Salvatore Bravo – L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo che recide i legami con ogni fondazione possibile della verità

Umanesimo vs umanismo
Salvatore Bravo

L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo

L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo: quest’ultimo è funzionale ai bisogni del capitalismo assoluto. L’umanismo recide i legami con ogni fondazione possibile della verità, con ogni oggettività formulata attraverso il logos, predilige l’individuo astratto rispetto all’essere umano concreto e comunitario.

Marx – nella lettura di Costanzo Preve – non può essere relegato nella nomenclatura degli umanisti, poiché non consegna l’essere umano alla contingenza della storia, non riduce il pensiero a nominalismo, ma si pone nell’ottica dell’universale, dell’umanità intera. Il materialismo storico è il mezzo attraverso il quale denuncia l’umanità offesa. Ricostruisce attraverso i modi di produzione l’alienazione (Entfremdung), i processi di negazione della natura umana, la sua riduzione ad appendice del sistema produttivo. Nel conflitto sociale che muove la storia, nelle sue contraddizioni, la condizione umana concreta si dispone al suo interno secondo prospettive e responsabilità differenti: la responsabilità di un magnate è differente rispetto alla responsabilità di un lavoratore salariato. La grandezza di Marx è aver sistematizzato le condizioni che provocano l’alienazione. Ma, nello stesso tempo, non si è limitato a costruire una narrazione ideologica, e dunque parziale: ma la sua opera è finalizzata all’emancipazione dell’umanità, perché il sistema produttivo borghese, il capitalismo, offende e nega la natura umana. Nell’operaio legato alla catena della macchina e del plusvalore si rende lapalissiana la miseria umana nella fase del capitalismo. L’operaio è negato nella sua natura individuale e comunitaria, è il portatore sano di relazioni sociali errate; la controparte, il capitalista, vive una condizione materiale privilegiata dietro cui agiscono processi di alienazione che nell’immediato non appaiono. In realtà, dietro la maschera del benessere materiale, si scopre il soggetto alienato nella sua natura. Per Preve quindi, Marx è un iperumanista, poiché la sua teoretica è finalizzata a superare le scissioni che impediscono di concettualizzare la natura umana e di valutare attraverso di essa la condizione umana. L’iperumanesimo di Marx negato dalla sinistra e non riconosciuto da molti, è concetto rimosso, in quanto investe con la sua critica all’economia, non si presta ad essere usato da posizioni ideologiche che vorrebbero ingabbiare Marx sull’economia per evirarlo del suo contenuto rivoluzionario autentico e profondo che scorre tra le pieghe del suo pensiero:

«La filosofia di Marx non è solo un umanesimo, è un iperumanesimo, in quanto si tratta del Destino dell’Uomo (la maiuscola, ovviamente, è volontaria). Una teoria di tipo sociologico sulla strutturazione sociale è di tipo descrittivo, non narrativo o prescrittivo (diventate comunisti, e così riscatterete le alienazioni dell’umanità). In quanto descrittiva, una teoria sociologica di una società particolare dovrebbe necessariamente individuare dai dieci ai venti gruppi distinti in base a parametri come la ricchezza, il potere, gli stili di vita, i consumi, la conoscenza, la cultura, eccetera. Nessuna decente descrizione sociologica di una società potrebbe limitarsi ad individuare soltanto due gruppi sociali». [1]

Al principio dell’opera di Marx vi è una valutazione etica, un’indignazione che si trasforma in prassi, in passione per la conoscenza al fine di ristabilire con il limite “katà métron”, la natura umana. L’emancipazione possibile è degli esseri umani, benché chi vive l’offesa e la sussunzione quotidiana in modo inequivocabile sia portatore di un potenziale rivoluzionario ed emancipativo maggiore rispetto a chi vive il malessere della sussunzione, in modo non diretto, ma mediato dalle maschere del privilegio sociale.

La coscienza infelice

L’iperumanesino marxiano utilizza la contraddizione tra finito ed infinito, tra reale ed ideale, tra particolare ed universale quale motivazione profonda della prassi. La scissione è causa di conflitti sul piano sociale ed individuale, essa è il paradigma che svela la distanza dall’orizzonte ideale, dunque è la sostanza che muove la prassi. Il capitalismo assoluto nella forma attuale nega “la coscienza infelice”, la contraddizione, le scissioni le quali sono rese umbratili, fino a scomparire, per eternizzare la sussunzione con il nuovo oppio dei popoli: il consumo ed i suoi eccessi. La speranza rivoluzionaria e la rabbia sociale sono veicolate verso il consumo, per cui i popoli ormai plebi e masse informi si stringono e costringono in una esiziale lotta nella speranza del consumo totale. L’antiumanesimo del capitalismo assoluto agisce per celare, per ridurre il dolore a semplice sofferenza animalesca. Sofferenza senza dolore, poiché il dolore è la sofferenza non solo pensata, ma anche immaginata e vissuta come fonte di ispirazione per la progettualità comune. Il capitalismo assoluto ottunde con il piacere smodato pronto con il disincanto a ribaltarsi in sofferenza utilizzata come introito economico: è medicalizzata, è resa condizione ontologica che si deve imparare a sopportare, in tal modo ogni ordine del discorso finalizzato a riformare struttura e sovrastruttura è rimosso, non resta che il nichilismo passivo a cui ci si deve adeguare; l’antiumanesimo non ha fantasia, perché non ha coscienza di sè:

«Se Marx si fosse limitato a dicotomizzare i dominati e i dominanti, i proletari ed i borghesi, eccetera, avrebbe aggiunto il suo nome alla lunga lista dei perfezionatori della teoria della bollitura dell’acqua calda. Ma egli fece molto di più. Trasformò la scoperta della bollitura dell’acqua calda in filosofia universalistica dell’emancipazione umana, attraverso l’originale elaborazione idealistica della coscienza infelice della borghesia. Ho insistito molto su questo punto, a mio avviso ovvio ed evidente ma del tutto ignoto sia ai liberali che ai marxisti dogmatici, per far capire che la logica del capitalismo assoluto e totalitario in cui siamo sciaguratamente immersi oggi non tende tanto ad addomesticare il proletariato, instupidendolo con il panem (il consumismo). Capitalismo senza classi e società neofeudale ed i circenses (lo sport agonistico), quanto a superare la stessa cultura borghese, nella misura in cui quest’ultima era “inquieta”. Visto nella sua globalità, il cosiddetto postmoderno (con alcune sue ridicole appendici come la cosiddetta biopolitica) non è che un gigantesco (anche se grottesco) tentativo di spegnere gli elementi di coscienza infelice della cosiddetta “modernità”. Per questo la modernità (termine accademicouniversitario-mediatico per indicare il capitalismo) viene ridotta al cosiddetto “disincanto” (con l’appendice della liberalizzazione integrale dei costumi definita “politeismo dei valori”), laddove viene da essa sottratta e cancellata la coscienza infelice, che è stata all’origine del pensiero del borghese inquieto Marx. E’ facile capire tutto questo, e cioè che l’odierno capitalismo oligarchico teme maggiormente la coscienza infelice borghese del rivendicazionismo economico proletario? Per quanto mi riguarda è facile, ma dal momento che tutto l’apparato politicosindacale di “sinistra” ed il clero universitario di filosofia e di scienze sociali rema in direzione opposta, di fatto non c’è speranza a breve termine di un vero riorientamento gestaltico».[2]

La coscienza infelice, la consapevolezza delle contraddizioni fonda l’iperumanesimo materialista di Marx, umanesimo che muove dal conflitto, ma che agisce per la libertà e l’emancipazione dell’umanità e non solo di una parte.

Materialismo storico

Il materialismo storico letto quale processo evolutivo della storia predeterminato, è negazione dell’iperumanesimo di Marx. Se la linea evolutiva della storia è già decisa a priori, l’essere umano è solo un elemento secondario nel sistema economico e produttivo per cui da destra come da sinistra si è interni all’antiumanesimo dell’attuale sistema sociale ed economico. Il materialismo di Marx per Costanzo Preve è metafora della prassi, della struttura, dell’ateismo. Il materialismo marxiano è un forma di iperumanesimo, in quanto l’umanità consapevole della contraddizione tra la sua natura ed il modo di produzione è protagonista della storia, ogni “servo arbitrio deterministico” è sostituito con la fatica del concetto e dell’agire politico:

«Mentre il materialismo dialettico è solo una escrescenza inutile e dannosa (la filosofia di Marx non è il materialismo dialettico, ma un idealismo universalistico rigorizzato e coerentizzato), il materialismo storico è invece un “pezzo” indispensabile della sua concezione. Si tratta in realtà (almeno, questa è la mia opinione del tutto eretica) non certo di un materialismo storico, quanto di un idealismo storico universalistico rigorizzato, che viene chiamato erroneamente “materialismo” perché il termine “materia” è usato impropriamente in modo metaforico per indicare l’ateismo (Marx non credeva in Dio), il primato della prassi sulla semplice contemplazione della realtà sociale, e soprattutto il primato della struttura sulla sovrastruttura all’interno di un dato modo di produzione sociale. Detto in linguaggio militare, l’idealismo è la strategia e il materialismo è la tattica. Il discorso sarebbe lungo (ma l’ho fatto dettagliatamente altrove), ma qui è necessario interromperlo per ragioni di spazio. Mentre il metodo del cosiddetto materialismo storico (inteso come teoria della genesi, sviluppo, crisi e tramonto dei modi di produzione) non consentirebbe di per sé una grande narrazione unilineare predeterminata e teleologicamente necessitata, ma darebbe invece luogo ad uno sviluppo multilineare senza alcuna garanzia teleologica, se fosse ovviamente praticato con serietà “scientifica” e libertà interpretativa, il movimento comunista ha trasformato questa intelligente teoria in una stupida teoria dei cinque stadi prefissati della storia universale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo finale visto come trionfo definitivo della “sinistra” contro la “destra”). Perché tanta inutile ed antistorica stupidità? Ma è semplice. Questa antistorica stupidità restaura in modo evoluzionistico-positivistico un elemento fondamentale del pensiero dei primitivi, e cioè il messianesimo teleologico garantito. Di “materia” non c’è in proposito che la testa dura degli zucconi che credono che la sacrosanta causa della critica al capitalismo abbia bisogno di raccontare (e di raccontarsi) delle storie inverosimili, inventandosi una linea ferroviaria a cinque stazioni in cui correrebbero i binari della storia universale. E tuttavia, gli zucconi resteranno tali finché non sarà assodato che la teoria». [3]

L’antiumanesimo si palesa nel messianesimo del marxismo dialettico, ma anche del capitalismo assoluto, in entrambi si concretizza nella forma del fatalismo storico. La condizione attuale del capitalismo assoluto è interna al determinismo della storia, dea astratta ed ingovernabile, che riporta l’umanità che si auto-percepisce evoluta, in quanto ipertecnologica, ma in verità regredisce ad uno stato primitivo, nel quale le forze ingovernabili della natura e della storia sono padrone e signore della società più smart che la storia abbia conosciuto. L’iperumanesimo di Marx è di ausilio per concettualizzare e razionalizzare le contraddizioni in cui si dibatte l’umanità: senza concetti non è possibile spezzare le catene visibili ed invisibili che tengono “il cane alla catena”.

Salvatore Bravo

[1] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, pubblicato in Costanzo Preve – Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, p. 5

[2] Ibidem, p. 6.

[3] Ibidem, pp. 8-9.

Salvatore A. Bravo – L’uccisione della parola nella politica. L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

Aldo Moro e Salvini-Di Maio
Salvatore A. Bravo

L’uccisione della parola nella politica.
L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

 

Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci. I tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, e tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica. Il fondamento, la casa della politica come della comunità, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme (cfr. l’inesausta sceneggiata tragicomica Di Maio-Salvini pre- e post- elettorale). In realtà non si tratta di manifestazioni politiche, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni pseudo-politiche segnate dai processi liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio corrente. Al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.

La parola della politica, della comunità, parola che nessuno osa proferire, è giustizia. La filosofia politica dell’Occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci: si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea, libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia.
La parola giustizia è così scomparsa, perché se fosse posta al centro tale parola, inevitabilmente si denuncerebbe lo stato attuale per l’ingiustizia che regna sovrana.
L’operazione di manipolazione-annichilimento si spinge oltre. La parola comunità è legata alla giustizia ed ai diritti sociali, per cui si ipostatizza l’individuo, si pone l’accento sui soli diritti individuali, per occultare la giustizia, fino ad arrivare ad affermare che la società non esiste (Margaret Thatcher), ma esiste solo l’individuo astratto. Pertanto la giustizia è possibile solo alla maniera di Trasimaco (Platone, Repubblica, libro I) come legge del più forte: l’individuo determina la “sua giustizia” a sua misura.

Giustizia e comunità internazionale
La giustizia non è flatus vocis. È sufficiente sporgersi oltre di pochi decenni per rendersi conto che era linguaggio comune della politica. La giustizia implica la comunità, se ne discuteva in relazione al progetto di comunità che si aveva. Aldo Moro ne è un esempio, rileggendo i suoi scritti ricorre, e non certo come inciampo, la parola giustizia, non solo per la comunità nazionale, ma anche internazionale. I conflitti sono l’effetto dell’assenza di giustizia, sono causati dalla violenza della legge del più forte:

«Viene in evidenza un altro, più importante e più durevole, motivo di crisi. È la volontà dei paesi in via di sviluppo, possessori di un così prezioso fattore condizionante dell’economia e, del resto, ricchi in generale di materie prime, di far pesare di più, per realizzare il proprio progresso, quello che è il loro peculiare apporto alla produzione dei beni dei quali il mondo ha bisogno crescente. Solo in questa luce si coglie la vera dimensione del fenomeno dinnanzi al quale ci troviamo e che rappresenta una svolta assai significativa nel confronto tra paesi ricchi e paesi poveri e, per essere realistici, nel confronto tra paesi ricchi, ma potenzialmente poveri, e paesi poveri, ma potenzialmente ricchi. Noi dobbiamo quindi essere consapevoli della nostra fragilità […]. Di fronte a queste cose bisogna collocarsi in una posizione di realismo e ragionevolezza. […] Si capisce che un più alto livello di giustizia internazionale costerà di più ai paesi industrializzati e condurrà a rallentare il loro progresso per consentire il progresso degli altri. Ma questo è un prezzo che si deve pagare, uscendo dalla fase retorica e passando alla fase politica dei rapporti con i paesi in via di sviluppo» (Relazione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, 24 aprile 1974).

 

La giustizia nel cammino dei popoli
Nelle parole di Moro, a confronto d
elle quali il semplicismo dell’attuale pseudo-politica non è che primitivismo populistico, vi è la consapevolezza che la giustizia è complessità e storicità. Giustizia è sintesi degli interessi della comunità, è un’operazione di ascolto e mediazione, essa si incarna nella storia. La giustizia è in cammino con i popoli, vive nei popoli che gradualmente si risvegliano dai dogmatismi e dalle violenze ideologiche dei dominanti, per cui è necessario accompagnare tale risveglio aurorale con la politica, al fine di convogliare le energie migliori di tutti verso il logos. Essa esige la partecipazione dal basso, o il suo posto non può che essere preso dal dispotismo, dagli interessi di pochi che usano le parole come ceppi, come catene per soffocare il grido dei popoli:

«Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana» (Discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, 21 novembre 1968).

Giustizia e libertà
Non vi è libertà senza giustizia. La giustizia è accompagnamento giuridico alla prassi dell’emancipazione, per cui se non si hanno mezzi materiali per porre in atto ciò che la legge in potenza consente è solo fictio iuris, una finzione ideologica per addomesticare i dominati. La giustizia è così libertà solo se si integrano il piano formale e sostanziale, prevede un ordito di provvedimenti dalla formazione, al lavoro, alla sanità che rendono prassi la libertà e la giustizia. La libertà è giustizia se la persona, il lavoratore è posto al centro della comunità come persona, non ha solo braccia ed intelletto per la produzione, ma è persona nella sua complessità dinamica che esige che l’economia sia per la persona:

«Il regime di libertà, per dispiegarsi in tutta la sua ricchezza e fecondità, ha bisogno di una autorità democratica, di strumenti efficaci realizzatori di giustizia. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca. […] Queste cose nuove certo emergono non senza contrasti, non senza difficoltà, non senza eccessi, non senza momentanei squilibri. Ma è questo il compito della nostra epoca. Il tema dei diritti è centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà, che le toglie la rigidezza della ragione di Stato, per darle il respiro della ragione dell’uomo» (Discorso al XIII Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 20 marzo 1976).

