Salvatore Bravo – Globalizzazione / glebalizzazione

Riccardo Staglianò
Salvatore Bravo

Globalizzazione / glebalizzazione

La globalizzazione pone quesiti imprescindibili sul futuro dell’umanità e di ciascuno. È necessario filtrare i messaggi che disorientano per “riflettere sulla durezza del problema”. I trombettieri della globalizzazione rappresentano l’interconnessione planetaria come una destino a cui non ci si può sottrarre. L’operazione ideologica si ripete secondo parametri operativi sempre uguali: si osannano le potenzialità del mercato globale, le tecnologie, si sciorinano numeri e nel contempo si occultano la verità e le tragedie etiche di cui è portatrice. Non sono “convenzionali tragedie della storia umana”, ma ci si trova dinanzi a processi tendenzialmente irreversibili che, nel loro incedere graduale, rischiano concretamente di minacciare ogni forma di vita e civiltà.

Si assiste ad una mutazione antropologica definita “rivoluzione”, ma in realtà si tratta di una regressione. Il termine rivoluzione ha un’accezione positiva. Si scorgono, invece, nel present,e i primi segni della barbarie che verrà. Il lavoro e la sua scomparsa a causa della robotizzazione crescente ed incontenibile è parte della regressione umana che si configura. Il lavoro non è una maledizione biblica, può esserlo in particolari condizioni materiali ed ambientali, ma il lavoro è parte sostanziale dei processi attraverso cui la persona ed intere classi sociali divengono consapevoli della propria condizione, e assumono il compito della lotta e dell’emancipazione per sé e per l’umanità. Senza il lavoro condiviso e simbolizzato non vi è che la tragedia dell’atomismo. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, descrive la figura “servo-padrone”: il servo, attraverso il lavoro, impara a trasformare la natura, educa il proprio carattere e specialmente impara che non necessita del padrone, che la forza del padrone è la sua paura. Il lavoratore scopre di essere il motore della storia e che il signore dipende dal servo. Senza il lavoro non vi è coscienza di sé, delle proprie capacità, e non vi è, specialmente senso sociale. Il lavoro è ricchezza: non solo perché permette la sopravvivenza, ma perché forgia il soggetto, gli dà il carattere senza il quale non sarebbe che un fuscello al traino delle tempeste della storia. In Marx il lavoro non scompare, e nel comunismo è sostituito dalla libera espressione di sé, la quale è la forma più nobile di lavoro a cui giungere. L’estinzione del lavoro nella contemporaneità non è causato solo dal plusvalore aumentato in modo esponenziale, per pochissimi, con la sostituzione degli esseri umani con la robotica, al punto che Andrea Tagliapietra ha definito la globalizzazione “glebalizzazione”. La scomparsa del lavoro inquieta, poiché ha il fine di devitalizzare i popoli, di ridurli a plebi, a consumatori senza diritti. Senza il lavoro comune non vi è politica, perché essa ha la sua genealogia nella condivisione di esperienze che permettono di rimappare i significati, di assumere una postura critica e di formulare una visione del mondo (Weltanschauung). Senza di essa non vi è possibilità di resistere, ogni dialettica della storia lascia il posto ad una massiccia glebalizzazione dell’umanità. Il cittadino è sostituito dal mendicante del consumo. Le responsabilità sono plurime: spesso sono le vittime che aiutano i carnefici, in assenza di strumenti culturali per poter decodificare il presente. Il lavoro scompare poiché i clienti scelgono i prodotti meno costosi delle multinazionali, dietro le quali vi è robotizzazione e precarietà. Il martello dell’economia batte, è trasversale, impedisce di comprendere che ogni atto è un gesto politico, un semplice acquisto è un gesto che favorisce la proletarizzazione delle classi medie e rafforza il regno delle multinazionali che mentre offrono i loro prodotti a consumatori sempre più precari annichilisce il lavoro dei tanti e le loro coscienze:

 

«Come mi ha spiegato Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale fortunatamente ridisceso sulla terra, nella penombra del suo studio che è un monumento vivente al concetto di entropia: “Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore”. Per tutti questi motivi, a una generazione dalla nascita della New Economy, ho pensato che era il caso di fare un viaggio, il più laico possibile, nel lato oscuro della Forza. Non per provare a fermarla, che è impossibile e neppure auspicabile. Ma per disattivare il pilota automatico e reclamare il posto del conducente. Perché web e robot ci tolgono la terra sotto i piedi, ma non sono eventi naturali imprevedibili come i terremoti. Solo se continueremo a comportarci come se il progresso che portano sia indiscutibile, ineluttabile e ingovernabile finiremo sotto le macerie. Io, che rimango sostanzialmente entusiasta, sono convinto che possiamo ancora evitare che vada così».[1]

 

Economia “smart”

La velocità e l’efficienza degli acquisti online consente alle multinazionali di presentarsi come “smart”. Il consumatore dinanzi alla velocità ed alla possibilità di un’agile restituzione intravede negli acquisti online un servizio insostituibile che gli garantisce la soddisfazione dei suoi desideri quotidiani in modo veloce, senza il fastidio di recarsi in negozio, di dover attendere, semplicemente con un clic può soddisfare se stesso e sentirsi per un attimo onnipotente: le frustrazioni quotidiane, la malinconia di vivere per un attimo trova il suo balsamo. Il clic è un farmaco[2] nel senso etimologico della parola, il clic ripetuto trasforma “la cura in veleno”, poiché distrugge il tessuto economico della classe media a cui appartiene, per cui la gioia immediata di clic in clic diventerà la sua disgrazia, gli sottrarrà il suo lavoro facendone un precario sempre sulla soglia della miseria. La New economy non è compresa, non è conosciuta, e non è un caso. Nelle scuole si insegna l’uso delle tecnologie, ma non il contesto economico e di potere del loro uso ed i suoi effetti. Non si sollevano dubbi, si hanno solo certezze, il futuro sarà digitale, per cui non resta che adattarsi. Si cela la verità, “l’apparir del vero”. L’avanzare celere della nuova economia non trova resistenza, e specialmente non incontra che un’umanità abituata a ragionare secondo l’immediato. L’immaginazione creativa è sepolta tra clic ed il martello dell’economia. La politica in generale non accoglie l’urgenza del problema, non risponde ai popoli, ma semplicemente si appiattisce agli ordini delle multinazionali che finanziano le campagne elettorali:

 

«La New Economy, ormai è ufficiale, non l’abbiamo capita. Me ne rendo conto adesso, con circa venti anni di ritardo. O meglio, ci siamo entusiasmati di fronte ai suoi vantaggi (chiunque avesse una buona idea poteva diventare ricco, con trascurabili investimenti iniziali) e abbiamo trascurato gli svantaggi collegati alle dinamiche delle tante compagnie internettiane, da Netscape ad Amazon, che fecero spettacolari quotazioni in Borsa a partire dalla metà degli anni ’90. Eravamo tutti troppo presi a favoleggiare intorno alle stock option delle segretarie di Yahoo! che le avrebbero presto trasformate in milionarie in dollari per fermarci a ragionare intorno a un fastidioso effetto collaterale di quella fenomenale e sin troppo rapida creazione di ricchezza. L’effetto collaterale, la caratteristica essenziale di cui parlo, è che tutti quei soldi venivano generati grazie a una minima porzione di lavoratori rispetto al passato. Quando il 9 agosto 1995 Netscape si quota e viene valutata 2,9 miliardi di dollari ha una trentina di dipendenti. In Italia, dove gli eccessi sono stati molto minori che negli Stati Uniti, quando Tiscali si quota nell’ottobre del ’99 arriva a essere valutata 35 mila miliardi di lire, ovvero quasi quanto Fiat. Che però dava lavoro a oltre 221 mila persone, ovvero 63 volte tanto il service provider sardo. Per non dire che la prima aveva creato quella ricchezza in cento anni, mentre la seconda in uno. Si capiva che c’era qualcosa di anomalo, ma quasi nessuno segnalò il cambiamento di più vasta gittata. Ossia: nella Vecchia Economia i lavoratori erano consumatori e i consumatori erano lavoratori. Se aumentava il salario dei primi, i secondi spendevano di piú e qualche altro lavoratore doveva produrre di piú per saziare i nuovi acquirenti. E cosí via. A quell’epoca gli uomini, un discreto numero di loro, erano ancora necessari per produrre ricchezza. Nella Nuova Economia no, perché i siti e le piattaforme che la incarnano si prestano benissimo a essere scalabili, ovvero a servire un pubblico dieci, cento, mille volte più ampio solo aggiungendo dieci, cento, mille computer in più. Chi ha memoria ricorderà cosa successe allora. Lo sboom del marzo 2000 fece pulizia di tante illusioni, nella maniera più cruenta possibile».[3]

