Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico

Mino Ianne - Arianna Fermani

«[…]  Prezioso è il capitolo iniziale del volume, dovuto ad Arianna Fermani e intitolato Tra ambiguità e misura: l’ “etica del bere” in alcuni snodi della riflessione di Platone e Aristotele: pregevole contributo alla definizione del rapporto tra vino e filosofia, un binomio che la studiosa definisce fecondo e che affonda le sue radici nella ricchissima e varia humus della cultura greca delle origini. Perché “ambiguità” e “misura”? Il vino costituisce la bevanda ambigua per eccellenza; esso è un dono del dio Dioniso, una bevanda propria dell’uomo, simbolo della civiltà di un popolo, portentosa medicina dell’anima e del corpo, ma al tempo stesso un potente e pericoloso veleno: oscillazione tra salute e malattia, tra bene e male, che – osserva la Fermani– era alla base del pensiero dionisiaco».

«Il capitolo di Mino Ianne, La natura “parla” ai filosofi. Conservazione dell’ambiente naturale e simbolismo dell’albero d’ulivo nel pensiero dei Greci, è diviso sostanzialmente in due parti; nella prima egli delinea l’idea di natura e di paesaggio nella filosofia greca, in particolare nei presocratici e in Platone; nella seconda esamina il simbolismo dell’ulivo, tra l’altro, nella mitologia greca, in Omero e nei lirici greci… Per Ianne ripercorrere la storia dell’ulivo nel mondo greco permette di illuminare, da un’angolatura particolare, l’intero ecosistema della civiltà greca”

dalla Premessa introduttiva di Mario Capasso



Stig Dagerman (1923-1954) – La vita umana non è una prestazione, ma è uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete.

Stig Dagerman

Attenti al cane

«Certo è deplorevole
che gente che vive di sumdi
tenga poi un cane»,
ha dichiarato un responsabile
della Previdenza Sociale
nel Viirmland.
La legge ha i suoi difetti.
I poveri han diritto di tenere un cane.
Potrebbero tenere dei topi, invece:
van bene anche loro e sono esentasse.
Se ne stanno in anguste stanzette
coi loro costosi bastardi.
Perché non giocano con le mosche?
Non sono animali da compagnia?
E al Comune tocca pagare.
Bisogna farIa finita
o c’è da temere
che si comprino delle balene.
Una decisione va presa:
abbattere i cani. Non è una buona idea?
Il prossimo provvedimento: abbattere i poveri
Così il Comune risparmierà qualcosa.

Stig Dagerman

«È privo di senso sostenere che il mare esiste per sostenere flotte e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere […]. Se i pianeti potessero amare uscirebbero dalle loro orbite […]. Anche l’uomo che ama ha il presentimento che l’amore sia fratello della morte. Ma questo non gli impedisce, lui prigioniero della sua orbita, di aprirsi una breccia fino alla cella del vicino, gridando con gioia: Sono libero! […] Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete».

Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, Milano 2015.

 

Descrizione

L’inalienabile aspirazione umana alla felicità, alla libertà, al riscatto, al diritto di esistere senz’altra giustificazione che la propria inviolabilità e insie­me la disperata consapevolezza che rimarranno irraggiungibili: è questa la toccante confessione di uno scrittore malato del male di vivere e che ha sempre sentito di “attirare il dolore come un amante”. Benché Il nostro bisogno di consolazione non sia l’ultima opera di Dagerman, appare come un vero e proprio testamento spirituale, in cui si leggono fra le righe i motivi del suo silenzio finale e del suo suicidio. Schiavo del proprio nome e del proprio talento al punto di non avere “il coraggio di farne uso per il timore di averlo perso”, osses­sionato dal tempo e dalla morte, incapace di sottrarsi alle pressioni che si sente imporre dalla società e più ancora dalla propria intransigenza, resta tuttavia convinto che il valore di un uomo non può essere misurato dalle sue prestazioni e che nessuno può richiedergli tanto da intaccare la sua voglia di vivere. Vi sono sempre le parole da opporre a ogni tipo di sopraffazione, “perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà”. Ma se anche queste non bastano, rimane il silenzio, “perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente”.



Robert Spaemann (1927-2018) – Perché una vita possa realizzarsi compiutamente occorre “spendersi” senza risparmiarsi, dato che la felicità, la riuscita della vita, non può in alcun modo avere un prezzo troppo alto.

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Perché una vita possa realizzarsi compiutamente occorre “spendersi” senza risparmiarsi, dato che «la felicità, la riuscita della vita, non può in alcun modo avere un prezzo troppo alto».