Giustizia e storia
Giustizia non è rendere ipostasi il presente, chiudere la storia in un sepolcro di sole merci, per scoraggiare ogni iniziativa al suono delle parole “Non c’è alternativa”(Angela Dorothea Merkel). Se non c’è alternativa, se il presente è tutto, allora la politica non ha senso, è solo finzione, l’epifenomeno dell’economia liberista. La giustizia, invece, è dialettica, pensiero che apre nuovi scenari per allargare la sfera e l’orizzonte di consapevolezza. La giustizia è dunque trasformazione che, mentre si attua nella storia, ha la chiarezza del proprio fondamento. È in cammino, e nel suo concretizzarsi storico incontra nuove variabili per confrontarsi con esse, non rimuove la storia nel suo farsi, ma si impegna in un continuo confronto con il presente:

«Siamo dunque impegnati, sotto la pressione di una società trasformata nel profondo, in continua evoluzione ed estremamente esigente, ad una grande opera di liberazione dell’uomo e di giustizia. Un’opera difficile, perché gli obiettivi vengono spostati più innanzi, rendendo qualche volta disagevole il moto di progresso che si va, mano a mano, realizzando. Ma il contenuto rinnovatore di questa politica, secondo un preciso ed indeclinabile intento, è fuori discussione. Corrispondere alle esigenze della società con più giusti ordinamenti, dimostrare che le istituzioni sono capaci di ricevere ed incanalare le aspirazioni popolari, effettuare il raccordo, in termini di comune consapevolezza e di comune responsabilità, tra il vertice e la base del potere, stabilire costantemente un equilibrio politico non statico, ma dinamico, significa assicurare la stabilità del regime democratico» (Discorso a un Convegno della Democrazia Cristiana, Milano, 3 giugno 1969).

La giustizia è per le cose che nascono. È facile, dinanzi al nuovo che ci minaccia, patteggiare per il passato che con i suoi confini netti ci rassicura. Giustizia vi è soltanto in una comunità in cui dinanzi alla paura del nuovo non si reagisce con la paura, ma si affronta il tutto con la parola, con il logos, con la partecipazione dal basso:

«Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime» (Discorso all’XI Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 29 giugno 1969)

 

Avvenire e giustizia
Non giudico l’operato di Moro, o la sua coerenza, ma le sue parole. Lo spessore dei suoi interventi, ci dovrebbe indurre a pensare l’abisso relativistico in cui siamo e l’anonimato individualistico che sa utilizzare tutto per fini privati decretando la morte di ogni avvenire. L’urgenza è l’avvenire, senza giustizia non vi è che un futuro di conflitti, che nega l’umanesimo comunitario in nome di un astratto individualismo che ha sostituito la giustizia con l’integralismo economico funzionale a conservare i privilegi di pochi contro la maggioranza sempre più confusa ed afflitta dalla violenza ideologica dei nostri giorni. Vorrei concludere con le parole di Moro che unisce giustizia, libertà e responsabilità verso il futuro, in un trittico valoriale permanente, oggi da ricostruire prendendo le mosse dalla consapevolezza della sua assenza nel nostro contesto sociale:

«Ebbene, siamo qui provenienti da una lunga ed utile esperienza democratica […], siamo qui ancor oggi, non per fare delle piccole cose, non per puntellare condizioni logorate, non per provvedere all’amministrazione del passato, ma, nella salvaguardia dei valori permanenti ed essenziali della nostra tradizione e della nostra civiltà, per lavorare con tutte le nostre forze per un nuovo, più giusto, più umano assetto della nostra società. Siamo qui insomma per l’avvenire» (Discorso al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, 29 luglio 1963)



Salvatore Bravo – Il consumatore votante. il monstrum del sistema capitale invita al voto ma senza contenuto umanistico. Il voto è invece un gesto che umanizza. Occorre un voto che non sia utile, ma etico e partecipato.

Elezioni Europee 2019

Il monstrum del sistema capitale che invita al voto senza contenuto umano
“Per tutti i gusti”: ecco la definizione che si può attribuire alle elezioni europee. In assenza di cittadini capaci di esprimere un voto consapevole, di cittadini che abbiano maturato una progettualità politica di lungo termine, ci troviamo dinanzi al monstrum del sistema capitale che invita al voto, lo declama, ne fa segno del riconoscimento immediato della democrazia europea in una pluralità di “prospettive politiche”. In realtà il voto è già inficiato in partenza dall’essere in generale espresso non dal cittadino consapevole ma dal suddito consumatore: si vota nella stessa maniera con cui si scelgono le merci. Le merci rispondono ad un bisogno immediato, possono essere scelte e consumate per essere sostituite senza scrupoli morali, senza progettualità, senza consapevolezza. Si vive nell’empirico, si sceglie, si desidera, si oblia per poi ricominciare l’eterno ritorno del medesimo. Si vota in modo simile, si sceglie il candidato su un unico asse: l’asse dei propri particolari interessi personali. Non ci si scandalizza delle contraddizioni, dell’incoerenza: Salvini che osanna i cieli e gli altari; Di Maio che insegue, solo al comando, un’improbabile partecipazione dal basso, falsificata da una piattaforma (povero Rousseau!, casaleggiato) che non ammette dialettica, ma che pure si chiama Rousseau, nome che ammicca palesemente alla democrazia diretta.
Nessuno scandalo, in realtà, perché da decenni ormai si ripete che l’unico fondamento dell’esistenza di ciascun europeo sono i propri interessi privati, per cui le parole non sono ascoltate, valutate, misurate. Ci si sofferma solo sugli interessi economici che rispecchiano i propri gusti-interessi, il resto è una parodia neanche percepita. La sacralità atea ed informe del nichilismo dell’ultimo uomo è tra di noi, ha la forma brutale del capitalismo acquisitivo che martella nella mente, che ordina novello e terribile imperativo categorico a perseguire solo i propri privati interessi economici.

Percezione selettiva delle parole da parte del suddito consumatore votante
Il martello dell’interesse privato è sempre in atto nella testa del suddito consumatore votante, guida ad una selezione fenomenologica delle parole, si dispone ad ascoltare soltanto le parole della quantificazione, parole orientare a sollecitare la pancia, ad irrobustire il proprio peso sociale, depotenziando la spesa sociale. Decenni di berlusconismo, di “sinistre” arrendevoli e complici, di immagini senza misura orientate all’acquisto smisurato, di forchettoni sempre in agguato, hanno avuto l’effetto sperato: non più dunque cittadino, ma consumatore integrale, quindi consumatore anche nella cabina elettorale.
Ci si accosta alla politica con lo stesso approccio che si ha dinanzi ad un’immensa offerta di merci, si acquista l’utile immediato, si fa il pieno dei propri interessi. Pertanto le parole circolanti dei candidati sono sfrondate, qualora ci siano ancora dei significati non economici, si va all’essenziale, alla verità dell’epoca del capitalismo speculare. Si vota come ci si specchia, valutando i propri limitati interessi privati.

Il votante migrante
I commenti del giorno dopo confermano l’integralismo del capitalismo speculare. Da destra a sinistra si espongono voti, si fanno calcoli, addendi e sottraendi sono sulla bocca di giornalisti che abbondano in numeri, ma non in concetti. Tutto è ridotto a spostamenti, allo sciamare dei migranti consumatori dei voti. In assenza di ideologia, i votanti consumano e migrano. Il successo di oggi di una compagine politica è il facile insuccesso di domani. Tutto è fluido, migrante in assenza di universale. Non resta che l’esperienza di brucanti che si spostano da destra a sinistra nel gioco della falsa cittadinanza.
In verità destra e sinistra sono interscambiabili, per cui la commedia umana può proseguire all’infinito, perché nessun potere è minacciato, nessuna struttura e sovrastruttura è messa in discussione, non resta che la commedia. Si invita al voto senza timore, si minaccia il voto, coscienti che nulla cambierà, anzi il voto ha l’effetto duma, è uno sfogatoio per gli scontenti, si dà l’illusione di contare, si producono speranze nelle sacche marginalizzate delle periferie e non solo, ma gli scontenti utilizzano lo stesso linguaggio, l’economia, l’interesse privato li rende doppiamente vittime in quanto usano il linguaggio del vincitore.

Educazione alla cittadinanza politica
In assenza di momenti di relazioni comunitarie di base che sul territorio aggreghino al progetto ed alla condivisione, in assenza di una scuola che educhi alla comunità e alla difficile arte del continuo porsi domande, il cittadino è lasciato solo a se stesso, è all’interno di una tempesta di stimoli che non sa governare, semplicemente si adatta al contesto, ragiona solo per calcolare sulle entrate e sulle uscite. Ogni cittadino, ormai sussunto al capitale non è che un atomo del sistema, atomo consumante-migrante. I luoghi di aggregazione sono consumanti, si sciama per vivere l’esperienza edonistica del momento. Nei luoghi di partecipazione si formavano le idee, si imparava con lo scontro a superare il naturale egocentrismo umano.
Oggi tutto invita al narcisismo di massa, a perseguire interessi privati a discapito della collettività, per cui il voto in quanto gesto etico-universale è destituito di fondamento. Il voto è un gesto politico, in esso dev’essere contemplata la polis tutta, non si vota solo per sé, ma il voto esprime la partecipazione, la realizzazione con un semplice gesto della natura comunitaria dell’essere umano. La perversa rivoluzione antropologica a cui assistiamo invita solo a favorire l’immediato, animalizza minimizzando le spinte comunitarie, deprezzandole con un’attività mediatica che non conosce pari in altre epoche. L’informazione è sostituita dal messaggio nella forma di giornaliste e giornalisti che seducenti attraggono con l’immagine per occultare il vuoto.

Il senso del voto: il voto è un gesto che umanizza.
Verso un voto che non sia utile, ma etico e partecipato

Al voto andrebbe restituita la sua dignità. Il voto è un gesto che umanizza, che consente al singolo di passare dalla condizione di atomo oggetto di forze e dunque passivizzato, a soggetto, a cittadino che in modo attivo si pone verso la comunità, va oltre gli angusti confini degli interessi privati, per ascoltare il mondo, per elaborare percorsi collettivi, per uscire dalla caverna dell’immediato, dalla violenza del privato. Per operare tale rivoluzione è necessario il contributo di tutti gli uomini e di tutte le donne di buona volontà ovunque operino a discutere dello stato presente, a smascherare le false verità, ad insinuare il dubbio. Se il mondo dei media è colonizzato dalla manipolazione, la verità comunque non la si può annegare del tutto; essa vive nel quotidiano, per cui la parola può rimettere in moto la storia, può far sopravvivere una diversa idea di politica pronta a sbocciare nel caso la terribile congiuntura attuale declini. Non si deve dubitare che la verità possa toccare le vite di tutti, e l’onirico potrà essere spazzato via con i suoi limiti; al suo posto il principio di realtà dovrà spingere verso un voto che non sia utile, ma etico e partecipato.
L’esperienza del voto misura il livello di democrazia di una nazione; oggi sappiamo che siamo molto distanti dalla democrazia, ma siamo in pieno flusso migrante. La voce dei non votanti non rientra nella quantificazione senza concetto del circo mediatico. Forse ai non votanti bisogna volgere lo sguardo, a quel bacino di scontenti in cui fortemente vive “la nausea” della condizione presente. La verità libera, si deve iniziare da questa verità, la si deve diffondere, perché circoli. Possiamo rifarci al mito di Prometeo nella lettura di Platone il quale insegna che senza politica non vi è sopravvivenza della civiltà umana; non vi è polis che nella partecipazione autentica. Altrimenti non vi è che la sofistica: il potere per il potere:

«Così provvisti, all’inizio gli uomini abitavano in insediamenti sparsi, e non esistevano città. Perciò morivano uccisi dalle fiere, poiché erano sotto ogni rispetto più deboli di esse, e l’arte artigiana che essi possedevano bastava loro a procurarsi cibo, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Cercavano quindi di unirsi e di salvarsi fondando città. Ma, una volta che si erano uniti, si facevano torti l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora, temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia. Ermes chiede a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini giustizia e rispetto: “Devo distribuirli seguendo lo stesso criterio con cui si sono distribuite le arti? Perché quelle vennero distribuite in questo modo: uno solo che possieda l’arte medica basta per molti che di quell’arte sono profani, e così per gli altri specialisti. Ebbene, giustizia e rispetto devo distribuirli fra gli uomini con questo criterio, o devo distribuirne a tutti?” “A tutti”, disse Zeus, “che tutti ne diventino partecipi. Perché non potrebbero nascere città, se solo pochi di loro ne avessero parte, come accade per le altre arti. Istituisci, anzi, una legge per conto mio: chi è incapace di partecipare di rispetto e giustizia sia messo a morte come flagello della città”. Così stanno le cose, Socrate, e queste sono le ragioni per cui gli Ateniesi, e gli altri, quando si tratta della competenza nell’arte di costruire o di qualunque altra competenza artigiana, credono che solo a pochi spetti il diritto di partecipare alle decisioni, e se uno, che sia al di fuori di quei pochi, si mette a dare consigli, non lo tollerano, come tu dici: e con ragione, dico io. Quando invece si riuniscono in assemblea su questioni che hanno a che fare con la virtù politica, questioni che vanno trattate interamente con giustizia e temperanza, allora, giustamente, lasciano che chiunque dia il proprio parere, nella convinzione, appunto, che a tutti spetti di partecipare di questa virtù, o non esisterebbero città . Questa, Socrate, ne è la ragione. Ma perché tu non creda di essere ingannato circa la mia affermazione che tutti ritengono che ogni uomo partecipi della giustizia e di ogni altra virtù politica, eccotene la prova. In tutte le altre competenze, come dici, se qualcuno afferma di essere, ad esempio, un abile suonatore di flauto, o di essere abile in qualsiasi altra arte in cui invece non lo sia, o ridono di lui o gli si adirano contro, ed i suoi di casa vanno da lui e cercano di farlo tornare in sé dandogli del pazzo. Quando si tratta invece di giustizia o di qualsiasi altra virtù politica, anche se tutti sanno che uno è ingiusto, quando costui dica contro il proprio interesse la verità di fronte a molta gente, la stessa cosa che nel caso precedente veniva considerata saggezza, cioè il dire la verità , in questo caso viene considerata segno di pazzia; e sostengono che tutti devono dichiarare di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di esserlo. E questo accade perché sono convinti che ognuno debba necessariamente, in un modo o nell’altro, partecipare di questa virtù, o che, nel caso contrario, non debba vivere fra gli uomini. Il concetto che ti ho ora espresso dunque, è che gli Ateniesi accettano con ragione che ogni uomo dia consigli quando si tratta di virtù politica, per il fatto che sono convinti che ognuno partecipa di essa. E il prossimo concetto che tenterò di dimostrarti è che questa virtù non è un dono di natura né del caso, ma che è insegnabile e che chi la possiede la raggiunge grazie all’impegno. Nel caso di quei mali, infatti, che gli uomini credono, gli uni degli altri, di avere per natura o per caso, nessuno si sdegna, né ammonisce o ammaestra o rimprovera quelli che li hanno, perché smettano di essere tali, ma ne provano pietà. Chi potrebbe, ad esempio, essere così insensato da mettersi a fare una cosa del genere coi brutti, coi piccoli o coi deboli? Tutti sanno infatti, ne sono convinto, che queste cose vengono agli uomini perché portate dalla natura o dal caso, ossia le belle qualità e i difetti corrispondenti».[1]

 

[1] Platone, Protagora, Ousia, pag. 7.



Salvatore A. Bravo – L’antiumanesimo dell’alternanza scuola-lavoro.

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La verità del capitalismo assoluto
Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo. In nome del valore di scambio – demofobico per necessità – il capitalismo addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio; ovvero, attraverso l’addestramento al lavoro all’interno dell’istituzione scolastica si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di un quantità di denaro finalizzata al consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino:

«Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci».[1]

L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. È necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.