 

La salivazione per gli acquisti

L’impero della globalizzazione ha la sua forza nella fragilità dialettica dei servi. A tale debolezza si è giunti dopo decenni di smantellamento dei corpi medi della democrazia: partiti, sindacati, associazioni nei quali l’incontro era il fondamento per capire e progettare azioni di lotta. Ai corpi medi non si è sostituito nulla, il vuoto ha permesso l’avanzata del nichilismo nella forma degli ipermercati, dove si impara a condividere la “salivazione” per gli acquisti ed a sostituire il concetto, la parola che unisce con l’esame merceologico. Solo in questa cornice è possibile occultare dati anche palesi, ed il più evidente è che la globalizzazione erode mestieri e professioni per sostituirli con il nulla, con la disoccupazione perenne e senza speranza:

 

«Lo studio si intitola The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerisation?, è datato 17 settembre 2013 e lo firmano Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne. I due ricercatori analizzano il mercato statunitense del lavoro e lo suddividono in 702 diverse occupazioni. Poi valutano la probabilità che, entro il ventennio successivo, un determinato mestiere venga rimpiazzato da una macchina. Il risultato è spaventoso: il 47 per cento dei mestieri analizzati ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione da parte di robot o algoritmi. Tra i sostituibili figurano la maggior parte degli addetti ai trasporti e alla logistica, i lavori d’ufficio e amministrativi di basso rango nonché quelli nelle linee di produzione dell’industria. Quelli piú a rischio di tutti sarebbero gli addetti al telemarketing, assicuratori, riparatori di orologi e preparatori di dichiarazioni dei redditi».[4]

Impossibile competizione

Non è secondaria la mortificazione con cui la globalizzazione infetta i popoli: il servo deve competere con algoritmi e macchine, deve constatare la sua nullità, ogni giorno deve verificare che essere ”umani” è uno svantaggio, perché le macchine possono ciò che per ciascuna persona è possibile solo nelle fantasie di onnipotenza senza freno. Il nuovo servo introietta che ogni competizione con la macchina non può che scoprirlo vulnerabile e perennemente sconfitto, per cui è facile rassegnarsi alla condizione di servi:

 

«Avvistamenti non dissimili sono stati fatti in altre fabbriche americane, comprese quelle della Honda, della General Motors, della Nissan o della Toyota in cui a molti robot sono stati dati nomi di animali. E non è un vezzo solo statunitense. Nello stabilimento Nissan di Kyushu, nel sud del Giappone, i grossi robot che saldano e assemblano sono stati chiamati come personaggi di anime. Minsoo Kang, un professore di lettere all’università del Missouri a St Louis, ha scritto un libro dal titolo Sublime Dreams of Living Machines e si è interrogato sul perché di questa tendenza umanizzante. Dice: “Non diamo un nome alle forbici, ma quando cominciano a fare azioni da umani, lo facciamo”. Da una parte c’è il rispetto, dall’altra la paura. “Nel profondo questi lavoratori sono impauriti. Se le macchine non sono controllate, potrebbero risultare estremamente pericolose”. Già dar loro un nome le fa sentire meno aliene. Per quanto riguarda le scelte di Rethink Robotics, Baxter era il termine inglese arcaico per indicare una fornaia mentre Sawyer era il nome desueto di colui che tagliava il legno».[5]

 

La quotidiana mortificazione, l’impossibile competizione è sostenuta dalla propaganda del capitale che magnifica la sostituzione umana nel lavoro come un traguardo finalizzato a rendere le vite di tutti “più umane”, meno faticose e noiose. Si utilizza il linguaggio marxiano della liberazione dalla fatica, in realtà si punta ad indebolire le capacità critiche ed organizzative. Vi sono umanoidi che già collaborano nelle redazioni, erodono il lavoro dei giornalisti, l’utile immediato rischia di essere pagato a caro prezzo in futuro, in assenza di norme che limitiamo “le collaborazioni umanoidi”. L’evoluzione degli umanoidi potrebbe in futuro sostituire i giornalisti, i docenti, i traduttori ecc. in questo modo il potere globale si libererà delle idee e della coscienza umana sostituendole con docili umanoidi. È indispensabile conservare la visione olistica degli eventi, vedere con gli occhi della mente ciò che potrebbe accadere in futuro per potersi opporre in modo costruttivo “al mondo nuovo che avanza” con i suoi dispositivi di controllo e sostituzione delle coscienze:

 

«Prima di congedarsi Hammond insiste sul punto che gli sembra dirimente: “Mettiamo che un giornale abbia un corrispondente dalla Germania che, come tutti gli esseri umani, non può leggere ogni giornale locale e coprire tutto. Mettiamo adesso che gli affianchiamo Quill che legge anche i giornali online di quartiere e riassume, secondo le regole che gli abbiamo dato, le storie piú interessanti perché statisticamente anomale. A quel punto il corrispondente potrà prendere il testimone e magari fare uno scoop di cui altrimenti non si sarebbe nemmeno accorto. Questo è il nostro scopo: liberare i giornalisti dalle occupazioni banali per consentire loro di dedicarsi a quelle piú creative. Piú in generale la nostra ambizione sarebbe quella di far sí che gli esseri umani possano risparmiare tempo per reinvestirlo nelle relazioni, in ciò che li rende davvero umani”. È un programma elettorale che non fa una piega. Liberare gli uomini dalla catene della noia e della ripetizione. Solo un folle potrebbe dirsi contrario. Eppure, come tanti progetti utopici, il rischio di virare in distopia va tenuto in considerazione. Perché, come l’apprendista stregone disneyano, una volta che abbiamo aperto le porte della redazione allo scrivente automatico quello non si ferma piú. Inizia con le brevi, e a forza di scriverle, le scrive sempre meglio. A quel punto, con un po’ di aggiustamenti dei parametri, l’algoritmo diventerà bravo anche nel mettere insieme articoli veri e propri. E poi ancora, istruendolo su come allargare il tiro e migliorare lo stile, sarà la volta degli editoriali. Magari mi preoccupo anzitempo, ma non posso fare a meno di pensare al celeberrimo sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”».[6]

 

 

La parte e il tutto

Per difendere l’umano e l’umanesimo necessitiamo di immaginazione collettiva, della capacità di non lasciarsi ammaliare dall’immediato per poter prevedere possibili scenari futuri e prevenirli. Spetta a chiunque mettere in campo idee e progettualità senza le quali ogni possibilità di curvare le conoscenze al servizio degli esseri umani è persa. Perché tale obiettivo possa essere raggiunto si deve rimettere al centro la politica ed i corpi medi e specialmente un’istruzione che formi alla consapevolezza dei pericoli insiti nel mondo che verrà. Non è un destino che gli esiti esiziali si concretizzino, la responsabilità decisionale è ancora dei popoli e delle classi dirigenti. Il fascino degli algoritmi sta lasciando il posto alla verità della precarietà, della disoccupazione, del nichilismo senza speranza. La verità ha il potere di liberarci dal pericolo, anzi più grande è il pericolo maggiore è la possibilità di divergere da esso: “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin). Il senso del pericolo deve indurci a pensare, a riattivare le nostre energie politiche: ciascuno può dare il proprio contributo e favorire la rinascita contro la barbarie che avanza. Affinché vi possa essere il progetto alternativo è indispensabile il riorientamento gestaltico su due punti: l’economicismo e la rivoluzione passiva. L’economicismo, il nuovo integralismo totalitarismo dell’Occidente, dev’essere abbandonato per integrare l’economia all’interno di una cornice epistemica ed ideologica, in cui è posta al servizio della politica. Alla rivoluzione passiva bisogna sostituire la partecipazione attiva e reale. La rivoluzione passiva oggi è nella forma della partecipazione mediatica, nella perenne dipendenza dell’apparire rappresentata come “rivoluzionaria”, perché espressione del progresso tecnologico, del dominio dell’individuo, della parte sul tutto. La rivoluzione autentica deve saper discernere le tecnologie dalla consapevolezza delle logiche strutturali e sovrastrutturali di cui è organica. Il riorientamento gestaltico non può che avvenire in modo comunitario, per comunitario si intende ogni luogo nel quale la parola è veicolo di significato critico e non di manipolazione conservatrice. Il tutto viene prima della parte, e la parte ha il suo senso nel tutto. La politica è la consapevolezza di questa relazione che si radica nella storia. I classici ci sono di ausilio. Possono indicarci da dove iniziare, e il punto primo è che nessuno si salva da solo, perché siamo all’interno di un intero che attende risposte, senza le quali rischiamo di scivolare in una furiosa barbarie:

 

