Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo

La laicità all’epoca dell’integralismo laicista

 

 

 

Pifferaio-Magico-Vetrata

La normalizzazione laicista
La secolarizzazione del capitale non ha fondato la laicità, ma una nuova forma invasiva e infiltrante di clericalismo: i nuovi chierici non sono identificabili in una casta, in una lobby, sono trasversali, sono l’asse diffuso del nuovo “potere capitale” disciplinare e penetrante. Il circo mediatico laicista si struttura in modo sempre pervasivo: accademici, economisti, burocrati dell’economia, politici dal credo-pensiero unico, tutti nichilisti sempre pronti al trasformismo, sono la struttura ed il veicolo che inibisce ogni spazio plurale, lo riduce ad un’operazione di marketing, a plusvalore, ad un’operazione di perenne sussunzione. Il linguaggio dell’aziendalizzazione, della compravendita, l’inglese organico alla globalizzazione estendono le loro maglie d’acciaio: la rete informativa in nome del capitale trova nelle istituzioni pubbliche fiancheggiatori che diffondono il linguaggio e la lingua del mercato. Si osanna l’inclusione mediante la normalizzazione delle prestazioni: per essere normali ed inclusivi si fa appello sempre ai diritti individuali. Si forma all’orientamento accondiscendente, ovvero ad adattarsi alle esigenze del mercato, mentre i servizi pubblici, i servizi alla persona – vera precondizione di ogni democrazia – sono curvati sulla privatizzazione, sui bilanci. Il pubblico con i suoi servizi non rappresenta l’alterità rispetto al privato, ma nel pubblico l’organizzazione lavorativa ed i fini sono i medesimi del privato: pertanto la laicità scompare, si eclissa nel gioco ideologico della propaganda.

Gli oratores del circo mediatico laicista
La laicità non è semplice laicismo anticlericale. L’integralismo attuale trova nella religione una contraddizione, per cui i clerici mediatici e disinibiti abbondano in notizie sui crimini della chiesa, mentre tacciono dei crimini che quotidianamente avvengono in nome del capitalismo assoluto, in primis i crimini ambientali, i migranti ridotti in stato di schiavitù effettiva, i popoli declassati a plebe in competizione.

Costanzo Preve così definisce gli oratores del circo laicista:

«L’attuale “laicismo”, sotto la veste di una semplice neutralità dello “spazio pubblico”, riprende gli aspetti peggiori delle riduzioni illuministiche e positivistiche della religione. Le ragioni di questo, però, devono essere cercate al livello marxiano della struttura, e non della semplice sovrastruttura. Il clero (oratores) è stato per quasi mille e cinquecento anni essenziale per la riproduzione della società tripartita feudale, in quanto anello di collegamento ideologico fra la classe feudale-signorile dominante (bellatores) e l’insieme delle classi dominate (laboratores). Oggi però non è più così. Oggi il clero di collegamento è costituito da tre settori distinti ed interconnessi del tutto post-religiosi, il ceto politico professionale di intermediazione, il circo mediatico di simulazione e di manipolazione, ed infine il clero universitario di gestione della divisione del lavoro intellettuale, che viene ricomposto ex post dalla riproduzione della sintesi sociale capitalistica unificata».[1]

La parola laico deriva laico deriva dal gr. laïkós ovvero “del popolo”; popolo è da intendersi come luogo immanente nel quale le differenze entrano in tensione per trovare la sintesi. In quest’ultima, le posizioni non sono superate o trascese in formule astratte, ma sono sublimate in concrete determinazioni sempre riformabili. La laicità non è da intendersi, in modo semplicistico ed ideologico, in opposizione al clericalismo delle chiese. La cultura laica non ammette forme di sussunzione. La laicità è cultura dell’incontro senza obblighi, dal quale non si esce che modificati con l’attività della prassi, della parola e del dialogo. Laicità non è ateismo, rinuncia alla verità, per cui il soggetto è lasciato in solitudine alla mercé del mercato o delle forze economiche, laicità è ricerca collettiva di un fondamento comune, della verità. Non vi è comunità senza la ricerca dei processi di riconoscimento ed autoriconoscimento, che formano al senso del limite mediante la parola che – liberata dalle pastoie del calcolo, della razionalità strumentale – consente di riconoscersi nella verità senza dogmi. Laico è il popolo nell’incontro dialogico: ciò presuppone la teoretica del limite e della comunità. Nello spazio liberato dalla verità amministrata da una parte contro le altre, vi è la consapevolezza che il limite necessita della comunità, per completare, per definire, per attivare orizzonti di possibilità sul fondamento del riconoscimento della condizione umana.

La laicità non è ateismo
La Laicità è divenuta sinonimo di ateismo, poiché in tal modo è funzionale alla logica della mercificazione: in nome della laicismo ogni limite al mercato è ideologicamente tacciato di autoritarismo. La laicità è stata svuotata del suo senso, per essere il piano liscio nel quale le merci devono scorrere, i desideri incontrollati devono essere soddisfatti. La struttura economica della globalizzazione ha nel laicismo nichilista la sua sovrastruttura. Ogni discussione sugli effetti ambientali, etici, culturali è neutralizzata con accuse di controriformismo o di integralismo. Prassi e laicità, invece, sono speculari. La prassi (dal gr. πρᾶξις «azione, modo di agire») – in quanto trasformazione dei comportamenti – è laica, perché riguarda tutti, necessita della parola significante di ciascuno. La parola laica soprattutto sospende i dogmi correnti per ripensarli, essa è rigenerazione collettiva, spazio pubblico nel quale il privato ritrova la sua concretezza nella relazione. È il tempo strappato alla cronologia per essere tempo cairologico (καιρός), tempo qualitativo, in cui è possibile conoscersi e conoscere. I corpi medi sono la sostanza istituzionale e giuridica della laicità, in essi la parola ritrova la sua profondità, la politica governa l’economia. Nei corpi medi – partiti, sindacati, associazioni – la laicità ha la sua espressione massima, perché in essi si pensa e si discute, per vagliare criticamente l’operato politico: per cui sono i luoghi dove l’economia è posta al giudizio della politica, dove si progettano alternative.

La Costituzione italiana è fondata sulla laicità
La Costituzione italiana è fondata sulla laicità: essa è l’effetto consapevole dell’esperienza del nazifascismo nel quale la volontà e l’autonomia della persona è stata negata. L’integralismo è trasceso mediante la cultura laica, la quale è disponibilità all’ascolto. Non vi è competenza più ardua e difficile dell’ascolto dell’altro, ma non vi è altro modo per umanizzarsi, per diventare persona e non il suo mero simulacro. L’a priori della democrazia, per sua natura plurale e laica senza relativismo, è la scuola. Non è un caso che la Costituzione consente l’istruzione privata, ma senza oneri per lo Stato, poiché la scuola pubblica è in una posizione etica superiore rispetto alla scuola privata e confessionale, in quanto permette la formazione all’incontro, fa della dialettica della mediazione il fondamento del vivere civile. Rodotà evidenzia che nel 1964 si tentò di finanziare la scuola privata, ma tale manovra fu contrastata e cadde il governo. Era stridente l’incostituzionalità del finanziamento con i dettami della Costituzione:

«Le cronache di quegli anni sono piene di episodi significativi, alcuni dei quali politicamente rilevanti. Il 25 giugno 1964 il primo governo di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, viene costretto a dimettersi dopo essere stato battuto, per 7 voti, in una votazione sul finanziamento di 149 milioni alla scuola privata, che il ministro socialista del Bilancio e della Programmazione economica, Antonio Giolitti, aveva ritenuto in contrasto con l’articolo 33 della Costituzione, dove si stabilisce appunto che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza onere per lo Stato”».[2]

Democrazia censitaria e laicità
L’attuale finanziamento alle scuole private (il primo finanziamento fu attuato nel 2000 da un governo di centrosinistra) è sicuramente la spia lapalissiana dell’arretramento della cultura laica a favore della democrazia censitaria atea e laicista. Le scuole private sono state finanziate dai governi nominalmente di sinistra in connubio con la finanza. Si voleva, per erodere voti alle destre, far dimenticare agli elettori di essere stati comunisti: ciò ha portato a picconare il fondamento della democrazia. In assenza di fondamenti e progetti la politica svende gli ideali più alti per calcoli elettorali immediati. L’aggressione alla scuola pubblica, è attacco frontale alla democrazia, perché in essa si diventa cittadini e non sudditi del mercato o di qualsiasi altra ipostasi:

«La scuola pubblica è un luogo dove si entra per formarsi attraverso la conoscenza, il confronto, il coltivare lo spirito critico. Ed è nella natura sua, come dell’intero processo democratico, che ciò significhi esposizione di tutti e di ciascuno al mondo ricco e molteplice delle informazioni e delle idee. La scuola è tramite tra le culture, che solo così possono riconoscersi e sfuggire alle trappole del multiculturalismo identitario, dove la cultura dell’altro è vista come minaccia e si rinuncia a priori alla sua comprensione e condivisione». [3]

 

La scuola laica come organo costituzionale
Calamandrei definisce la scuola organo costituzionale, essa è il substrato della democrazia e della cittadinanza. La scuola è esercizio della parola, di contenuti, è sospensione dei dogmi. La scuola non insegue il mondo, ma lo pensa, lo rigenera per dargli vita. Come l’anima di Plotino è la luce che filtra nell’aria, essa insegna a vedere con gli occhi dell’anima. Non è il luogo del selfie, ma di dibattito, impegno, e disciplina, perché non vi è parola di senso se non è attraversata dal libero ordine delle idee. In essa si dovrebbe imparare a pensare criticamente:

«Con questa intuizione felice, Pietro Calamandrei parlò della scuola come “organo costituzionale”. E quella intuizione è stata confermata via via che diveniva sempre più evidente il nesso tra scuola e democrazia: l’istruzione è un diritto fondativo del modo d’essere cittadini, dunque una precondizione della democrazia; la scuola è il luogo dove ci si forma, si acquisisce sapere critico. Se, invece, si imbocca la strada della pura competitività aziendale, e si offre un incentivo economico alla creazione di scuole separate, dove ciascuno rinsalda la propria appartenenza (religiosa, etnica, ideologica, localista…), si contraddice proprio questo programma democratico e la scuola perde definitivamente la possibilità d’essere il momento in cui si avvia la costruzione dell’uguaglianza, del riconoscimento degli altri. Si frantuma in mille ghetti, luoghi di incubazione dei futuri conflitti. Tradisce la funzione che, più di prima, dovrebbe avere in società inevitabilmente pluralistiche, quella di rappresentare uno dei luoghi essenziali di unificazione e confronto. La scuola è sicuramente uno dei luoghi che ci portano a ripensare la nozione di laicità, che deve essere arricchita, sviluppando i motivi che la fondano, che sono insieme, la negazione del confessionalismo, il rifiuto dell’intolleranza. Il riconoscimento delle minoranze. Se la scuola, come altri luoghi del “pubblico”, non rende possibile il confronto, allora nella società rischiano di affermarsi con prepotenza le forme di una separazione non più benefica occasione offerta a ciascuno di conservare la propria identità, ma fonte di pericolosa contrapposizione. E allora: scuole confessionali armate l’una contro l’altra, famiglie o comunità religiose il cui integralismo non è più bilanciato da uno spazio pubblico dove si incontra l’altro».[4]

 

L’integralismo dell’aziendalizzazione
La laicità della scuola, della democrazia è oggi minacciata dall’aziendalizzazione, la quale non è un semplice o diverso modo di gestire la scuola, ma una forma mentis che deve penetrare in tutte le persone che popolano la scuola. Il fine è la rimozione di ogni valore universale per formare all’interesse privato, alla competizione, al conteggio. Gli alunni devono imparare l’opportunismo imprenditoriale, a fare del risultato l’unico fine del loro tempo. La formazione alla cittadinanza, alla maturità emotiva e razionale sono sepolte sotto i conteggi (crediti, debiti, offerta formativa, invalsi) e l’insegnamento al fare, poietico (dal gr. ποιητικός, der. di ποίησις: v. poiesi, fare, produrre) e dunque scisso dalla prassi. Nessuna formazione al bene comune. Le classi stesse in quanto luogo di comunità devono essere smantellate in nome della flessibilità didattica ed emotiva. Il senso della comunità è sostituito dall’integralismo del risultato, dalla categoria della quantità che deve sostituire la categoria della qualità e della relazione, senza le quali non vi è che la violenza del privato e dell’individualismo, per cui tutto è merce, dalla formazione alla salute.

La pienezza della vita ed il suo significato prende forma solo nello spazio pubblico che insegna a trascendere il confine dell’io chiuso per accogliere il noi: in questo movimento si acquisisce il senso del pubblico. L’imperativo kantiano è perversamente rovesciato “tutto è un mezzo per il fine”. L’individualismo proprietario ed acquisitivo deve neutralizzare ogni prassi del bene comune, l’aggressione e la svalutazione delle discipline classiche è funzionale al rovesciamento del bene comune in nome dell’individualismo proprietario:

«L’esistenza di beni comuni costituisce la base necessaria per i rapporti solidali tra le persone. L’accesso a questi bene in situazioni di eguaglianza è condizione della stessa cittadinanza. Se la salute finisce di essere un diritto e diviene una merce da comprare sul mercato, sì che avrò tanta salute quanta me ne consentiranno le risorse finanziarie, avremo cittadini di prima e seconda categoria con una rinascita della cittadinanza “censitaria”, legata al reddito. Se s’impoverisce l’offerta di scuola pubblica, con l’argomento di rendere ciascuno libero di scegliere la propria scuola grazie a un “buono scuola”, si rischia concretamente la chiusura nel proprio ghetto di ciascun gruppo etnico, linguistico, religioso, con la fine della scuola come luogo pubblico confronto dove la conoscenza reciproca favorisce l’accettazione dell’altro». [5]

 

Dignità e laicità
Il laicismo anticomunitario del capitale offende la dignità delle persone, perno della Costituzione, articolo tre:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali».