Formare alla plebe
L’integralismo economicistico – nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo – rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente. Il capitalismo assoluto sottrae, con il tempo storico, la possibilità di dare un senso al tempo e forma all’impotenza, la quale ha lo stesso valore paralizzante del terrore dei totalitarismi riconosciuti. Capitalismo assoluto e plebe coincidono: l’uno è la sostanza dell’altro. Il capitalismo può espandersi, disintegrare ogni legame sociale in nome del consumo, delle disuguaglianze, della assenza di ogni attività propositiva da parte dei popoli. Le plebi – vittime delle lobby del capitale – in assenza di consapevolezza, fruitrici del mito del benessere ad ogni costo, mito astratto, in assenza di consapevolezza delle conseguenze etiche ed ambientali dello sviluppo illimitato in nome della quantità senza qualità:

«Come abbiamo detto, chiamiamo ‘capitalismo assoluto’ questa fase dello sviluppo capitalistico, e questo meccanismo ha conseguenze distruttive. Il rapporto sociale capitalistico, quando diventa non solo il rapporto dominante, ma l’unico modello di rapporto sociale accettato, tende a dissolvere il legame sociale. Il legame sociale è infatti basato su una complessa rete di relazioni che toccano tutte le dimensioni della vita sociale e si innervano nella psicologia degli individui. Riducendo questa complessità all’unica dimensione del contratto fra privati in vista di un profitto quantitativamente misurabile, il ‘capitalismo assoluto’ rende il legame sociale estremamente fragile. Ed è proprio questa sotterranea distruzione del legame sociale che ci sembra alla base del malessere diffuso nelle nostre società».[2]

Con l’aziendalizzazione si ha l’obiettivo di inibire sul nascere il modello pedagogico hegeliano: l’idealismo si contraddistingue per l’essenzialità valoriale della processualità dialettica, ovvero, il risultato è in realtà secondario rispetto all’importanza del processo. Il risultato non è che il momento finale di un processo, i cui momenti devono essere giustificati in funzione del momento finale. Inoltre, per giustificare i momenti logici-processuali, si utilizzano una pluralità di categorie che colgono lo stesso momento da lati diversi. Tale procedura pedagogica, è un modello educativo, razionale e comunitario.
Il modello azienda predilige invece il risultato al processo ed utilizza la categoria della quantità quale strumento per decodificare il processo logico nella sua unità e globalità. La motivazione è nel risultato, che determina l’agire, i mezzi e le sequenze intermedie fino a predeterminare la volontà del soggetto. Nel decreto sull’alternanza scuola-lavoro (istituita tramite la Legge 53/2003 e il Decreto Legislativo n. 77 del 15 aprile 2005, e ridefinita dalla Legge n. 107 del 13 Luglio 2015) le finalità riportate sono all’articolo 2:

«1. Nell’ambito del sistema dei licei e del sistema dell’istruzione e della formazione professionale, la modalità di apprendimento in alternanza, quale opzione formativa rispondente ai bisogni individuali di istruzione e formazione dei giovani, persegue le seguenti finalità: a) attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica; b) arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; c) favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; d) realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, nei processi formativi; e) correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio».

 Il linguaggio pedagogico, l’appello all’indole personale, alla cultura, al sociale non sono che distrattori di massa. Nella realtà la scelta dello studente dipende dai contesti, dalle aziende a cui si deve elemosinare l’eventuale disponibilità alla formazione. Nessuno sceglie, la legge è calata dall’alto, presso le aziende le istituzioni vivono una condizione di sudditanza.

Antiumanesimo dell’alternanza scuola-lavoro
L’alternanza scuola-lavoro si presenta come un modello pedagogico antiformativo in senso umanistico, poiché la parola pratica è intesa come contrapposta e superiore alla conoscenza teorica-teoretica. In realtà, ancora una volta i legislatori-pedagoghi dimostrano di ignorare o vogliono cancellare la cultura umanistica e filosofica. La relazione tra teoria e prassi, la capacità di pensare l’empirico per ridefinire i fini ed individuare le contraddizioni, tale operazione deve necessariamente prevedere l’epochè, la contemplazione del dato; invece si punta a formare un’umanità capace soltanto di risolvere – con intuitiva immediatezza o mediante l’uso di mezzi tecnici – problemi che emergono dalla pratica empirica. Il passaggio teorico teoretico è giudicato un limite, poiché implica la sospensione della produzione, ma specialmente la possibilità che il soggetto possa – maturando il dubbio sui fini – sfuggire agli automatismi che si vorrebbero inoculare. Il soggetto non deve vivere l’esperienza hegeliana della coscienza infelice, la contraddizione tra particolare ed universale, non deve avere la simbolizzazione dei fini oggettivi, il suo stato dev’essere di perenne scissione dal concetto, dalla verità. Deve eliminare la metariflessione per perseguire l’esattezza della quantità nella produzione, nell’adesione ai tempi della produzione, allo scopo di strutturare in modo granitico il lavoro astratto e non il valore concreto. Il lavoro astratto, già definito da Marx, è funzionale al valore di scambio, dunque è la forma espressiva dell’alienazione. Nei Grundrisse il lavoro astratto è lavoro che ha perso non solo l’espressione simbolica del lavoratore, ma è lavoro parcellizzato, specializzato nelle singole fasi, in cui regna l’addestramento alla divisione dell’operaio da se stesso e dagli altri. Il nichilismo della cultura aziendale si fa qui evidente, nella scissione tra teoria e prassi; è questa una delle scissioni sottintese che operano nell’aziendalizzazione della comunità: la scissione opera nella forma dell’individualismo che rompe ogni vincolo solidale, poiché il progetto autentico è sostituito dall’azione di adattamento al regime del capitalismo assoluto.
Il fine dell’alternanza è, quindi, la spendibilità delle competenze del singolo alunno, addestramento alla flessibilità o meglio iperattività senza cultura teoretica, o sua riduzione minimale nel disprezzo presunto della stessa, perché non richiesta dal mercato del lavoro, che condiziona l’attività didattica. Pertanto la libertà didattica è un proposito giuridico e non effettuale.

Quale «organico orientamento» ?
Naturalmente l’organico orientamento al mercato del lavoro ben poco si concilia con la libera espressione/vocazione individuale, la quale è ammessa ed incoraggiata fin quando si favoriscono le professioni spendibili sul mercato del lavoro. Il termine spendibile svela e rileva l’unica finalità dell’ASL, cioè formare consumatori dipendenti dal mercato per il superfluo come per il loro orientamento lavorativo. Il risultato è una mutazione antropologica: l’istituzione pubblica deve formare il suddito ad immagine e desiderio del mercato, mentre l’autonomia è solo un mezzo per rompere ogni vincolo universalistico e comunitario e fare della scuola una costola del mercato. Le competenze che si dovrebbero affinare sono correlate alla capacità di risolvere problemi per ottenere risultati… L’ASL è inserita all’interno dell’offerta formativa alle famiglie (articolo 4, comma 6) che risponde ai bisogni del tessuto economico, locale in primis, e nazionale. Il lavoro diviene in tale ottica, malgrado l’intento dichiarato di valorizzazione dei singoli, omologazione, poiché si chiede l’adattamento necessario e passivo al sistema produttivo, alle sue esigenze, ai suoi ritmi:

«Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall’analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz’altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l’uno all’altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale. Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce».[3]

 

Diseducare alla qualità per affermare solo la quantità
L’istituzione pubblica con la sua offerta formativa deve astrarre il tempo vissuto, l’individualità profonda per renderla secondaria rispetto alla formazione al tempo omologato. In tale clima educativo il docente che dovrebbe educare alla formazione delle singole personalità nella concretezza della comunità-classe è così doppiamente mortificato nella sua autonomia intellettuale e formatrice, dalla gerarchia dell’azienda-scuola e dell’azienda produttiva: si rafforzano le spire della barbarie, si agisce dall’interno per svuotare il senso della formazione e debilitare gli attori della formazione. Tutto avviene nel nome della categoria della quantità, la sostanza del presente storico. L’alternanza scuola lavoro è già superata sul nascere, poiché il sistema produttivo necessita sempre meno di manodopera, mentre necessita sempre più di idee. Inoltre, in un sistema che produce ed annichilisce l’ambiente umano dove l’essere umano dovrebbe vivere, avrebbe avuto senso insegnare in modo massiccio al riuso, come a limitare gli effetti dei comportamenti singoli e collettivi sull’ambiente. L’alternanza scuola-lavoro è visione del lavoro novecentesca, tanto più che il sistema produttivo è così liquido e veloce da rendere inutile ciò che il lavoratore-studente impara nei tre anni nell’addestramento al lavoro. Una scuola buona e vera dove si impara la disciplina del pensiero, il rigore dello studio potrebbe essere più proficua che l’addestramento lavorativo. Evidentemente in tale iniziativa l’intento vero è sottrarre ulteriori energie alla formazione di cittadini per formare sudditi laboriosi ed ubbidienti. Ecco la monocategoria che astrae da ogni esperienza del vivere civile la qualità per immetterla in una perversa conversione che alla fine rende impossibile il riconoscimento delle differenze. È il monismo parmenideo nella forma più esasperata e perversa: la qualità, le differenze, i fini sono cancellati, sono giudicati un impaccio, apparenza. Pur di arrivare sulla linea d’orizzonte della quantità si astrae da quest’ultima ogni segno di vitalità, si stigmatizza come negativo ogni fine accettato e perseguito per i valori qualitativi e umanistici cui mira. Il processo di alienazione deve impedire il pensiero della qualità.

La resistenza antropologica deve dunque trasformarsi in prassi negli educatori. Ovvero i docenti non devono essere fruitori passivi dei cambiamenti in corso, ma devono averne la chiarezza dei fini per poter mutare e proporre un asse educativo alternativo, per limitare gli effetti dell’integralismo liberista. Senza un’opposizione attiva e propositiva e l’elaborazione di un modello alternativo, il liberismo continuerà a formare “musulmani”. Con tale terminologia nei campi di sterminio si indicavano i prigionieri ridotti a solo corpo, dall’aspetto florido, ma uniformati unicamente alla categoria della quantità, creature astratte ed alienate da se stesse e dalla comunità in un contesto di distruzione irreversibile dell’ambiente e della storia umana.

Salvatore A. Bravo

[1] Karl Marx Il Capitale, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 85.

[2] Marino Badiale – Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale: un’apologia contro la barbarie che viene, Il canneto editore, Genova 2009, pp. 262-263.

[3] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, ousia, p. 5.



Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.

Bravo Salvatore 029

L’elemento originario essenziale: la pratica del sogno più antico, come vastissima esplosione della storia eretica, come estasi del camminare eretti e della volontà di paradiso, volontà impaziente, ribelle e ferma. Inclinazioni, sogni, sentimenti profondi e sinceri, entusiasmi rivolti ad una meta vengono alimentati da un bisogno diverso da quello più afferrabile, e tuttavia un bisogno che non è mai vuota ideologia; essi non tramontano, colorano realmente di sé un lungo tratto, scaturiscono nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuano ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche.

Ernst Bloch

L’inquietudine e l’indifferenza
Heidegger, in Essere e Tempo, ha analizzato la paura, quale sentimento che connota l’essere umano.
Certo, il periodo storico in cui ha scritto Essere e Tempo può aver condizionato la sua visione.
Eppure l’analisi di Heidegger è condivisa da Bauman: la società liquida, inquietante nel suo capillare strutturarsi e posizionarsi, è oggi, forse, già trascesa.
La paura convive con l’indifferenza, con la pratica di un lassismo etico, la cui passività come destino, rende ciascuno distante rispetto al proprio prossimo. Il tempo accelerato delle metamorfosi che ci portano verso il transumanesimo, i messaggi che attraversano spazi quasi infiniti in tempi minimali – spazi in cui chiunque sembra raggiungibile – convivono con la distanza, la quale non è di ordine spaziale, ma emotivo: vicini e distanti.
Si delinea in tal modo un nuovo sentimento che circostanze economiche e tecnologiche sollecitano: l’inquietudine è vissuta come un destino, come quotidiana condizione da cui non è possibile sfuggire, anzi si ritiene che essa governi il mondo.
L’indifferenza sostanzia l’inquietudine: l’altro è nemico, la sua parola è solo calcolo, l’altro è un algoritmo distante. Si vive pertanto nascosti, mentre ci si mostra in immagine, in un’estetica che non conosce che l’astratta forma di sé.
L’inquietudine non arde per la paura, non costruisce ponti per l’uscita da sé, ma è fredda ed avvolgente.
La paura, nelle sue manifestazioni fino al panico, ritorna su se stessa, si sottrae alla chiacchiera per sostituirla con la posa: ci si mostra, ma senza il desiderio della parola viva. Pallida copia della parola, l’apparire –l’affermarsi di una presenza senza l’esserci – è l’unica fonte che rassicura.
Mostrarsi e sottrarsi, perché in realtà l’indifferente narcisista cerca solo una gratificazione immediata, senza implicazione, un clic per vivere, un’immagine per dire a se stesso che c’è, che gli sembra di esserci: l’altro scompare nella coltre di immagini che possono essere prodotte in una quantità innumerevole in tempi brevissimi.
Il cerchio si chiude, l’immagine restituisce se stesso in modo mitico, nell’immaginario dell’indifferente narcisista l’esposizione ha concluso nella distanza – ma in un tempo immediato – il bisogno di gratificazione: ci si sente normali e nel contempo gratificati, normali perché “così fan tutti”, gratificati poiché per un attimo l’immagine è passata nell’iride di qualcuno.

L’epoca delle emozioni tristi
Non più passioni tristi, ma emozioni tristi. La passione vive in una temporalità che consente ad essa di rendersi fenomeno, ora invece non vi è che la tendenza a vivere emozioni brevi e come tali incomprensibili. L’essere si è consumato – e con esso la verità – parallelamente al tramonto delle passioni, per lasciare spazio e tempo alle emozioni fuggevoli, alla solitudine interiore, all’impossibilità di empatizzare, di tenere dentro di sé l’altro, di ascoltarlo.
Soltanto i corpi, mere anatomie apparentemente liberate, corrono lungo le varianti dell’emozione. Nell’emozione tutto sembra possibile, tranne la prassi: la vita di questi corpi è interna al mercato, luogo del disperdersi in mille rivoli di piacere momentaneo.

Tramonto dell’Occidente
Pensare ad un’alterità possibile, ad un mondo altro è in questi decenni impresa ardua, perché per la prima volta un’umanità sedotta deve confrontarsi con la propria indifferenza, con un’accidia divenuta ipostasi. Forse dovremmo cominciare a pensare l’indifferenza prometeica: poter tutto, volontà di potenza del desiderio del mercato che sta mutando antropologicamente l’essere umano, ne sta consumando la densità emotiva, l’invisibile che, da sempre, è il fuoco che vivacizza l’intelligenza, stimola l’immaginazione per pensare-immaginare un altro mondo possibile, e specialmente educa a guardarsi dal di fuori ed a scorgere le proprie miserie, le proprie deficienze ed alienazioni. Un cambiamento politico-comunitario deve confrontarsi con tali situazione emotiva che dissangua l’Occidente.
Il tramonto dell’Occidente andrebbe analizzato con lo scandaglio. L’economia che arranca, il collasso demografico, l’assenza di spazio per il pensiero, per la creatività profonda, hanno la loro ragione profonda nell’aver introiettato il nichilismo fino a farne carne ed anima. O meglio, l’Occidente si è lasciato portar via corpo ed anima, ed ora non resta che il simulacro.
Ogni grande trasformazione-prassi necessita di impegno, passione, dedizione, resistenza. In assenza di tali moventi della prassi non vi è che il ricadere piano su se stessi, il lasciarsi vivere, il lasser aller/lasser faire che sta cristallizzando il corpo vivo dell’Occidente.