«Invero la città secondo l’ordine naturale viene prima della famiglia e di ciascuno di noi. Perché necessariamente l’intero viene prima della parte: in effetti, tolto l’intero, non vi sarà più né piede né mano, se non per omonimia, come nel caso in cui ci si riferisca a una mano di pietra – sarà infatti in una tale situazione quando sarà morta; tutte le cose sono definite dalla funzione e dalla capacità, sicché non bisogna dire che sono le stesse, quando non sono più tali, ma solo che hanno lo stesso nome. È chiaro dunque che la città è per natura e viene prima di ciascun individuo; se infatti un individuo, isolato, non è autosufficiente, sarà rispetto all’intero nella stessa relazione delle altre parti; e allora chi non è in grado di far parte di una comunità o in virtù della sua autosufficienza non manca di nulla, non è parte di una città, e quindi è o una belva o un dio».[7]

Se il cittadino si auto-percepisce solo come consumatore non si integra con la totalità, la conseguenza è l’impossibilità della politica e della comunità. Politica e filosofia hanno il compito di rifondare la relazione tra la parte ed il tutto, quale verità fondativa da cui riprendere il cammino interrotto. Alla trasmissione di dati e calcoli senza fondamento bisogna sostituire la comunicazione mediante la quale non solo i dati divengono oggetto della lettura collettiva, ma specialmente la comunicazione[8] implica la messa in comune della dialettica della progettualità, in assenza di questo, il potere non trova limite alcuno, ma prolifera e si installa nell’anomia generale. Ci si deve riappropriare della pratica della comunicazione e smascherare le forme orwelliane della stessa, senza tale operazione dialettica ci si consegna ad un mondo senza storia, regno degli algoritmi.

 

Salvatore Bravo

[1] Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Cosí web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, pag. 9

[2] Farmaco dal greco phármakon, ‘medicamento’ o ‘veleno’.

[3] Riccardo Staglianò, Al posto tuo…, op. cit., pag. 50.

[4] Ibidem pag. 55

[5] Ibidem pag. 66

[6] Ibidem pp. 81 82

[7] Aristotele, La Politica, l’Erma di Bretschneider, Roma 2011, p. 147.

[8] Comunicare dal latino: communicare, mettere in comune, derivato di commune

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Tutti promossi
Salvatore Bravo

Tutti promossi.

Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti. Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.
La didattica smart non insegna a pensare,
ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.


La pubblica istruzione sta vivendo e consumando, sotto lo sguardo di ciascuno di noi, il suo stato di eccezione. La bozza del decreto sul corrente anno scolastico conferma quanto la ridda delle voci ministeriali e non aveva anticipato: tutti promossi. Ad uno sguardo superficiale tale provvedimento sembra inevitabile; in realtà lo è, se ci si colloca, come sta avvenendo, nell’ottica del pensiero unico. Non vi sono discussioni, dialoghi in cui le posizioni alternative si confrontano con la forza e con la debolezza logica di ciascuna proposta, ma vi è solo il chiasso del pensiero unico. Deleuze, in Che cos’è la filosofia, afferma che i dialoghi platonici sono una rappresentazione spaziale delle posizioni che si possono assumere su un dato problema. La realtà non è un dato di fatto, ma si costruisce mediante la capacità di ciascuna prospettiva di far emergere, come direbbe Hegel, un lato del problema. Nulla di questo accade nello stato di eccezione in cui siamo, dove si susseguono interviste e dichiarazioni, ma stranamente tutti concordano sulle posizioni ministeriali: la democrazia non è questione di “quantità vocali”, ma di “qualità verbale”. La pletora di voci è una abile manovra per la rappresentazione scenica della democrazia! In realtà le voci che si susseguono non sono che cloni della matrice unica ministeriale. Tutti devono essere promossi, nessuna bocciatura: nessuno si scandalizza, poiché lo stato di eccezione porta a compimento “il progetto pedagogico” che ha delegittimato in questi decenni la scuola pubblica. Essa ha perso la sua finalità formativa per essere un diplomificio finalizzato all’inclusione illusoria. I titoli elargiti con generosità hanno il fine di includere le nuove generazioni in logiche competitive e mercantilistiche e pertanto la scuola promuove ed accoglie per poter inserire nel mercato lavorativo generazioni di semianalfabeti facilmente manipolabili e, specialmente a “scuola”, si impara il pensiero unico della competizione senza qualità. Non a caso le competenze, il saper fare e vendere le proprie competenze è l’obiettivo primario, per cui: che ciascuno impari il minimo richiesto dal mercato! Questo è l’obiettivo facilmente raggiungibile che ci si propone. I contenuti su cui la scuola pubblica svolgeva la selezione sono stati ridotti ad elementi secondari, devono essere minimi; i contenuti sono giudicati dai pedagogisti di regime un doloroso fardello da schiacciare su minimi livelli, ma in realtà sono il nutrimento per ogni emancipazione. Si temono i contenuti, perché con essi si impara l’arte della concettualizzazione che sospende la produzione, ma rende la vita una vita umana. La scuola, attraverso i contenuti pensati e concettualizzati, dovrebbe insegnare a pensare il mondo diversamente; così la scuola diviene non il motore di conferma del potere, ma l’istituzione che pensa il potere e l’economia per riformarle. Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti e delle differenze per dichiarare pubblicamente che la bocciatura è inutile, poiché i contenuti minimi possono essere recuperati con la didattica veloce, la didattica smart che non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

La scuola deve formare alla competizione ed all’individualismo: non a caso vi è il PCTO, l’educazione all’imprenditorialità ed al coding esaltati e pubblicizzati dall’azienda scuola, la quale deve stare sul mercato dell’offerta formativa. Non dimentichiamoci del numero notevole di certificazioni linguistiche ed informatiche, organiche a tali obiettivi, che interrompono il processo di formazione. I contenuti sono delegittimati, e lo è ancor più l’attività di studio degli studenti, che resistono con i loro professori e presidi all’eliminazione del sapere-concetto per essere sostituito dalle logiche del fare per vendere. Il pensare è pericoloso per qualsiasi sistema; oggi l’immissione massiccia delle tecnologie ed il mercato globale favoriscono la sostituzione del pensare con il semplice saper fare: vendersi e godere illimitatamente. Pensare deriva da un verbo latino (pendo/penso) che significa “soppesare”, perché chi pensa coglie il valore delle parole, guarda e sperimenta processi dialettici, soppesa il valore qualitativo delle posizioni politiche e delle ideologie, le corrobora, come direbbe Popper. Nulla di questo deve più avvenire: tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.

 

DAD

Se tutti devono essere promossi, qual è la funzione dei docenti che con improvvisate piattaforme cercano di trasmettere contenuti e di rendere viva la scuola? Forse dinanzi all’opinione pubblica educata solo alla quantità, si vuole giustificare lo stipendio dei docenti e nel contempo si usano i docenti come intrattenitori di una generazione stimolata dal mercato al perenne consumo ed ora costretta a stare a casa. Dovremmo chiederci quale messaggio arriva a quegli alunni che si sono impegnati fino a marzo, con due terzi della scuola effettuata, e che adesso si trovano ad essere eguagliati a coloro che in sei mesi nulla hanno fatto. Si pensi al senso di impotenza e di derisione che interiorizzano i discenti che si sono impegnati lungamente, malgrado le innumerevoli interruzioni dell’attività didattica causa “offerta formativa”. Il re è nudo … si comunica la verità, ovvero che lo studio, la ricerca, il merito sono valori in caduta verticale nella nostra nazione (non a caso le carriere accademiche si costruiscono con concorsi opinabili al punto che i nostri ricercatori sono migranti del sapere alla ricerca della loro Itaca); li si lascia andar via, perché il sistema non vuole cambiare, non vuole mettere in pratica processi dialettici di trasformazione profonda. Il merito è solo propaganda, non a caso tutti promossi… e, se ci si è impegnati, ci si deve accontentare e sperare di un voticino in più con cui giustificare il merito. La promozione oggi totale, da decenni generalizzata, rivela un’altra verità: che il lavoro non è distribuito secondo logiche meritocratiche, ma di censo. E’ il denaro a decidere la conferma o la promozione sociale, non la scuola con i suoi titoli e certificazioni. Essa è un diplomificio di illusioni, se non si ha denaro da spendere in corsi qualificanti. In tutto questo si dovrebbe effettuare un’epochè dei pregiudizi sui docenti, e ci si dovrebbe immedesimare in loro: Essi svolgono lo stesso lavoro di Sisifo, con la DAD si sforzano di dare dignità ai contenuti per non giungere a nulla e specialmente arriva il messaggio che i loro sforzi per inseguire gli alunni sono nulli … tanto saranno tutti promossi. Immaginatevi un ragazzino un po’ immaturo: in questo modo si rafforzano in lui il senso di onnipotenza, il disprezzo per l’impegno, la cultura e per i suoi colleghi studiosi. Ancora una volta prevale la logica del condono, per cui i cittadini con senso civico sono messi tacitamente alla berlina. Ma si immagini anche il disincanto degli alunni che hanno sempre svolto il loro dovere con motivazione.