«La riuscita della vita, al contrario di tutto ciò, non ha “costi esterni” tali che si possa dire, una volta raggiunta, che non ne sia valsa la pena».

Robert Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. 18 e p. 33.


Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.

Eric Fromm01

«La nostra è una società composta da individui notoriamente infelici: isolati, ansiosi, in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza, in una parola esseri umani ben lieti di poter ammazzare il tempo che con tanto accanimento cercano di risparmiare».

Eric Fromm, Avere o Essere ?, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1977, 19937, p. 16.


Julián Marí­as Aguilera (1914-2005) – Si può “scivolare” attraverso la vita senza dedicarsi ad essa con energia. Spesso si tratta dell’avarizia vitale, dell’incapacità di dare, che è principalmente darsi.

Julián Marí­as Aguilera

«le persone comuni mirano soltanto a passare il tempo, chi ha un po’ d’ingegno a utilizzarlo».
A. Schopenhauer, Aphorismen zur Lebensweisheit, in Parerga und Paralipomena: kleine philosophischen Schriften, 1851; trad. it. Pocar E., Mondadori, Milano1991, p. 29.

«Una vita minima è una povera vita, scarsamente stimabile. Indica una mancanza di sfruttamento delle possibilità, una rinuncia alla vita […]. Per debolezza vitale – biografica, non biologica – per codardia, per paura del rischio, per mancanza d’amore, si riduce la vita a un livello inferiore a quello possibile. […] Si può “scivolare” attraverso la vita senza dedicarsi ad essa con energia: non esporsi alle tentazioni, agli insuccessi, alle delusioni, agli errori, alle avversità, al dolore. Sono forme larvate di suicidio, di negazione della vita, un risparmio di ciò che si può fare, in tutti i campi […]. Spesso si tratta dell’avarizia vitale, dell’incapacità di dare, che è principalmente darsi»

Julián Marí­as Aguilera, Tratado de lo mejor, Alianza Editorial, Madrid, 1995; trad. il. M. Magnati Fagiolo, Piccolo trattato del bene e del meglio. La morale e le forme della vita, Edizioni San Paolo, Milano 1999, p. 80-81).


Sergio Rinaldelli – Come una foglia a primavera. Pagine di diario (2000-2018)

Sergio Rinaldelli 01

Sergio Rinaldelli

Come una foglia a primavera

Pagine di diario (2000-2018)


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Ho iniziato a tenere un diario in giovane età, parallelamente alla scoperta della pittura, che è divenuta nel tempo scelta di vita. Scrittura e pittura sono procedute da allora di pari passo: la prima, affiancando il ruolo principale di autoanalisi a quello non meno importante di supporto critico ed elemento di verifica nei confronti della seconda; questa, a sua volta, rifondendo non di rado le proprie immagini in una trama narrativa, chiudendo il cerchio in un’ideale continuità espressiva.
Il libro raccoglie una scelta di brani degli ultimi venti anni, che in pittura coincidono con l’abbandono della figurazione iniziale per una maggior semplificazione compositiva, volta alla riformulazione in chiave astratta di elementi naturalistici nell’ottica di un’ interpretazione simbolica del visibile.
 Dopo la laurea in Lingue e letterature slave, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come pittore ho tenuto molte mostre personali e partecipato a collettive in Italia e all’estero; ho realizzato illustrazioni per libri di poesia e riviste letterarie. Fra le opere presenti in collezioni private e pubbliche, amo ricordare una serie di chine dedicate all’opera di Cristina Campo, acquisite dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze.
La mia attività è documentata presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz; la Biblioteca Nazionale Centrale, la Biblioteca Marucelliana e l’Istituto Olandese di Storia dell’arte di Firenze; la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, Polonia.

 




Gigi Richetto – Promemoria per il ministro Salvini in visita al cantiere-fortino di Chiomonte, per complimentarsi con chi sta “difendendo” la zona devastata e il buco inutile.

Gigi Richetto No Tav 01
La farsa del fortino-cantiere di Chiomonte.