La cultura laica agisce per emancipare le persone, per renderle libere di essere e di esserci nella comunità. La scuola è il fondamento della laicità, poiché la scuola dell’obbligo agisce per rimuovere gli ostacoli che impediscono il passaggio dalla potenza all’atto della virtù-personalità di ciascuno. Ogni forma di costrizione autoritaria, di condizionamento che determina le scelte è dunque rigettata come violenza.
La scuola è aperta a tutti in quanto laboratorio laico dell’emancipazione comunitaria di ciascuno, così l’articolo trentaquattro:

«La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La dignità è il riconoscimento nelle istituzioni della condizione concreta di ciascuno, pertanto la persona è rispettata nella sua dignità solo se si favorisce la sua personale formazione partendo dalla sua materiale condizione:

«La dignità come sfaccettatura dell’esistenza. Si coglie così un’altra radice culturale del riferimento alla dignità, che consiste nello spostamento d’attenzione dalla soggettività astratta alla concretezza della persona, immersa nel fluire dei rapporti reali. Qui la dignità conosce le insidie delle disuguaglianze di fatto, delle differenze di potere che incidono sulla libertà delle scelte. Ma incontra pure una persona “costituzionalizzata”, dove s’intrecciano garanzie di libertà e difese della persona “contro se stessa”. La definizione della dignità si concretizza in un quadro in cui la persona si vede riconosciuta piena autonomia di decisione, tuttavia con un limite rappresentato dalla previsione di situazioni di indisponibilità». [6]

Laicità è ascolto ed autonomia culturale: solo la scuola, per dettato costituzionale, è il luogo dove i futuri cittadini imparano la difficile pratica della resistenza alle pressioni del potere, dei pari, delle istituzioni. La cultura laica è emancipazione non solo dalle condizioni materiali che limitano la cittadinanza, ma specialmente dai pregiudizi, dalle visuali ideologiche che rappresentano la parte per il tutto, spacciando per verità gli interessi di classe, per cui l’emancipazione all’interno del discorso laico è generativa come l’amore nel Simposio. L’emancipazione rimette in discussione i modi di produzione come le sovrastrutture, ha un effetto incontrollabile sugli equilibri sociali; l’inclusione è invece l’espressione del controllo disciplinare e del biopotere. La posizione laicista predilige la scuola dell’inclusione a cui è associato “il successo formativo”. Ancora una volta il linguaggio dello spettacolo e del mercato feconda la pedagogia dell’inclusione, eufemismo per riaffermare vincoli indiscutibili e modi di produzione sacralizzati. L’inclusione deve assimilare ciò che sfugge ai parametri del capitale, in modo che non possano determinarsi alternative, tale operazione pedagogica e sociale è messa in atto ammantandola con un linguaggio mellifluo, facendo appello ai vincoli di solidarietà coercitiva. La medicalizzazione del disagio è il volto disciplinare dell’inclusione, in tal modo ogni autonomia divergente è minata all’origine. Vi è dignità solo nell’emancipazione, perché essa favorisce lo sviluppo delle personalità in modo libero e dialogico.

Conclusione:  la scuola come luogo di resistenza
L’autonomia necessita di contenuti, di modelli del passato e del presente. Il nuovo che avanza ed invoca la modernizzazione, le riforme, ha il volto truce della reazione contro la quale gli operatori scolastici hanno il compito di smascherare i linguaggi ingannevoli, i nichilismi ideologici dietro i quali non vi sono che manipolazione e mercificazione, benché siano rappresentati come libertà. La scuola deve accompagnare la consapevolezza dei futuri cittadini a riconoscere i pressanti condizionamenti che mortificano l’istituzione e le loro scelte. La comunità scolastica deve impedire che la scuola diventi luogo dove si insegna una sottomissione silenziosa. La scuola oggi è la ghiandola pineale della democrazia, il luogo dove resistere alla mutazione antropologica in atto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni. Nessun dio ci può salvare, la salvezza può avvenire solo dal basso, a cominciare dal lavoro quotidiano nelle classi come in qualsiasi posto di lavoro, in attesa, ciò che è sempre possibile, che nuove forze sociali possano catalizzarsi per un nuovo inizio.

 

Salvatore A. Bravo

 

 

[1] Costanzo Preve, Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 2.

[2] Stefano Rodotà, Perché laico, Laterza, Bari 2009, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 153.

[4] Ibidem, pag. 63.

[5] Ibidem, pag. 172.

[6] Ibidem, pag. 138.


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word      

Freccia rossa  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 14-03-2019)

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite

Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Karl Marx di Bontempelli

Bontempelli, Marx

Logo Adobe Acrobat   Massimo Bontempelli, Introduzione a Marx   Logo Adobe Acrobat
Scarica il PDF di 40 pagine
*
***
*
Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario.
Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione.
La lotta era il suo elemento.
Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo
come pochi
hanno combattuto.

F. Engels

 

 

Salvatore A. Bravo

Il Marx di Bontempelli

Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011) interprete di Marx.

A Marx ci si approssima, affermava Costanzo Preve, per cui ogni illusione di rispecchiamento perfetto non è che l’esemplificazione di un autore. Massimo Bontempelli si accosta a Marx non solo con rigore metodologico, ma, anche in ragione della sua formazione hegeliana, con metodo olistico. Attraverso la lettura dei testi ne coglie il fondamento, evidenzia l’umanesimo marxiano ed il problema della reificazione, e dimostra soprattutto che non vi può essere nulla di più ingenuo che porre in antitesi Marx ed Hegel. Anzi, Bontempelli argomenta come Marx sviluppi e porti a compimento intuizioni, concetti e metodi presenti nel pensiero hegeliano. L’attività filosofica è ri-pensare, per ri-creare – in nuovi orditi teoretici – concetti già dati. Il breve saggio di Bontempelli si conclude con l’orazione funebre di Engels all’amico. Non è un caso che Bontempelli abbia voluto così chiudere l’introduzione a Marx. Engels omaggia l’amico che ha smesso di pensare. Ovvero, per Marx vivere è pensare: non è concepibile lotta senza prassi che si coniughi con la teoria. Il pensare marxiano è polisemico, speculare alla creatività stilistica del suo filosofare. Pensare per Marx non è il freddo calcolare logico, ma è il pensare partecipante, è attività, prassi, trasformazione dei comportamenti sociali, poiché ogni soggetto umano è comunitario per sua essenza. Il pensiero è sempre intenzionalità attraverso la quale sono messi in atto i processi di riconoscimento, autoriconoscimento e critica sociale. Così Engels nella sua orazione funebre (1883):

«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre».[1]

 

L’economia politica

L’economia politica marxiana nella sua impostazione è hegeliana. Vi sono due metodi di indagine. Uno parte dal dato concreto ed astrae dalle strutture: gli economisti inglesi iniziano la loro indagine dalla proprietà avulsa dai processi storici, per cui la proprietà e le differenze sociali sono rese ipostasi, dogmi indiscutibili: si costruisce in tal modo l’ideologia economica che rispecchia la condizione storica eternizzandola. Il secondo metodo di indagine è di matrice hegeliana. Si segue un processo che ricostruisce il dato, in modo processuale e storico, partendo dal dato generico per ricostruirlo nelle sue relazioni effettive e concrete. Nella logica hegeliana il concetto di essere generalissimo si determina nelle relazioni. Nella stessa maniera Marx analizza nell’economia politica: i concetti sono problematizzati e ricostruiti nella loro genealogia, trascendendo la pura empiria per dare spazio ai soggetti che li pongono ed alle loro relazioni. In questa maniera la genealogia scardina dogmi, pregiudizi culturali ed ideologici:

«Una volta compresa la Logica di Hegel, Marx riformula in senso dialettico la sua concezione dell’economia: da questa riformulazione nasce di getto nel 1857 Per la critica dell’economia politica (pubblicata poi nel ‘59) che è il preludio al Capitale cioè alla vera e propria scienza economica marxista. L’opera contiene una Introduzione e una Prefazione: la prima è del ‘57, la seconda del ‘59. A noi interessa l’Introduzione perché è qui che Marx illustra la metodologia con cui studia l’economia politica. Dice Marx che due sono i metodi che si possono seguire nel formulare la scienza economica: 1) quello di muovere dall’elemento concreto e reale e da qui costruire una serie di astrazioni ricavate dal concreto; 2) quello di muovere da categorie astratte, comprendere la loro connessione, e, attraverso questa comprensione, interpretare la realtà concreta. Marx respinge il primo metodo e accetta il secondo: pretendere, infatti, di partire da un dato concreto (poniamo la “popolazione”) è mera illusione, perché in ogni caso si parte sempre da un’astrazione (come appunto è il concetto di “popolazione”), e per di più da un’astrazione che proprio perché ha la pretesa di riflettere immediatamente l’empiria si rivela la più povera perché non è mediata dal pensiero (qui, Marx, riprende integralmente la critica hegeliana della certezza sensibile). Allora il metodo scientifico corretto è quello di partire da concetti già astratti e mediati dal pensiero che non pretendono di riflettere in quanta tali l’empiria cogliere le loro connessioni logiche e, alla luce di queste, illuminare la realtà concreta».[2]

Coscienza e linguaggio

Marx, mediante il metodo hegeliano, ricostruisce i processi di formazione di ipostasi che, in assenza di metodi interpretativi adeguati, sono negati e favoriscono – fino ad affermarla – la scissione che legittima le ipostasi contrapposte, perché prevale l’empirico e dunque l’astratto, mentre la processualità storica dimostra che ciò che appare astratto ed irrigidito è l’effetto di una visione astorica. La coscienza, evidenzia Marx, è il risultato del soggetto che modifica la natura per soddisfare i suoi bisogni economici. La trasformazione della natura modifica il soggetto. In tale relazione si sviluppa la coscienza e con essa il linguaggio, che è lo strumento per comunicare nel gruppo. Marx non indaga la coscienza come avulsa dalla storia, ma applica il metodo della logica hegeliana, ne palesa la storicità e dunque la soggettività che pone l’oggettività in una relazione di biunivoca trasformazione:

«La prima condizione della dimensione storica sta dunque non nella semplice esistenza fisica, ma nell’attività per mantenerla, perché l’esistenza fisica non si mantiene che attraverso un’attività trasformativa, quindi una storia. La produzione umana di beni economici e necessaria perché l’uomo non trova già dati i beni necessari alla sua sopravvivenza fisica, bensì deve procurarseli modificando la realtà esteriore. Ma producendo i beni che gli sono necessari per mantenere la sua esistenza fisica, l’uomo muta non solo la realtà esteriore sulla quale agisce con il lavoro, ma muta anche se stesso. Il lavoro, infatti, trasforma il modo di essere di chi lo esplica, e determina, data la sua natura intrinsecamente cooperativa, i rapporti tra gli uomini. Nasce cosi il modo di produzione, cioè il modo con cui gruppi sociali si sono organizzati in funzione della produzione economica per garantire la riproduzione biologica del gruppo stesso. Essendo per sua natura sociale, il lavoro implica la comunicazione tra gli uomini, quindi il linguaggio, e perciò la coscienza: “il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri uomini”. La coscienza, però, perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione».[3]

 

Essere/Merce

Il fondamento della logica hegeliana è l’essere, mentre il fondamento del capitalismo è la merce. Marx sostituisce l’essere hegeliano con la merce, ma similmente ne spiega la genesi attraverso il definirsi mediato da relazioni storico-sociali sempre più complesse. Le relazioni sono di ordine sistemico-olistico, per cui variando, si trasforma il sistema, poiché le parti si riposizionano secondo nuove figure:

«[…] in tutta la sua evidenza: nel testo hegeliano si parte dall’Essere – forma immediata e semplice se ne sviluppano dialetticamente tutte le determinazioni in un lungo cammino, e poi si ritorna all’Essere nella cui trasparenza si scorge l’Idea. Nel testo di Marx, si parte dalla merce – forma immediata e semplice -, se ne sviluppano dialetticamente le determinazioni e ad essa merce, nella cui trasparenza si scorge ora il capitale, infine si torna. Seguendo l’analisi dialettica condotta da Marx nel corso del Capitale, abbiamo modo di vedere come tutta una serie di aspetti della società (che è poi la società in cui viviamo) si presentino complicati l’uno con l’altro in modo tale che nessuno di essi può venire modificato senza la modificazione di tutti gli altri».[4]

“La verità è tutto” ha insegnato Hegel. Anche nel caso di Marx la concretezza è visuale relazionale e storica che riesce a strappare i soggetti dal torpore del dogmatismo. Il metodo hegeliano-marxiano è dunque antideologico e come tale potenzia il soggetto, lo strappa dalla passività dell’ignoranza. Il soggetto acquisisce “spinozianamente” potenza e ciò muta la qualità della sua vita e delle sue relazioni.