Passione e rivoluzione
Ernst Bloch ci ricorda – profetico, in tal senso – che le rivoluzioni hanno la loro genesi profonda nello scandalo dinanzi all’ingiustizia, nell’immaginazione che eleva la razionalità e riporta in vita verità umane sedimentare nell’interiorità di ognuno.
Tutto questo favorisce il definirsi della speranza in una vita comunitaria migliore, nel rappresentarsi il possibile, quale paradigma per valutare lo spazio ed il tempo presente. Si rompe l’angustia dello spazio-tempo per vivere oltre, per una prassi che dal presente crede nel futuro. La passione politica diventa speranza, gioia della partecipazione che dispone al coraggio.
L’analisi della rivoluzione dei contadini e di Thomas Müntzer svolta da Bloch consente di individuare la costante del sentire rivoluzionario, il quale ha bisogno di progetti economici e di calcoli, ma questi non producono rivoluzioni; per i cambiamenti anche minimi sono necessarie le passioni in odore di verità:

«Lo stesso Marx ammette l’importanza dell’entusiasmo (Schwärmerei) almeno all’inizio di ogni grande rivoluzione: almeno finché i nuovi signori si sentirono romani e di nuovo pagani, finché i contadini tedeschi e più tardi anche i puritani attinsero dall’Antico Testamento (per la loro rivoluzione borghese) lingua, passioni e allusioni, o finché la stessa rivoluzione francese si drappeggiò con nomi, parole di battaglia, costumi del consolato e dell’impero romano. Marx stesso dà dunque alle “necromanzie della storia del mondo” perlomeno la realtà dell’impulso, anche se poi in modo diverso, in senso positivista, restrinse il comunismo da teologia a nazional-economia e a nient’altro che questa. Togliendogli così tutta la dimensione del suo concetto chiliasta, sia connaturato nella sua realtà cosale, sia storicamente tramandato. Tuttavia, per quanto riguarda il caso particolare della guerra dei contadini, dell’iconoclastia, dello spiritualismo, deve essere ancora considerato in sé, accanto agli elementi economici esistenti di natura disgregante e di contenuto conflittuale, l’elemento originario essenziale: come pratica del sogno più antico, come vastissima esplosione della storia eretica, come estasi del camminare eretti e della volontà di paradiso, volontà impaziente, ribelle e ferma. Inclinazioni, sogni, sentimenti profondi e sinceri, entusiasmi rivolti ad una meta vengono alimentati da un bisogno diverso da quello più afferrabile, e tuttavia un bisogno che non è mai vuota ideologia; essi non tramontano, colorano realmente di sé un lungo tratto, scaturiscono nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuano ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche non riscattati, continuano a proiettare in avanti, in una perdurante contemporaneità la profonda traccia del XVI secolo, il chiliasmo della guerra dei contadini e dell’anabattismo».[1]

 

Diritto alle passioni
È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni. La pratica dell’indifferenza a cui la scuola, i social, le istituzioni formano e deformano sono la vera urgenza. In assenza di educazione emotiva, il capitalismo assoluto o qualsiasi totalitarismo, non può che proliferare per tempi indeterminati.
La stessa filosofia può scoraggiare l’entusiasmo per la verità, per la sua ricerca: la filosofia accademica e la filosofia mediatica che – in nome del relativismo – sostengono il ciclo dell’indifferenza, della gabbia d’acciaio da cui nessuno può sfuggire, su cui regna il mercato come destino.
Dobbiamo cominciare a pensare che il diritto alle passioni, alla propria indole, sia un diritto, una verità su cui si gioca il destino antropologico dell’umanità.
La parola vivente contro il silenzio indifferente del calcolo, la resistenza delle passioni è oggi il logos vivente contro l’indifferenza dei giorni spazializzati, ma senza tempo vissuto.

Salvatore A. Bravo

 

 

[1] Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Milano 2010, pp. 66-67.



Salvatore A. Bravo – il genocidio kmer in cambogia palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che, in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Tiziano Terzani 01

Progettualità e storia
Negli ultimi decenni in modo sempre più radicale si assiste alla sostituzione della prassi con la poietica, alla spazializzazione del pensiero, il quale opera secondo una visione analitica e non olistica. La razionalità è rivolta al conseguimento dei risultati immediati, con l’effetto che la stessa razionalità si ribalta in irrazionale su lassi temporali più ampi, poiché è assente ogni riflessione sulle conseguenze delle azioni e specialmente sul valore qualitativo dei fini. Uno dei mezzi più efficaci per strutturare il silenzio del pensiero critico e profondo è l’esemplificazione della storia, che diviene così organica alla distopia del capitalismo assoluto. Non solo si divide per dominare, ma specialmente si occultano le verità storiche nel chiasso di informazioni spesso superflue, veri distrattori di massa. Si cela il verme nel nocciolo secondo la famosa metafora di Sartre, in modo da nascondere la verità del sistema. Uno dei mezzi con cui si effettua l’operazione ideologica di eternizzazione del presente è l’espulsione sostanziale e non formale della disciplina storica. La storia si eclissa dalle istituzioni che dovrebbero trasmetterla, che dovrebbero educare al senso storico, al senso dei contesti, e specialmente dovrebbero formare a cogliere dietro la cronologia il sostrato, senza il quale la storia non è che successione disordinata ed insensata di tumultuosi avvenimenti. Si mette in atto un processo di derealizzazione della realtà e della personalità La storia ridotta a cronologia disegna eventi che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia e continuità. In tale maniera la disarticolazione della storia diventa il macrocosmo, a cui corrisponde il microcosmo delle vite che si succedono senza progettualità, vite che accadono, si succedono, si consumano come la grande storia punteggiata di accadimenti senza continuità: le storie e la storia si consumano nella malinconia dell’assenza.

Massimo Bontempelli e la derealizzazione
Massimo Bontempelli ha coniato due idealtipi per rappresentare i processi di derealizzazione: la personalità narcisista e la personalità concretista: la prima è autoreferenziale, e si connota per il disprezzo di sé, per cui manipola le altre personalità per avere conferma del proprio valore; la personalità concretista si muove all’interno di uno spazio limitato, è volta all’immediato, al risultato, non alla profondità interiore esattamente come la personalità narcisista. In entrambi casi, si tratta di personalità senza storia e dunque dall’identità apparente, poiché la scissione dell’io dalla comunità, dalla storia le destruttura in senso atomistico:

«In questa sede, però, la genesi psicologica interessa meno della base ontologica. Ontologicamente, il concretismo è, come il narcisismo, un’interruzione, sul piano specifico dello sviluppo della personalità individuale, della possibilità del passaggio dall’esistenza alla realtà, per l’inattivabilità dell’azione reciproca. Mentre però nel narcisista ciò che impedisce l’azione reciproca è la coazione all’azione unidirezionale, nel concretista ciò che la impedisce è la coazione a farsi assorbire dalle cose. Storicamente, questa determinazione della persona umana è, proprio come la de-terminazione narcisistica, un prodotto del meccanismo economico autoreferenziale contemporaneo. Abbiamo visto come tale meccanismo, facendo prescrivere i comportamenti umani dalle procedure tecniche, sottragga all’individuo l’immagine stessa dell’azione reciproca. Se tale immagine è sostituita da un modello di relazione strutturato dalla proiezione al consumo, si ha il narcisismo, mentre se è sostituita da un modello di relazione strutturato dall’adesione alla produzione, si ha il concretismo. Il concretista, infatti, fa molte cose senza mai chiedersi il senso del suo fare, per cui il suo agire, anche quando è del tutto esterno alla produzione economica, e persino quando si svolge in un ambito solidaristico, corrisponde perfettamente alla natura della produzione nel meccanismo economico autoreferenziale, che consiste nel produrre sempre di più senza alcuno scopo umano».[1]

Le controriforme
La storia, invece, nella quale si cerca il fondamento e la progettualità non profetica, è espressione vivente della prassi, dell’umanità in cammino nel dialogo che fonda l’ontologia dell’esserci. Le riforme contro la storia, gli attacchi strategici alle facoltà che dovrebbero formare gli studiosi, mediante tagli finanziari e discredito su studi giudicati improduttivi, palesano la verità del tempo presente: la riduzione del tempo a solo tempo della produttività, del PIL, oggetto di interventi ossessivi. L’agire contro la storia ha lo scopo di formare personalità gettate nel presente e quindi pronte all’uso ed al consumo. Si occultano le contraddizioni. In primis l’impossibile realizzazione, per tutti, del regno della dismisura, per cui destrutturare la storia, ridurne la presenza nei curriculum scolastici come nella memoria collettiva è una modalità d’attacco del capitalismo assoluto che erode le forme della prassi per sostituirle con la violenza della produttività dell’inautentico. Si misura tutto in modo maniacale per poter dominare e manipolare, ma si sottrae il senso della relazione tra quantità e qualità, pertanto la dismisura, regna, occultata da strumenti di precisione millimetrica, non mediata dalla razionalità speculativa.
Vi sono storie nella storia in cui la verità, il fondamento nichilistico che guida le tragedie della storia contemporanea, non solo si rilevano, ma esse sono portatrici, come in questo caso, di un’eccedenza. Dimostrano la cattiva coscienza dell’onnipotenza tecnocratica, poiché mettono a nudo la verità: sono rimosse dalla memoria collettiva, ridotte ad episodi regionali, ai margini della globalizzazione con i suoi splendori.
La Cambogia con il genocidio kmer palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Razionalità tecnocratica e razionalità classica
Il Vietnam, durante la guerra (1960-1975), è stato oggetto di bombardamenti con l’agente arancio, un’erbicida che ha causato la deforestazione, desertificato il terreno con accumuli di diossina che hanno reso il suolo sterile per un tempo indeterminato. La Cambogia, stretta tra gli interessi cinesi ed americani è diventata il luogo dove l’onnipotenza della ragione calcolante, senza etica, ha mostrato il sonno della ragione, ovvero il sonno della ragione classica, il sonno della razionalità del limite, sostituita da una razionalità puramente tecnocratica e distopica e come tale tesa all’espansione integralista per la quale il limite è solo un labile confine da abbattere.
Tiziano Terzani descrive l’agonia di un popolo, il processo di formazione di un genocidio, la cui precondizione è nella violenza espansionistica delle potenze, le quali pur da posizioni ideologiche diverse, agiscono mosse dallo stesso fondamento economicistico e nichilistico:

«Ho visto questa città negli anni della guerra americana, fra il 1970 ed il 1973, quando centinaia di migliaio di rifugiati, scappati ai bombardamenti a tappeto dei B-52, venivano ad accamparsi lungo i marciapiedi del centro; l’ho vista lentamente strangolata del centro; l’ho vista lentamente strangolata dall’assedio dei khmer rossi, che il 17 aprile 1975 la presero in mano e per prima cosa la vuotarono in poche ore di tutta la sua popolazione, mandata allo sbaraglio nella giungla e nelle risaie; l’ho rivista, città fantasma, guscio vuoto, marcio e buio, poco dopo l’intervento vietnamita che nel 1979 rovesciò il regime di Pol Pot e mise al potere l’attuale governo di Hun Sen; e l’ho rivista varie volte negli ultimi dieci anni, di nuovo viva e popolosa, ma ancora misera, sporca, avvilita e scoraggiata da dall’ingiusto embargo economico che i paesi occidentali hanno deciso di imporre a questa gente ed a questo governo, definito “fantoccio di Hanoi”».[2]

Genocidi
Il numero dei morti è rimasto dubbio; è certo che tra il 1975 ed 1979 un terzo della popolazione cambogiana è scomparsa atrocemente. Non vi è stata nessuna Norimberga, nessuna giustizia: i processi iniziati negli ultimi anni hanno un valore formale e specialmente rimuovono le responsabilità internazionali, degli Americani e dei Cinesi in particolare. Costruiscono un’immagine della storia evenemenziale: i responsabili sono singoli, dietro di essi le strutture, i modi di produzione, le ideologie sono innocenti. Il modello di razionalità non viene messo in discussione, restano nel limbo dell’astratto, il sistema e la storia non conoscono dialettica emancipatrice: Stati Uniti e Cina continuano ad essere padroni del pianeta come se nulla fosse accaduto.
I morti, i genocidi non sono tutti uguali, alcuni sono pubblicizzati, resi pane quotidiano nella propaganda dei vincitori. Altri sono dimenticati, procurano imbarazzo con la loro verità che accusa i vincitori, e rammenta la sconfitta ai padroni e signori del pianeta:

«Perché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura? Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?». [3]

Le responsabilità collettive
Per comprendere la storia è necessaria una visione olistica, la quale consente di riportare all’unità ciò che, invece è separato, esemplificato e diviene incomprensibile. I kmer rossi si rafforzano e si diffondono con i bombardamenti americani, e con il colpo di stato del 1970 orchestrato in Cambogia dagli Americani, mentre da un punto di vista ideologico, la Cina è la madre matrigna che sostiene per ragioni di espansione e competizione con l’Unione sovietica i kmer, in modo da presentarsi come polo catalizzatore per i paesi che escono dalla difficile esperienza della colonizzazione:

«I khmer rossi sono stati un’aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Ze Dong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva ed approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Zleng, a poche decine di metri dall’ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone complice dell’olocausto, era impazzito. […] La verità, come dicevo, è che i khmer rossi sono il prodotto di un’ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può fare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria. Da qui il progetto dei khmer rossi di spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi».[4]

 

I tempi della storia
L’uomo nuovo è il fine dei kmer come di Mao, i kmer accelerano, esigono il risultato in tempi brevi. Il tempo svela la contemporaneità dei kmer, il loro essere organici al nichilismo produttivo industriale e tecnocratico. In tempi brevi, inseguendo la temporalità espansiva degli apparati industriali, attraverso la microfisica del controllo, della manipolazione, l’uomo nuovo liberato dalle scorie impure del passato splenderà nella sua ritrovata innocenza e purezza.
Il tempo della storia è veloce, quando la razionalità critica si ritrae, per cui con la caduta del muro, la Cambogia comunista dietro la quale vi è il Vietnam e specialmente la Cina, reintroduce la proprietà privata, per cui i privilegiati durante il regime comunista diventano ora i ricchi. L’assenza di prassi e partecipazione politica agli eventi spingono i Cambogiani ad adattarsi, perché in fondo sanno che il vero cambiamento strutturale non è mai avvenuto. Dietro le tragedie della storia cambogiana non vi è che il susseguirsi con matrici diverse del sogno dello stesso sogno/incubo dell’onnipotenza[5]:

«La svolta avvenne nel 1989. Col mondo socialista in ritirata e l’Occidente che faceva pressione perché Phnom Penh cambiasse politica in cambio di una vaga promessa di riconoscimento e di aiuti, il regime di Heng Samrim e Hun Sen adottò una serie di riforme che hanno permesso la religione, abolito la struttura economica socialista, liberalizzato il commercio e reintrodotto la proprietà privata. Il primo maggio 1989 sono nati i nuovi milionari della Cambogia. In quella data, chi occupava una villa, un appartamento o una semplice stanza ne è diventato il legittimo proprietario. Questo ha ovviamente favorito i funzionari del nuovo regime che per primi erano tornato a Phnom Penh ed erano andati ad occupare gli edifici più centrali e spaziosi. Alcune di quelle ville, cui è stata data una mano di bianco e una ripulita, vengono ora fittate agli stranieri che lavorano a Phnom Penh per somme che variano dai mille ai duemila dollari al mese: un patrimonio, se si considera che lo stipendio mensile di un funzionario governativo è di 5000 riel, vale a dire 8 dollari. Lo stesso è avvenuto nelle campagne. I campi delle comuni sono stati distribuiti fra i contadini, creando enormi disparità tra quelli che hanno ricevuto terreni fertili e gli altri che hanno avuto pezzi improduttivi. L’improvvisa fine del sistema socialista comunitario ha per giunta penalizzato i più deboli. È così che città come Phom Penh si sono riempite di donne e bambini mendicanti».[6]

 Alla caduta dei kmer nel 1979 con l’invasione vietnamita, vi è un dettaglio non secondario, che denuncia il fondamento nichilistico in modo lapalissiano: gli Stati uniti non riconoscono la nuova Cambogia, in quanto legata politicamente alla Cina per mezzo del Vietnam, dunque all’ONU il seggio è dei kmer, malgrado il genocidio ormai pubblico, ma per la razionalità nichilistica che usa solo la categoria della quantità un milione e mezzo di persone trucidate non sono che numeri interscambiabili, sono niente davanti alla storia.

L’essere umano come animale storico
L’essere umano è un animale storico. Se rinuncia alla storia e con essa alla prassi, vive come un qualsiasi animale nell’eterno presente, pascola, rumina, ma non vive. La storia eleva all’universale, e dunque umanizza attraverso la razionalità dialogica che distingue l’accidentale dall’universale:

«Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di se stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse». [7]

L’uomo nuovo che il capitalismo assoluto vuole fondare è l’uomo senza memoria, limitato al solo pascolare tra gli infiniti pascoli del mercato. A questa visione impoverita e depauperata dell’umanità, bisogna contrapporre la visione hegeliana che nella Filosofia della storia ha dimostrato che l’essere umano conosce se stesso nella storia. Pensando il materiale storico l’uomo elabora la consapevolezza di sé, in modo da discernere l’eterno dal contingente. L’uomo nuovo al pascolo nei mercati non discerne, non giudica, non ha senso etico/universale, si disperde nella contingenza del particolare, nell’immanenza senza trascendenza. Il presente gli appare senza speranza, poiché è venuta a mancare la mediazione razionale sull’esperienza storica collettiva. Il futuro si gioca dialetticamente sul senso storico senza il quale non vi è libertà, né razionalità, ma solo veloce dileguarsi della ragione. Siamo al bivio parmenideo: la doxa è l’immediatezza del narcisista/concretista, mentre la verità è il senso storico in cui l’eterno prende forma e coscienza. L’errore nella scelta non potrà che essere fatale per il pianeta, poiché i mezzi di distruzione minacciano la vita come non mai.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà, Petite Plaisance ,Pistoia 2002, pag. 15

[2] Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Tea. Milano 2008, pag. 298.