Gigi Richetto

Promemoria per il ministro Salvini

Signor ministro Salvini,
sappiamo che vuol visitare il cantiere-fortino di Chiomonte, per complimentarsi con chi sta “difendendo” la zona devastata e il buco inutile. Forse le sarà utile un po’ di documentazione preliminare per sapere dove si trova e con chi. Gliela offriamo come promemoria, molto in sintesi, perché la nostra è una storia lunga, che giornaloni e governi di varie stagioni fanno finta di non conoscere…

Premetto che c’è una variabile indipendente, da cui nessuna analisi costi-benefici potrà mai prescindere: la salute, che riguarda tutti i cittadini e l’ambiente che li ospita, residenti o turisti, compresi i guardiani del buco inutile e gli operai del pollaio-cantiere. Questi da anni stanno beneficiando di polveri sottili, uranio, amianto, ecc. I danni si vedono già adesso e ancor più si vedranno nel futuro non troppo lontano, un po’ come è capitato ai nostri soldati in Kosovo o ai pastori e greggi della Sardegna dove operavano i poligoni di tiro a uranio impoverito!

Il 30 marzo 2004 a Bussoleno, il “Coordinamento sanitario dei medici di base”, con l’oncologo Gays, aveva messo in guardia la popolazione dai concreti rischi per la salute che il Tav comportava e nel gennaio 2005 il dottor Marco Tomalino aveva inviato in tal senso una petizione al Parlamento europeo. Poi iniziarono le montature giornalistiche e le provocazioni del terrorismo dei servizi (deviati?). E allora la valle disse basta, come aveva fatto il 31 ottobre al Seghino. E il 5 novembre 2005 a Susa, una fiaccolata di 15mila persone, aperta dall’Anpi e dagli studenti dei licei valsusini, che portavano sul petto gli articoli della Costituzione, denunciò le provocazioni di questa non troppo nuova “strategia della tensione”.

Nello stesso 2005 la Val Ceruschia subiva una militarizzazione infame, che gli anziani paragonarono, in peggio, all’occupazione nazista. Vennero sospese le garanzie costituzionali, un po’ come fa lei ogni giorno a danno dei migranti. L’europarlamentare Vittorio Agnoletto venne picchiato dalle “forze (forse) dell’ordine” e venne impedito alla commissione di parlamentari europei in visita in valle di Susa di svolgere l’indagine conoscitiva sulla questione Tav. Nella notte tra il 5 e 6 dicembre 2005 il governo Berlusconi-Pisanu diede il via libera a squadre di poliziotti con il volto coperto che picchiarono selvaggiamente pacifici cittadini, di ogni età e sesso, mentre dormivano nelle tende erette a presidio dei loro terreni. Naturalmente i responsabili di quella “notte delle infamie” non vennero mai identificati.

Così venne l’8 dicembre, “l’immacolata ribellione” e i valsusini in 30mila marciarono da Susa a Venaus e si ripresero i terreni violati dalla prepotenza del potere. Anziché rispondere con la violenza organizzammo il 12, 13, 14 dicembre, in pochi giorni, un convegno straordinario itinerante, a Bardonecchia, Susa, Bussoleno, Condove, sul tema “Presidiare la democrazia, realizzare la Costituzione”. Vi parteciparono centinaia di giovani dei licei, lavoratori, giornalisti, partigiani, sindaci. E l’anno dopo pubblicammo gli Atti del convegno, con annesso un libro bianco che documentava le violenze subite: nasi spaccati dai manganelli, mani e polsi fratturati, lesioni plurime al capo e al petto anche verso medici presenti alle dimostrazioni anti Tav.

Vede, ministro protempore degli interni, la Costituzione ci è cara da sempre, da quando Carlo Cattaneo – le ricorda qualcosa del federalismo (quello vero) per caso? – ci ha insegnato che «bisogna sempre tenere le mani sulla libertà»!

Così il 17 giugno 2006 fu sempre il Movimento No Tav a organizzare una fiaccolata di migliaia di cittadini dal Seghino di Mompantero a Susa, in difesa della Costituzione e contro le prime denunce che colpivano la protesta No Tav.

Ma il veleno mediatico contro la Valle che resiste, che non accetta compensazioni e non svende la sua dignità, proseguiva e i poteri forti prepararono altri soprusi e provocazioni. Nella notte tra il 23 e il 24 gennaio 2010 un incendio di stampo mafioso distruggeva il presidio No Tav di Borgone e lo stesso accadeva a quello di Bruzolo. Così all’inizio del 2010 un nuovo pestaggio infame veniva attuato dalle forze di occupazione contro Marinella Alotto e Simone, picchiati selvaggiamente nel fango dei terreni di Traduerivi, presso Susa. Poi a fine giugno venne lo sgombero violento della Maddalena a Chiomonte, con l’impiego massiccio dei gas lacrimogeni Cs, proibiti dalle convenzioni internazionali.