L’alienazione

L’alienazione è il fondamento del pensiero marxiano. L’opera di Marx non è che lotta alle forme di alienazione che rendono l’essere umano oggetto della storia, estraneo a se stesso ed alla comunità. Marx, sin dalle opere giovanili, descrive i limiti di coloro che ritengono che l’alienazione possa essere trascesa solo mediante cambiamenti politici. I diritti politici, senza il superamento delle differenze materiali e sociali, non possono che confermare l’alienazione e la divisione della comunità in classi, scissa tra dominati e dominatori, poiché il diverso peso economico dei soggetti cannibalizza i diritti politici che sono così solo il paravento ideologico dietro il quale la violenza è legittimata dalle leggi e si disorienta i subalterni con la chimera dell’uguaglianza politica:

«Marx interviene sull’argomento discutendo non tanto la questione della minorità politica degli Ebrei, quanto, piuttosto, ciò che è sottinteso in tutto il discorso di Bauer, e cioè l’identità tra emancipazione politica ed emancipazione umana. Stando a Bauer, infatti, (e anche al Marx democratico di qualche mese prima) attraverso la democrazia politica l’uomo diventerebbe padrone del proprio destino, emancipandosi da ogni alienazione. Ebbene, Marx ora precisa che emancipazione politica ed emancipazione umana sono due realtà distinte: ed è proprio da questa distinzione tra le due forme di emancipazione che nasce la sua idea comunista secondo cui la vera emancipazione umana può scaturire soltanto dall’abolizione delle diseguaglianze sociali. Marx comincia con il ricordare che in un paese modello di democrazia politica come gli Stati Uniti d’America, non solo non c’è stato superamento dell’alienazione religiosa – come avrebbe dovuto accadere se fosse vera l’identità posta da Bauer tra democrazia politica ed emancipazione umana –, ma al contrario, c’è tutto un fiorire di sette religiose più o meno intolleranti. Prendendo poi in esame i testi costituzionali elaborati dalla rivoluzione francese, ovvero i documenti che hanno stabilito i “sacri principi” della democrazia politica, Marx fa vedere come essi abbiano costituito una sfera quella dello Stato distinta da quella immediatamente sociale, postulando che nell’ambito di tale sfera gli uomini possono ritrovare la loro uguaglianza naturale pur permanendo le loro diseguaglianze sociali».[5]

L’alienazione, la sofferenza umana non necessaria possono essere risolte sono con il comunismo, poiché solo con la realizzazione della natura umana, con un’organizzazione umana finalizzata a sviluppare i singoli individui in relazione libera tra di loro, terminerà la storia come lotta tra dominanti e dominanti scissione prima da cui conseguono divisioni alienanti che negano l’umanità nella sua pienezza:

 «La fondamentale differenza è sintetizzata da Marx in una sua celebre frase in cui afferma che nel socialismo deve venire data a ciascuno secondo il suo lavoro nel senso spiegato prima – che la retribuzione deve essere proporzionale al lavoro svolto e che lo Stato deve obbligare gli individui a lavorare. Nella società comunista, invece, secondo Marx, di questa non ci sarà bisogno perché durante il socialismo gli individui avranno potuto plasmare il loro essere non sulla base di un’educazione individualistica così che principio regolatore della società comunista sarà non più a ciascuno secondo il suo lavoro, ma a ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni. In quest’ultimo approdo è condensato il sogno di Marx di una completa liberazione dell’uomo».[6]

 

La prassi contro l’alienazione

La prassi è la condizione, affinché il soggetto posa risolvere l’alienazione. Hegel e l’idealismo hanno fatto della prassi la libertà e la dignità dell’essere umano. Marx riporta la prassi al centro della storia dell’umanità: la libertà non cade dal cielo stellato, ma è nella prassi. O meglio: lottare, capire, smascherare l’ideologia che anestetizza la ragione è già prassi-libertà. La realizzazione della libertà è anch’essa un lungo iter che vive e si ridefinisce e ricategorizza con l’umanità che progetta nel presente il suo futuro, modificando le condizioni storiche, ponendo in atto ciò che è potenzialmente presente. La filosofia dev’essere filosofia della prassi, ma essa è concretizzabile solo se la riflessione teoretica vive la relazione circolare tra teoria e prassi: tale osmosi è già disalienante. Il materialismo storico è speculare alla prassi, anzi ne è l’espressione più completa, il materialismo è metafora della prassi:

«”I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo; si tratta ora di mutarlo”. Quindi mentre la “materialità” nella concezione borghese è intesa come Natura, ora, nella nuova accezione di Marx, la materialità è la società economica dell’uomo, per cui affermare la priorità della materialità sulla coscienza significa affermare la priorità sulla coscienza non di un qualcosa di esterno all’uomo (la Natura), ma della sua propria dimensione sociale. Si tratta di un mutamento cruciale di prospettiva: la priorità della Natura rispetto all’uomo, dice Marx, è un fatto filogenetico, legato all’antropogenesi, all’origine della storia, e dunque tale da non autorizzare a considerare la Natura la base materiale della coscienza nella storia. Scriverà infatti nell’Ideologia tedesca: “È vero che la priorità della Natura eterna rimane ferma… D’altronde questa Natura che prende la storia umana non è la Natura nella quale vive Feuerbach, non la Natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione […]. Accade così allora che per esempio Feuerbach vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano e scopre soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma, dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti”. Questa posizione di Marx che mette in prima piano il valore trasformativo dell’attività umana rispetto alla Natura, aiuta ad interpretare la prima delle Tesi su Feuerbach, dove (recuperando la critica hegeliana alla certezza sensibile) c’è un esplicito riconoscimento della superiorità dell’idealismo sul materialismo tradizionale: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto è concepito solo sotto forma di oggetto di intuizione sensibile, ma non come attività umana pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo della realtà è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto con il materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale”. Quindi Marx, come gli idealisti, concepisce la realtà sensibile quale prodotto dell’attività umana (“soggettivamente”), senonché, diversamente dagli idealisti, a fondamento di quella attività, dunque dell’uomo che crea il proprio essere, dunque della storia, pone i1 lavoro, la prassi sociale umana e non il pensiero. Inoltre: fino all’anno prima Marx ha creduto, seguendo Feuerbach, in un’essenza naturale dell’uomo sempre uguale a se stessa; ora, invece, l’essere dell’uomo è considerato un prodotto del modo di produzione che egli eredita, per cui in ogni epoca storica l’essere dell’uomo sarà diverso, proprio perché ogni epoca storica ha una sua propria determinata morfologia che la distingue dalle altre».

 

 

La dittatura del proletariato

La dittatura del proletariato ha contribuito ad alimentare pregiudizi ed esemplificazioni contro Marx. Bontempelli smaschera l’uso ideologico in chiave antimarxiana della dittatura del proletariato. In primis, se la dittatura del proletariato fosse un sistema autoritario effettivo, non si comprenderebbe il passaggio al comunismo, il quale è preparato dalla fase socialista, durante la quale l’umanità reimpara il senso della comunità, e si disintossica dalle tossine del capitalismo acquisitivo. La dittatura del proletariato è il governo della maggioranza che impara la partecipazione politica e la prassi come modello quotidiano di vita. Il percorso che conduce al comunismo ed alla disalienazione, non può essere improvviso, ma deve essere mediato dalla dittatura del proletariato, il processo è hegeliano, perché non vi è l’immediatezza, il passaggio improvviso da uno stadio di sviluppo ad un altro. Ma la mediazione garantisce il radicamento strutturale del processo, la prassi delle coscienze, la consapevolezza collettiva:

«La cosiddetta dittatura del proletariato è dunque elemento caratterizzante di un regime socialista secondo Marx, ma intesa come dittatura esercitata non da una minoranza bensì dalle classi lavoratrici, vale a dire dalla stragrande maggioranza della popolazione, esclusivamente sui gruppi borghesi espropriati dalla rivoluzione proletaria, ed esclusivamente al fine di indirizzare tale rivoluzione ad un esito comunista (la dizione precisa usata da Marx nella Critica del programma di Gotha è infatti dittatura rivoluzionaria del proletariato), e con un risvolto, quindi, di massima estensione della democrazia. II principio di una dittatura che sia anche massima espressione di democrazia quale è posto da Marx nel suo concetto di dittatura del proletariato, non è ovviamente comprensibile al di fuori della concezione marxiana dello Stato come espressione politica di un dominio di classe. Ogni Stato, infatti, realizza un potere tanto dittatoriale quanto democratico, con aspetti dittatoriali e aspetti democratici variamente proporzionati a seconda del tipo di Stato e variamente distribuiti sulle varie classi della popolazione. Da questo punto di vista una dittatura socialista del proletariato sulla borghesia contiene necessariamente, secondo Marx, più democrazia di quella contenuta dal più democratico Stato capitalistico che sia concepibile».[7]

L’attualità è dominata dalla categoria della quantità, per cui studiosi del calibro qualitativo di Massimo Bontempelli non hanno il riconoscimento che spetta loro. Ma il tempo è galantuomo: filtra e seleziona l’autentico dall’inautentico. Pertanto Bontempelli rimarrà quale testimonianza di un intellettuale che ha fatto dell’impegno silenzioso il senso della sua vita e del suo pensare, nel tempo dell’«utile», in cui il regno animale dello Spirito sembra non avere limiti e prospettive.

 Salvatore A. Bravo

 

[1] Massimo Bontempelli, introduzione a Marx (ed Engels), in Associazione Culturale Punto rosso, Libera università popolare p. 40.

[2] Ibidem, p. 29.

[3] Ibidem, p. 32.

[4] Ibidem, p. 36.

[5] Ibidem, pp. 16 17.

[6] Ibidem, p. 39.

[7] Ibidem, p. 38.


Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.

ISBN 88-87296-71-5, 2000, pp. 288, f Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo.

ISBN 88-87296-00-6, 1997, pp. 192,  Euro 15 – Collana “La Crisalide”. I

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana.

ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10.

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro.

ISBN 88-87296-69-3, 1999, pp. 112, Euro 10.

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.

ISBN 88-87296-50-2, 2001, pp. 128, Euro 10.

indicepresentazioneautoresintesi.


Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male.

ISBN 88-87296-10-3, 1997, pp. 160,Euro 15.

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945).

ISBN 88-88172-10-6, 2002, pp. 672, Euro 35.

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.

ISBN 88-87296-30-8, 1998, pp32, f Euro 5

indicepresentazioneautoresintesi


Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

 


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word      

Freccia rossa  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 01-03-2019)

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite

Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

Velo-di-Maya-810x540

 

 

Salvatore A. Bravo

I barbari e l’Occidente

I barbari non sono alle porte, sono nell’Occidente, fino ad essere l’Occidente. La barbarie è la cifra di un vivere civile senza dono, società senza comunità: è la condizione del capitalismo assoluto, niente è gratuito, ma tutto è usato, strumentalizzato per ottenere risultati immediati.
La comunità è il luogo del dono, è nella parola stessa il significato etico. Il bene che tale parola veicola è espresso nel suo significato etimologico: comunità, dal latino communitas (composto di cum e munus): il cumfa riferimento alla dualità nella quale è possibile e si materializza il dono. Quest’ultimo è gratuito, ed è nella forma del tempo solidale. Offrire il proprio tempo, donarlo, significa donare la vita.
La barbarie è l’incapacità, non tanto di donare, ma – più in profondità – è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. Il capitalismo assoluto ha eroso e corroso ogni idea di bene sostituendola con la violenza acquisitiva delle merci. In tal modo il bene ed il male – quali categorieassiologiche – sono scomparse, per lasciare il posto ad una società in-civile nella quale l’atomistica delle solitudini è segnata dalla volontà acquisitiva.

Società senza dono è dunque la barbarie
Non si è giunti allo stato presente in modo improvviso. A tutto ciò ha contribuito anche l’adattamento della filosofia, e di coloro che si autoproclamano filosofi, al modo di produzione capitalistico nelle sue forme integraliste ed assolute. Tale responsabilità della filosofia è da rintracciare nella fuga dall’universale, nell’indicare quale vera ricerca del bene solo ed unicamente l’adattarsi al trionfo delle scienze. Il positivismo con la sua filosofia adialettica, ancora vigente nel mondo accademico, ha rinunciato all’autonomia epistemica della filosofia per inseguire un modello di assimilazione che l’ha ridotta a presenza dipendente dalle scienze ed in una posizione subordinata. La filosofia, nel migliore dei casi, come in Herbert Spencer, astrae dai risultati delle scienze principi generalissimi, ha abdicato ad ogni ricerca del trascendentale nell’immanenza, come svolta dall’Idealismo, perdisperdersi nell’empirico, e rinunciare ad ogni catabasipolitica e sociale. La rinuncia all’universale significa declinare da ogni impegno politico e sociale per divenire lo sgabello silenzioso e servile del sistema capitale-azienda. Nel migliore dei casi la filosofia assume il ruolo di controllo ed esplicitazione per generalizzazione dei risultati scientifici:

«Le verità della filosofia, quindi, hanno lo stesso rapporto rispetto alle verità scientifiche superiori che queste ultime hanno rispetto alle verità scientifiche inferiori. Così come ogni più ampia generalizzazione della scienza ricomprende e consolida le generalizzazioni più ristrette di una certa branca, le generalizzazioni della filosofia ricomprendono e consolidano le generalizzazioni più ampie della scienza. Si tratta dunque di una conoscenza che si trova all’estremo opposto, per genere, a quella che l’esperienza accumula. È il prodotto finale del processo che muove da un mero collegamento di osservazioni non elaborate, istituisce proposizioni via via sempre più ampie e disgiunte da casi particolari, ed esita nella formulazione di proposizioni universali. Per semplificare al massimo questa definizione, diciamo che la conoscenza di genere più basso è una conoscenza non unificata, la conoscenza della scienza è parzialmente unificata, e la conoscenza della filosofia è completamente unificata».[1]

 