 

Non vi è altra soluzione?

Il buon governo dev’essere capace di essere impopolare, invece si inseguono la calma sociale e l’elettorato con provvedimenti demagogici. Si potrebbero valutare gli alunni sui voti ottenuti fino a marzo, in modo da salvaguardare il merito. Si potrebbe rispondere in questo modo allo stato di eccezione di questi giorni, si può ipotizzare che tale provvedimento potrebbe essere attaccabile, poiché l’anno scolastico non è terminato e non ci sono stati i tempi per il recupere, ma affermare la validità dell’anno, qualora non si rientri, non è egualmente attaccabile a livello giuridico? Si dovrebbe comunicare, per una volta, che i recuperi veloci fatti a fine anno per evitare bocciature e ricorsi sono una vergogna nazionale, ed è ora di cambiare rotta. Tutti i giorni del tempo scuola sono importanti, non solo gli ultimi che consentono recuperi fragili, perché le strutture concettuali si formano con la sedimentazione qualitativa nel tempo. La maturità digitale, qualora si concretizzi l’ipotesi peggiore, con un unico orale – c’è da chiedersi – garantisce l’imparzialità della valutazione, dato che l’alunno dovrebbe collegarsi probabilmente da casa sua? I crediti potrebbero essere utilizzati, in alternativa, come elemento oggettivo, oltre alle valutazioni registrate fino a marzo, per garantire reali differenze tra gli alunni ed i meriti?

Le dichiarazioni continuano a susseguirsi, non vi sono state reazioni dei sindacati, dei partiti di opposizione, dei docenti. Tutto avviene fatalmente. Il silenzio apparente che segue alle innumerevoli indiscrezioni e dichiarazioni rafforza la posizione del ministero e la debolezza del settore pubblico soverchiato da logiche palesi che nessuno denuncia. Ancora una volta il sentimento che prevale è la pubblica mortificazione di coloro che credono e si impegnano. L’effetto lo sconteremo nei prossimi anni con un abbassamento ulteriore della qualità della nostra istruzione, come denunciano i risultati delle prove INVALSI. Si sta verificando una effettiva descolarizzazione della nostra nazione e tale descolarizzazione non è sostituita da nulla a livello comunitario, ma solo dalla legge del più forte che coincide con la legge del denaro. E’ il momento di sollevare dubbi e chiedersi che tipo di comunità umana stiamo costruendo, visto che le scelte di oggi producono effetti già nel presente e pertanto si protrarranno nel futuro. L’avvenire delle nostre scuole è intrecciato con il futuro di tutta la comunità umana. Non possiamo in un momento critico delegare il futuro a nessuno: se tale messaggio passa, ancora una volta abdichiamo alle nostre responsabilità in nome di un dirigismo che mai nella nostra storia è stato garante di democrazia, ma ha sostituito il diritto con il privilegio, il dialogo con le gerarchie.

 

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Didattica a distanza

Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

Pensare la didattica alternativa e non subirla

 

In questi giorni concitati, in cui il coronavirus è diventato il protagonista, si alternano gli appelli alle cifre epidemiologiche in una sorta di ciclo ermeneutico che non spiega nulla. Ci si limita ai dati, ma si celano le verità che tale morbo sta evidenziando: le patologie istituzionali causate dai tagli indiscriminati alla spesa pubblica, e l’aggressione perenne da destra come da sinistra ai diritti sociali. Si ha così la chiara rappresentazione di una nazione che ha sostituito i diritti con i privilegi.
Vi è un aspetto poco discusso e ancora in ombra (non vi è pubblica riflessione anche da parte degli addetti ai lavori, professori e dirigenti): la didattica alternativa. La didattica a distanza con le piattaforme e le lezioni da svolgere anche dallo smartphone meriterebbero una debita riflessione. La scuola azienda ha insegnato agli alunni la dipendenza senza autonomia e responsabilità personale: è un dato acclarato che tutti possono verificare. Si pensi al concetto di inclusione che abilmente sostituisce quello di emancipazione. La scuola deve includere per formare individui, deve spingere al massimo l’individualizzazione della didattica per preparare il consumatore a percepirsi come depositario dei soli diritti civili, a cui si è aggiunto il diritto al consumo senza limiti. In tali circostanze serpeggia il timore che la distanza dalla scuola possa portare gli alunni a sviluppare l’autonomia nello studio e nel pensiero che tanto viene acclamata. Ma, di fatto, non la si persegue, anzi il concetto di autonomia è ammesso all’interno di spazi definiti, di scelte programmate dall’alto, scaltramente epurate dalle deliberazioni non funzionali al sistema mercato: si pensi all’orientamento preceduto da campagne informative che favoriscono l’olocausto personale, ovvero non conoscere se stessi, ma adeguarsi liberamente al mercato.

 

L’autonomia come problema
In tale contesto la didattica a distanza è un ottimo espediente per necrotizzare lo sviluppo di percorsi autonomi nello studio e la responsabilità sociale ed individuale. Le piattaforme e le videolezioni hanno l’obiettivo di raggiungere lo studente, la longa manus dell’istituzione. In realtà, non vuole la crescita responsabile dell’alunno e teme che la dipendenza mascherata da autonomia possa in taluni inclinarsi e che vi possa essere una fessurazione nel sistema delle dipendenze. L’alunno in questi giorni, sottratto all’incubo delle competenze, alla stimolazione perpetua dei progetti e delle certificazioni, può, se vuole, vivere un’esperienza inedita e kairologica,[1] che potrebbe segnare la sua rinascita: il tempo emancipato dall’attivismo e dal tecnicismo didattico potrebbe far emergere l’esperienza inaudita e trasgressiva del pensiero autonomo e indurre alla creazione concettuale. Lo sforzo personale tanto combattuto dai pedagogisti ha formato personalità incapaci di affrontare situazioni difficili che si vivono nel tempo personale e collettivo. Il pensiero dovrebbe riemergere dall’inverno del didatticismo, che insegna il fare senza il pensare. Affinché ciò sia possibile è necessario che il tempo sia vuoto in modo fecondo, cioè che ci si possa sottrarre alle logiche della stimolazione perpetua e soffocante per ritrovarsi con i testi, con i manuali e con le parole. Imparare a pensare il mondo ed il proprio tempo dovrebbe essere il fine della scuola e di ogni formazione, ciò è possibile all’interno di una didattica consapevole delle possibilità e dei limiti dei mezzi che utilizza, e specialmente, solo all’interno della consapevolezza dei fini è possibile far luce sui mezzi e sui rischi ad essi connessi. La didattica a distanza reca con sé non solo logiche già vissute nell’istituzione, ma specialmente il sospetto che la mediocre competizione tra “docenti” ed “aziende scuole” possa riprodursi anche in tale contesto. In questi decenni l’autonomia che la scuola doveva sviluppare era in realtà capacità imprenditoriale e individualismo. Il timore che gli alunni a casa possano far crescere l’autonomia concettuale e possano sottrarsi alle logiche solite forse è la verità nascosta della didattica a distanza.

 

Successo formativo?
In questi anni di successo formativo quasi assoluto con promozioni e voti notevolmente alti, se tali valutazioni fossero veritiere si dovrebbe pensare che gli alunni a casa continuino spontaneamente a studiare. Invece, il re è nudo, la didattica a distanza, in tale momento, svela il timore che gli alunni – abituati alla dipendenza ed alla promozione agevolata – possano in tempo breve “perdere” i radi contenuti acquisiti. La guerra contro i contenuti è stata una delle costanti di questi anni, i contenuti sono stati sostituiti dalle competenze. Naturalmente nessuna libertà di pensiero è possibile senza contenuti, mentre le competenze del fare ben rispondono ai bisogni del mercato e non della formazione umana. In questi giorni, che potrebbero diventare mesi, si dovrebbe riflettere sull’uso e le implicazioni della didattica a distanza, e specialmente si dovrebbero sollevare dubbi e domande. Forse, in tali circostanze, si vuole avviare un nuovo tipo di scuola e di didattica, la quale non arricchisce l’alunno con contenuti dialettici, ma rafforza forme di controllo e di dipendenza inclusiva. Vi è il rischio che la didattica a distanza divenga una costante anche dei periodi ordinari. La dialettica, vero centro dell’insegnamento, necessita dello spazio classe, in cui la relazione passa per lo sguardo, per il tono di voce, per l’esperienza vissuta che invita in modo spontaneo a sentirsi parte di un mondo di relazioni e di parole. L’alternativa è il dominio dell’astratto sul concreto. L’individualizzazione della didattica ai tempi privati dell’alunno e delle famiglie non può che favorire i processi di atomizzazione già largamente in atto. Se l’istituzione scolastica perde, in un momento di emergenza, la capacità di pensare il reale dimostra che non è luogo di formazione e problematizzazione, ma di esecuzione di ordini. Si tratta di avere il senso della misura, di discernere le contingenze e di pensare se l’attuale indirizzo didattico – fondato non sui contenuti e sull’impegno autonomo e responsabile – sia effettivamente valido. Se in questi decenni la scuola avesse puntato in primis sui doveri, sull’impegno quotidiano, sui contenuti concettualizzati, sul senso sociale, forse, sollevo un dubbio, avremmo più fiducia nei nostri alunni e non vi sarebbe la rincorsa alla didattica alternativa, anche, perché, e di ciò non si deve avere dubbi, se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazione, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