Cittadini inermi vennero gasati e intossicati nelle tende dai “professionisti della legalità” del suo socio Maroni, mentre sostavano sui terreni garantiti all’agibilità democratica dalla Comunità Montana. E il 3 luglio 2011 venne ancora la violenza contro i dimostranti feriti e torturati dai responsabili della famigerata “operazione Hunter”, che “la giustizia a senso unico” si rifiuta di perseguire, come già per “la notte delle infamie” di Venaus.

E il 24 luglio 2011 un fotografo manifestante, Alessandro L., viene colpito al volto e sfigurato da un candelotto sparato ad altezza d’uomo da distanza ravvicinata; e due giorni dopo riceve un messaggio che parte dalla rete interna di un noto quotidiano, che lo consiglia di dire che si è fatto male … cadendo! Tutto questo fu ricostruito da Carlo Gubitosa su “Liberazione” del 24 novembre 2011. Attendiamo ancora dall’Ordine dei Giornalisti una risposta.

Ma la pratica violenta contro i valsusini non si ferma: l’8 dicembre 2011 un altro lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo colpisce con danni irreparabili all’udito Yuri, studente di 16 anni e nella stessa occasione un suo coetaneo di Padova perde un occhio grazie ai “professionisti della legalità” … A fine febbraio 2012 vengono incendiate tre auto di cittadini No Tav e continuano per settimane atti di intimidazione con manomissione dei freni alle auto e danni alle carrozzerie. I membri del comitato No Tav di Susa-Mompantero vengono minacciati di morte, come documentato anche dalla trasmissione televisiva “Servizio Pubblico” …

Ad inizio marzo 2012 l’infermiera Titti Giorgione viene calpestata e si ritrova con la caviglia fratturata, mentre è a terra per un sit-in presso lo svincolo di Chianocco, dopo che manganelli e gas Cs vengono profusi a volontà… Clamorosa, in quel periodo, la devastazione del bar “La rosa blu” di Chianocco da parte della “forza pubblica”. E poi ancora, violenza contro le donne, come quella perpetrala nei confronti di Marta, che subisce oltraggio presso le reti del cantiere di Chiomonte sempre da “professionisti della legalità” impuniti… Dopo l’incendio dei presìdi non meno vergognosi e infami furono i candelotti di gas Cs sparati nelle case del Vernetto e di San Giuliano, con intossicazione di bambini e anziani e compromissione ambientale di vigne, orti e coltivazioni, la distruzione di 5mila alberi secolari in Clarea, l’avvelenamento di acqua e aria … Non se ne può più!

Il 17 marzo 2012, promosso dal centro “Sereno Regis” si svolge in piazza Castello a Torino, e in contemporanea nella sala consiliare di Villarfocchiardo, il digiuno intitolato “Ascoltateli”. Va avanti per settimane, nella totale assenza di copertura mediatica e nell’indifferenza dei politici torinesi. Poi, il 2 novembre 2013, un nuovo incendio mafioso distrusse il presidio No Tav di Vaie! Si giunse anche ad avvelenare la cagnetta di Alberto Perino a Condove e a minacce di morte contro di lui e il presidente della Comunità Montana Sandro Plano.

Vede, signor ministro, questo promemoria è solo una parte di quello che abbiamo subito e a cui resistiamo da anni. Non so se tra un selfie e l’altro avrà tempo di rileggersi l’Adelchi del Manzoni, già allora ambientato … in Valle di Susa, al tempo del conflitto tra Longobardi e Franchi. Nell’atto V, scena ottava, si afferma che all’uomo «non resta che far torto o patirlo»; e si aggiunge subito dopo: «Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto» …

Ecco, l’eresia valsusina del popolo No Tav sta tutta qui: noi vogliamo infrangere quello schema che ci vorrebbe condurre o alla sottomissione o alla violenza; non vogliamo commettere abusi né subirli. Per questo continueremo a lottare in maniera pacifica e determinata, fino alla vittoria e … anche oltre, per un orizzonte che liberi tutti, anche lei, dalla volontà di potenza e di prevaricazione. E se ha ancora tempo, si legga “Rassa nostrana” di Nino Costa …

Ringraziandola della sicura attenzione, mi saluti anche gli altri suoi soci di governo, tutti presi dall’osservazione delle stelle.

Gigi Richetto

Bussoleno


L’articolo di Gigi Richetto è apparso, nella rubrica Lettere al Direttore, sul bisettimanale valsusino «Luna Nuova» il 1° febbraio 2019, in occasione della visita di Salvini al cantiere-fortino di Chiomonte. Tutto quanto vi è descritto è attuale.