Attività senza metafisica: medicina e ginnastica
La rinuncia ad ogni metafisica ha favorito il prevalere della razionalità strumentale sulla razionalità oggettiva. Con il rifiuto preconcetto della metafisica, vero ossimoro filosofico, la filosofia servile dell’oggi ha ricusato la problematizzazione.
La Filosofia, invece, è dove il logos – attraverso processi di indagine mediati dall’argomentare logico e dialettico – trascende l’immediato per orientare la visuale verso l’universale, verso il bene: ogni attività scissa dall’universale e consegnata al particolare non può che mostrare gli effetti dell’assenza di senso e di fine.
Nel Gorgia Platone dimostra come la ginnastica senza l’oggettività razionale del suo agire, perde il suo senso, si svilisce in pura attività volta allo scopo di agghindarsi perdendo così la sua ragion d’essere oggettiva, ovvero la cura e la disciplina delle pulsioni al fine di ordinare la vita psichica. L’armonia è un processo di controllo delle pulsioni per sublimarle nell’universale comunitario. L’anima necessità del controllo del corpo, per poter fiorire, mentre la pratica della ginnastica funzionale all’estetica non può che far precipitare l’anima nel corpo, fino a far trascinare l’anima dal corpo. Anche la medicina, il cui fine è la cura, può essere sostituita dalla culinaria che offre i suoi alimenti per il piacere immediato, senza conoscere i significati profondi e gli effetti dei cibi-farmaci somministrati. La culinaria e l’agghindarsi sono una forma di positivismo, di risultato empirico scisso dall’universale. Si insegue l’edonismo per soddisfare le pulsioni, celando dietro il velo di Maya del piacere immediato il male. L’empiria fine a se stessa, in realtà è solo corpo (Körper), in quanto ha rinunciato ad ogni fine universale per essere corpo e parola del nichilismo (nihil, nulla). Il male è nella rinuncia al sommo bene, alla razionalità che fonda il senso dell’essere sociale in ogni attività quotidiana:

«Nell’arte politica, poi, l’arte della legiferazione è l’equivalente della ginnastica, mentre alla medicina corrisponde la giustizia. L’una e l’altra arte di ogni singola coppia sono fra loro in stretta relazione, dal momento che hanno a che fare col medesimo oggetto: la medicina con la ginnastica e la giustizia con l’arte della legiferazione; tuttavia in qualcosa si distinguono l’una dall’altra. Ebbene, che queste arti sono quattro e che curano, mirando sempre al meglio, le une il corpo, le altre l’anima, se n’è accorta la lusinga, non per via di conoscenza ma per averlo indovinato, e, divisasi in quattro, si è insinuata sotto ciascuna di queste parti, e finge di essere quell’arte sotto cui si è insinuata; di ciò che sia meglio non si dà alcun pensiero e con quello che di volta in volta è la cosa più piacevole tende trappole agli stolti e li inganna, al punto dì far credere loro di essere cosa di grandissimo valore. Dunque, sotto la medicina si è insinuata la culinaria, e finge di sapere quali siano i cibi migliori per il corpo così abilmente che, se un cuoco e un medico dovessero competere davanti ad una giuria di fanciulli, o di uomini tanto stolti quanto lo sono i fanciulli, per decidere chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Ebbene, questo io lo chiamo lusinga, e dico che è una brutta cosa, o Polo, e con questo rispondo alla tua domanda, perché mira al piacere senza tener conto del sommo bene. E non la definisco arte ma attività empirica, perché offre le cose che offre senza avere alcuna intelligenza di quale sia mai la loro natura, sicché non può spiegare la ragione di ciascuna di esse. Ed io non chiamo arte un’opera che non si possa razionalmente giustificare. Ma se non sei d’accordo su queste mie affermazioni, sono disposto a renderne conto. Sotto la medicina, dunque, sta, come dicevo, la lusinga culinaria; sotto la ginnastica, parimenti, la lusinga dell’agghindarsi, malefica, ingannevole, ignobile e servile, che inganna con figure esteriori, colori, leziosità e vesti, al punto da far sì che gli uomini preoccupati di attirare su di sé una bellezza estranea, trascurino la propria, quella cioè che si ottiene grazie alla ginnastica. Ma per non farla troppo lunga, voglio spiegarmi usando il gergo dei geometri, perché così , forse, riuscirai a seguirmi, e voglio dirti che, come l’arte di agghindarsi sta alla ginnastica, così la sofistica sta all’arte della legiferazione, e che, come la culinaria sta alla medicina, così la retorica sta alla giustizia. Ebbene, quello che intendo dire è che, pur essendo le due arti per natura distinte, dal momento, però, che sono fra loro vicine, sofisti e retori si confondono in uno, e così le cose di cui si occupano, e non sanno che funzione attribuire né loro a se stessi né gli altri a loro. Se, infatti, l’anima non governasse il corpo, ma questo si governasse da sé, e se non fosse l’anima a riconoscere e a distinguere la culinaria e la medicina, ma fosse il corpo a giudicarle stimandole in base ai piaceri che gliene vengono, allora, o Polo, varrebbe quanto dice Anassagora visto che tu di queste cose sei pratico, e tutte le cose si confonderebbero in una, senza che si potessero più distinguere le cose della medicina, della salute e della culinaria. Hai sentito, dunque, quello che io sostengo che la retorica sia: essa è per l’anima l’equivalente di quello che la culinaria è per il corpo. Ma ecco che, forse, ho fatto una cosa assurda: pur non permettendo a te di fare lunghi discorsi, proprio io ho tirato il mio discorso per le lunghe. Ma merito il perdono: quando parlavo in modo conciso, non capivi, e non sapevi cavare nulla dalla risposta che ti avevo dato, ma avevi bisogno che ti venisse spiegata per esteso. Ebbene, se anch’io, a una tua risposta, non saprò cavarne nulla, allora anche tu potrai sviluppare il tuo discorso; se, invece, io saprò che utilità cavarne, lascia che ne faccia buon uso, come è giusto che sia. E ora, fa’ pure quello che vuoi di questa mia risposta». [2]

 

Immediatezza e diniego
Le arti, i saperi dispersi nel gioco del subitaneo, divengono oggetto delle peggiori passioni, si danno allo spettacolo, alla competizione, scambiano il piacere per il bene, fanno di sé un mezzo per gratificazioni impossibili, e dunque sono degli orci bucati, metafora che Platone espone nel dialogo con Callicle nel Gorgia: dove l’universale pone il limite consapevole, si ritrovano gli orci che vivono la pienezza di sé in essi sedimentata. L’orcio bucato è l’edonismo (dal greco antico ἡδονή, edoné, piacere) nichilistico, mentre l’orcio che pensa e dà ordine alle esperienze crea un ordine, un cosmo ed è dunque disposto all’eudemonia (dal gr. εὐδαιμονία, der. di εὐδαίμων «felice», comp. di εὖ «bene» e δαίμων, «demone, sorte»).
La bellezza germina nel pensiero che media e medita sull’esperienza per trarne la vita, l’agere, un nuovo inizio radicato nell’identità e nella consapevolezza di sé. Il buon demone conduce l’essere umano dal particolare all’universale, lo umanizza, ne scolpisce la potenzialità, la rende atto.
L’edonismo, l’empiria, strutturano un mondo senza intelligenza, senza armonia e benessere. Il pratico inerte, secondo la definizione di Sartre, è la condizione della passività. E l’edonismo addestra: è la caduta del soggetto nella mobilitazione edonistica di massa, il suo evaporare nella plebe. Si ha così l’individualismo senza soggetto, l’individuo è interscambiabile, sostituibile, rilevante solo per la quantità dei consumi.
L’immediatezza è il trionfo della scomparsa del soggetto, la cui libertà è nell’assenza di forma e di contenuti.
Il diniego è l’altro volto del consumismo totale. L’abitudine all’automatismo acquisitivo struttura il diniego del malessere che, pur sentito, non è ascoltato e accolto: il diniego è la rimozione del male che puntualmente ritorna. La barbarie è il diniego dello stato presente obnubilato dai miti che la sovrastruttura del capitalismo assoluto offre quali oppiacei per sopportare la notte del mondo.

Subitaneo e trascendentale
Nella filosofia antica il problema è stato posto: la condizione umana si dibatte nel tentativo di superare la scissione tra il subitaneo e il trascendentale. Non si è umani se non si ascolta e si vive il problema. Con il trionfo della adialettica positivistica, la filosofia, in particolare la filosofia accademica, ha rinunciato ad ogni fondazione metafisica, consegnandosi all’empiria con l’effetto che ha sostenuto i processi di scissione e frammentazione, per cui l’insegnamento scisso dal senso profondo è divenuto didattica, la politica propaganda narcisistica, la medicina arte della cura di organi e non arte sistemica della persona e così via.
Dalla scissione si può uscire, ancora una volta il potenziale è conservato nel grembo della filosofia. Platone, nel Parmenide, teorizza l’essere, il fondamento come unità nel molteplice. In tale maniera il fondamento non nega la molteplicità, ma le parti si ricompongono in un’unità più grande. Il fondamento comunitario è nella consapevolezza di appartenere ad una comune natura, e ciò dispone al dono, al limite (katéchon), al fine di accogliere la parola dell’altro. In tal maniera le parti si ritrovano nel tutto, senza la violenza della parte che confligge con le altre parti, perché non ne riconosce il comune fondamento:

«è necessario che il tutto e la parte prendano parte dell’uno. Il tutto sarà un uno di cui parti sono le parti; mentre ciascuna parte del tutto, quale che sia, sarà una parte del tutto». «è così ». «Ciò che partecipa dell’uno non vi prenderà parte essendo diverso dall’uno?» «Come no?» «Molte saranno le cose diverse dall’uno: se infatti le cose diverse dall’uno non fossero né uno, né più di uno, nulla sarebbero». «No, certo». «Dal momento che sono più di uno quelle cose che partecipano dell’uno come parte e dell’uno come tutto, non è necessario siano molteplici e infinite queste cose che prendono parte dell’uno?» «Come?» «Osserva. Esse, allorquando partecipano dell’uno, vi prendono parte non essendo uno e non partecipandovi?» «è chiaro». «Non è dunque molteplicità in cui l’uno non è?» «Sì , lo è». «E allora? Se volessimo con il pensiero sottrarre da tale molteplicità la parte più piccola che riusciamo a sottrarre, non sarebbe necessario che anche la parte che abbiamo separato, se è vero che non prende parte dell’uno, sia molteplicità e non uno?» «Per forza». «Dunque analizzando sempre in questo modo quella natura, presa di per sé, diversa dalla specie dell’uno, quale che sia la parte di essa che noi sempre osserviamo, non sarà infinita e molteplice?» «Assolutamente». «Non appena ciascuna parte diviene parte, esse saranno già fornite di un limite le une verso le altre e verso il tutto, e il tutto verso esse».[3]

 L’uscita dalle barbarie trova nella filosofia una delle vie privilegiate, perché la filosofia è metafisica. Solo riportando il bene nella centralità della discussione culturale ed umana si avrà la possibilità, non la certezza, di uscire dalla caverna al cui buio ci si è abituati.

La normalità della caverna è la barbarie dell’Occidente, ma non è un destino.

 

Salvatore A. Bravo

 

*
***
*

[1] Herbert Spencer, I princìpi primi, Williams and Norgate, Londra 1867, traduzione di Angelo Magliocco, pag. 87.

[2] Platone, Gorgia, ww.ousia.it, pag. 17.

[3] Platone, Parmenide, ww.ousia.it, pag. 20.

 

 

 

Rene-Magritte-in-mostra-al-Centre-Pompidou-di-Parigi_image_ini_620x465_downonly


logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 20-02-2019)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web

cicogna petite***********************************************

Salvatore A. Bravo – Tempo astratto e tempo emancipato. C’è un tempo rivoluzionario in cui si diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria.

Tempo astratta e tempo emancipato
Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Salvatore A. Bravo

Tempo astratto e tempo emancipato in cui si diventa persona.

Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato

 

Il tempo del capitalismo assoluto è il tempo astratto. La percezione del tempo si fa concreta nella consapevolezza dell’aprirsi al mondo, nel tempo della partecipazione al mondo ed a se stessi: è il tempo vissuto, in cui il fluire si organizza non nella dispersione di sé, ma nel raccoglimento, nel processo di soggettivizzazione attiva. Il tempo diviene, così, dimensione della qualità dialogica e dialettica che accoglie il mondo, le rappresentazioni, i suoi stereotipi per rielaborarli nella creatività.
C’è un tempo rivoluzionario in cui il soggetto, non più individuo, atomo nel mondo al traino delle forze dei modi di produzione, diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. L’individualismo, espressione sostanziale del turbo capitalismo, si caratterizza per la temporalità generica ed astratta: il soggetto non vive il proprio tempo, ma il tempo del modo di produzione, vive al ritmo del dicitur, non osa essere libero. Gli è sconosciuta la dimensione interiore, del conflitto tra la rappresentazione del mondo e l’elaborazione personale e condivisa di un’altra modalità di vivere e rapportarsi al mondo. Il tempo fluido, martellante, fa del soggetto una parte organica del sistema, è il tempo del vuoto silenzio muto, non vi sono parole, ma solo muti silenzi vuoti di senso.
La caverna di Platone non è solo buio ed immagini, è il muto silenzio del tempo che scorre senza la dimensione del simbolico. Il tempo dei dormienti è l’invisibile forma che assume il nichilismo, avvolge, rassicura con un fluire che mentre chiede tutto, svuota il soggetto della sua capacità simbolica. Opporsi a tale modalità di potere – che entra nel corpo vissuto per svuotarlo della sua potenzialità simbolica –, non è facile perché si è portati in una dimensione che vuole ci si sottragga al conflitto, al fine di rendere la vita priva di vita. Si avvelenano le fonti della vita, prosciugandole con la distopia: le merci ed il denaro divengono le divinità tiranniche che promettono «ogni felicità», allontanano così il soggetto da se stesso, destabilizzandolo, ipostatizzando forme di dipendenza mascherate da libertà senza limiti e confini.
Il tempo è così ritagliato all’interno di categorie produttive che adescano con i loro miti. Nell’immediato, il soggetto – rassicurato dall’apparente concretezza del tempo astratto –, è teso con le sue energie verso l’immanente metafisica della merce. Il tempo nella ripetizione sempre uguale, malgrado il ritmo frenetico della produzione e del consumo, rallenta in quanto attimo segnato dalla violenza della coazione a ripetere. La comprensione dello stato presente può accadere in una pluralità di modi: talvolta la verità può delinearsi improvvisa nella lettura di un mito greco.

