia: due piani costantemente chiamati ad intrecciarsi, a sovrapporsi, ad incrociarsi, delineando così una complessa intelaiatura dell’esistenza, nonché il terreno di realizzazione e di edificazione della vita felice.
Arianna Fermani, VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele, eum edizioni Università di Macerata, 2006, pp. 336-337.
Note
[1] Aristotele, Etica Eudemia, II, 1, 1219 b 10-11.
[2] Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 6,1168 a 5-9 (corsivo mio).
[3] Aristotele, Etica Eudemia, VII, 2, 1237 a 34-35.
[4] Aristotele, Etica Eudemia, VII, 2, 1237 a 34-35.
Sommario
Introduzione
Prima parte Semantica della felicità
Capitolo primo La felicità come domanda originaria * Domande “di” felicità * Domande “sulla” felicità ° Felicità: una questione terminologica ° Felicità e forma di vita
Capitolo secondo Felicità e dolore * L’esperienza del dolore ° Il dolore come accadimento ° Le forme del dolore ° Il dolore alla massima potenza: la morte ° Le figure della morte. Riflessioni conclusive * Cicatrizzazione del dolore e cura di sè ° Approcci al dolore ° Cura del dolore e cura di sè ° L’assunzione del dolore * Concludendo
Capitolo terzo Felicità e piacere * L’esperienza del piacere * Fenomenologia del piacere ° Il piacere nell’orizzonte della corporeità ° Dinamiche piacevoli e dolorose ° Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena ° Anima e corpo di fronte al piacere ° Verità / Falsità dei piaceri ° Unità e molteplicità della nozione di desiderio. ° Alcune note a margine dei testi platonici e aristotelici ° Piaceri e criteri di scelta * Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto Felicità e realizzazione di sé * Profili della virtù: tentativi di un recupero ° Virtù come eccellenza ° Virtù come forza ° Virtù come disposizione ° Virtù come giusto mezzo * La virtù come architettonica della felicità ° Vita felice e accordata: la virtù come musica ° Vita felice e ordinata: la virtù come misura ° La virtù come arte del viver beneCapitolo quinto
Capitolo quinto Felicità e beni esteriori * Primi approcci al problema * Felicità e fortuna ° Lampi di felicità, colpi di fortuna ° Fortuna e virtù ° Felicità e fortuna: osservazioni conclusive * Felicità e amministrazione dei beni ° Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Seconda parte Prassi di felicità
Capitolo primo Felicità e valorizzazione delle proprie risorse * Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti ° Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis ° Felicità al singolare, felicità al plurale ° Alcune riflessioni sulle nozioni di corpo e anima in Platone e Aristotele ° Anime e progetti di vita: osservazioni conclusive * Eudaimonia ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon ° Felicità come consapevolezza ° Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità * Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo Felicità come conquista di pienezza * Felicità: tra esperienze di pienezza e pienezza di vita ° Tentativi di articolazione della nozione di pienezza * Per una pienezza nell’orizzonte dell’ energeia * La difficoltà di far spuntar le ali: la felicità come conquista ° Felicità pienamente consapevole e pienamente umana * Riflessioni conclusive
Conclusioni Per concludere Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia Dizionari e lessici/Testi antichi/Testi moderni e contemporanei/ Letteratura critica e studi generali
Aula III – Palazzo Malvezzi – Via Zamboni, 22 Bologna
La pena di morte viva: Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico
Nel corso dell’ultimo secolo i paesi che hanno approvato la cancellazione della pena di morte, a vantaggio di misure detentive, hanno salutato il cambiamento come un passo in avanti nella tutela dei diritti civili. Ma l’ergastolo, la pena senza fine, è veramente una misura più umana? Elton Kalica ha deciso di scrivere della vita dei detenuti per aprire piccole finestre che permettano agli sguardi distratti della gente fuori di fermarsi un attimo e guardare dentro. Avvalendosi dei concetti di habitus ed ethos introdotti dal sociologo Pierre Bourdieu, Kalica raccoglie le testimonianze dei carcerati e riflette sulla disumanità dell’ergastolo ostativo.
Interventi di:
Elton Kalica
Elton
Kalica è dottore di ricerca presso l’Università di Padova in “Scienze Sociali,
Interazioni, comunicazione e costruzioni culturali”, ha svolto una ricerca sul
tema dell’Ergastolo ostativo. Collabora all’organizzazione scientifica del
Master di 1° livello in Criminologia critica e sicurezza sociale,
devianza, istituzioni e interazioni psico-sociali. Membro
del comitato redazionale della rivista “Ristretti Orizzonti” e
dell’Associazione Antigone Veneto, ha curato, con Simone Santorso, Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario
(2018).
Alvise Sbraccia
Alvise
Sbraccia è ricercatore in SPS12 presso il dipartimento di
Scienze Giuridiche dell’università di Bologna, dove tiene corsi in materie
socio-criminologiche. Attraverso metodi prevalentemente qualitativi ha svolto
ricerche sociologiche sui processi di criminalizzazione dei migranti, sul
recidivismo penale, sul sistema di relazioni nelle strutture penitenziarie, sui
dispositivi di controllo e segregazione in ambito urbano, sulla giustizia
minorile e sul sentencing
penale. Negli ultimi anni ha dedicato la sua attenzione all’evoluzione teorica
della criminologia post-coloniale e al dibattito sociologico in tema di
radicalizzazione. Inserito nei comitati di redazione delle riviste scientifiche
“Studi sulla questione criminale” e “Antigone”, è membro dell’Osservatorio
nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone e ne
coordina il comitato scientifico. Dal 2006 è rappresentante nazionale presso lo
European Group for the Study of Deviance and Social Control”. Ha collaborato
con il master in Criminologia critica e sicurezza sociale fin dalla prima
edizione ed è attualmente membro del suo comitato ordinatore.
Stefano Anastasia
Stefano
Anastasia, Università di Perugia, Garante dei
Detenuti Lazio e Umbria, presidente di Antigone ai tempi in cui fu elaborata
dall’associazione nel 1999 la prima proposta di legge diretta alla istituzione
dell’ombudsman, direttore del primo ufficio locale di tutela dei diritti dei
detenuti in Italia istituito dal comune di Roma nel 2003, promotore del
Difensore Civico dei detenuti della stessa associazione che, dal 2008, ha
seguito migliaia di casi, ricercatore in filosofia del diritto all’Università
di Perugia, grande esperto e conoscitore del sistema penitenziario.
Rosa Ugolini
Rosa
Ugolini, Avvocato, si è laureata con una tesi in diritto
penitenziario: “Ergastolo: storia, profili d’incostituzionalità e prospettive
di superamento”. Fa parte del Comitato Direttivo dell’Associazione Al-Sirat di
promozione sociale per i diritti dei
Migranti.
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