NoTav – Le ragioni del prof. Gigi Richetto

Gigi Richetto


 

 

 

 

 

Thomas Mann (1875-1955) – Sì, oggi vengon su gli istituti industriali e gli istituti tecnici e le scuole di commercio; il ginnasio e l’educazione classica sono improvvisamente ‘bétises’ e tutti pensano a niente altro se non a miniere … a industrie … e a far soldi … bravi! Ma anche un poco stupido, no?

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Thomas Mann, Buddenbrooks. Verfall einer Familie .
Copertine dell’edizione originale del 1901. Prima ed. it. :1930.

«Ideali pratici … sì, certo … », il vecchio Buddenbrook, in una pausa concessa alle sue mascelle, giocherellava con la tabacchiera d’oro, «Ideali prarici … no, non sono nulla favorevole!».
Per il dispetto scivolò nella parlata dialettale:
«Sì, oggi vengon su gli istituti industriali e gli istituti tecnici e le scuole di commercio; il ginnasio e l’educazione classica sono improvvisamente bétises e tutti pensano a niente altro se non a miniere … a industrie … e a far soldi … bravi!
È tutto, molto bravi!
Ma d’altra parte, con l’andar del tempo, un poco stupide, no?».

Thomas Mann, Buddenbrooks. Decadenza di una famiglia, Introduzione di Cesare Cases, Traduzione di Anita Rho, 2 voll., vol.  I, Einaudi, Torino 2014.

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Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo

Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

Thomas Mann (1875-1955) – L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso. Ma anche la Somma Saggezza poteva non bastare del tutto a prevenire errori.


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Luc Tuymans -Siamo bombardati da informazioni e immagini, ma la pittura è prima di tutto un fatto fisico, ci permette di tornare indietro, di concederci una pausa e attivare la sfocatura del distacco e della riflessione. Se la pittura è solo uno “show”, allora la pittura è morta, ma credo che questo valga per tutte le forme d’arte.

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Luc Tuymans, Apple.

«C’è sempre un conflitto tra astrazione e figurazione: è necessario che il nostro sguardo coltivi l’idea dei sottintesi, che vada oltre la trivialità di ciò che vediamo. Nell’epoca dei social network e di Netflix, siamo bombardati da informazioni e immagini, ma la pittura è prima di tutto un fatto fisico, ci permette di tornare indietro, di concederci una pausa e attivare la sfocatura del distacco e della riflessione».

« La pittura è una forma d’arte persistente, che ha a che fare con la maniera in cui una persona contempla un’immagine, attraverso il tempo, con il tempo e oltre il tempo. Molti artisti hanno cominciato con la pittura perché è la prima immagine concettuale. In questo senso, è e resterà un aspetto fortemente radicato nella civiltà e nella cultura. Se la pittura è solo uno “show”, frutto di più elementi su una tela, allora la pittura è morta, ma credo che questo valga per tutte le forme d’arte»

Luc Tuymans, Lumumba/em, 2000.



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cicogna petite

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Salvatore A. Bravo – il genocidio kmer in cambogia palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che, in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Tiziano Terzani 01

Progettualità e storia
Negli ultimi decenni in modo sempre più radicale si assiste alla sostituzione della prassi con la poietica, alla spazializzazione del pensiero, il quale opera secondo una visione analitica e non olistica. La razionalità è rivolta al conseguimento dei risultati immediati, con l’effetto che la stessa razionalità si ribalta in irrazionale su lassi temporali più ampi, poiché è assente ogni riflessione sulle conseguenze delle azioni e specialmente sul valore qualitativo dei fini. Uno dei mezzi più efficaci per strutturare il silenzio del pensiero critico e profondo è l’esemplificazione della storia, che diviene così organica alla distopia del capitalismo assoluto. Non solo si divide per dominare, ma specialmente si occultano le verità storiche nel chiasso di informazioni spesso superflue, veri distrattori di massa. Si cela il verme nel nocciolo secondo la famosa metafora di Sartre, in modo da nascondere la verità del sistema. Uno dei mezzi con cui si effettua l’operazione ideologica di eternizzazione del presente è l’espulsione sostanziale e non formale della disciplina storica. La storia si eclissa dalle istituzioni che dovrebbero trasmetterla, che dovrebbero educare al senso storico, al senso dei contesti, e specialmente dovrebbero formare a cogliere dietro la cronologia il sostrato, senza il quale la storia non è che successione disordinata ed insensata di tumultuosi avvenimenti. Si mette in atto un processo di derealizzazione della realtà e della personalità La storia ridotta a cronologia disegna eventi che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia e continuità. In tale maniera la disarticolazione della storia diventa il macrocosmo, a cui corrisponde il microcosmo delle vite che si succedono senza progettualità, vite che accadono, si succedono, si consumano come la grande storia punteggiata di accadimenti senza continuità: le storie e la storia si consumano nella malinconia dell’assenza.