Il tempo dei dormienti
Aristotele con il mito dei dormienti descrive un piano della condizione umana possibile in ogni epoca:

«Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento».[1]

Nel profondo il modo di produzione del capitalismo assoluto ha lo scopo di mutare il tempo/coscienza, in modo da impedire al soggetto la percezione di essere stato determinato. La vita nel capitalismo assoluto, è un unico istante, senza differenze qualitative, vige solo il tempo della scissione individualistica, si presenta nella sua compattezza liquida, deve sottrarre al soggetto il tempo qualitativo, rivoluzionario, per renderlo simile ad un ente che opera per automatismi algoritmici.

Marx ed il comunismo: il tempo emancipato
Il tempo è la posta in gioco nel tempo attuale: la servitù, la condizione di alienazione si deve associare alla dispersione del tempo. Il capitalismo assoluto vorrebbe essere il signore del tempo, e dunque mettere in atto nella storia una nuova creazione, nella quale il tempo è negato, in questa maniera ipostatizza se stesso e pone nella condizione di famuli eterni i suoi servi fedeli e socialmente trasversali.
In Marx tale problema è sicuramente uno dei tratti del suo pensiero rivoluzionario: la scommessa futura per Marx è la possibilità data ad ogni essere umano con il comunismo di vivere il proprio tempo nel simbolico. Tempo rivoluzionario, il tempo del comunismo, perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria. Le potenzialità simboliche portano nel loro grembo la verità eterna di ogni essere umano, ovvero la comunicazione nel segno della reciprocità simbolica. Non a caso Marx, pur non avendo descritto la società comunista, ne ha teorizzato l’elemento essenziale: il tempo liberato dalla sussunzione formale e reale, dalla sottomissione al macchinismo, per essere tempo dell’emancipazione. La praxis rivoluzionaria apre la prospettiva di un orizzonte nel quale si ipotizza l’abolizione di ogni attività esclusiva, e cioè di un’organizzazione della società che

«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».[2]

Se il tempo del capitalismo è il tempo dei dormienti, dei viventi stranieri a se stessi come alla comunità, il tempo del comunismo è il tempo che libera dalle scissioni, per rendere concreta la natura umana, le sue potenzialità espressive che non possono essere confinate in angusti limiti.

Il tempo che verrà
Il tempo è il luogo della vita, dell’unità, è il grande tema rimosso dalle “sinistre” del sistema. Naturalmente il silenzio sul tempo svela e rileva la realtà nichilistica delle “sinistre” omologate sul tempo dell’azienda. Il futuro si gioca sul senso e sugli usi del tempo: la “sinistra” senza metafisica, non può che schierarsi con il capitale, proprio perché è in assenza di una metafisica, di una visione olistica nella lettura del tempo presente e della storia.

Occorre riaprire il dibattito filosofico e politico sul problema del tempo e della vita: non è altrimenti pensabile riconfigurare il presente in una prospettiva nuova. La sfida a cui occorre rispondere la si può sintetizzare nell’aforisma di Nietzsche che giudica le macchine il mezzo più efficace per eliminare dalla storia la soggettività e formalizzare in modo sostanziale il trionfo dell’uomo mediocre ed adattato:

«La macchina come maestra. – La macchina insegna, attraverso se stessa, l’interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa fornisce il modello dell’organizzazione partitica e della condotta bellica. Non insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare il vantaggio della centralizzazione». [3]

 

La macchina può liberare il tempo dell’essere umano, come prospettato da Marx nel frammento su macchinismo, o renderlo schiavo. Tutto è ancora possibile, malgrado che il silenzio perduri su tale tema.

Salvatore A. Bravo

[1] Aristotele, Fisica, IV, 11, 218 b, II. 23-33 e 219 a, II. 1-2; traduzione di Luigi Ruggiu.

[2] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 24.

[3] F. Nietzsche, Umano troppo Umano, volume II, aforisma 218.

 

 

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 26-01-2019)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

David Foster Wallace 05

Ci sono due giovani pesci che nuotano
e a un certo punto incontrano un pesce anziano
che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice:
– Salve ragazzi. Com’è l’acqua? –
I due pesci giovani nuotano un altro po’,
poi uno guarda l’altro e fa:
– Che cavolo è l’acqua?
David Foster Wallace, Questa è l’acqua

[clicca qui per leggere la pagina di Wallace]

Salvarore A. Bravo

L’epoca della normalità del male

 

***

Sommario

***

I pesci di David Foster Wallace

Dialettica spazio-tempo

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Un mondo senza virtù

Genealogia del Capitale e dello stato presente

La prima domanda da porre

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Senza modelli progettuali,
non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

 

*******
*****
***
*

I pesci di David Foster Wallace

Ci sono totalitarismi impliciti – e dunque non riconosciuti – che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza del linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.

***

Dialettica spazio-tempo

Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451. Il potere economico ha assimilato il potere politico: oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).

***

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

La spazializzazione agisce in modo da occupare gli spazi per sottrarre con la stimolazione delle immagini, degli idola-merce, ogni possibilità di prassi del soggetto che sottoposto al “bombardamento etico” del libero mercato, abdica ad ogni valutazione critica sul senso e sulla congruità del contesto in cui è disperso. Lo spazio pervade i tempi della mente sottoponendola ad un’accelerazione osmotica di desideri, riducendola ad un porto nel quale le merci sono scaricate e caricate. La spazializzazione della vita è dinanzi ai nostri sguardi, ma come il pesce nell’acqua, non ci rappresentiamo il mondo merce, non lo nominiamo: eppure esso c’è , è l’ipostasi e noi siamo l’accidente. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, a questo punto, non necessita di squadre di pompieri pronte ad incenerire, con i libri, i pensieri autonomi e disfunzionali al sistema capitale, ma agisce riempendo gli spazi di merce sottraendo al libro, alla sospensione della valorizzazione, ogni possibilità di diventare reale.
Le grandi librerie si riempiono di oggetti di ogni genere, di conseguenza gli imprenditori delle multinazionali del libro, non sono antitetici al sistema capitale, ma complementari, al punto che il potenziale lettore trova in una libreria, non solo libri, ma anche carabattole, stoviglie, mezzi multimediali: la distrazione dal libro, dal pensiero critico, è così organizzato all’interno degli spazi nei quali invece, si dovrebbe organizzare e riorganizzare l’apparato simbolico: il fine è solo vendere, per cui il libro è reso eguale a qualsiasi merce.
Non è necessario che vi siano i pompieri ad inibire la lettura, si agisce per la dimenticanza del libro, della coscienza oppositiva e critica, ostruendo i canali nutritivi della temporalità, inaridendo la natura umana generica per definirla nei termini di natura consumante, ed osservante agli obblighi della legge del libero scambio.

***

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

Il passo ulteriore dell’asfissia-merce è l’adattarsi dell’essere umano alle leggi del mercato, al punto di percepire se stesso come “capitale umano”: una merce un po’ speciale, da immettere nel mercato delle competenze e della competizione previa ostentazione della merce in oggetto. La pornografia di se stessi. La spazializzazione è la messa in vendita sul mercato della “cura di sé” che – a dispetto dell’ultimo Foucault – non è affatto la messa in atto di liberi processi di soggettivizzazione, ma è unicamente cura maniacale del corpo, tentativo di ridurlo a corpo morto, a pura spazializzazione ben tornita, cartina di tornasole per rendere più vendibili le proprie competenze comprate nel circuito della “offerta formativa”.

***

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Il modo di produzione capitalistico nega la natura degli esseri umani, pone la persona sullo stesso livello degli animali non umani: questi ultimi si caratterizzano per essere specializzati in una particolare funzione; il capitalismo specializza l’essere umano rendendolo funzione in una particolare attività produttiva. È negata la polisemia simbolica dell’essere umano: nel capitalismo assoluto l’essere umano è sempre più consumatore senza limiti, piuttosto che produttore. È opportuno rammentare la lezione di Marx, che a soli ventisei anni, aveva compreso gli effetti antiumanistici del sistema capitale:

«La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente difronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». [1]

***

Un mondo senza virtù

Marx descrive un mondo senza virtù, senza aretè (ἀρετή), parola greca in italiano poco traducibile, perché la virtù per i Greci era la realizzazione di sé. Essa è bellezza, perché generativa (Platone, Simposio), è l’umano nella forma finalistica: ciascuno ha un’indole, un dono/virtù (cristianamente: i “talenti”), che deve affinare e formare, affinché la sua vita sia degna di essere vissuta; divenendo se stesso, l’essere umano si stacca dallo stato ferino, dall’immediatezza dei bisogni riordinandoli in una dimensione universale. Pertanto Aristotele può affermare[2] che lo sviluppo virtuoso dell’intelletto india, rende simili alla divinità. Giustizia e felicità coincidono nella visione greca: la Politeia (Πολιτεία) di Platone presuppone non solo la giustizia, ma anche la felicità, poiché ogni cittadino occupa un ruolo che corrisponde alla propria natura e pertanto è felice. Senza la dimensione temporale non vi è telos (τέλος), ma solo il bieco meccanicismo che riduce l’essere umano ad un ente gettato in uno spazio senza tempo e dunque sottratto alla storia. La lotta personale e collettiva è tenere in vita il proprio senso, la fedeltà al proprio destino contro l’integralismo economico meccanicistico. Naturalmente non è sufficiente. Perché la prassi sia parte del quotidiano, si deve elaborare un progetto collettivo a più voci. Ma senza questa prima forma di resistenza non vi alcun inizio, alcun agere, ma solo l’ipostasi mercato, che curva le parole, le espressioni dialogiche nella forma merce, e dunque il dispositivo (Gestell) si installa per parlare per noi, i posseduti dall’economia di mercato.

***

Genealogia del Capitale e dello stato presente

L’emancipazione dal capitalismo assoluto non può prescindere dalla conoscenza critica. Massimo Bontempelli, filosofo e storico, nel suo scritto L’ Agonia della scuola italiana chiarisce che sapere critico è quel sapere capace di mettere in discussione i fini, mentre la tecnocrazia didattica si sofferma sulle abilità tecniche per giungere a fini già prestabiliti ed indiscutibili. L’emancipazione necessita di una messa in discussione dei fini, mediante i processi archeologici-genealogici della Filosofia. Il metodo processuale tipico della Filosofia – e strutturatosi in particolare con Rousseau, Marx e Foucault – rimette in discussione l’ipostasi mercato rimappando dati e necessità che invece, attraverso di esso, appaiono nella loro umanità, non più un destino senza destinazione, ma potenzialità interne alla storia umana. Un nuovo asse culturale è dunque imprescindibile al fine della prassi, altrimenti si sarà condannati a vivere nell’eterna ripetizione del presente, esposti alla precarietà come al male di vivere come fosse una necessità ontologica.

***

La prima domanda da porre

Bisogna, dunque, reimparare a domandare, ed in ciò la Filosofia è un ausilio non sostituibile:

«Le domande da porre non sarebbero: Quali tipi di sapere volete squalificare dal momento che chiedete: è una scienza? Quali soggetti parlanti, discorrenti, quali soggetti d’esperienza e di sapere volete dunque “minorizzare” quando dite: “Io che faccio questo discorso, faccio un discorso scientifico, e sono uno scienziato”? Quale avanguardia teorico-politica volete intronizzare per staccarla da tutte le forme circolari e discontinue del sapere?».[3]

La prima domanda da porre è “Chi parla?”. Abbiamo smesso di chiedercelo. I libri, come la Storia, muovono a questa domanda che desostanzializza i feticci per porre la verità della Storia: lo Spirito umano. Senza la domanda fondamentale “Chi parla?”, il mercato continuerà a parlare, a decidere, ad imperare sui sudditi e sugli esecutori. Si narra che l’imperatore che decise la costruzione della grande muraglia fece bruciare tutti i libri, tranne i libri di medicina. A chi gli chiedeva perché avesse bruciato anche i libri di Storia, l’imperatore rispose che sono sempre un pericolo per il governo in corso.

***

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

Anche oggi libri e Storia sono minacciati dal potere economico che – per eternizzarsi – deve rimuovere dallo spazio i libri e ridurre la Storia a semplice successione temporale, a semplice presenza nel curriculum scolastico. Il potere si sottrae, così, al giudizio, poiché per la Storia insegna a riconoscere il male e dunque non lo rende “normale”, al punto da non riconoscerlo. Lo Spirito del mondo (Weltgeist), la prassi che porta verso l’emancipazione e la libertà si ritira dall’umanità: al suo posto non resta che il tempo privato dalla sua teleologia. La normalità del male, per George Mosse, è la condizione per l’affermarsi dei totalitarismi, e non la banalità del male della Arendt:

«Non mi pare dunque adeguato parlare della banalità del male, come fa Hannah Arendt. Trovare un’altra espressione è difficile, ma io parlerei della normalità di un male che minaccia in forme estreme il nostro secolo […] Che cosa c’era nella mente? Innanzitutto questo pensiero chiaramente espresso in un famoso discorso di Himmler: abbiamo visto tutti questi cadaveri, e tuttavia restiamo forti. Ritengo che Hannah Arendt non sia nel giusto parlando di banalità del male».[4]

***

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

La normalità del male è la precarizzazione della vite oggetto dei capricci del mercato e della legge del profitto. Il paradigma del nuovo ordine mondiale è l’utile che si concretizza nell’individuo astratto, avulso dalla comunità che usa tutto e tutti al fine di ottenere il massimo risultato possibile. La condizione della normalità del male è simile allo stato di natura descritto da Hobbes nel Leviatano. Ogni individuo nello stato di natura vive perennemente la tensione dell’ostilità predatoria, è come se il cielo minacciasse continuamente tempesta, per cui lo stato di precarietà è presente anche nei periodi brevi di calma:

«Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico».[5]

***

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Libri e prassi sono filologicamente legati, sono il luogo dove lo Spirito dell’umanità prende forma per simbolizzare dialetticamente il tempo. La glorificazione dell’economicismo ha il suo puntello adamantino nella negazione del libro e della lettura. Ogni resistenza deve iniziare dall’attività pratico-teoretica della lettura. Contro il nichilismo economico e dello spettacolo il libro può essere una fenditura nel sistema, un diniego silenzioso dello stato presente. Senza la cultura del libro e della mediazione razionale consustanziale ad essa, non resta che l’incultura dell’immediato, la quale, mentre promette e lusinga con le sue aspettative, forgia le catene del nichilismo, il cui tempo è contenuto nella guerra di tutti contro tutti, nella condizione di spettatore dinanzi agli effetti della globalizzazione.