[3] Ibidem, pag. 324.

[4] Ibidem, pag. 277.

[5] Ibidem, pp. 285-286.

[6] Ibidem, pp. 285-286.

[7] Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, pag. 8.

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Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Massimo Bontempelli 030

I Forchettoni rossi

Salvatore A. Bravo

Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli

Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico

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Coniugare storia e filosofia

Filosofo e storico Massimo Bontempelli coniugava storia e filosofia, poiché la storia senza la metodologia filosofica resta incompresa: è semplice cronologia. La storia è il campo di azione e di battaglia della filosofia, per cui è nella storia, come nel quotidiano, che la filosofia non solo adopera la sua metodologia di indagine, ma ne verifica anche il peso cognitivo. L’asse storico – per avere valore conoscitivo e critico – necessita della filosofia: solo attraverso la storia compresa e mediata dalla razionalità filosofica è possibile porre le condizioni per un movimento di emancipazione. Massimo Bontempelli da insegnante di scuola superiore aveva verificato quanto l’aziendalizzazione della scuola avesse comportato il depauperamento dell’insegnamento della storia fino a renderla una presenza formale. La geostoria nel biennio del liceo è il riduzionismo applicato a due discipline: la storia e la geografia. La sottrazione della storia al processo formativo ha evidentemente lo scopo di necrotizzare la conoscenza dei processi di trasformazione per eternizzare il presente e formare al dogmatismo del presente astratto:

«Il problema che dobbiamo porci è: quale potrebbe essere l’asse culturale della scuola attuale? Secondo me, per varie considerazioni che qui non posso svolgere, l’asse culturale della scuola oggi dovrebbe essere la dimensione della storicità. Occorrerebbe cioè reintrodurre la storia là dove è stata svuotata, e quindi insegnare la lingua e la letteratura dal punto di vista storico. La dimensione storica è poi di importanza cruciale per l’insegnamento delle materie scientifiche. Per esempio, quando si insegna la geometria euclidea non si dice chi era Euclide, dove aveva studiato, perché aveva costruito quel sistema deduttivo. Se si riscoprissero tutti i legami fra la geometria euclidea, i progetti dell’accademia platonica, la continuità e la separazione di Euclide rispetto alla filosofia platonica, la sua geometria acquisterebbe un profondo significato culturale ed educativo. Pensate che bello se l’insegnante di storia insegnasse la storia dell’età ellenistica, e l’insegnante di matematica insegnasse la geometria euclidea, e le cose si incastrassero. In mancanza di ciò, l’insegnamento scientifico, che dovrebbe quasi per definizione essere un insegnamento critico, diventa, paradossalmente, come ci spiega Lucio Russo, il più dogmatico. Perché le persone imparano delle leggi scientifiche, dei procedimenti, delle soluzioni di problemi in maniera totalmente dogmatica, tant’è vero che lo studente della scuola secondaria generalmente non sa che la scienza non è mai definitiva, che è un modello, che la fisica newtoniana non è più vera in senso assoluto, perché addirittura le sue disconferme sono state quasi cooriginarie alla sua formazione. Ad esempio le leggi di Keplero sulle orbite dei pianeti vengono imparate a scuola completamente svuotate di significato storico. Non si immagina che le ipotesi che hanno guidato quello scienziato nella scoperta dell’orbita di Marte sono ipotesi metafisiche, di tipo neoplatonico e neopitagorico. Io penso che una scuola dovrebbe coordinare le materie, i programmi, gli insegnamenti, insegnare cioè arte, letteratura, scienza, filosofia dal punto di vista di una connessione storica e penso che questo sarebbe molto importante».[1]

Pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico

Si organizza l’oblio per rafforzare e rendere adamantini i processi di alienazione delle esistenze. L’oblio pianificato non è solo la dimenticanza di sé, ma è rendere impossibile il presentare a se stessi l’identità comunitaria e linguistica, le quali, in quanto innominabili, insegnano l’incultura della decontestualizzazione acritica.
Si spingono verso il limbo dell’astratto professori ed alunni, in modo da decretare la fine della storia. Naturalmente il capitalismo assoluto dichiara in ogni modalità espressiva la fine della storia: pertanto la storia diventa disciplina superflua. La storia, invece, è forza plastica e vitale che mentre guarda al passato, si orienta al futuro. Si vuole giungere al termine di “ogni possibile”, di ogni transizione dalla potenza all’atto. In tal modo la temporalità si chiude su stessa, si rende monade senza passato e senza futuro.

I forchettoni

I forchettoni sono l’esempio simbolico e metaforico del nichilismo economico quale substrato della politica. Se per le “sinistre” è stato possibile adattarsi tanto facilmente al nuovo stato di cose post-1989 ciò è dovuto al fondamento economicistico e non veritativo che le ha connotate. Nel periodo immediatamente successivo la seconda guerra mondiale il nichilismo era contenuto dalla presenza di culture diverse, dalla memoria aggregatrice della Resistenza. Con la fine del comunismo storico novecentesco e, in assenza di ogni limite e di una autentica opposizione culturale e di massa nei confronti del liberismo edonistico, il nichilismo economicistico si è reso prevalente e tracotante.
Il termine forchetta già nell’immediato secondo dopoguerra denunciava la politica finalizzata al potere e non al servizio dei cittadini:

«Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, per “forchettoneria” s’intende, all’epoca, non tanto la ladroneria personale del politico, quanto piuttosto la sua voracità di potere istituzionale per il proprio partito e per se stesso in quanto uomo di partito. Ciò risulta chiaro dal referente in relazione a cui fu coniata l’espressione “regime della forchetta”: si tratta di un discorso di Scelba all’indomani del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, in cui quel ministro aveva dichiarato che il suo partito era autorizzato dalla sua vittoria su tutti gli altri nella competizione elettorale ad occupare i centri del potere pubblico a porre i suoi uomini alla testa delle aziende statali».[2]

Massimo Bontempelli riscontra le tracce del nichilismo, la lunga scia che ha portato all’attuale condizione, già nella logica del potere per il potere presente nei partiti della prima Repubblica:

«Forchettone è dunque, nell’accezione originaria del termine, colui che intende la politica come manovra volta all’acquisizione di quote di potere istituzionale, concepite anche come risorse da impiegare nell’attività a cui riduce la politica manovriera».[3]

La cannibalizzazione del pubblico

La spirale nichilistica attraversa la storia e presto il re sarà nudo: l’indebitamento pubblico, l’evasione fiscale, la normalità della corruzione condurranno a rendere sempre più esplicito l’esito nichilistico. Prodi rappresenta la trasversalità della logica acquisitiva ed economicistica, mentre è presentato dalla propaganda come il risanatore dell’Iri, ricoprendo l’incarico di dirigente liquidatore dal 1982 al 1989. In realtà la svende ai soliti noti. Ma c’è di più. Prodi è il punto di congiunzione delle destre con le sinistre, è un democristiano di “sinistra”. Prodi è il simbolo della perversa logica economicistica che attraversa l’arco dei partiti, ne è l’archetipo:

«L’Iri era allora carico di debiti, dovuti anche al fatto che vi si approvvigionavano i Forchettoni democristiani, così come i Forchettoni socialisti si servivano dell’Eni, dopo la morte di Mattei e l’estromissione di Cefis. Prodi è passato alla storia come il suo “risanatore”, che ne ha rimesso in pari bilanci grazie ad una competenza tecnica non succube della voracità dei partiti. Ma questa storia è una falsa leggenda, creata dalla stampa di proprietà dei poteri economici forti, la cui rapida circolazione e accettazione rivela quanto la figura pubblica di quest’uomo sia stata programmata per agire al servizio di quei poteri sotto l’opposta apparenza dell’indipendenza personale del “tecnico”».[4]

Il nichilismo acquisitivo assimila il pubblico a fini privati, lo divide tra i detentori del potere economico. Il fine è eliminare l’economia mista che si colpevolizza di ogni male per legittimare le logiche acquisitive ed individualistiche: è la premessa per l’aggressione alla Costituzione ed ai suoi valori comunitari.

I bombardamenti etici e l’astuzia conformistica

Un altro passo in avanti nella storia del nichilismo economicistico che funge da liquido fondamento del capitalismo si ha con la fine dell’Unione Sovietica e la corsa all’adattamento alla nuova contingenza storica: D’Alema ben rappresenta la fuga dalla realtà per il regno dell’astratto. Il nichilismo è la smaterializzazione di ogni contesto e senso, il soggetto prende le distanze dalla concretezza per ritrovarsi solo con la razionalità strumentale. D’Alema pur di conservare il potere si allea con la finanza internazionale ed accetta prono il bombardamento della Serbia (1999) a “fini umanitari”, la liquidazione dello stato sociale, il finanziamento alle scuole private:

«Fuori dall’ambiente politico non sarebbe nessuno, non saprebbe far niente. La sfera politica è la sua unica dimensione professionale. Si tratta, inoltre, non della politica intesa come fino a qualche decennio fa, non cioè della politica in senso etimologico del termine, ovvero di quell’attività che decide le sorti della polis, ma della politica in senso odierno del termine, come attività che, senza nulla decidere sulle sorti della vita collettiva, plasmate solo dalla dinamica autoreferenziale dell’economia, consiste nella lotta per la spartizione del potere di amministrare gli effetti sociali del meccanismo economico. D’Alema agisce come tutto il ceto politico di cui fa parte, esclusivamente entro questa cornice, che per lui, in particolare, è l’unico schema di realtà, cosicché ha potuto sviluppare il talento ad essa più congruo, appunto l’astuzia conformistica». [5]

Bontempelli definisce astuzia conformistica l’assenza di ogni fine etico e comunitario, la capacità tattica che si sostituisce alla politica, ad ogni valore oggettivo. L’astuzia conformistica è il carattere del nichilismo economicistico, vive e prolifera in un mondo di soli mezzi. E può farlo, poiché non discerne il bene dal male, ogni logica universale è sostituita dall’autoreferenzialità personale, dai propri interessi di carriera. Al partito dei tempi della forchetta, ora si è sostituito il carrierismo amorale personale.

 

Tatticismi e scacchiere

L’espressione massima del tatticismo nichilistico Massimo Bontempelli lo individua in Bertinotti che fa cadere il governo Prodi per aiutare D’Alema, che così accusa il massimalismo di Bertinotti ed appare, in tal maniera, come difensore dei diritti sociali, ma in realtà ha il solo fine di rafforzare la propria posizione di potere:

«Facendo cadere il governo proprio in quel momento, egli fa il gioco di D’Alema, che può così liberarsi di Prodi scaricandone la responsabilità sul massimalismo bertinottiano e apparendo addirittura il suo difensore. In questo comportamento di Bertinotti, se fosse davvero ciò che appare, cioè il rifiuto di sacrificare le ragioni sociali alle esigenze del compromesso politico, non ci sarebbe nulla di censurabile, per quanto D’Alema ne tragga vantaggio. Ogni lotta politica condotta per la giustizia sociale ha infatti ricadute indirette sulla scacchiera dei poteri istituzionali, da cui qualche giocatore di quella scacchiera viene svantaggiato e qualcun altro avvantaggiato, senza che ciò debba preoccupare, perché è quella scacchiera in se stessa che nei nostri tempi è nemica della giustizia sociale. Senonchè, come D’Alema appare in quella circostanza un difensore di Prodi contro Bertinotti quando in realtà si serve di Bertinotti contro Prodi, così Bertinotti appare radicalmente contrapposto a Prodi e a D’Alema, mentre non solo fa il gioco di D’Alema indirettamente, ma lo fa volontariamente in maniera tale da aiutarlo a vincerlo sulla scacchiera in cui viene giocato – scacchiera alla quale non è affatto disinteressato, ma al contrario molto interessato». [6]

In assenza di assi culturali ed assiologici non resta che il tatticismo, il gioco delle pedine. La razionalità nichilistica vive in un mondo di mezzi senza fini. In fondo il nichilismo, nella definizione nietzscheana, non è che l’assenza di fini.

 

L’omologazione della destra e della sinistra

Il fine di queste tattiche conformistiche è smantellare la Costituzione la quale – con la sua presenza giuridica, sempre più formale – rappresenta un limite all’aziendalizzazione integrale, vero ed unico fine dell’economicismo, e rappresenta e rammenta anche la resistenza culturale e civile all’integralismo del fascismo:

«Ogni Costituzione, si sa, è originata da un fatto storico: quello del testo del 1948 è la Resistenza uscita dall’antifascismo, quello del testo auspicato da D’Alema è una crostata uscita dal forno di casa Letta. Di fronte a tanta bassezza di mentalità, persino Occhetto (ed è tutto dire) sembra un gigante intellettuale quando osserva, intervenendo nella Bicamerale, che il testo in preparazione è costruito respingendo tutte le indicazioni dei giuristi pur di raggiungere un compromesso tra gli interessi diversi delle due coalizioni, tra aree diverse all’interno di ciascuna coalizione, e tra partiti grandi e piccoli partiti, e che ha per questo enormi incongruenze di cui è priva la Costituzione del 1948, in quanto nata da compromessi tra partiti, ma da un incontro tra tre culture, quella cattolica, quella marxista e quella liberale». [7]

Nel gioco del nichilismo destra e sinistra si ritrovano ad essere sostanzialmente interscambiabili, poiché sono accomunate dall’astuzia conformistica, dal tatticismo finalizzato al potere e specialmente perché sono entrambe organiche all’economia, in un circolo vizioso, in cui diviene difficile distinguere la politica dall’economia. La storia del nichilismo finisce con l’essere la storia del trionfo del capitalismo assoluto. Marino Badiale che ha condiviso con Bontempelli una parte della sua storia intellettuale, fa dell’autoreferenzialità la cifra della politica asservita al liberismo. L’autoreferenzialità implica il pervertimento della politica, perché il senso della politica è rispondere ai bisogni reali dei popoli. L’autoreferenzialità risponde solo alle carriere personali, alle ambizioni di piccoli gruppi mediaticamente onnipresenti:

«Al contrario, è proprio nella sua autoreferenzialità che la politica è funzionale alla logica profonda della fase attuale dell’economia capitalistica. Infatti, come abbiamo detto, la fase contemporanea è quella in cui l’economia del profitto si estende a tutti gli ambiti della realtà sociale piegandoli alla propria logica. La politica autoreferenziale non fa che giocare i propri giochi di potere, usando le carte che questa situazione le fornisce, e abbandonando così l’intera realtà sociale all’invasione devastante della logica del profitto. L’autoreferenzialità della politica è dunque nella situazione attuale, la migliore garanzia del procedere indisturbato dell’economia capitalistica». [8]

L’autoreferenzialità coincide con la crisi del linguaggio ridotto a distrattore di massa. La parola, non più dialogo, è solo un mezzo per distrarre le masse con la chiacchiera (Gerede), per spingerla verso temi che possano obliare le urgenze della vita. I potentati mediatici ed il clero orante sono lo splendore del nichilismo mediatico, del valore di esposizione che mentre illumina brucia significati e senso della realtà, e dunque la politica: tutto si consuma nel teatrino della parola-immagine che comunica la coazione a ripetere del sempre uguale senza prospettiva. La necessità di un linguaggio privo di contenuti è accentuata dalla globalizzazione che con il suo dinamismo estremo, non consente progettualità, ma esige adattamenti perenni per conservare il potere:

«L’unico modo per evitare questo grave rischio è allora non dire mai nulla, cioè usare un linguaggio completamente privo di contenuti razionali. Ai politici serve un linguaggio malleabile, manipolabile, piegabile all’esigenza del momento. I politici hanno bisogno di un linguaggio – argilla, che non faccia resistenza».