[1] Kairos (καιρός), traducibile con tempo cairologico indica il momento giusto o opportuno” o “momento supremo”.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Pier Paolo Pasolini 52
Salvatore Bravo

Il mito del progresso e Pasolini

 

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) nei suoi scritti letterari analizza la metamorfosi storica che sta coinvolgendo e travolgendo la società a lui coeva. I suoi scritti attraversano il tempo, poiché il suo sguardo intelligente[1] ha pensato e vissuto la radicalità delle mutazioni antropologiche e culturali avvenute in Italia nel secondo dopoguerra. Si può accostare Pasolini a Costanzo Preve, a Gramsci, in quanto ha vissuto come loro l’esperienza della solitudine. Non si è omologato all’opinione ricorrente, ma ha avuto il coraggio della verità, della resistenza civile e della coerenza. Pasolini ha letto – dietro il postulato del progresso – la distruzione della cultura del molteplice, delle espressioni vitali e linguistiche in nome dell’omologazione del consumo. Costanzo Preve la definirà “irrilevanza”. In Gramsci il “cretinismo specialistico” è la concretizzazione della morte della verità e del pensiero plurale e polivoco.
Pasolini nei suoi scritti diviene cantore della verità contro la superstizione del progresso ad ogni costo, contro il semplicismo in base al quale il domani è sempre migliore dell’oggi e del passato. Non si tratta di passatismo, ma di analisi critica e consapevole della complessità ideologica del mito del progresso. Il mito serve a passivizzare i popoli, ad inibire la domanda e la partecipazione collettiva. Dietro la bandiera progresso non vi sono i popoli che si emancipano, che rompono le catene che li imprigionano nella caverna, ma interessi lobbistici e di classe. Lo stupro dell’ambiente e delle culture popolari in nome della felicità che verrà, in nome del consumo, ha la sua verità nei potentati capitalistici i quali hanno l’obiettivo di mutare non solo una cultura, ma la natura umana, la quale deve specializzarsi nel consumo, nella

A “scuola” di consumo
Il nichilismo è la verità del capitalismo, delle folle addestrate a desiderare con il consumo la morte di dio e di ogni idea del sacro e di socialità. Il potere non vive racchiuso nella sua turris eburnea, ma circola, è veicolo di trasformazione, entra nel corpo vissuto per reificarlo. La diffusione della cultura del consumo non può che avvenire attraverso le istituzioni ed i mezzi di comunicazione. Pasolini si spinge fino alla provocazione estrema: abolire la scuola dell’obbligo e la televisione, perché esse non sono al servizio del cittadino, ma al servizio del capitale. Nella scuola il genocidio culturale delle masse si realizza in modo compiuto e subdolo. La scuola, che dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino, in realtà forma il funzionario del mercato, l’uomo dei soli fatti e consumi. La scuola è il luogo dove le catene dell’infelicità vengono forgiate mediante la negazione delle identità popolari e dei soggetti. In essa si educa a frammentare la comunità ed il soggetto per renderlo suddito del capitale. Il vero nemico non è il fascismo, non è il mondo clericale, ma il capitalismo nelle sue forme assolute. L’infelicità generale causa dipendenze compensatorie utili al sistema capitale. Sudditi infelici sono facilmente governabili e manipolabili.

Nel regno della monocultura feudale
L’analisi di Pasolini sulla scuola ci riporta alla verità della monocultura contemporanea anglofona e mercantile, nella quale gli alunni imparano che essere precari e sradicati è una forma di progresso. Si può ipotizzare che la pubblica avversione verso il latino celi il desiderio di occultare la verità che diventa palese nell’etimologia delle parole. La parola precario deriva dal latino prex-precis “preghiera”. Nelle scuole si insegna il neofeudalesimo, si impara ad essere precari, a dipendere dal favore e dal capriccio del capitale. Il nuovo signore e padrone ha la forma del capitale che rende servo chiunque dipenda dal suo potere. Ci si rimette al suo capriccio, alle leggi della finanza come un tempo ci si rimetteva nelle mani di Dio ed alla provvidenza. Per sopravvivere le scelte devono essere a misura di capitale/capitalista. Ogni cultura identitaria e collettiva è spazzata via, non resta che il narcisismo di massa con i miti superstiziosi del consumo.
Pasolini intravide nella scuola un luogo di allevamento e non di educazione. La televisione in tale contesto è il mezzo che con le sue immagini patinate, con i suoi modelli sociali entra in ogni salotto, accomuna nella separazione degli individui. La scuola ed i mezzi mediatici, oggi plurali, agiscono in una comunione di obiettivi che rende saldo il potere del capitale, ogni essenza generica “Gattungswessen” è negata per produrre consumatori con la forma mentis del solo calcolo personale e dell’utile. Lo scandalo che muove i suoi scritti sono un’invocazione alla resistenza civile, ad uscire dal semplicismo del dogmatismo superstizioso con i suoi automatismi che si trasforma in violenza, in delinquenza relazionale, poiché i modelli proposti sono fonte di frustrazione, in quanto irraggiungibili, e specialmente minano l’equilibrio delle nuove generazioni. L’illimitato consumo e narcisismo proposto da televisione e scuola ha l’effetto di destabilizzare la psiche, il carattere ed i talenti delle nuove generazioni. L’alienazione (Entfremdung) e la violenza che ne consegue è così resa normale prassi del quotidiano:

«Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa).
Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.
1) Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo.
2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E’ questo il nodo della questione).
Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un “esempio”: i “modelli” cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E’ stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).
Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo – come di qualsiasi altro “luogo culturale” – col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e “l’Unità”: e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».[2]

 

Genocidio culturale
Si concretizza nelle scuole e nei mezzi di comunicazione ad un nuovo tipo di genocidio: non si eliminano gli esseri umani, ma la loro diversità, la storia stratificata di generazioni veicolata mediante linguaggi, gestualità e parametri valoriali differenti. Dinanzi al quotidiano genocidio delle identità collettive ed individuali, Pasolini non ha arretrato, ne ha denunciato le storture e le complicità consapevoli ed inconsapevoli constatando che la violenza è divenuta la legge della società a dimensione capitale e che i delitti devono essere letti in modo concreto, riportandoli al contesto strutturale e sovrastrutturale in cui accadono, altrimenti si cade in astrazioni irrazionali:

«Ma se la seconda rivoluzione industriale – attraverso le nuove immense possibilità che si è data – producesse da ora in poi dei “rapporti sociali “immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all’utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova».[3]

Il senso del “politico”
Pasolini ci insegna ad avere la chiarezza sul nemico. La lotta è possibile quando si ha la chiarezza del nemico, che non è più il mondo clerico-fascista, ma il capitalismo assoluto dei nostri giorni. Senza la chiarezza sul nemico non vi può essere alternativa, ma solo complicità inconsapevole con le strutture di potere. L’impegno primario dev’essere, così, svelare il volto del nemico: in tal modo si reintroduce nel reale storico e sociale il principio di realtà, senza il quale è impossibile organizzare ogni resistenza individuale e collettiva. L’articolo pubblicato da Il Corriere della Sera è stato scritto poche settimane prima del suo omicidio, è il suo testamento spirituale, e specialmente indica il percorso da intraprendere per uscire dalla caverna scuola-televisione. Il suo messaggio oggi è più vero che mai. La scuola azienda attuale ha rinunciato a leggere il presente per diventare parte del sistema mediatico, cellula della germinazione del capitalismo, della seduzione e della menzogna. Il politico deve svelare che il simulacro (capitalismo) come si afferma nel Qoelet non nasconde la verità, ma non ha verità, è nichilismo ideologico che teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo

[1] Intelligenza, dal latino intus = dentro ed al verbo latino legere = leggere, comprendere.

[2] Pier Paolo Pasolini, “Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo”, Il Corriere della Sera, 18 Ottobre 1975.