***

Senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

Per ricostruire un’azione politica, è necessario lo studio in cui trovare modelli mediati razionalmente nella presente storia: senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che ripete se stesso. I modelli progettuali, in modo comparativo, dispongono al pensiero. La pedagogia del nichilismo, la distruzione dei contenuti – a favore della tecnodidattica che pone i libri in uno stato di minorità – è il germe che veicola la tirannia dell’economia sulla politica, è la negazione della cittadinanza. Contro tutto questo, sono possibili soluzioni plurali, ma rimane la centralità del pensiero teoretico/pratico.

 

[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, paragrafo XXIV.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b30-31.

[3] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi Torino 1977, p. 170.

[4] G. Mosse, Intervista sul nazismo, Laterza, Bari 1997, pp. 72-73.

[5] T. Hobbes, Leviatano, Utet Torino, pp. 158-159.

 

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word 

logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 09-01-2019)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web

cicogna petite***********************************************

Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Prudenza–Salvatore Bravo 032

Salvatore A. Bravo

La Prudenza al tempo della categoria della quantità

*****
***
*

 

Il sistema merce rimuove le categorie di qualità e di misura

La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico: in assenza di un asse ontologico ed assiologico, l’essere umano – non più soggetto attivo di scelte e deliberazioni – è parte di un enorme sistema in cui la vita è sostituita con la sopravvivenza aumentata: non si vive che per la quantità, mentre la qualità e la misura sono categorie rimosse dal sistema merce, perché antieconomiche.
Nella Scienza della logica di Hegel le categorie che strutturano ontologicamente l’ente per determinarlo sono: quantità, qualità e misura. Il nichilismo appare nell’infinita produzione di merci e varianti per assimilare tutto in un’unica categoria: la quantità. Quest’ultima è il paradigma mediante il quale ogni esperienza umana è ridotta a pura astrazione, resa su un piano orizzontale senza differenze qualitative e misura. Ciascuna esistenza è ridotta sul piano della matematizzazione: gli esseri umani sono classificati per età, reddito, capacità di prestazione e resistenza. La qualità e la misura non compaiono in alcuna indagine demoscopica quali fattori imprescindibili della condizione umana.
Il pensiero critico – il suo affinamento, la sua formazione – è considerato una pietra d’inciampo nella corsa verso la quantità. Lo stato presente della globalizzazione è nel segno della quantità. La quantità è in ogni gesto, è il metro di misura con cui ci si relaziona, è – e si vorrebbe fosse sempre di più un meccanismo attuantesi in modo automatico – parte della psiche, dei processi di valutazione e giudizio. Si è perso il bivio in cui il deliberare implicava la chiarezza dell’universale, del bene da perseguire; al suo posto regna la quantità e la competizione deregolamentata: l’unica valutazione che viene effettuata è il risultato finale. Ognuno è come gli altri, ma nel contempo lotta contro tutti.
La quantità – senza qualità e misura – si rende visibile nello smantellamento della virtù della prudenza, espressione non solo della responsabilità soggettiva, ma specialmente del discernimento prudenziale, che presupponeva il cercare la differenza tra il bene ed il male. Se la quantità è l’unico paradigma di valutazione, ogni giudizio sulle conseguenze di un’azione come sul valore in sé di una scelta è reso nulla. Tutto si valuta in astratto, il necessario diviene l’accumulo a prescindere dal senso e dalla qualità. La quantità forma alla fredda triste passione dell’alienazione da sé e dalle alterità.

 

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Metafora della prudenza

Non è un caso che la prudenza, virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola, è raffigurata con l’immagine-metafora di una donna seduta in trono che regge con la mano destra uno specchio e con la mano sinistra un serpente. Lo specchio non allude alla vanità, ma alla necessità di conoscersi, non vi è prudenza senza conoscenza di sé, e dunque del bene e del male. È l’anima umana a dare la misura alla quantità non senza aver deliberato sui bisogni autentici. Affinché ciò possa avvenire è indispensabile esperienza, capacità di guardarsi con l’occhio dell’anima, di serbare memoria di sé, degli altri e della comunità. Il serpente è parte dell’immagine della prudenza, poiché con le sue spire annodate ben rappresenta a memoria ed il tempo. Solo la chiarezza delle finalità etiche, della gerarchia dei valori consente la pratica della prudenza:

«Il providens dalla cui contrazione si ottiene prudens è chi è in grado di evitare pericoli o danni. Si tratta, dunque, della virtù deliberativa per eccellenza, che pone la pratica in condizione di discernere il bene dal male, ma anche di prepararsi per il futuro a partire da un presente che ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato».[1]

Senza la prudenza non vi è concordia, non vi è giustizia, non vi è comunità, ma solo il caos della lotta, senza trascendenza.
La prudenza è virtù che rende manifesto il fondamento umano della realtà: l’essere umano non solo fonda la realtà, ma specialmente dà ad essa senso mediante la valutazione delle circostanze, la relazione tra mezzi e fini, e quindi introduce la qualità e la misura, non consente all’opacità delle quantità di sovrechiare qualità e relazione:

«Alla radice dell’ampia trattazione di questa virtù si colloca soprattutto il sesto libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele. In cui la prudenza (phronesis) è posta in contrasto con la scienza (episteme). Mentre la prima si riferisce alla capacità di giudicare e valutare, in base a norme flessibili, ciò che muta “ciò che può essere diversamente da ciò che è”, la seconda ha a che fare con l’immutabile, come nel caso degli enti matematici o dei movimenti degli astri».[2]

 

 

Giotto, Prudenza, 1306

Giotto, Prudenza, 1306

Declino della prudenza

Il declino della prudenza, la sua manipolazione fino a renderne perverso il significato, passa attraverso il nichilismo dell’onnipotenza. Con l’affermarsi degli Stati nazionali, con il delinearsi della potenza acquisitiva, la prudenza perde il suo senso ontologico per divenire azione di potenza che utilizza ogni mezzo per affermare la potenza nullificatrice della quantità. A questo punto la qualità e la misura si eclissano per lasciare spazio alla prudenza nella forma della scaltrezza, in funzione nichilistica ed acquisitiva: ogni limite adesso naufraga a favore della dismisura, della quantità che pur di espandersi utilizza qualsiasi mezzo, in vista del fine. Ogni equilibrio tra mezzo e fine per salvaguardare l’universale è scisso:

«La prudenza a questo punto non è più la virtù che insegna a scegliere tra il bene ed il male. Venendo a mancare i criteri indiscutibili della scelta (perché vengono da Dio), il male è necessario a conservare il potere. I mezzi sono indifferenti quel che conta è il conseguimento dei fini. Del resto, in quel tempestoso periodo della storia, l’indebolimento degli Stati e delle Chiese scarica più pesantemente sugli individui il peso delle decisioni rischiose, non più garantite da norme riconosciute ed unanimemente condivise». [3]

Cesare Ripa, Prudenza

Cesare Ripa, Prudenza

Democrazia e politica senza prudenza

La democrazia ridotta ad atomistica delle solitudini, la coazione a ripetere del modo di produzione capitalistico è svuotata di ogni senso e significato, perché è nei fatti il regno della quantità, della prudenza-scaltrezza che ha come fine gabbare l’altro. La prudenza asservita alla quantità, al successo, al narcisismo primario, resa perversa nel suo agire fonda la tragedia dell’epoca attuale, in assenza del fondamento veritativo. La prudenza nella forma della scaltrezza finalizzata alla quantità divora ogni alterità, assimila nella forma della quantificazione violenta:

«L’impresa anche oggi non è agevole, perché la deviazione dell’idea di prudenza verso quella di cautela, di astuzia, di simulazione e dissimulazione è penetrata in profondità nel senso comune a causa della diffusione capillare delle teorie della ragion di Stato tra Cinquecento e Seicento. Teorie discusse, secondo i contemporanei, perfino nei negozi di barbiere o nelle chiacchiere, in cui si citano continuamente Tacito e Machiavelli. La democrazia fatica perciò ancora oggi a dissipare i sospetti allora seminati e a riprendere come virtù propria anche la prudenza quale strumento per passare dai valori ultimi che, politicamente o religiosamente, ciascuno in Europa aveva cercato di imporre con la violenza, ai “valori penultimi” che creano uno spazio comune di confronto».[4]

 

Carpaccio, Prudenza

Carpaccio, Prudenza

Prudenza e coraggio

Senza prudenza autentica anche le altre virtù sono sminuite nel loro valore. L’anomia della società globale, del capitalismo assoluto, è nella forma di un piano liscio dove tutto avviene semplicemente. La virtù della fortezza, del coraggio consapevole, della prassi trasformatrice è obliata; al suo posto non vi è che l’azione rapace dei mercati, in assenza di un fondamento veritativo che possa distinguere il bene dal male, non resta che l’apeiron della violenza travisata in coraggio. La virtù del coraggio, invece, dev’essere mediata anch’essa dalla conoscenza di sé,. Risuona ancora una volta “Conosci te stesso”, l’ascolto di sé. Senza la conoscenza di sé, non si conoscono le paure personali e collettive che si addensano nell’animo di ognuno per impedire quelle resistenze che ogni agire creativo e non conformistico producono. Il coraggio è sguardo rivolto alla propria identità: non vi è prudenza senza coraggio. La comunità è viva quando le istituzioni formano al coraggio ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è che la violenza della sudditanza. L’essere umano ridotto alla passività, alla bestialità negatrice diviene veicolo di violenza. Ogni democrazia viva ed autentica non può che formare alla fortezza ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è partecipazione, ma solo mobilitazione coatta ed indifferenza:

«In sintesi, il coraggio consiste, nel nominare la paura, nel riconoscerla; in un secondo momento, nel trovare il modo di attraversarla; e, infine, nel trovare i mezzi e la possibilità per agire, nonostante si continui ad avere paura. Perché non è vero che, mentre si agisce, la paura è solo un ricordo». [5]

Il coraggio, affermava Dante nel libro quarto (capitolo XVII) del Convivio, è la consapevolezza della paura e la capacità di tenerle testa. Non vi è umanesimo e formazione all’umano senza la riflessione sulle virtù. Tale Bildung non può avvenire che con la formazione classica e con gli studi umanistici: senza di essi siamo destinati al regno ferino, alla regressione collettiva.

Senza prudenza e fortezza non c’è trasformazione. L’economicismo, con il suo integralismo, rafforza se stesso con il declino di ogni virtù, della verità, con la riduzione a pura quantità di ogni differenza, perché l’opposizione esige il coraggio e la prudenza per riportare l’umanità nella condizione di soggetto della Storia.

 

Salvatore A. Bravo

 

 

Le virtù cardibnali

Le virtù cardibnali

 

[1] Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano, Salvatore Veca, Le virtù cardinali, Laterza, Bari 2017, pag. 5.

[2] Ibidem, pag. 6.

[3] Ibidem, pagg. 12-13.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 49.


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word 

logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 01-01-2019)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web

cicogna petite***********************************************

Salvatore A. Bravo – La neuroeconomia è ipertrofia delle merci, e sottrae all’essere umano la sua essenza e le sue potenzialità da concretizzare in atti di senso. L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

Nuoroeconomia–Neuroscienze

La neuroeconomia

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

G.W.F. Hegel

Salvatore A. Bravo

La neuroeconomia

 

 

La neuroeconomia

L’economicismo integralista negli ultimi decenni sta compiendo un salto qualitativo. Dalla propaganda mediatica continua ed ossessiva, ma ancora debolmente controllabile dagli utenti e dai popoli, si sta gradualmente strutturando una nuova strategia di mercato: entrare nella mente, controllare il cervello, per disporlo al baratto.

Brainfluence

Brainfluence

Si tratta di un intervento radicale e discreto, l’economia trasforma gli esseri umani, i popoli, in stabili consumatori per il mercato, ambisce a forgiare la natura umana. Il mercato – novello Demiurgo – vuole plasmare i circuiti cerebrali per rendere la persona non solo consumatore, ma specialmente, dipendente in modo assoluto dal mercato, anzi ad esso organico. Si tratta di una forma di totalitarismo, assolutamente nuova, che non trova precedenti nella storia umana.

Digital Neuromarketing

Digital Neuromarketing

Il mercato ipostatizza se stesso, mediante l’asservimento globale all’economia con una strategia assolutamente nuova: entrare nella mente, fessurare la mente ed incidere in essa la logica del mercato. Le neuroscienze, la psichiatria e la psicologia divengono lo sgabello dell’economia, mettono a disposizione le loro ricerche per rafforzare l’espansione del mercato e contribuire alla trasformazione dei popoli in pubblici dipendenti del valore di scambio, inconsapevoli e nel contempo complici.