L’asse storico

La necessità di riportare la storia nelle scuole, nella formazione di ciascuno si rende evidente in questo breve iter dello sviluppo nichilistico. Capire la discesa verso il capitalismo assoluto, le sue contraddizioni ed i suoi inganni è la priorità del nostro tempo. Il riduzionismo applicato alla formazione, alle capacità critiche, lo smantellamento della scuola pubblica sono la realizzazione del modello liberista, il quale è oltre sia della destra come della sinistra, poiché non vuole altro che autoriprodursi omologando ogni centro di resistenza e pensiero, per cui destra e sinistra terminano la loro corsa nel ventre dell’ideologia dell’azienda per non creare più nulla. L’alternativa è il sovrapporsi di tanti visi tutti con le stesse finalità, per cui l’essere coincide con il nulla. Il trionfo del nichilismo, dell’assenza del fondamento veritativo, unica vera urgenza, non può che portare al trionfo dell’omologazione nel nulla. Il nulla dei volti come delle parole si sussegue con esiti esiziali. Se nulla accade, forse la causa profonda è l’assenza di ogni fondamento veritativo, di ogni dialettica della parola. La Filosofia e la storia sono trattate con sufficienza, ma la loro assenza nella cultura di un popolo ne decreta la sudditanza a logiche che ne minacciano la sopravvivenza culturale e biologica.

Il nulla non ha limite, è uno spazio infinito in cui perdersi. Affinché possa affermarsi una vita umana degna di essere vissuta è necessario che al caos si dia un fondamento, senza il quale non vi è progetto e non vi è storia.

L’asse storico è il terreno su cui ricostruire il fondamento veritativo, e per Bontempelli è l’antidoto al nichilismo crescente. Il bivio a cui siamo è tra un futuro nella storia ed un futuro senza storia. Il tempo storico necessita di riconciliazione, di trascendere le scissioni, per sostituire all’abbaglio del disvalore di esposizione dello spettacolo – che mentre illumina il narcisismo col suo niente brucia tutto intorno a sé – il principio di realtà che guarda gli effetti del saccheggio in assenza del senso veritativo.

Vorrei concludere ricordando un breve scritto di Gramsci, Il topo e la montagna, dedicata al figlio, sulla necessità di ricostruire dinanzi agli effetti del capitalismo acquisitivo:

«Carissima Giulia, puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di piú. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore. Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano. Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma dice che non serve a nulla correre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione dei bimbi. Ti abbraccio teneramente».

Senza la storia e la filosofia gli esseri umani non vedono le ossa della terra e dunque non se ne assumono la responsabilità. La svolta può avvenire in qualsiasi momento storico, poiché la minaccia è tale che è sempre più improbabile distogliere lo sguardo. Contro la cultura dei forchettoni, l’asse storico è un antidoto imprescindibile, poiché ricostruisce la genealogia dei processi del reale, permettendo la consapevolezza della gettatezza della propria condizione, e di elaborare risposte collettive:

«C’è però un ambito di studi che è capace di rammemorare, da un punto di vista diverso da quello filosofico, possibilità antropologiche cancellate dall’attuale distruttività sociale del mercato e della tecnica. Si tratta degli studi storici. Torniamo, per capirlo, agli esempi di prima. La possibilità dell’individuo di autodeterminarsi come soggetto libero, e la sua possibilità di partecipare a una sfera di finalità pubbliche separate dalla sfera privata degli interessi particolari, sono due grandi realizzazioni della civilità borghese moderna disperse dal totalitarismo del mercato e della tecnica. Perciò, lo studio storico della progressiva dissoluzione, per effetto del progressivo estendersi del capitalismo nella vita collettiva, dell’identità sociale e culturale delle classi borghesi, trasformate in meri aggregati di agenti atomizzati della produzione capitalistica, riconducendoci all’epoca in cui le classi borghesi si identificavano ancora con valori umanistici indipendenti dal mercato e dalla tecnica, ci consente di accedere alle possibilità antropologiche di cui abbiamo parlato. La conoscenza storica, d’altra parte, in un’epoca della cultura che non ammette più alcuna gerarchia ontologica dei saperi, rappresenta l’unico possibile riferimento unitario per settori disciplinari distinti. Ad esempio, saperi di tipo diverso come la geometria di Euclide, la statica di Archimede, l’astronomia di Aristarco, la filosofia morale di Epicuro, possono trovare una collocazione concettuale unitaria nella trama culturale del mondo storico ellenistico. Si delinea, così, la possibilità di un asse culturale dell’insegnamento delle discipline scolastiche costituito dalla conoscenza storica. Un grande valore educativo della conoscenza storica è, come si è visto, quello di far accedere a modi di essere umani che sono prima comparsi e poi divenuti inoperanti nel corso del tempo, e di cui sarebbe importante tornare a disporre per contrastare la degradazione della vita sociale. Ma non si tratta solo di questo. Si è visto, infatti, come il dominio totalitario sulla società di un meccanismo economico autoreferenziale richieda il contrappeso di uno spirito critico capace di relativizzare il primato del momento economico».[9]

La formazione storico-filosofica è dunque antinichilistica, poiché trascende le scissioni che non sono solo nella forma dell’atomismo sociale, ma specialmente si esprimono nella frammentazione della temporalità, la quale risulta in tal maniera ridotta al solo attimo consumante. L’educazione storica è dunque la condizione per formare al senso al quale si giunge attraverso la lettura della scissione nella storia.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2003, pp. 7-8.

[2] I Forchettoni rossi, con testi di M. Bontempelli, M. Nobile, M. Badiale, A. Marazzi, A. Furlan, Massari editore, 2007, p. 119.

[3] Ibidem, p. 129.

[4] Ibidem, p. 131

[5] Ibidem, p. 149

[6] Ibidem, pp. 159 160

[7] IIbidem, p. 157

[8] Ibidem, p. 218

[9] Massimo Bontempelli, Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, Petite Plaisance Pistoia, 2000, pp. 12-13.


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Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà.
Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo
.

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Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia.
Un manifesto filosofico della fine del XX secolo
.

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Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana

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Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria.
La filosofia del tempo tra memoria del passato,
identità del presente e progetto del futuro.

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Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia.
Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.

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Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male.

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Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945).

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Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.

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Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero.
Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

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Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.



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Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

L'albero filosofico del Ténéré

323 ISBN

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo
in Costanzo Preve

 

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il convitato di pietraL’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.

Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.

Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.

 

convitato di pietra cop

Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo

 


 

Nel pensiero di Costanzo
che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, e…
Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi*

Parole che ci ricordano quanto forte fosse in Costanzo Preve l’esigenza di saldare il passato al futuro, di leggere il presente con gli occhi del futuro, un presente che non dimentica il passato e sa trarne insegnamenti. Il futuro che trova dunque riverberi di senso in un passato e che – transitando per il presente – sembra attendere la sua ventura rammemorazione, orientando così il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Siamo una trama di significati. La storia è soprattutto trama di significati universali. E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali e, preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro. Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”. Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione.Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” obliando che il senso profondo della cultura e della storia, anche della nostra storia, lo dobbiamo trovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.
E dunque, caro Costanzo, ad multos annos per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una sempre nuova “avventura” che occorre però desiderare (avventura, andare verso le cose future, ad ventura), impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita, proiettandola nell’altrove della buona utopia, che è negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta utopia comunitaria perseguita con itinerari da progettare insieme, non immemor aevi venturi. Ecco la sostanza della passione durevole che, a partire da Lukács, hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo, 2019

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].


Introduzione

«Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possia­mo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una».1

 

Costanzo Preve

 

Questo saggio è dedicato a Costanzo Preve
Non è stato un facitore di parole, ma un pensatore libero.

Mi sono dedicato alla lettura della sua produzione filosofica per una semplice ragione: leggendo i suoi testi ed ascoltando i suoi interventi, non poche volte ho sentito da lui pronunciare una frase, la quale è l’essenza del suo pensiero, e racchiude il telos2 del suo filosofare:

«Capire è molto più importante che appartenere».3

Per poter capire è necessario rimettere in moto con il pensiero la catena dei perché. La passione durevole per la Filosofia si struttura nella perenne domanda: “Perché?”. Si abbattono le abitudini, gli stereotipi di un sapere burocratizzato e parte del dispositivo di riproduzione sociale. Con la catena dei perché Costanzo Preve porta il lettore verso il riorientamento gestaltico. La domanda profonda è libertà nella mediazione concettuale domandante e senza di essa non vi è che l’animalizzazione dell’essere umano, il suo farsi ente ideologico negli automatismi della riproduzione sociale dei poteri e della produzione: il nostro è un mondo senza domande in cui regna la distopia dell’esattezza.

Preve ha scelto la Filosofia, non l’ideologia, la libertà, non il conformismo del “politicamente corretto”.

La disposizione alla libertà ha affinato la metodologia di indagine, per emancipare le domande dalle sovrastrutture ideologiche.

Se prevale l’appartenenza non si può filosofare: il filosofo è un cercatore peren­ne di concetti e superamenti.

Ci sono tanti modi di donarsi.

Costanzo Preve ha testimoniato la libertas philosophandi, ancora possibile, malgrado le burocrazie plutocratiche e mediatiche del sapere.

La postura periferica scelta da Preve, rispetto ai contesti strutturati delle accademie, ha consentito alla sua indagine di solidificarsi con il tempo senza chiusure. Pertanto, la sua priorità è stata: “Capire”. Ha sentito fortemente la vocazione politica e filosofica e, dato che filosofare è capire e vivere il proprio tempo, ha posto il problema del fondamento veritativo.

Trasgressivo – in un’epoca di nichilismo, nella quale la libertà è dimenticanza di sé e della propria identità umana – egli ha teorizzato l’uscita dal deserto del nichilismo, dell’alienazione, osando ricondurre la Filosofia nell’alveo della sua storia.

Contro la dispersione dei nichilismi, ha riportato in luce la verità quale fon­damento della pratica filosofica.

L’integralismo economicistico ha indotto a teorizzare il consumo dell’essere.4

Nella dipintura della Scienza Nova Vico utilizza un’immagine metaforica per rappresentare il suo progetto: il globo poggia di lato sull’altare e su di esso una donna simbolizza la metafisica. Il globo non occupa tutto lo spazio, ma lascia un ampio spazio libero, simbolo di libertà creativa.

La Storia è il campo del possibile che si coniuga con l’eterno (la luce). Nella contemporaneità la dipintura dovrebbe essere notevolmente diversa: l’economicismo potrebbe essere il globo che regge la nuova metafisica che a sua volta guida il mondo, ma che occupa tutto lo spazio dell’altare.

Nell’epoca dell’intemperanza, degli orci bucati,5 Costanzo Preve ha posto l’urgenza del problema: l’illimitato sta divorando la nostra natura umana ed il nichilismo di conseguenza va giudicato e compreso nei suoi effetti, per ipotizzare una collettiva via d’uscita dall’ospite inquietante.

In generale coloro che oggi si occupano di filosofia hanno legittimato il pensiero debole finendo in tal maniera per sclerotizzare il presente contribuendo alla sua riproduzione.

Costanzo Preve, dinanzi al bivio dóxa (opinione)/“lÉqeia (verità), ha scelto il percorso più difficile: si è assunto il rischio del nuovo e della verità.

Non si tratta di santificarne il pensiero e la testimonianza, operazione che ri­sulterebbe fortemente antifilosofica, ma di riconoscere un percorso, la cui onestà è di tutta evidenza.

Non oso propormi come esperto del pensiero di Costanzo Preve: l’abbondanza di fonti cartacee, digitali, mediatiche rende non semplice la genetica del suo pensiero.

Ho solo tentato di rintracciare – attraverso l’immagine del deserto in Nietzsche e nella Arendt – il processo genealogico di uscita dal nichilismo indicatoci da Costanzo Preve.

Nel deserto attuale, la Filosofia di Costanzo Preve è come l’Albero del Ténéré nel deserto del Niger: un punto di riferimento in quel nulla in cui tutti i grani di sabbia sembrano uguali. Per attraversarlo, per uscirne, occorre una bussola.

 

Salvatore A. Bravo

***
*

Note

1 Costanzo Preve, Torino, ottobre 2007.

2 Dal termine greco τέλος, “fine”.

3 «Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido» (C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6).

4 «Nel mondo filosofico italiano è stata dominante per almeno due decenni l’interpretazione di Heidegger data da Gianni Vattimo, un pensatore con cui sono in disaccordo radicale e nello stes­so tempo stimo come un produttore di proposte minimamente originali. Secondo Vattimo, Heidegger non avrebbe soltanto sostenuto che la lunga storia della metafisica occidentale si risolve in tecnica planetaria, ma addirittura che l’Essere si è consumato come fondamento ontologico ed è rimasto solo come prospettiva linguistica ed ermeneutica. Questo “consumo”, tuttavia, non deve essere vissuto come perdita da piangere in modo inconsolabile, ma come risorsa da valorizzare per un mondo post-metafisico. E sull’inesorabile avvento di un mondo post-metafisico da salutare come un destino e come una risorsa insieme sono d’accordo due fra i filosofi più conosciuti oggi al mondo, il tedesco Jürgen Habermas e l’americano Richard Rorty. Vorrei terminare questo terzo capitolo con una riflessione su questo punto. Io ritengo la teoria di Vattimo del cosiddetto “consumo” dell’Essere una formulazione spontanea (certamente inconsapevole e non avvertita come tale dal suo incauto formulatore) del segreto del momento storico che si sta aprendo, e cui accennerò nel prossimo capitolo. Non si tratta più del fatto, già noto agli antichi greci, che il tempo (chronos) ci consuma e ci divora e dunque ci trasforma in polvere» (ibidem, pp. 45-46).

5 «Socrate – Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?» (Platone, Gorgia, Acrobat in Internet, p. 26).

 


Indice

 

Venturi non immemor aevi
Introduzione
Il problema
Deserto e oasi
Nichilismo e macchinismo
Crescere senza nascere
La tecnoeconomia del nichilismo
Il nichilismo dello scambio interiorizzato
La categoria del possibile contro i nichilismi
L’oasi
La Filosofia come eterotopia
L’irrilevanza, paradigma del nichilismo
La megalopoli
La smart city
Intensità, estensione, automatismo
Behemoth
Il nulla nulleggia ancora
Guardare negli occhi il nichilismo/deserto
Nichilismo e riorientamento gestaltico
Misura, isonomia, isogoria, isorropia
Intermezzo
Oltre il nichilismo
Fuori dal deserto
Laico ma non ateo
Quale Rivoluzione?
La Filosofia: una difficile definizione
Conclusione
Indice dei nomi

 


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L’albero del Ténéré (in francese arbre du Ténéré),

esemplare di Acacia tortilis (Acacia a ombrello), pianta che si ergeva solitaria nel deserto del Ténéré, una regione desertica nella parte centromeridionale del Sahara, nordovest del Niger. Costituiva un punto di riferimento per le carovane di cammelli che attraversavano questo deserto, in quanto non ve n’erano altri nel raggio di alcune centinaia di chilometri tutt’intorno.