Massimo Bontempelli e la derealizzazione
Massimo Bontempelli ha coniato due idealtipi per rappresentare i processi di derealizzazione: la personalità narcisista e la personalità concretista: la prima è autoreferenziale, e si connota per il disprezzo di sé, per cui manipola le altre personalità per avere conferma del proprio valore; la personalità concretista si muove all’interno di uno spazio limitato, è volta all’immediato, al risultato, non alla profondità interiore esattamente come la personalità narcisista. In entrambi casi, si tratta di personalità senza storia e dunque dall’identità apparente, poiché la scissione dell’io dalla comunità, dalla storia le destruttura in senso atomistico:

«In questa sede, però, la genesi psicologica interessa meno della base ontologica. Ontologicamente, il concretismo è, come il narcisismo, un’interruzione, sul piano specifico dello sviluppo della personalità individuale, della possibilità del passaggio dall’esistenza alla realtà, per l’inattivabilità dell’azione reciproca. Mentre però nel narcisista ciò che impedisce l’azione reciproca è la coazione all’azione unidirezionale, nel concretista ciò che la impedisce è la coazione a farsi assorbire dalle cose. Storicamente, questa determinazione della persona umana è, proprio come la de-terminazione narcisistica, un prodotto del meccanismo economico autoreferenziale contemporaneo. Abbiamo visto come tale meccanismo, facendo prescrivere i comportamenti umani dalle procedure tecniche, sottragga all’individuo l’immagine stessa dell’azione reciproca. Se tale immagine è sostituita da un modello di relazione strutturato dalla proiezione al consumo, si ha il narcisismo, mentre se è sostituita da un modello di relazione strutturato dall’adesione alla produzione, si ha il concretismo. Il concretista, infatti, fa molte cose senza mai chiedersi il senso del suo fare, per cui il suo agire, anche quando è del tutto esterno alla produzione economica, e persino quando si svolge in un ambito solidaristico, corrisponde perfettamente alla natura della produzione nel meccanismo economico autoreferenziale, che consiste nel produrre sempre di più senza alcuno scopo umano».[1]

Le controriforme
La storia, invece, nella quale si cerca il fondamento e la progettualità non profetica, è espressione vivente della prassi, dell’umanità in cammino nel dialogo che fonda l’ontologia dell’esserci. Le riforme contro la storia, gli attacchi strategici alle facoltà che dovrebbero formare gli studiosi, mediante tagli finanziari e discredito su studi giudicati improduttivi, palesano la verità del tempo presente: la riduzione del tempo a solo tempo della produttività, del PIL, oggetto di interventi ossessivi. L’agire contro la storia ha lo scopo di formare personalità gettate nel presente e quindi pronte all’uso ed al consumo. Si occultano le contraddizioni. In primis l’impossibile realizzazione, per tutti, del regno della dismisura, per cui destrutturare la storia, ridurne la presenza nei curriculum scolastici come nella memoria collettiva è una modalità d’attacco del capitalismo assoluto che erode le forme della prassi per sostituirle con la violenza della produttività dell’inautentico. Si misura tutto in modo maniacale per poter dominare e manipolare, ma si sottrae il senso della relazione tra quantità e qualità, pertanto la dismisura, regna, occultata da strumenti di precisione millimetrica, non mediata dalla razionalità speculativa.
Vi sono storie nella storia in cui la verità, il fondamento nichilistico che guida le tragedie della storia contemporanea, non solo si rilevano, ma esse sono portatrici, come in questo caso, di un’eccedenza. Dimostrano la cattiva coscienza dell’onnipotenza tecnocratica, poiché mettono a nudo la verità: sono rimosse dalla memoria collettiva, ridotte ad episodi regionali, ai margini della globalizzazione con i suoi splendori.
La Cambogia con il genocidio kmer palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Razionalità tecnocratica e razionalità classica
Il Vietnam, durante la guerra (1960-1975), è stato oggetto di bombardamenti con l’agente arancio, un’erbicida che ha causato la deforestazione, desertificato il terreno con accumuli di diossina che hanno reso il suolo sterile per un tempo indeterminato. La Cambogia, stretta tra gli interessi cinesi ed americani è diventata il luogo dove l’onnipotenza della ragione calcolante, senza etica, ha mostrato il sonno della ragione, ovvero il sonno della ragione classica, il sonno della razionalità del limite, sostituita da una razionalità puramente tecnocratica e distopica e come tale tesa all’espansione integralista per la quale il limite è solo un labile confine da abbattere.
Tiziano Terzani descrive l’agonia di un popolo, il processo di formazione di un genocidio, la cui precondizione è nella violenza espansionistica delle potenze, le quali pur da posizioni ideologiche diverse, agiscono mosse dallo stesso fondamento economicistico e nichilistico:

«Ho visto questa città negli anni della guerra americana, fra il 1970 ed il 1973, quando centinaia di migliaio di rifugiati, scappati ai bombardamenti a tappeto dei B-52, venivano ad accamparsi lungo i marciapiedi del centro; l’ho vista lentamente strangolata del centro; l’ho vista lentamente strangolata dall’assedio dei khmer rossi, che il 17 aprile 1975 la presero in mano e per prima cosa la vuotarono in poche ore di tutta la sua popolazione, mandata allo sbaraglio nella giungla e nelle risaie; l’ho rivista, città fantasma, guscio vuoto, marcio e buio, poco dopo l’intervento vietnamita che nel 1979 rovesciò il regime di Pol Pot e mise al potere l’attuale governo di Hun Sen; e l’ho rivista varie volte negli ultimi dieci anni, di nuovo viva e popolosa, ma ancora misera, sporca, avvilita e scoraggiata da dall’ingiusto embargo economico che i paesi occidentali hanno deciso di imporre a questa gente ed a questo governo, definito “fantoccio di Hanoi”».[2]

Genocidi
Il numero dei morti è rimasto dubbio; è certo che tra il 1975 ed 1979 un terzo della popolazione cambogiana è scomparsa atrocemente. Non vi è stata nessuna Norimberga, nessuna giustizia: i processi iniziati negli ultimi anni hanno un valore formale e specialmente rimuovono le responsabilità internazionali, degli Americani e dei Cinesi in particolare. Costruiscono un’immagine della storia evenemenziale: i responsabili sono singoli, dietro di essi le strutture, i modi di produzione, le ideologie sono innocenti. Il modello di razionalità non viene messo in discussione, restano nel limbo dell’astratto, il sistema e la storia non conoscono dialettica emancipatrice: Stati Uniti e Cina continuano ad essere padroni del pianeta come se nulla fosse accaduto.
I morti, i genocidi non sono tutti uguali, alcuni sono pubblicizzati, resi pane quotidiano nella propaganda dei vincitori. Altri sono dimenticati, procurano imbarazzo con la loro verità che accusa i vincitori, e rammenta la sconfitta ai padroni e signori del pianeta:

«Perché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura? Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?». [3]

Le responsabilità collettive
Per comprendere la storia è necessaria una visione olistica, la quale consente di riportare all’unità ciò che, invece è separato, esemplificato e diviene incomprensibile. I kmer rossi si rafforzano e si diffondono con i bombardamenti americani, e con il colpo di stato del 1970 orchestrato in Cambogia dagli Americani, mentre da un punto di vista ideologico, la Cina è la madre matrigna che sostiene per ragioni di espansione e competizione con l’Unione sovietica i kmer, in modo da presentarsi come polo catalizzatore per i paesi che escono dalla difficile esperienza della colonizzazione:

«I khmer rossi sono stati un’aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Ze Dong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva ed approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Zleng, a poche decine di metri dall’ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone complice dell’olocausto, era impazzito. […] La verità, come dicevo, è che i khmer rossi sono il prodotto di un’ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può fare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria. Da qui il progetto dei khmer rossi di spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi».[4]

 

I tempi della storia
L’uomo nuovo è il fine dei kmer come di Mao, i kmer accelerano, esigono il risultato in tempi brevi. Il tempo svela la contemporaneità dei kmer, il loro essere organici al nichilismo produttivo industriale e tecnocratico. In tempi brevi, inseguendo la temporalità espansiva degli apparati industriali, attraverso la microfisica del controllo, della manipolazione, l’uomo nuovo liberato dalle scorie impure del passato splenderà nella sua ritrovata innocenza e purezza.
Il tempo della storia è veloce, quando la razionalità critica si ritrae, per cui con la caduta del muro, la Cambogia comunista dietro la quale vi è il Vietnam e specialmente la Cina, reintroduce la proprietà privata, per cui i privilegiati durante il regime comunista diventano ora i ricchi. L’assenza di prassi e partecipazione politica agli eventi spingono i Cambogiani ad adattarsi, perché in fondo sanno che il vero cambiamento strutturale non è mai avvenuto. Dietro le tragedie della storia cambogiana non vi è che il susseguirsi con matrici diverse del sogno dello stesso sogno/incubo dell’onnipotenza[5]:

«La svolta avvenne nel 1989. Col mondo socialista in ritirata e l’Occidente che faceva pressione perché Phnom Penh cambiasse politica in cambio di una vaga promessa di riconoscimento e di aiuti, il regime di Heng Samrim e Hun Sen adottò una serie di riforme che hanno permesso la religione, abolito la struttura economica socialista, liberalizzato il commercio e reintrodotto la proprietà privata. Il primo maggio 1989 sono nati i nuovi milionari della Cambogia. In quella data, chi occupava una villa, un appartamento o una semplice stanza ne è diventato il legittimo proprietario. Questo ha ovviamente favorito i funzionari del nuovo regime che per primi erano tornato a Phnom Penh ed erano andati ad occupare gli edifici più centrali e spaziosi. Alcune di quelle ville, cui è stata data una mano di bianco e una ripulita, vengono ora fittate agli stranieri che lavorano a Phnom Penh per somme che variano dai mille ai duemila dollari al mese: un patrimonio, se si considera che lo stipendio mensile di un funzionario governativo è di 5000 riel, vale a dire 8 dollari. Lo stesso è avvenuto nelle campagne. I campi delle comuni sono stati distribuiti fra i contadini, creando enormi disparità tra quelli che hanno ricevuto terreni fertili e gli altri che hanno avuto pezzi improduttivi. L’improvvisa fine del sistema socialista comunitario ha per giunta penalizzato i più deboli. È così che città come Phom Penh si sono riempite di donne e bambini mendicanti».[6]

 Alla caduta dei kmer nel 1979 con l’invasione vietnamita, vi è un dettaglio non secondario, che denuncia il fondamento nichilistico in modo lapalissiano: gli Stati uniti non riconoscono la nuova Cambogia, in quanto legata politicamente alla Cina per mezzo del Vietnam, dunque all’ONU il seggio è dei kmer, malgrado il genocidio ormai pubblico, ma per la razionalità nichilistica che usa solo la categoria della quantità un milione e mezzo di persone trucidate non sono che numeri interscambiabili, sono niente davanti alla storia.

L’essere umano come animale storico
L’essere umano è un animale storico. Se rinuncia alla storia e con essa alla prassi, vive come un qualsiasi animale nell’eterno presente, pascola, rumina, ma non vive. La storia eleva all’universale, e dunque umanizza attraverso la razionalità dialogica che distingue l’accidentale dall’universale:

«Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di se stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse». [7]

L’uomo nuovo che il capitalismo assoluto vuole fondare è l’uomo senza memoria, limitato al solo pascolare tra gli infiniti pascoli del mercato. A questa visione impoverita e depauperata dell’umanità, bisogna contrapporre la visione hegeliana che nella Filosofia della storia ha dimostrato che l’essere umano conosce se stesso nella storia. Pensando il materiale storico l’uomo elabora la consapevolezza di sé, in modo da discernere l’eterno dal contingente. L’uomo nuovo al pascolo nei mercati non discerne, non giudica, non ha senso etico/universale, si disperde nella contingenza del particolare, nell’immanenza senza trascendenza. Il presente gli appare senza speranza, poiché è venuta a mancare la mediazione razionale sull’esperienza storica collettiva. Il futuro si gioca dialetticamente sul senso storico senza il quale non vi è libertà, né razionalità, ma solo veloce dileguarsi della ragione. Siamo al bivio parmenideo: la doxa è l’immediatezza del narcisista/concretista, mentre la verità è il senso storico in cui l’eterno prende forma e coscienza. L’errore nella scelta non potrà che essere fatale per il pianeta, poiché i mezzi di distruzione minacciano la vita come non mai.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà, Petite Plaisance ,Pistoia 2002, pag. 15

[2] Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Tea. Milano 2008, pag. 298.

[3] Ibidem, pag. 324.

[4] Ibidem, pag. 277.

[5] Ibidem, pp. 285-286.

[6] Ibidem, pp. 285-286.

[7] Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, pag. 8.

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