[3] Pier Paolo Pasolini, “Il mondo”, intervento al congresso del Partito radicale, Novembre 1975.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Homo consumens– Libertà astratta
Salvatore Bravo
Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens

La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

A. Gramsci

La parola libertà è tra le parole il cui significato è maggiormente inflazionato. Alla parola libertà si associano azioni e comportamenti astratti. O meglio, la libertà è astratta poiché nell’opinione generale essere liberi significa non avere vincoli sociali, non avere vincoli con se stessi, non avere un destino, ma solo attività desideranti. Il limite è vissuto come l’antitesi alla propria libertà individuale. Il diritto a tutto è la chiave di lettura della libertà del liberismo attuale. Libertà da. La libertà è così una corsa verso la disintegrazione di sé, degli altri: si ascoltano i propri desideri, li si concretizza a prescindere dalle loro conseguenze e dalla loro qualità. Libertà diviene cecità dinanzi a se stessi ed agli altri. La libertà astratta coincide con la negazione di sé, della storia, della razionalità. Libertà diviene immediatezza della soddisfazione, un gioco in cui emozionarsi senza conoscersi e conoscere. La razionalità è così negata, per diventare calcolo veloce, algoritmo per la soddisfazione immediata.

Libertà senza congedo
La libertà, vessillo dell’Occidente consumistico, è la malinconia dell’usura di se stessi e dell’altrui presenza. Il liberismo – nell’attuale fase – deve inneggiare alla libertà da ogni vincolo non solo per chiare cause ideologiche dietro cui si celano lapalissiane ragioni economiche, ma specialmente deve nascondere la verità della libertà liberista, il nichilismo che divora l’occidente, cannibalizza le persone, le istituzioni, la storia concreta di ogni identità nazionale. La libertà da ogni limite diviene azione nel nulla e per il nulla, poiché l’agire non è legato ad alcun paradigma di riferimento, non è integrato nella storia personale che dialoga con l’identità comunitaria a cui ogni soggetto inevitabilmente appartiene. La libertà da ogni vincolo non ha inizio, un punto solido da cui prendere l’abbrivio, perché non vi è storia personale, famigliare, comunitaria, linguistica da cui congedarsi, ma è libertà senza congedo. L’ebbrezza, il fascino della libertà astratta ormai realizzata è il brivido di venire dal niente e di potere tutto, volontà di potenza che si autocrea e si autogenera. La libertà diviene il mito di sé, l’autocelebrazione senza comparazioni e legami che dona la percezione di un’autonomia che, in quanto appare assoluta, comporta la percezione di sé come assoluto (dal lat. absolutus, sciolto da ogni vincolo). Pertanto non c’è bisogno di visioni del mondo, di religioni, di prospettive ideologiche consapevoli: ci si sente divinità planate sulla terra, e ciascuna è pronta a mettere in pratica il desiderio, la grandezza di un io astratto ed autoreferenziale. Il sistema liberista ha la sua forza, il consenso generalizzato, nell’illusione, nella potenza dell’autoillusione di massa.

La libertà dell’homo consumens
All’homo oeconomicus è succeduto il narcisismo di massa, il disimpegno dei consumatori costantemente alla catena del mercato. Quest’ultimo può sopravvivere solo incentivando l’assurdo di massa, elevando la tensione del desiderio di consumare in un’esaltazione egocentrica di massa. L’homo oeconomicus, col suo pensiero calcolante, conosceva l’impegno, la fatica del calcolo e dell’accumulo quotidiano, viveva la tensione della difesa della proprietà, bellicoso nei suoi pensieri, ma impegnato in un progetto atomistico; l’homo consumens, divora i suoi stessi desideri, non ha impegni costanti, ma solo immediati appetiti. Il salto dall’homo oeconomicus all’homo consumens è svolto, è compiuto.

Tempo circolare della frustrazione
La libertà di perseguire bisogni indotti implica l’incapacità di attendere, un basso livello di frustrazione che si esplica in una temporalità vissuta in modo frammentato ed è incapace di pensare, di vivere il pasto del momento. L’accelerazione tormentata del momento ribalta la libertà da in violenza, in incapacità di controllare i morsi del desiderio. La violenza capillare che si infiltra in ogni legame scindendolo ha come fondamento veritativo la cultura della soddisfazione immediata: la rigidità – mentre tutto fluisce – del desiderio che non vuole che se stesso. La regressione infantile di massa al pensiero magico, la corsa-rincorsa di ciascuno a vivere il mondo immaginato, e l’apparir del vero inevitabile, causa violenza, poiché non si è nelle condizioni emotive – e spesso non si hanno gli strumenti cognitivi – per costruire le relazioni di causa-effetto. L’irrazionale trionfa, la realtà diviene incomprensibile, per cui la libertà da ogni vincolo diviene percezione di essere oggetto di una violenza senza ragione. La libertà astratta dell’homo consumens si rovescia in violenza, il mondo non sta al gioco, le speranze tradite non sono comprese, la colpa della tragedia, ovvero della verità storica, che entra nella vita è proiettata sugli altri, sui colpevoli di turno. Il sistema liberista si nutre di tali circuiti, alimenta la violenza circolare dell’ homo consumens, lo destabilizza, lo invita a compensare la sconfitta con un altro desiderio di onnipotenza. Il tempo circolare della frustrazione senza uscita è la gabbia d’acciaio in cui si rinchiudono le persone ed i popoli.

Pianeticidio
La politica dovrebbe rispondere alle esigenze della comunità, dovrebbe trovare risposte condivise ai grandi temi che il proprio tempo vive drammaticamente. Le istituzioni e la politica sono i invece grandi assenti, i grandi complici della condizione attuale, anzi consolidano – con il loro esempio vissuto, con il linguaggio, con i comportamenti – la pedagogia dello spreco e del disprezzo di ogni vincolo, da ogni legge istituzionale ed etica. La libertà astratta è la violenza resa istituzionale: poiché – in assenza del concetto – non resta che il vilipendio costante delle parole usate come croci frecciate contro il nemico di turno. La libertà soggettiva violenta la realtà storica, perché non ne cerca la verità e con essa le leggi della storia e le sue contraddizioni. Eppure, malgrado il trionfo della libertà soggettiva contro la libertà oggettiva, non vi è possibilità di aggirare l’ostacolo, le contraddizioni divengono sempre più minacciose, il pericolo di un collasso del pianeta è ineludibile. La libertà soggettiva può sopravvivere solo a prezzo di un nuovo tipo di genocidio quale mai è apparso nella storia dell’umanità “il pianeticidio”, il neologismo può essere improprio, ma è la verità a cui porta la libertà soggettiva globalizzata.

Che fare?
La domanda che bisognerebbe introdurre nella politica che non c’è è sul tipo di libertà che si vuole realizzare per il presente e per il futuro del pianeta, nel quale vi sono le comunità umane e non umane. La Filosofia può esserci di ausilio. Hegel e Marx ci hanno insegnato la libertà oggettiva, la quale riporta gli esseri umani a rispondere alle contraddizioni del presente ed al problema delle prospettive e delle possibili soluzioni a partire dalle condizioni storiche in cui ci si trova, e specialmente responsabilizza collettivamente verso le potenzialità che il momento storico ha in sé. La libertà oggettiva è capace di convergere il campo di forze verso un obiettivo comune, e specialmente elabora percorsi collettivi di consapevolezza ed azione rilevando razionalmente che classi e comunità trasversali condividono interessi e contraddizioni che esigono soluzioni, al fine di dare una prospettiva partecipata ed universale. La libertà oggettiva scioglie le rigidità regressive della libertà soggettiva per sublimarla verso l’universale. Quest’ultimo è costituito dalle condizioni materiali, economiche, culturali che i soggetti condividono, ponendoli come soggettività collettiva che può dar vita alla prassi rivoluzionaria. Spetta ai singoli ricominciare, creare ponti con le possibilità presenti nella contemporaneità. La libertà soggettiva è libertà senza legami, senza storie, senza prospettive, per uscire dalla malinconia senza fondamento è necessario il coraggio di un no razionale che si configura come una corrente calda capace di catalizzare forze, persone, pensieri, al fine di capire la verità del presente per poterne immaginare una possibile alternativa storicamente fondata. Per un nuovo inizio è necessario guardare la libertà soggettiva con occhi critici, essa è l’istituzionalizzazione del lupo che alberga in ciascun soggetto, a quel lupo è necessario dare una razionale risposta e visione del mondo:

«Una contessa affittacamere, un sacerdote commerciante, banchiere, sensale; un impiegato a duecento lire al mese che spende seicento lire per l’appartamento nella grande città; lo scontro belluino. Basta. Il modo è antico: la scure, non il cloroformio o l’ipnotismo. Il lupo è rimasto l’antico, l’antidiluviano lupo in tanto trionfo di modernità: squarta, immerge le mani nel sangue, e a ciò la gente si interessa, prende gusto. Il ognuno della folla è un po’ del lupo che dilata le narici all’acre odore del sangue. E la modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita». [1]

La libertà soggettiva è il lupo già descritto da Fedro il cui agire è indotto solo dal desiderio di consumare e autopercepirsi come onnipotente. Contro ciò la libertà oggettiva deve far valere le ragioni di un mondo umano, a misura di comunità e persone.