 

***

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

 

La neuroecomia

La neuroecomia

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience01

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Bradley R. Poste, Neuroscienze cognitive. L'essenziale

Neuroscienze cognitive

Gli strumenti

La neuroeconomia si avvale delle neuroscienze, queste ultime portano a compimento un processo iniziato con David Hume ed Adam Smith.
David Hume ha destrutturato il soggetto rendendolo un fascio di emozioni in entrata ed in uscita senza nessuna consistenza ontologica, funzionale, in tal modo, alle logiche del baratto, dei desideri che lo attraversano e poi si dileguano, per poi ripresentarsi, come se il soggetto fosse un ciclo meccanico che puntualmente si riempie di desideri, li consuma, li svuota per ricominciare il ciclo.
Adam Smith ha ipostatizzato il mercato, affermando che l’essenza del soggetto umano è il baratto, lo scambio: tutta la storia umana è letta da Smith secondo la logica dello scambio e dell’utile.
Le due tesi – complementari l’una con l’altra – si possono facilmente smentire. Gli studi di Karl Polany, di Ivan Illich e di molti antropologi contraddicono l’integralismo economicistico ed il servidorame del turbocapitalismo: l’essenza dell’uomo è un’essenza generica (Gattugswesen), l’essere umano è simbolico, dà senso alla propria esistenza nelle circostanze che gli sono date.

Neuroeconomia

Neuroeconomia

Il fine attuale è smantellare ogni dubbio, ridurre le conoscenze, elidere la formazione critica ed umanistica in modo che la neuroeconomia e le neuroscienze possano agire senza ostacoli, glorificando il mercato ed i suoi crimini. Il primo di questi crimini è di ordine filosofico, si smantella un’intera tradizione, la si riduce a pochi autori funzionali alla logica del mercato. La neuroeconomia è ipertrofica nelle merci, ma sottrae all’essere umano la sua essenza, le potenzialità da concretizzare in atti di senso.

 

 

Neuroeconomia01

Neuroeconomia

Le neuroscienze, per entrare nella mente e decodificarla, per comprenderne i processi che favoriscono, hanno utilizzato dapprima la PET (Tomografia per emissione di positroni), che è uno strumento di registrazione indiretta dell’attività cerebrale, e successivamente l’fMRI (Risonanza Magnetica Nucleare funzionale) la quale è, invece, basata sul fenomeno della risonanza magnetica nucleare, che utilizza le proprietà nucleari di alcuni atomi in presenza di campi magnetici. I risultati della PET non sono immediati, per cui gradualmente è stata sostituita dall’fMRI, la quale invece riesce a dare risultati veloci. L’fMRI consente di visualizzare su una scala temporale quantificabile al dettaglio le alterazioni dell’ossigenazione delle regioni corticali, variazioni che si considerano siano in stretta relazione con il grado di attività delle regioni cerebrali.

 

Neuroeconomic Analysis

Neuroeconomic Analysis

La neuroeconomia è stata definita come la condizione in cui conoscenza ed utilizzazione dei processi cerebrali consentono di trovare dei nuovi fondamenti per le teorie economiche (Colin Camerer, La neuroeconomia. Come le neuroscienze possono spiegare l’economia [2004], Il Sole 24 Ore, 2008). Gli esperimenti di Platt e Paul Glimcher [Platt e Glimcher, 1999] sulle scimmie sono stati finalizzati a capire per comparazione la reazione degli esseri umani. Secondo l’esperimento di Platt è sufficiente l’inalazione di un ormone, l’ossitocina, per avere comportamenti generosi. La coscienza è così sostituita da ormoni, da agenti ormonali che possono indurre ad assumere comportamenti pro-comunitari o pro-mercato.

Neuroscienze cognitive

Neuroscienze cognitive

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

 

Le conoscenze e la formazione che dovrebbero essere al servizio dell’umanità, per favorirne i processi di emancipazione, sono ora la gabbia d’acciaio, la caverna, in cui l’essere umano è sospinto per essere allevato in funzione del mercato come un animale da batteria. L’animalizzazione dell’essere umano non potrebbe essere più palese.

Neuroeconomics

Neuroeconomics

 

Gli studi di Dondres e più tardi di Robert Stenberg (psicologo cognitivo) Michael Posner (psichiatra clinico) e Amos Tversky e Daniel Kanheman (psicologi dell’economia comportamentale), hanno poi contribuito a studiare mediante sperimentazione e quantificazione i tempi di reazione ad uno stimolo, le aree interessate e la conseguente reazioni. Gli studi sul sonno sono tesi a piegare il ciclo naturale della sospensione del consumo e della produzione in direzione dell’attività continua. Le neuroscienze offrono il fianco ideologico non solo all’economia, ma anche al ridimensionamento del pensiero: senza sonno non vi è pensiero, ma solo un essere sempre più vicino alla condizione di MUSULMANO: tali erano chiamati nei campi di sterminio le persone non più tali, o quasi, più simili ad oggetti con il soffio vitale, in loro non albergava pensiero o volontà personale:

«Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono, i ricercatori di varie accademie stanno conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno […]. Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato […]. I passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni dal sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone. I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastrutura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo».[1]

 

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Neuromarketing

Neuromarketing

In questo modo le neuroscienze, spesso finanziate da potentati economici, sono al servizio del mercato. Cade il mito, se qualcuno ci credeva, della neutralità della scienza, e del suo essere al servizio dell’umanità. Neuroscienze, psichiatria e psicologia sono così alleate in funzione adattiva, lavorano per ridurre l’essere umano a poche leve da stimolare secondo i bisogni del mercato. L’uomo macchina non più per la produzione, ma per il consumo. Si installano nell’essere umano l’abitudine a comprare, a vendersi, a desiderare l’inautentico agendo nella carne, stimolando alcuni settori dell’area corticale prevedendone gli effetti. Il biopotere non deve gestire la vita, ma il consumo, necessario è solo la vita del mercato, gli esseri umani non sono che comparse che animano il mercato. Si potrebbe definire l’attuale periodo storico come biomercato.
Il Regno animale dello Spirito descritto da Hegel e l’alienazione marxiana trovano nella contemporaneità, e probabilmente in un futuro prossimo, la loro massima realizzazione. L’atomizzazione dell’essere umano passa per una sorta di lobotomia: si elimina la creatività, la cura di sé e della comunità, per ridurre la mente a cervello, a poche parti di esso da stimolare secondo piani di investimento, offrendo in cambio l’illusione della libertà, della scelta.

 

Le condizione per la neuroeconomia

Il successo della neuroeconomia è possibile, perché si concretizza in un contesto storico sociale in cui l’essere umano è debilitato, reso debole e dunque indifeso da una serie di fattori: la cultura filosofica ha abbracciato il pensiero debole (G. Vattimo), la natura umana è dichiarata inesistente (M. Foucault). I diritti sociali tra cui la formazione sono nell’agenda finanziaria al fine di essere smantellati, i corpi medi (partiti, sindacati, associazioni) sono una presenza più formale che sostanziale.

Il soggetto, abbandonato ai flutti delle manipolazioni, non ha difese di ordine culturale, sociale e politico. L’intero sistema spinge a rendere il soggetto suddito ubbidiente della ipostasi mercato. Nei fatti si nega la democrazia in modo radicale, e con essa la Costituzione degli stati democratici e il Manifesto di Ventotene (1941) che teorizzava l’Europa dei popoli liberi ed emancipati. L’ordito economico che si sta delineando ha il fine di disegnare l’uomo ad una dimensione, sogno di ogni totalitarismo.

La Logica hegeliana per sottrarsi alla neuroeconomia

La tragedia dei nostri giorni è il vuoto politico. La pervasività della neuroeconomia ha un nuovo alleato: l’assenza delle sinistre, il silenzio sulla favola triste del libero mercato nella società dei diritti individuali.
La speranza vive nella concretezza dell’umanità che – malgrado il regno della chiacchiera mediatica – vive l’esperienza dell’alienazione e dell’infelicità collettiva. Il travaglio del negativo di tanti è l’humus per il pensiero, per la riorganizzazione teorica contro l’economicismo integralista. La resistenza è ancora possibile ed appare nei luoghi più impensabili: nelle istituzioni, nelle chiese, nei singoli isolati che conservano la nostalgia per l’unità come nel mito dell’androgino nel Simposio di Platone.
Al momento tutto è nebuloso, fosco, ma il tempo presente non è tutto, la storia a volte ha svolte improvvise. Malgrado ciò, l’essere umano è portatore potenziale della sua salvezza, reca con sé la possibilità sua più autentica: il pensiero quale attività concettualizzante, che riporta le rappresentazioni, gli stimoli, i desideri ad un ordine unitario di senso. Ripensare Hegel contro la neuroeconomia, ripensare il pensiero, reimparare l’attività del pensiero per difendersi dall’invasità dell’illimitato.
Soggettività e limite sono due capisaldi imprescindibili della natura umana senza di essi non vi è pensiero. Concludo ricordando cos’è il pensare secondo Hegel, perché solo il pensiero filosofico può salvarci dalla catastrofe dell’illimitato scientemente organizzato:

 

 

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

 

«È vero che ciascun uomo ha tuttavia una logica, una logica naturale; pensiamo in modo immediato, e per pensare non dobbiamo studiare la logica. Ci si appella per questo al fatto che la logica non sarebbe necessaria. Tuttavia, in primo luogo, conoscere il pensare è già un oggetto degno di per sé; e in secondo luogo, solo così impariamo in che misura quel che pensiamo è vero.
L’utilità della logica consiste perciò nel farci padroni di questo pensare.
Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.
Perciò, l’uomo reca con sé il diritto al pensare; ma sapere in cosa veramente consista tale diritto è qualcosa di più. Non esiste alcuna logica artificiale, come si usa dire, ma esiste senz’altro una logica conscia. I pensieri, per così dire, li riceviamo nelle nostre teste; pensieri che sono il vero. Apprendiamo poi a tener fermo qualcosa di universale, ed è in ciò che consiste la nostra formazione [Bildung], mediante cui impariamo a far emergere l’essenziale. Le considerazioni di utilità, qui, non vanno disdegnate. Si deve voler conoscere il vero per se stesso, si afferma, e tuttavia anche l’utile costituisce un altro lato della cosa. Dio si sacrifica nella natura a beneficio del mondo individuale; quel che è in sé e per sé il più eccellente è anche il più utile».[2]

Salvatore A. Bravo

 

[1] J. Crary, 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015, pp. 5-6.

[2] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Logica [1831], ETS, Pisa 2018, p. 14.

 

 

 

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 23-12-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore Bravo 030
Salvatore A. Bravo

Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie

 

*
***
*

Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

La rivoluzione passiva delle tecnologie

Ecco l’inglese globale

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Popolo e ragione (Vernunft)

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe non ha agorà

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

 

***

Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

Vi è popolo dove vi è sovranità partecipata, dove le politiche sociali ed economiche non cadono come un destino ineluttabile, come catene fatali sul popolo. Oggi siamo oltre la Rivoluzione passiva descritta da Cuoco e da Gramsci. La Rivoluzione passiva presuppone una borghesia affetta da coscienza infelice, capace di sentire l’universalità dei valori fondanti della Rivoluzione francese e dell’Umanesimo. Il popolo, ancora plebe, deve ancorarsi alla classe motrice della coscienza nazionale per poter essere protagonista, defilato, perché agito. La condizione attuale ha sostituito alla rivoluzione delle coscienze, dell’idea che diventa Spirito (Geist) nel movimento della storia, la sola rivoluzione permanente delle tecnologie, del mercato della produzione e del lavoro, una nuova trinità senza salvezza.

La rivoluzione passiva delle tecnologie

La rivoluzione tecnologica appare scissa dalla storia dell’umanità, essa avviene… È un evento che plana nella storia e modifica le esistenze. Rivoluzione anonima: la scienza – quale sostanza astratta dalla realtà contingenze – detta i suoi ordini, riconfigura le comunità, le travia fino a fessurare il loro essere, la loro identità culturale, per annientarle. Le comunità passivizzate perdono – con la coesione – sincronicamente anche le parole. La rivoluzione passiva delle tecnologie senza finalismo, smantellano non solo lo stato sociale, ma con esso anche il linguaggio.

Ecco l’inglese globale

Ed ecco l’inglese globale, lingua che ha la stessa funzione della materia omogenea, ovvero far scivolare le merci e gli scambi mercantili per il pianeta ed abbattere ogni limite linguistico e culturale, purchè l’economia – alleata delle tecnologie – possa trionfare senza limiti e confini. Le lingue nazionali – a parte pochissime eccezioni (Francia, Spagna) – sono gradualmente smantellate dalle nuove generazioni che, educate alla cultura imprenditoriale, corrono verso la rivoluzione che subiscono: il sistema scolastico asservito all’economia non consente senso critico e con esso lo sviluppo di empatica appartenenza “ruere in servitium”.[1]

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Si corre verso l’asservimento, lo si abbraccia, si risponde all’appello della rivoluzione passiva dell’economia secondo logiche adattive: si amano le proprie catene. Affinchè il declino dello spirito critico, del pensiero connettente sia neutralizzato, si favorisce – con l’angloitaliano – la riduzione della lingua nazionale ad una manciata di parole pronte per l’uso. Ci si limita ad una lingua che deve limitarsi a soddisfare le esigenze individuali particolari ed immediate. Si schiaccia la lingua sull’indicativo riducendo a nulla il congiuntivo, il modo del dubbio, della possibilità, della complessità: non è un caso che si favorisca la lingua inglese, la quale praticamente ha il congiuntivo solo alla prima persona del verbo essere al passato, e spesso non è utilizzato, specie nell’americano. Devono esserci solo certezze e pensieri semplici per radicarsi nel presente. Pertanto bisogna congelare il congiuntivo, in quanto il dubbio introduce visioni critiche che rompono con l’atteggiamento adattivo al presente.

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo diventa plebe non solo quando è minacciata la sua sopravvivenza materiale, quando lo si ricatta attraversa la precarietà. È plebe in assenza di pensiero, di linguaggio che eccede l’utile del tempo immediato. Senza il pensiero connettente e la ragione filosofica, non vi è che lo schiacciamento verso il basso, la riduzione del popolo a plebe consumante, brulicante a testa bassa. La plebe, non è una classe sociale, non si definisce mediante il censo: la plebe è la popolazione in cui prevale la condizione spaziale sulla condizione temporale. Il linguaggio è relazione, è memoria, esperienza riflessa, conoscenza di sé, dunque è movimento, temporalità concreta che riallaccia e trascende le divisioni.