 



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Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Superstizione scientista e verità
Salvatore A. Bravo

La superstizione scientista

La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica

*
***
*

L’epoca della superstizione è il “credo” senza la mediazione del logos. Scienziati ed economisti, ma non solo, assumono la postura riduzionista, ovvero non riconoscono la pluralità dei piani della conoscenza, giudicano il fondamento veritativo flatus vocis.
La verità ama la maschera affermava Nietzsche: la conoscenza è prismatica, da ogni piano traluce un aspetto fondamentale dei possibili, ma necessita dello sguardo della mente che, per giungere alla verità, individua la contraddizione della rappresentazione fenomenica.
Nei confronti della finitudine, vera sostanza della condizione umana, si può assumere una posizione di difesa (per cui si può rimuovere il problema per assolutizzare un piano e cadere nel riduzionismo) o aprirsi alla logica della modalità, dei potenziali aspetti conoscitivi che attraversano la condizione umana e non li esauriscono.
La Filosofia è disciplina del dialogo, insegna il logos, ma non vi è logos senza il limite, per cui il logos[1] è il ponte che pone in relazione con la dialettica, per trascendere i limiti.[2] L’epoca dell’assimilazione e del nichilismo economicistico – nel suo gran rifiuto della finitudine umana – tende a fagocitare ogni opposizione. L’onnipotenza dell’economicismo scientista non vuole vincoli e limiti, per cui – come un dio onnipotente – è autoreferenziale. Il Demiurgo platonico è ancora interno alla logica del limite, la chora (Χώρα) e le idee lo limitano. Lo scientismo economicistico ha piuttosto gli attributi del dio onnipotente, mondano ed unico: ambisce ad affermare se stesso ed a ridurre a nulla ogni posizione che si pone in dialettica con esso. Il primo suo imperativo è nell’affermarsi dell’unica conoscenza degna di tale nome, ovvero, la scienza. Pertanto la metariflessione – la riflessione teoretica sulla verità come fondamento – è tacciata d’essere semplicemente vuota astrazione, priva di ogni spessore conoscitivo e veritativo:

La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentaleLa filosofia parte in fondo da questa convinzione, che la verità sia da qualche parte e che basti colo contemplarla, utilizzando le apposite tecniche, per sapere tutto di tutto e definirsi filosofo […]. Matematica e filosofia hanno in comune il fatto che tutto si svolge a livello teorico, nel senso, che non appare necessario ricorrere a qualcosa di non mentale per trarre conclusioni e decidere che certe affermazioni sono vere oppure o no.[3]

La concretezza della Filosofia

La Filosofia non cerca la verità in giri di parole, in fantasie o in elucubrazioni scisse dalla realtà fenomenica. La Filosofia, anzi, è concretezza, perché opera sulle scissioni, ne ricerca il fondamento. Filosofare è soprattutto domandare, porre problemi che solitamente non sono osservati e tematizzati, perché si percepisce la realtà in modo depotenziato, secondo i dicitur imperanti, non cogliendo in tal maniera aspetti che, pur presenti nel nostro quotidiano, non sono percepiti ed ascoltati con l’occhio della mente, e dunque non sono problematizzati. La sospensione dell’agire poietico è la condizione imprescindibile del filosofare.
La verità, dunque, non è ricercata in mondi inesistenti, ma nell’orizzonte del corpo vissuto. Se poi si ritiene che la Filosofia almanacchi sull’iperuranio, è bene rammentare che il mondo delle idee platonico è la risposta al relativismo che rischiava di erodere il fondamento comunitario della polis.
Comprendere la filosofia, per quanto ciò è possibile, poiché si è sempre principianti in questa ricerca che è un’operazione concreta. Il pensiero non si genera dalla testa degli esseri umani all’improvviso, ma all’interno dei modi di produzione e non solo. Per cui ogni corrente filosofica e scienza, se scissa dalla storia, non è comprensibile.
Storia e correnti filosofiche sono due aspetti che non si possono separare, altrimenti la Filosofia diviene incomprensibile. Essa, se vera Filosofia, è risposta a problemi comunitari ed esistenziali che emergono nel farsi della storia.
Spesso si accusa la Filosofia di vuota astrazione, in quanto si è operato un’astrazione dalla storia, e questa è una legge della comprensione che si può applicare ad ogni sapere. Il regno dell’astratto della globalizzazione coincide con il declino della comprensione profonda. Al suo posto regnano dati, risultati, giudizi asettici, “fuori del tempo e dello spazio”, e quindi non compresi. Ne è un esempio il giudizio che Boncinelli dà sulle filosofie elleniche.
L’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo sono una risposta alla fine della polis, ad un mondo divenuto globale. Dinanzi alla minaccia di un mondo divenuto liquido, il fondamento comunitario della polis sopravvive nel giardino di Epicuro, comunità di amici della filosofia e nello stoicismo nei doveri verso la comunità. Per cui l’altro non è indifferente, ma si rimodulano le relazioni, a partire dalla relazione con il proprio io ed il cosmo. L’essere umano è apertura verso un’alterità, e tale apertura passa per la porta stretta del limite, per cui nessuna indifferenza, ma partecipazione razionale. Il giudizio di Edoardo Boncinelli non è condivisibile. Forse, addirittura, proietta l’indifferenza dell’attuale regno animale dello spirito nel mondo ellenico:

Della umana felicità si occupano, invece, lo scetticismo, lo stoicismo e l’epicureismo, anche se con sfumature diverse. La summa dell’insegnamento dei Greci (e dei Latini) per sopportare la vita e magari consolarsi dei suoi colpi è racchiusa in una massima geniale: Fregatevene! Questa suprema regola di saggezza, che tanto piace ai lodatori della filosofia in generale e della filosofia antica in particolare, può essere seguita senza troppo problemi se si esercita preliminarmente un’azione di deprezzamento e svilimento dei nostri desideri e passioni: per quasi nessuna vale la pena penare. In sostanza, per non soffrire occorre non dare importanza a niente o quasi. Questa è in nuce la tanto decantata funzione consolatoria della filosofia classica, che oggi alcuni filosofi d’oggi vedono con sospetto, ma della quale si è parlato e si parla spesso, e con nostalgia.[4]

Marx e lo spettro dei comunisti

Giudicare il pensiero di Marx è impresa improba, perché il sistema marxiano è un sistema aperto, lavora su stesso, poiché risponde alle mutate condizioni storiche, per cui l’eterno è in tensione creatrice con il transeunte. Il genetista –nel suo giudizio su Marx – preoccupato dalla presenza di pericolosi nostalgici, confonde, o associa in modo automatico, il comunismo reale ed il comunismo marxiano. Parafrasando Marx potremmo dire che egli teme che in Europa si aggiri, ancora, uno spettro: lo spettro dei comunisti. Marx non ha elaborato il suo sistema filosofico su fondamenta acquose, ma ha cercato di dare una risposta al bisogno di giustizia che ha attraversato la storia: ha immaginato, teorizzato la speranza sulla concretezza storica del modo di produzione. Non solo alla scienza spetta il diritto di “entrare nelle cose”, ma anche alla filosofia. È sicuramente diverso però il modo di porsi verso l’oggetto di conoscenza. L’approccio di Marx è sistemico/olistico, coglie il fondamento che dà senso e spiega il sistema capitalistico: associa al plusvalore l’alienazione:

A quelli che considero i pregi e i difetti delle idee di Marx ho accennato sopra. E ho attribuito il fallimento pratico del comunismo reale alla mancanza di conoscenza dell’animo umano da parte di sua. Ciononostante, la prese che le teorie di Marx hanno avuto sulla gente in giro per il mondo è stata veramente eccezionale e il marxismo ha assunto spesso connotati di fede religiosa, con il Diavolo rappresentato dal Capitalismo, e oggi dal cosiddetto neocapitalismo. Le idee di Marx sono molto bene elaborate e mostrano una volontà di entrare dentro le cose, ma non sono scienza, sono filosofia, e partono da assunti arbitrari ed indimostrati. Questo è molto piaciuto, e ha galvanizzato e infervorato molto menti, incluse quelle degli intellettuali più raffinati. È stato il suo carattere, a mezza via tra una buona novella e l’utopia, a far presa sugli animi, nella prospettiva di dare luogo a un sistema ideale e portare il paradiso in terra. Al punto da affermare che “Il privato è pubblico”, uno slogan particolarmente maldestro che ha rovinato tanti rapporti. E non è ancora finita. Anche se si dice che i comunisti non esistono più, molta gente soffre di struggente nostalgia e ispira la sua condotta al sogno di risuscitare tale ideologia. La parola “rivoluzione”, che tanto piace a quei popoli che amano l’idea dei miracoli, serpeggia di continuo nella mente, se non nel linguaggio di persone che ”sanno” e “hanno la ricetta”.[5]

Sfugge in queste affermazioni quanto la privatizzazione del pubblico, delle relazioni umane, e specialmente dell’aziendalizzazione dei servizi pubblici abbiano rovinato generazioni intere, popoli e culture. Naturalmente, se si ha un approccio finanziario legato al pareggio dei conti, la privatizzazione può sembrare un’ottima soluzione. Ma se si allarga l’orizzonte di percezione razionale ed empatica non si possono non cogliere gli effetti deleteri a livello sociale ed etico. Per cui ciò che sembra concreto, la finanza, in questo caso, o il dato empirico scisso dal tutto, si rivela astratto, pericolosamente astratto.

 

Il senso come forma dell’irrazionale

Se la concretezza riconosciuta dallo scientismo riduzionista è semplice dato verificabile in modo empirico, ogni problema sul fondamento ed il senso non ha ragion d’essere, anzi è rappresentato come semplice desiderio soggettivo e come tale non condivisibile. Il senso è racchiuso nella sfera dell’individuale irrazionale:

Aristotele non parla esplicitamente del senso degli eventi, forse perché nel vocabolario dell’epoca non figurava un termine specifico per designarlo. Molti ritengono, però, ovvio che, come tutto deve avere una causa o uno scopo, così tutto deve avere anche un senso; si arrovellano a cercarlo, e disprezzano e condannano chi tale senso non si preoccupa di cercarlo, come la scienza. Ma cos’è il senso? Più o meno sappiamo tutti di che cosa si tratta e cosa ci piacerebbe riuscire a trovare, ma se si entra nel dettaglio, la cosa si complica. Distinguiamo prima di tutto il senso di un’azione, individuale o collettiva, dal senso del tutto o anche della nostra vita. Dopo aver chiarito, se questo è possibile, il fine di un’azione consapevole, a noi piace anche giustificarla, agli occhi nostri ed altrui, anche diciamo su un piano etico, sulla base della sua rispondenza a un insieme possibilmente ordinato di valori che noi consideriamo validi, se non indiscutibili. Si tratterebbe, insomma, della sensazione di essere nel giusto e di fare qualcosa che vale, per noi e nel mondo, seguendo, però, un criterio esclusivamente nostro e di fare qualcosa che vale, per noi e nel mondo, seguendo, però un criterio esclusivamente nostro, ma vagamente giustificante e valorizzante. Nulla di oggettivo, quindi, ma psicologicamente molto gradevole. Siamo qui all’apoteosi del soggettivo travestito da oggettivo e solidale.[6]

Il problema del senso – che può sembrare soggettivo, perché viviamo in un’epoca di nichilismo realizzato, un’epoca che ha paura delle idee veritative –, in verità è il problema fondamentale della vita di una comunità, e non può essere lasciato, disperso nel relativismo organolettico, ma deve essere fondato con il logos, con la parola, nel fondamento della comune umanità. Altrimenti la scienza, pur con i suoi innegabili grandiosi risultati, non potrà che minacciare l’umanità. Da alcuna scoperta scientifica si può trarre il senso, esso riposa nella responsabilità della comunità, nella condivisione della ragione, la quale non è proprietà personale, ma possibilità di ciascuno che si potenzia nella relazione comunitaria. Il fondamento è il senso, senza il quale non vi è che l’esercizio della violenza nichilistica.
L’ostilità verso ogni sapere non strettamente empirico, impedisce di riflettere sui processi conoscitivi della scienza, la quale non coglie mai direttamente il dato, ma lo media attraverso l’osservazione, la quale non è neutra, ma orientata a cogliere aspetti e non altri, in relazione ai modi di produzione, alle esigenze del mercato, alle inconsapevoli pressioni sociali. Le neuroscienze studiano dell’essere umano aspetti utilizzabili dall’economia. Per cui la scienza è interna alle maglie del potere, non ha alcuna oggettività, è la scienza degli esseri umani, e non degli dei. La scienza, astratta dalla storia, è paragonabile alla la mosca nella bottiglia di Wittgenstein: guarda il mondo attraverso il vetro, si illude d’essere libera, ma è nella caverna della storia. Il compito della filosofia è indicare alla mosca “la caverna bottiglia” e la via d’uscita: bisogna scegliere se essere esseri umani o mosche. Il pungolo nella carne (Kierkegaard) non è oggettivabile, ma c’è. Rimuovere il bisogno di verità, sostituirlo con l’esattezza dell’algoritmo, non può che condurre alla disperazione, alla rivoluzione reazionaria di massa.
La verità è un’esigenza insopprimibile. Non è un caso che Hegel abbia posto l’arte, la religione e la filosofia, nello Spirito assoluto, poiché esprimono in forme diverse, con mezzi espressivi differenti «l’eternità storica» della verità. Non vi è umanità che nella ricerca della verità.
L’integralismo riduzionista deve condurre il complesso al semplice, agisce con il rasoio, elimina le variabili per poter dominare il reale e non essere turbato dall’imprevisto, dalla variabile che – come le onde del mare – restituiscono alla calma della battigia il fragore del nuovo. Anche Freud è giudicato inutilmente macchinoso, in quanto complica anziché esemplificare:

A prima vista sembra che la psicanalisi sia nata proprio per riempire il vuoto della nostra conoscenza dell’animo umano. E Freud è sempre stato convinto di aver costruito una vera e propria teoria (del modo di procedere) dell’animo umano. Ho scritto già tanto su questo argomento che non reputo necessario ripetermi. Quello che manca in questo caso è il rigore logico e la non contraddittorietà interna, anche se a livello narrativo Freud è uno scrittore drammatico di grande statura, alcuni concetti come “sublimazione” e forse “proiezione”, appaiono molto interessanti. A parte l’ulteriore moltiplicazione degli “inquilini” del nostro corpo mente, psiche, anima, inconscio e via di scorrendo niente si è chiarito della natura e della funzionalità della nostra “psiche”. Siamo sempre alla favolistica di Platone o alla dogmaticità degli Scolastici. Meno male che nel frattempo sono nate le neuroscienze che si presentano al momento come l’unico modo di affrontare seriamente lo studio dei moti del nostro animo![7]

 

Verità ed esattezza

È bene concludere con una precisazione filosofica che può avere valore anche per la scienza di cui la filosofia è amica: la differenza tra verità ed esattezza, la prima riguarda il fondamento logicamente accertabile, mentre la seconda riguarda la misura e prevedibilità degli eventi naturali, per cui alla scienza spetta il campo dell’esattezza, mentre alla filosofia il fondamento, il bene comune, ma non come dogmatica affermazione, ma come logica e razionale dimostrazione, passaggio per passaggio, in una coralità che non può che esserle imprescindibile:

In primo luogo il concetto di verità viene prima confuso, e poi identificato, con i concetti di certezza (sperimentabile), esattezza (verificabile) e veridicità (accertabile). Il fatto che Parigi sia la capitale della Francia, che la battaglia di Waterloo sia avvenuta nel 1815, che il pianeta Giove ruoti intorno al sole, che l’acqua bolla a cento gradi centigradi ecc., non dà assolutamente luogo a proposizioni vere, ma unicamente a proposizioni certe o esatte. Il modello fisicalista galileiano ed il modello sociologico weberiano non hanno a che fare con la verità, ma unicamente con la certezza e con l’esattezza. La “verità”, qualunque essa sia (ed io non penso affatto di disporne) concerne soltanto l’unione di fatto e di valore, e riguarda esclusivamente il benecomunitario condiviso e compreso. Chi pensa che la solidarietà verso chi ha bisogno sia una semplice “opinione”, mentre l’accertamento della rotazione della luna intorno alla terra sia “vera” (e vera in quanto effettivamente dotata di procedure di accertamento condivise dalla comunità degli astronomi) deve necessariamente disprezzare la filosofia. La cosa non sarebbe neppure grave (ognuno apprezzi o disprezzi cosa vuole) se non avesse terribili conseguenze sociali, per cui ciò che più conta per la riproduzione comunitaria complessiva diventa una semplice “opinione”, mentre la verità è riservata alle pratiche di laboratorio. In secondo luogo, il concetto di verità è temuto e disprezzato non solo come “residuo metafisico premoderno” (Habermas, ecc.), ma come fattore normativo autoritario. In nome del possesso della verità, infatti, potrei sentirmi autorizzato ad imporre norme giuridiche e costumi sociali autoritari, ed infatti è stato veramente così nell’esperienza millenaria europea dopo la fine del mondo antico. Ma questa indiscutibile rilevazione storica non deve, a mio avviso, delegittimare l’idea di verità. L’acqua sporca deve essere gettata via, ma non si getta il bambino con l’acqua sporca. Ci ritornerò nei prossimi capitoli, perché qui sta ovviamente il cuore della questione. Per ora mi basti ricordare al lettore la ragione della relativa lunghezza di questo capitoletto; se Ratzinger è per la legittimazione della categoria filosofica di verità, mentre i cosiddetti “laici” sono di fatto per il fisicalismo e per il relativismo, non ho dubbi. Pur essendo un allievo critico di Spinoza, Hegel e Marx, e non un pensatore cristiano, e neppure cattolico, sto dalla parte di Ratzinger. E non mi chiamino – per favore – “ateo devoto”! [8]

 

La mia filosofia

La mia filosofia

Il pungolo nella carne

Un mondo della sola esattezza non può che essere un mondo senza politica, senza giustizia, ma del solo dominio. Solo la verità può consentire la politica al servizio della comunità, un mondo della sola esattezza è un mondo ateo, perché privo della verità, nel quale nessuno è protetto. L’esattezza scientifica e dell’economia prive del fondamento, mentre affermano risultati strabilianti, conducono il pianeta verso l’apocalisse. L’esattezza lasciata a se stessa, priva del senso, non può che condurre al Prometeo scatenato, alla vergogna prometeica, che attende la verità per essere emancipato dalla distopia della sola esattezza. Se si sposa la tesi che solo l’esattezza è legittimata ad essere, si termina per dividere la realtà tra l’esattezza millimetrica e l’irrazionale, senza comprenderla nelle sue necessità profonde, non ascoltando il bisogno di verità e speranza che rende la vita veramente umana:

Per l’intelletto che ha come mèta e come punto di vista l’esattezza il resto vale solo come sentimento, come soggettività, come istinto. Con questa bipartizione, accanto al mondo luminoso dell’intelletto, rimane solamente l’irrazionale, nel quale viene a sboccare tutto ciò che, secondo le circostanze, viene disprezzato o portato alle stelle. Intanto bisogna riconoscere che l’esattezza pura e semplice non ci appaga. E il movimento, che, nel pensare, va alla ricerca dell’autentica verità, nasce appunto da questo inappagamento. […] La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.[9]

Un’esistenza senza verità, un’esistenza della sola esattezza, un’esistenza che non si ponga il problema della verità con le sue domande, a volte senza risposte, ma che proprio per questo umanizzano, è indegna di essere vissuta, poiché l’essere umano e la comunità a cui appartiene si ritrovano ad essere oggetto di calcoli scientifici ed economici, senza essere mai protagonisti della propria vita, della propria storia. L’esattezza misura, resta nel campo della pura strumentalità, mentre la verità stabilisce i fini oggettivi senza i quali non vi è che il regno animale dello Spirito. Assurda è la contrapposizione tra verità ed esattezza. In realtà l’una necessita dell’altra, perché la vita è complessità dinamica, e l’essere umano resta un animale metafisico per il quale i mezzi sono importanti, ma per la sua vita la verità è necessaria come l’aria che respira.