Salvatore Bravo

[1] Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, chiarelettere, 2016, pag. 45.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

José Ortega y Gasset - Gilles Deleuze e Félix Guattari - Zygmunt Bauman

 

Natura umana e finanza
L’insocievole socievolezza nel secolo dell’economicismo è ormai la verità entro cui leggere e comprendere l’integralismo economico contemporaneo. Vi è la pressione all’individualizzazione di ogni comportamento, dietro cui si vela la riduzione di ogni rapporto alla sola categoria dell’utile economico. La reificazione si palesa nella forma seducente dell’immagine, della microfisica del controllo e della stimolazione al desiderio consumante. Si impedisce, in tal modo, alle personalità di fiorire secondo la celebre immagine di Aristotele. Lo sfruttamento non riguarda solo la forza lavoro, ma si concretizza nella forma della negazione dell’indole individuale. Il passaggio dalla potenza all’atto (ἐνέργεια) è inficiato con il concretizzarsi di nuove forme di sfruttamento e violenza.

 

L’amicizia filosofica contro l’economicismo
Nella Repubblica (Πολιτεία, Politéia) Platone ha dimostrato che giustizia è rispetto della natura di ciascuno, per cui l’ingiustizia totalitaria contemporanea consiste nella perenne negazione della natura universale dell’essere umano e della sua espressione soggettiva.
L’assedio alla vita, dapprima con le scienze sperimentali, oggi con l’economia finanziaria, opera attaccando frontalmente la Filosofia in quanto disciplina del pensiero, dell’ordine del senso. La Filosofia umanizza, poiché è educazione (dal lat. Educĕre trarre fuori, allevare), portar fuori la natura universale con le potenzialità del soggetto: essa è formatrice di comunità. Nel regno dell’economia, ma è preferibile dire della crematistica, nel caos del mercato, deve regnare il solo rumore delle transazioni finanziarie sempre più fitte, sempre più incontrollabili. Ortega Y Gasset ha ben descritto il senso di oppressione e limitazione a cui le vite sono sottoposte, sempre meno libere, sempre meno vitali, e sempre più oggetto dell’imperio della quantificazione. La negazione della filosofia coincide con la nientificazione dell’umano:

«La Filosofia restò schiacciata, umiliata dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori. Le scienze naturali dominavano l’ambiente e l’ambiente è un ingrediente della nostra personalità, come la pressione atmosferica è uno dei fattori che compongono la nostra forma fisica».[1]

Ovunque vi è Filosofia vi è amicizia. La dialettica filosofica è confronto tra eguali, è ascolto, poiché nessuno dei dialoganti possiede il sapere, ma lo ricerca per condividerlo. L’ostilità dell’economicismo nei confronti della Filosofia trova la sua ragione più profonda nella considerazione che la Filosofia è pratica di verità e di amicizia, mentre la parola d’ordine dell’economia della finanza (della crematistica) è competizione, plusvalore e controllo, pertanto è negazione del senso di comunità insito nella prassi filosofica:

«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”, diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[2]

L’economicismo ha, nel controllo, la sua essenza: esso deve addomesticare, ridisegnare comportamenti e gestualità. L’automa è l’ideale del nuovo integralismo: per controllare il lavoro deve sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. La Filosofia è emancipazione dalle ipostasi come dalla tradizione, si pone in un movimento opposto rispetto al potere dell’economicismo. Per Bauman la sostanza della Rivoluzione industriale è nel controllo, e tale matrice si storicizza e si trasmette fino all’attuale assetto economico:

«Così il problema cui si trovarono di fronte i primi imprenditori non era l’uomo preindustriale ostinatamente pigro, sordo all’appello della ragione economica; e la soluzione del problema da loro ricercata non consisteva nell’instillare una pia disposizione al lavoro nell’animo di gente non abituata a uno sforzo continuo. Il problema era piuttosto la necessità di costringere gente abituata a dare un significato al proprio lavoro, controllandolo, a spendere la sua forza e capacità nell’assolvere mansioni controllate da altri e pertanto prive di significato».[3]

 

Entificazione dell’umano
Se l’essere umano vive e progetta nelle comunità e nelle circostanze che gli sono date, Dasein, la pressione anomala a cui è esposto ne impedisce la progettualità autentica riducendolo ad ente tra gli enti, ed è studiato come un qualsiasi ente. La pressione alla quantificazione sviluppa il metodo della parcellizzazione, della divisione incapace di cogliere il fondamento del tutto. Le scienze, come l’economia, rinunciano in modo aprioristico alla verità per l’esattezza, per la misurazione. La superstizione scientista è il fondamento attuale del potere tecnocratico, non vi è riflessione collettiva sulla teleologia delle scienze come delle tecnologie, esse sono “il bene” senza che vi sia pubblica discussione: pertanto le si persegue con determinazione scevra da ogni dialettica. Esse producono conoscenze sicuramente utili, ma non migliorano necessariamente la qualità della vita. La Filosofia deve avere il coraggio dell’universale, dell’assoluto, non può supinamente adattarsi all’attitudine delle scienze, rinunciando a se stessa; senza la conoscenza dell’universale l’essere umano è straniero a se stesso ed al mondo, è consegnato all’atomistica delle solitudini, è potenza passiva:

«Per questa ragione propongo che, nel definire la filosofia come conoscenza dell’Universo, intendiamo un sistema integrale di attitudini, nel quale si organizza metodicamente l’aspirazione alla conoscenza assoluta».[4]

Filosofia e verità
Nessun dogmatismo, nessun integralismo. La Filosofia ha il compito di ricercare la verità, di fare appello alla sua inesauribile creatività e paziente attività filologica per ricercare il fondamento universale. La Filosofia è amica del concetto, è generazione di vita nella forma dell’universale condiviso, è processo di avvicinamento alla verità con le categoria della totalità, la rinuncia alla verità è rinuncia all’umanità. L’umanità, se abdica alla verità, si limita a vivere nella pochezza dei giorni, soddisfa desideri immediati, è travolta dalle circostanze a cui non riesce a dare il senso. In assenza di verità, tutto è possibile, tutto è ammesso.
La verità come problema è assunzione di consapevolezza e responsabilità di una sfida necessaria per umanizzarsi nella dialettica, nell’argomentare logico ed intuitivo. La verità in quanto totalità è cogliere con lo sguardo della mente. Non gli enti nella loro malinconica separazione atomistica, ma nel loro sorreggersi l’un l’altro, nel loro ritrovarsi in relazione al tutto che li accoglie per svelare l’eterno nella storia. La Filosofia unisce dove la scienza separa:

«Intendo per Universo tutto quanto è. Ciò significa che al filosofo non interessa ognuna di quelle cose che esistono per sé, nella loro esistenza particolare diciamo privata, ma invece gli interessa la totalità di quanto esiste e, conseguentemente, di ciascuna cosa che è di fronte o accanto alle altre, la sua posizione, il suo aspetto e rango nell’insieme di tutte le cose: diciamo pure la vita pubblica di ogni cosa, ciò che si rappresenta e vale nella superiore dimensione pubblica della coesistenza di tutti gli esseri».[5]

 

Verità relazione
La verità è dunque nella relazione. Ogni ente non vive la condizione dell’abbandono atomistico, ma la sua verità è la relazione con il suo contesto. Nella ricerca della verità l’essere si scopre come comunità, vive in modo consapevole la prassi della verità, il reale è razionale nella relazione veritativa, e l’essere umano è parte di tale realtà relazione, le dà voce, e dunque diviene creatore di comunità fondate nella verità dialogica con se stesso e la comunità.
La scienza circoscrive l’oggetto, lo soppesa, lo isola, lo approfondisce in una solitaria attività d’indagine, perché separata dalla relazione con la vita.
La Filosofia non nell’esattezza, ma nella vita, scopre la verità. Ogni astrazione dal tutto è astrarre linfa dalla vita, è un’esperienza che uccide per misurare. La verità della Filosofia è l’universale concreto:

«Che cos’è la vita? Non cercate lontano, non si tratta di ricordare conoscenze apprese. Le verità fondamentali devono essere sempre a portata di mano: solo in questo modo possono essere fondamentali. […] Vita è ciò che siamo e ciò che facciamo: è inoltre, fra tutte le cose, la più vicina a ciascuna».[6]