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Ancora una volta la Filosofia ci è di ausilio per definire il popolo. Hegel, nella parte sesta della Fenomenologia dello Spirito, descrive il popolo come comunità. Il popolo è la comunità culturale di appartenenza, non tribale, che pensa se stesso come un tutto in cui convivono le parti. Il popolo è l’umanizzazione del singolo, che – non più atomo, non più astratto dal tutto – liberamente rinuncia al proprio egoismo per aprirsi all’altro, per riconoscere se stesso attraverso la relazione comunitaria.

Il popolo è tale se la condizione del tempo è vissuta nella pienezza della coscienza. Il popolo è storia, attività che pone progetti e dunque non vive scollato dalla sua contingenza storia, dal suo immediato, ma esso è il suo tempo pensato nell’estensione del pensiero che riannoda le fila del passato e del futuro passando per il presente:

«Nella misura in cui lo spirito è la verità immediata, esso è la vita etica d’un popolo: l’individuo che è un mondo. Lo spirito deve allora procedere fino alla coscienza di ciò che esso è immediatamente; deve levare la bella vita etica e raggiungere, attraverso una serie di figure, il sapere di se stesso. Queste figure però si differenziano dalle precedenti perché si tratta di spiriti reali, realtà effettive vere e proprie, e anziché essere figure solamente della coscienza, sono figure d’un mondo».[2]

 

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Il popolo è comunità manifesta, la coscienza di un popolo è progetto partecipato e di conseguenza palese. Dove vi è il popolo la politica ha la sua massima espressione nei corpi medi partecipati. Il linguaggio diventa così condizione imprescindibile della partecipazione, non è limitato al solo utile immediato, ma si declina ed arrichisce nei contesti della partecipazione. Un popolo senza linguaggio, senza cultura è solo plebe, è oggetto della storia. Popolo e etica coincidono, vi è etica dove vi è comunità consapeole che agisce nella storia, si fa storia trasformando in prassi le verità eterne che l’esperienza storica custodisce:

«La comunità – la legge suprema, la cui validità pubblica si manifesta alla luce del sole – ha la propria vitalità effettiva nel governo, inteso come ciò in cui essa è individuo. Il governo è lo spirito effettivo riflesso entro di sé, è il Sé semplice della sostanza etica nella sua totalità. Questa forza semplice consente certamente all’essenza di espandersi nell’articolazione dei suoi membri, e di dare a ogni parte una sussistenza e un proprio essere-per-sé. In ciò, lo spirito ha la propria realtà ossia il proprio esistere, e l’elemento di questa realtà è la famiglia».[3]

Popolo e ragione (Vernunft)

Nel popolo non vi sono atomi, individui separati, astratti dalla comunità, dalla storia, da se stessi e pertanto alienati. Nel popolo ogni individuo è parte consapevole di un comune e condiviso progetto politico, per cui il soggetto umano trova la sua ragion d’essere, il suo destino. Nella comunità non vi è che la vita della ragione che unisce i destini, pone limiti, struttura processi di autoriconoscimento mediato dalla relazione con l’alterità. La relazione non è solo l’incontro dello sguardo, l’empatia immediata, ma è specialmente linguaggio quale figura universale dell’incontro e dell’unione. La lingua patria non è nazionalismo escludente, ma è consapevolezza nella differenza. L’autoriconoscimento dei popoli avviene nell’incontro delle differenze:

«In un popolo libero, la ragione s’è perciò data vera effettuazione; essa è presenza dello spirito vivente, in cui l’individuo non soltanto trova la propria determinazione destinale – vale a dire, la propria essenza universale e singola – enunciata e data al modo della cosalità, ma anzi è egli stesso tale essenza, e ha anche raggiunto quella propria determinazione».[4]

 

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe è il popolo animalizzato, non necessariamente ridotto in miseria, anzi vi può essere popolo e nel contempo deficienza di beni, perché la verità di un popolo è la sua consapevolezza comunitaria. La plebe è la pratica della specialistica, senza capacità di cogliere la totalità, è la pratica dell’intelletto (Verstand).
La plebe è anche la cultura specialistica senza struttura, e pertanto facilmente oggetto di manipolazione. La plebe è disinformata, o meglio la sua informazione è costituita dall’accettazione acritica delle fonti informative. È belante, ripetitiva, automatica nelle parole e nei comportamenti, ma specialmente difetta di coscienza di sé e di coscienza pubblica. La plebe non crede di poter cambiare il proprio tempo, per cui non lo pensa, lo subisce. Regredisce ad uno stato superstizioso, crede nel potere magico del grande leader, crede nella sua lingua, nelle sue parole, si deresponsabilizza dinanzi alla storia, dinanzi a se stessa, è carne da cannone per il consumo:

«Nella tradizione della filosofia politica occidentale, che è di origine greca, il “popolo” (demos) si distingue dalla mera aggregazione popolare (laos) proprio perché è “informato”, ed è informato nello spazio pubblico (demosion), spazio pubblico che è presupposto alla sua sovranità (kyriarchia) che del suo potere (exousia)».[5]

La plebe non ha agorà

La plebe dunque non ha agorà. Dove vigono le oligarchie finanziarie, non vi sono spazi pubblici, ma solo luoghi per l’ortopedia del consumo: ipermercati e luoghi del divertissiment. Tutto deve indurre alla fuga dal proprio tempo, non bisogna pensare, rappresentarsi il reale, il pensiero non deve porre l’essere, ma lo deve subire mediante l’esercizio e la pratica dell’ideocrazia.
Non si nasce servi, lo si diventa mediante l’addestramento quotidiano all’ideocrazia, al pensiero unico: poche parole tutte funzionali alla valorizzazione del capitale senza limiti. L’ideocrazia del mercato, del modello unico del pensiero e della lingua non è un destino. La storia è il luogo della vita degli esseri umani, del possibile. Nella storia le faglie liberano potenzialità impensabili. La condizione di plebe può ribaltarsi in popolo, se si mettono in atto pratiche virtuose del pensiero.

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

La resistenza di un popolo non può che iniziare con il pensare il proprio tempo, con il rilevare il tragico non come un destino, ma come una circostanza posta da più soggetti responsabili popoli annessi: il riconoscimento delle proprie responsabilità dinanzi alla storia ed a se stessi è già prassi, uscita dalla caverna del nichilismo programmato da altri. La storia è Wirchliche Historie. Nessuna provvidenza verrà a salvarci. Ma, come l’Angelus Novus di Klee nel commento di Benjamin, non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere dal destino del Regno animale dello Spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] «At Romae ruere in servitium consules, patres, eques» (A Roma intanto si precipitavano in gesti servili consoli, senatori, cavalieri), Tacito, Storie, I, 7.

[2] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino, p. 293.

[3] Ibidem, p. 300.

[4] Ibidem, p. 239.

[5] Costanzo Preve, L’Ideocrazia Imperiale Americana, Roma, p. 58.


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 04-12-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************


Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Le metafore nella filosofia

«Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore»,
in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di

«portare l’oggetto sotto gli occhi».
Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a,
in Opere, vol. 10, Laterza, Bari 1977.

 

310 ISBN

Salvatore A. Bravo

Le metafore nella filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

La metafora assume una polisemia di significati formativi: è l’immagine che porta al concetto; è configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. È totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico. La metafora “trasporta” il concetto, è libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente senza autentica progettualità, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo. La metafora educa al possibile. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. Creare e ripensare concetti con la metafora rompe la successione sempre eguale della linea del tempo. «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a).


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.
Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».
Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.
Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.
Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.
Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.
Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.
Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.
Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.
Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.
Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.
Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.
Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.
Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.
Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.
Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 03-12-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************


Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

Preve Costanzo 028

 

 

 

 

costanzo-preve_mr copia    Costanzo Preve (1943 – 2013) –  La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

 

 

Salvatore A. Bravo

Vogliamo ricordare l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

 

  

Il 23 novembre del 2013, cinque anni fa moriva Costanzo Preve.
Vogliamo ricordare un uomo, un filosofo che ha testimoniato la resistenza ai poteri, e specialmente al capitalismo speculativo, come Preve definiva l’attuale fase del capitalismo. Nei suoi innumerevoli scritti ha denunciato il nichilismo, l’alienazione della natura umana; la quale, da essere per sua natura di ordine simbolico, è ridotta ad essere ad una funzione dell’immenso organismo cannibalico del capitalismo assoluto.
La Bestimmung, la resistenza attiva e propositiva, come vocazione duratura, è stata la stella polare di un’esistenza che ha vissuto in pienezza la sua resistenza.
La Filosofia è sempre Filosofia del presente, affermava Preve, ovvero è risposta alle contingenze storiche nell’alveo della tradizione veritativa della Filosofia.
La passione durevole per la Filosofia e per la politica sono state la sua catabasi, la discesa nell’agorà, sempre con l’intento di guardare in pieno viso il nichilismo del capitalismo speculativo/capitalismo assoluto, sciolto da ogni legame, curvato sull’illimitatezza, sul saccheggio ordinario non tanto delle finanze, ma della natura umana (Gattungswesen).
Per Costanzo Preve il mondo accademico della Filosofia aveva rinunciato alla Filosofia così come al suo fondamento veritativo.
Il nichilismo del capitalismo speculativo è stato l’oggetto dei suoi studi, ma non secondaria è stata la denuncia dell’asservimento dello specialismo accademico al capitalismo assoluto: in nome di una falsa libertà deregolamentata, perché senza fondamento, il mondo accademico è diventato lo sgabello del capitale, così come le “sinistre” dei soli diritti individuali.

Costanzo Preve si è sottratto a tali logiche. Ha vissuto la marginalità cui veniva sospinto il suo pensiero e la sua ricerca, in modo eticamente alto e forte (accettandone consapevolmente la sofferenza). Anzi, ha scelto l’isolamento, che gli ha consentito di guardare in profondità le menzogne spacciate per verità dai complici del nichilismo. Ha filosofato con il vomere come direbbe Nietzsche o con lo scandaglio secondo la definizione del filosofare di Hegel. È sceso nella profondità della nostra epoca per ricostruirne la genesi dell’economicismo nichilistico ed attraverso di essa, ha visto, ha ascoltato i suoi sommovimenti, per proporre un’uscita dalla «gabbia d’acciaio», dalla caverna che ci fa vivere nel continuo abbaglio dell’errore non pensato. All’immediatezza della caverna, alla furia del dileguare, ha proposto in alternativa il dialogo socratico, la razionalità dell’ascolto contro la ragione strumentale, per ridefinire in modo corale, logico ed argomentato il fondamento della natura umana.

Per poter far resistenza, condizione imprescindibile è la chiarezza concettuale della contingenza ipostatizzata in cui siamo caduti, della trappola dell’illimitato, ed a ciò contrapporre il pensiero concreto della verità, delle persone, della qualità relazionale. La sua esperienza nei decenni che verranno – a partire da questi giorni difficili –, ci inviterà ad un confronto responsabile con la verità della globalizzazione/glebalizzazione.

Nel ricordare la sua testimonianza di vita, la sua resistenza spesso solitaria, non possiamo che continuare a pensare in modo libero, a trarre forza veritativa da chi è assente nello spazio del nostro presente, ma le cui idee sono dialetticamente poste nel tempo della coscienza dinanzi a noi. Sta a noi ora decidere se guardare in pieno volto il nichilismo e dare i nostro contributo in questa resistenza nel limite di quello che siamo, delle nostre identità e delle nostre storie.

La memoria è una delle componenti della resistenza. Non l’unica: ogni resistenza necessita anche di una casa, ma non del tutto arredata e completa, perché si muove all’interno di spazi da reinterpretare responsabilmente assumendosi il rischio del nuovo. Costanzo Preve si è assunto il rischio del nuovo in un momento storico lasco e fondato sulle passioni tristi secondo la bella accezione di Spinoza.

Non resta che dare il proprio contributo, perché il finale non è stato scritto, riposa anche in noi, nell’agere di ogni giorno. Ricordare ha oggi una valenza polisemica di resistenza. Non è solo giusto in sé, ma dobbiamo anche rammentarci che il capitalismo speculativo ci vuole senza memoria, senza volto, non come liberi individui nella dimensione comunitaria, in modo da spingerci verso il cammino del consumo belante.

Senza memoria è l’ultimo uomo, figura idiomatica dello Zarathustra dei Nietzsche, perché nichilisticamente perso nel mercato, senza dio, senza verità.

Costanzo Preve giudicava l’ultimo uomo la figura più vera e rappresentativa dello Zarathustra.

Ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dall’ultimo uomo.

La memoria dei legami spezza lo spazio angusto dei piccoli mercanteggiamenti per restituirci la dimensione temporale e spaziale sempre orientata verso il possibile, verso la potenzialità creativa. Sta a noi, nel tempo che ci è dato vivere, scegliere. Ma ogni scelta complessa e consapevole, per aprire un nuovo tempo, deve mediare il presente con la memoria.

Salvatore A. Bravo

 


 

Luca Grecchi,
Per l’amico Costanzo Preve. Un ricordo personale

 


 


Venturi non immemor aevi

 

Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi

Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].

Andrea Rovere – Cade in questi giorni il quinto anniversario della morte del filosofo Costanzo Preve. Scriveva: «L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere».


Costanzo Preve

indicepresentazioneautoresintesi

 


 

***

 


196GCostanzo Preve

Una nuova storia alternativa della filosofia.
Il cammino oltologico-sociale della filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

 

 

 


***


Costanzo PreveLuca Grecchi

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


***


Luca Grecchi

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve

Storia dell’etica

indicepresentazioneautoresintesi

***

Costanzo Preve

Storia della dialettica

indicepresentazioneautoresintesi

***

Costanzo Preve

Storia del materialismo

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 30-11-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************


1 12 13 14 15 16 28