Salvatore A. Bravo

 

 

[1] λόγος, dal greco λέγω [légο] raccontare, parlare.

[2] Katéchon, dal greco antico τὸ κατέχον, ciò che trattiene dal caos informe.

[3] Edoardo Boncinelli, La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale, Raffele Cortina Editore, Milano 2018, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 57.

[5] Ibidem, pag. 183.

[6] Ibidem, pag. 52.

[7] Ibidem, pag. 182.

[8] Costanzo Preve, Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo.

[9] Karl Jaspers, La mia filosofia, trad. di R. De Rosa, Einaudi, Torino 1946, pag. 26.


Costanzo Preve



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Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Coding

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Salvatore A. Bravo

La pedagogia del coding

 

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Gli oratores sono al capezzale del capitalismo assoluto: la pedagogia ed i pedagogisti sono parte essenziale della sovrastruttura che contribuisce ad eternizzare il capitale. Il pensiero computazionale è l’ultima strategia per introdurre l’intelligenza di Stato attraverso una serie di pratiche metodologiche. Si vuole orientare l’intelligenza, che notoriamente è al plurale nelle sue forme, verso un modello organico al capitalismo. Il pensiero computazionale è molto più che una procedura di analisi, esso struttura, standardizza la personalità, la quale deve procedere e muoversi nel quotidiano secondo le procedure algoritmiche. L’introduzione-imposizione è organizzata con un artificio ideologico, ovvero si afferma di voler affinare la creatività, che il pensiero computazionale è imprescindibile per rivoluzionare in senso creativo la didattica e le personalità. Naturalmente è il cavallo di Troia, con cui riaffermare le pratiche del mercato all’interno della scuola e ridimensionare, fino a rendere complementare la formazione dell’essere umano: in sua vece vi è l’addestramento al mercato. Se fosse stato autentico l’intento di sollecitare la creatività, la scuola per tradizione ha innumerevoli potenzialità già in atto in tal senso: la lettura del classici, la traduzione, il dialogo quale buona pratica, le discipline artistiche.

Pensare come una macchina
Le macchine informatiche per risolvere problemi scompongono, analizzano le varie fasi, per individuare la soluzione finale. Si tratta di problemi empirici che presuppongono un orientamento lineare. L’azione della scomposizione, astrazione, generalizzazione sostanzializzano la logica del problem solving, per cui il soggetto macchina è interno alla realtà empirica, il suo l’orizzonte deve limitarsi ad una gittata limitata, deve agire all’interno di un cono poietico. L’essere e la macchina si avvicinano, la differenza qualitativa si assottiglia in favore della differenza quantitativa sempre più limitata. La scuola, in questa prospettiva, sin dalla più tenera età deve formare non la persona, ma il programmatore, deve in tal maniera canalizzare l’intelligenza con le sue innumerevoli sfumature e potenzialità verso un modello unico: l’uomo seriale da laboratorio diviene il fine di tale operazione. In un contesto in cui arretra il pensiero metafisico-teoretico a favore degli automatismi procedurali, nel quale ogni problema etico o politico è esemplificato, qualora si ponga il problema, l’introduzione obbligatoria con la legge 107 del pensiero computazionale, assume in tale contesto una valenza regressiva. In presenza di una formazione finalizzata all’uomo ed al cittadino, allo sviluppo delle intelligenze plurali, il pensiero computazionale avrebbe un’altra valenza, ma in un contesto di scientismo, di riduzione di tutto alla sola categoria della quantità, il pensiero computazionale assume un’inquietante presenza: il fine non è il pensiero critico, il quale necessita del pensiero complesso e della metariflessione finalizzata a pensare contenuti e metodologie di indagine, ma formare individui pronti all’uso per il sistema, e che pensano secondo procedure stabilite dal sistema. Tale operazione è da mettere in pratica sin dagli anni della scuola primaria, per plasmare le menti del cittadino-suddito futuro ad immagine e somiglianza del sistema capitale. La formazione della persona necessita dello sviluppo delle capacità linguistiche-relazionali, nel caso del pensiero computazionale la lingua (inglese) è solo una strumento positivistico per raccogliere dati, selezionarli, elaborarli in vista di problemi puramente empirici. Immaginiamo un contesto di svantaggio culturale sempre più diffuso, la vera urgenza sarebbe potenziale la formazione linguistica e relazionale: pertanto non si vuole rispondere alle reali esigenze educative degli alunni, ma semplicemente si vuole imporre dall’alto un sistema scolastico che soddisfa i bisogni del mercato.

Coding: la definizione degli esperti
Jeannette Wing in un articolo del 2006, Computational Thinking, ha definito il pensiero computazionale: «È quel processo mentale che sta alla base della formulazione dei problemi e delle loro soluzioni così che le soluzioni siano rappresentate in una forma che può essere implementata in maniera efficace da un elaboratore di informazioni sia esso umano o artificiale».
Nella guida per gli insegnanti Computing At School [3, p. 6] si definisce il pensiero computazionale come un «processo cognitivo e di pensiero che coinvolge logiche e ragionamenti attraverso i quali i problemi sono risolti e gli artefatti, le procedure e i sistemi compresi». Le abilità di riflessione computazionale devono diventare la struttura della personalità, infatti: «si riferiscono a capacità di pensare e risolvere problemi in tutto il curriculum e nella vita in generale. Il pensiero computazionale può essere applicato a una vasta gamma di manufatti».

 

Il principio di prestazione
Si tratta dunque di un pensiero e di una percezione dell’empirico finalizzata alla soluzione di problemi empirici per superare ostacoli organizzativi e produttivi. Il fine educativo è la prestazione. Con il pensiero computazionale si vuole non solo inibire l’intelligenza non organica al sistema, ma specialmente esso è la precondizione per la competizione globale. Nella lotta darwiniana per il pensiero computazionale è la riserva aurea che forma all’atomismo sociale, in quanto anche quando presuppone la collaborazione, essa non è un valore in sé, non si trasforma in solidarietà, ma è la giustapposizione di individui che devono risolvere un problema in funzione di un obiettivo legato alle sole logiche della produttività: la formazione all’imprenditore si integra con il pensiero computazionale. La razionalità strumentale è il presupposto del pensiero computazionale. Naturalmente una volta che l’obiettivo è stato raggiunto il gruppo si disfa. Ci si trova dinanzi a una nuova forma di repressione disciplinare. Il capitale necessita che il suddito consumatore trovi sempre nuove strategie di vendita, produca nuovi prodotti senza mai mettere in epochè la procedura. L’attore e lo spettatore sono così speculari, immediatamente biunivoci, per cui ogni dialettica concettuale è rimossa. L’efficienza è l’obiettivo finale, se il soggetto in tale contesto sia protagonista o oggetto è un dettaglio. Il potere non usa il terrore, ma la formazione per canalizzare i soggetti verso le necessita attuali del modo della produzione:

«Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. Indagare quali sono le radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea, teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o non usa, o di cui abusa, per migliorare la condizione umana. Ma quali sono i criteri di una critica del genere?». [1]

 

Il coding come dispositivo
Il coding diviene l’introiezione della macchina informatica (Gestell/dispositivo): attraverso di essa il potere diventa biopotere, poiché il soggetto pensa come una macchina, domina le contingenze con l’ausilio di strumenti tecnologici che comprende, anche perché ragiona e procede in modo simile, l’automazione è nella carne, l’ordine da dare al mondo ha trovato un protocollo universale:

«L’Io diventa precondizionato a dominare l’azione e la produttività, anche prima che si presenti un’occasione specifica che renda necessario questo atteggiamento. Max Scheler ha rilevato che “l’impulso o la volontà di potenza, consci e inconsci, che tendono a dominare la natura, sono il primum movens” nella relazione dell’individuo moderno con l’esistenza; essi strutturalmente precedono la scienza e la tecnica moderna – un precedente “pre- e a-logico” rispetto al pensiero e all’intuizione scientifica. La natura viene esperita a priori da un organismo teso alla dominazione, e quindi intesa come passibile di dominio e controllo. E il lavoro è quindi potenza e provocazione aprioristiche nella lotta con la natura; è superamento di resistenza. In un simile atteggiamento, le immagini del mondo oggettivo appaiono come “simboli di punti di aggressione”; l’azione appare come dominio, e la realtà in sé come “resistenza”. Scheler chiama questo modo di pensare “conoscenza attrezzata per il dominio e la realizzazione” e vede in esso il modo specifico di conoscere che ha improntato lo sviluppo della civiltà moderna».[2]

La rivoluzione reazionaria del coding
Il coding ha un fine sottilmente reazionario: eternizzare il presente espellendo le procedure disfunzionali alla produzione ed al consumo. La forza del nuovo sistema formativo “coding” è nel silenzio di ogni opposizione, non si pone il problema se esso sia funzionale ai bisogni del cittadino o del mercato, poiché “in ogni parte politica” si sovrappone politica ed economia, anzi l’economicismo, il martello dell’economia, come afferma Latousche guida tutti, per cui la cittadinanza è nella sola forma del mercato, non più cittadini dello Stato, ma del mercato:

«La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata; l’accettazione generale dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte, sono altrettante testimonianze di quell’integrazione degli opposti che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo».[3]

 

Disellenizzare
Il coding è una modalità per ridurre ulteriormente la formazione ellenica, la quale invece come ben rappresentano i dialoghi platonici è al plurale: essi sono una rappresentazione spaziale del pensiero, ovvero il confronto dialogico è incontro tra prospettive teoretiche differenti su diverse tematiche. Nel dialogo il logos esplora i fondamenti dell’empirico, in questo passaggio il soggetto passa da una conoscenza oscura, in cui rischia di naufragare ad una conoscenza teoretica che lo rende attivo rispetto all’esperienza sensoriale e storica. La cultura umanistica di per sé procede già alla scomposizione, ricomposizione, astrazione e generalizzazione, ma ha il fine di capire se stessa, di autofondarsi in modo universale per favorire lo sviluppo della virtù di ciascuno. Lo scopo non è semplicemente il risultato empirico, ma la conoscenza di sé e del mondo. La riflessione collettiva su dati e procedure è pensiero critico capace di fondare modelli politici, ma anche di ritornare all’empirico rigenerati dall’esperienza del teoretico.

Seymour Papert il maggiore assertore della pedagogia del coding così descrive la finalità di tale pratica pedagogica:

«Quale è la Sua opinione sull’uso delle nuove tecnologie nella didattica?
Risposta
Quando parliamo di nuove tecnologie nella scuola è importante chiarire se si parla di una prospettiva a lungo termine – cosa succederà tra dieci o venti anni – o se si parla di cosa accadrà domani. Usiamo questa metafora: immaginiamo delle persone dell’Ottocento che abbiano viaggiato nel tempo per vedere come si fanno le cose al giorno d’oggi. Tra loro c’è un chirurgo, e immaginiamo il chirurgo dell’Ottocento in una moderna sala operatoria: egli sarebbe del tutto disorientato, non avrebbe la più pallida idea di che cosa stia succedendo, con tutti quegli strumenti elettronici che suonano. Penserebbe che il paziente è morto, non saprebbe nulla dell’anestesia. Questo è quello che io chiamo un ‘mega-cambiamento’: noi assisteremo ad un mega-cambiamento nell’educazione; e cambierà tanto quanto sono cambiati i trasporti o le telecomunicazioni. Ci inganniamo se crediamo che ci saranno solo pochi, piccoli, cambiamenti. Quali sono i grandi cambiamenti? Io penso che la scuola si fondi sul modello di una linea di produzione in cui si mettono delle conoscenze nella testa delle persone. Si comincia con la prima fase e poi si passa alla seconda fase e si distribuisce un poco di conoscenza alla volta. Si passa dalla prima alla seconda alla terza, e tutto questo è necessario perché si pensa che gli insegnanti debbano insegnare un po’ per volta. Adesso i ragazzi non hanno più bisogno di acquisire nozioni in questo modo, e con la moderna tecnologia dell’informazione possono imparare molto di più facendo, possono imparare facendo ricerca da soli, scoprendo da soli. Il ruolo dell’insegnante non è quello di fornire tutte le parti della conoscenza ma di fare da guida, di gestire le situazioni molto difficili, di stimolare il ragazzo, forse, di dare consigli. Ma questa è un’immagine della scuola del tutto diversa. Io penso che il vero problema sia come agiamo oggi avendo in mente questa prospettiva a lungo termine, perché non possiamo cambiare la scuola dall’oggi al domani, non si può realizzare un megacambiamento dall’oggi al domani; si possono solo fare piccoli cambiamenti. Ma dobbiamo smettere di pensare che questi piccoli cambiamenti facciano fare pochi progressi al sistema così come lo conosciamo. Bisogna pensare ai piccoli cambiamenti come passi verso il grande cambiamento che avverrà».[4]

Il coding è costruzionismo attivistico
Il coding è costruzionismo attivistico. Dovrebbe correggere le cattive impostazioni della scuola, in cui gli alunni sono oggetto di modalità educative che li rendono passivi. Molto probabilmente il pedagogista generalizza e non conosce i casi specifici nazionali, o giudica l’esperienza nazionale ormai superata, poiché l’attività critica è il fondamento della cultura liceale italiana, la quale non teme di confrontarsi con il coding e la sua lingua, ma il pericolo è la marginalità della tradizione classica dinanzi alla capillare pervasività delle nuove e buone pratiche della buona scuola. Dinanzi a tali pericoli è necessario vagliare le nuove disposizioni ministeriali per limitarne gli effetti e dare ad esse un equilibrato peso didattico, per cui spetterà ai docenti, ancora una volta, difendere la cittadinanza dall’intelligenza ad una dimensione e specialmente cogliere che il coding è una pratica antifilosofica, poiché essa nega la riflessione sui fondamenti ultimi, per rafforzare l’attività del problem solving il quale è una delle possibilità del pensiero, ma non la sola.

Al coding si può opporre la cultura classica
Al coding si può opporre l’eros platonico che insegna non solo la conoscenza di sé, ma specialmente l’apertura all’universale, allo spazio pubblico contro ogni chiusura acquisitiva: in un momento della nostra storia nel quale la produttività fine a se stessa è un’utopia che si è ribaltata in distopia minacciando la vita del pianeta, necessitiamo della cultura classica e non solo, per pensare e rigenerare il mondo, per modificare paradigmi e visioni ormai obsolete.
La cultura classica disseminata può ancora parlarci del nostro futuro, poiché è portatrice di verità eterne.

Salvatore A. Bravo

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[1] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1955, pag. 42.

[2] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1955, pag. 22.

[3] Ibidem, pag. 43.

[4] Fonte: http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=259&tab=bio

 

 

 


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