 

La Filosofia contro l’inerte
Vivere è dunque comprendersi, intuirsi, disporsi in quanto parte di un tutto, ma specialmente vivere in perenne relazione con il tutto. I nemici della Filosofia sono palesi nel loro intento: favorire l’inerte sulla vita, la separazione sulla totalità, la quantificazione sulla qualità. Senza il contatto con la vita non vi è dialettica, il logos si frantuma in scientismo integralista negando se stesso. L’epoca della negazione dell’umano è negazione del logos, dell’unità che integra le differenze ponendo le condizioni dell’incontro. Il logos come razionalità del controllo, del dividere per definire, stimolare e manipolare è solo razionalità calcolante senza la sostanza vitale della parola che approssima i dialoganti senza coincidenze, in quanto la prassi della parola senza sovrapposizione è la contraddizione vitale che permette il dialogo eterno nella comunità. I nemici della Filosofia, del logos sono i detrattori della vita, la vorrebbero chiudere in categorie, consegnarla alla fine della storia per eternizzare un presente senza futuro e senza passato.
Tra i nemici della Filosofia, vi sono i Filosofi analitici, coloro che riducono la Filosofia a pura imitazione dei metodi scientifici. Solo l’abituale relazione con la vita conduce alla domanda che scompagina le naturalizzazioni, gli stereotipi e gli universali sclerotizzati nella loro liturgia. Vivere è relazione con sé, il conoscersi per aprirsi al mondo con le nostre domande, con le nostre terribili aporie, anch’esse verità del nostro esserci:

«“Incontrarsi”, “informarsi di sé”, “essere trasparente” è la prima categoria della nostra vita, e, ancora una volta, non si dimentichi che a questo punto il non è solo il soggetto ma anche il mondo. Prendo coscienza di me nel mondo, di me e del mondo, questo è, in modo immediato, “vivere”».[7]

 

Fuga dall’agorà
Dunque siamo nel mondo, relazione con il mondo da ciò non può che conseguire il nostro impegno nel mondo. La fuga dal mondo, dal pubblico, per il privato godereccio, è “ideologicamente” voluto, organizzato. La pressione economica e scientifica sulle esistenze ha dunque una verità che la Filosofia può svelare: la separazione dell’io dal mondo, la fuga dall’agorà per consentire il trionfo scientista e finanziario. La responsabilità della Filosofia è nel testimoniare l’impegno per la qualità della vita. Vita e pensiero sono sincronici, la vita è trasformazione, prassi, solo se c’è pensiero; affinché ciò possa essere è necessario ristabilire l’universale, ovvero la relazione tra l’in sé ed il per sé:

«Né certamente il pensare è anteriore al vivere, poiché il pensare vede se stesso come parte della mia vita, come un suo atto particolare».[8]

Vivere è attività in cui il presente ed il passato sono forme plastiche per il futuro. Lo scientismo economico, il regno animale dello spirito con la logica della sola produzione è assenza della dimensione del futuro. Dove regna la separazione e la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile, nell’attimo senza prospettiva, nell’offesa alla dignità dell’essere umano divenuto sempre più mezzo, e sempre meno soggetto di relazione.

Salvatore Bravo

[1] José Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia?, Marietti, Torino1973, p. 38.

[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2010, p. 48.

[3] Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987, pp. 80-81.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, pp. 63-64.

[6] Ibidem, p. 184.

[7] Ibidem, p. 203.

[8] Ibidem, p. 197.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Massimo Bontempelli x 20

Salvatore Bravo

L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa
con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo


L’irrazionale razionale del capitalismo
La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo
Il concetto di «arbitrarismo»
False soluzioni
Città senza cittadinanza
La verità del traffico veicolare
La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare
Riforma del paradigma privatistico
Conclusione


L’irrazionale razionale del capitalismo
L’irrazionale razionale è la cifra del capitalismo assoluto. La definizione è del filosofo Massimo Bontempelli. L’irrazionale-razionale del capitalismo assoluto lo si può cogliere in ogni aspetto del quotidiano: è sufficiente seguire il filo d’Arianna della categoria della totalità per mostrare quanto la “razionalità” del capitalismo assoluto, se ricondotta al concreto, palesi la sua irrazionalità. Nell’immediato, la razionalità comporta il calcolo delle azioni da effettuare per ottenere il plusvalore. In realtà, se il cono di luce allarga il suo raggio di visuale, l’irrazionalità del razionale capitalistico si svela nella sua violenza: il consumo diviene dispendio di risorse umane ed ambientali, l’accumulo si ribalta in irrazionalità, perché nega il fine per il trionfo del mezzo. Il capitalismo è irrazionale perché antimetafisico.
Il capitalismo speculativo è la realizzazione compiuta della logica del plusvalore, il quale si muove in due direzioni per occupare ogni spazio fisico e mentale. Il plusvalore relativo è finalizzato ad occupare ogni spazio della coscienza saturandola con l’intromissione di parole per il solo calcolo e rappresentazioni di sole merci, la mente si trasforma in semplice specchio dell’immediato, mentre il plusvalore assoluto sfrutta la forza lavoro, precarizza. Il plusvalore relativo, con i suoi sogni mediatici addomestica le masse, il popolo da demos (δῆμος) consapevole e disposto all’agire della prassi è sostituito dal laos (λαός), ovvero dalla massa depauperizzata della coscienza che si rimette alle parole del “ministero della verità” perennemente in azione con il fine di sussumere e reificare. Il popolo, privo e deprivato di domande, si rimette al capo, inneggia all’uomo forte, è pronto a seguirlo, “educato” ad essere oggetto della storia.

La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo
La guerra è lo stato perenne dei popoli proni al “ministero della verità”. Si manifesta, in modalità esponenziali, in circostanze che necessitano l’abbattimento del nemico che si oppone al nuovo ordine del discorso. Ma la guerra è la condizione quotidiana delle nuove plebi. Essa si manifesta nella competizione senza limite, nell’ossessione individualista e narcisista, nel riduzionismo generalizzato. L’io minimo è perennemente belligerante, poiché sostituisce la ricerca di sé con le operazioni di acquisizione. I popoli sono in guerra, perché senza domande. Ogni epochè dell’agire acquisitivo è messo alla pubblica berlina. Alla parola che unisce dev’essere sostituita la violenza della parola che divide, alla relazione umana il libero scambio quale religione unica ed assoluta della globalizzazione. La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo, come l’ha definita Massimo Bontempelli. In assenza di vincoli comunitari ed assiologici, ogni esperienza umana e luogo di condivisione sono sussunti alla logica acquisitiva.

Il concetto di «arbitrarismo»
Attraverso il traffico veicolare e lo spazio che esso occupa Massimo Bontempelli denuncia l’arbitrarismo, una nuova forma di nichilismo acquisitivo e proprietario con il quale lo spazio pubblico è svuotato del suo senso per essere occupato dai privati, fino ad essere pubblico in senso formale, ma di fatto è privatizzato a spese del pubblico:

«Basta ragionare, per capire quale sia questo presupposto: è quella forma di nichilismo che abbiamo chiamato arbitrarismo, qui espressa nella concezione secondo cui è un diritto della persona libera quello di usare a piacere lo spazio pubblico per spostarvisi con un proprio privato abitacolo semovente».[1]

Lo sfruttamento si concretizza per sottrazione: erodere ogni spazio pubblico e sostituirlo con il mercato, che in modo capillare cancella nel concreto lo spazio pubblico per eliminare dalla comunità la disposizione alla condivisione. Si opera sulla percezione concreta dello spazio vissuto che dev’essere occupato dal traffico veicolare per essere anche mercato espositivo gratuito perennemente in azione delle auto. I veicoli nelle pubbliche strade muovono al desiderio di acquisto irriflesso dei pedoni e non. Lo sfruttamento del popolo si manifesra anche nella forma dell’occupazione dello sguardo che essendo esposto al traffico veicolare in modo continuo, introietta l’acquisto e l’uso delle auto come una necessità irrinunciabile. Lo spazio si deforma, in quanto è vissuto come oggetto da conuistare e non da conoscere e vivere. Lo sguardo, l’udito, il tatto diventano i canali in cui la merce penetra ed occupa il corpo vissuto. Ci si abitua alla normalità del rumore come dei gas di scarico, si naturalizza l’artificiale. Il traffico occupa lo spazio come l’aria, anche quest’ultima è al servizio degli esiziali interessi privati, è “occupata” dai gas come dall’inquinamento sonoro. Si deve mutare l’olfatto e l’udito, affinchè l’innaturale sostituisca le condizioni che consentono la socializzazione e la dialettica del pensiero. Lo spazio cittadino da agorà dell’incontro diventa mercato totale.
La violenza del traffico è l’espressione immediata del capitalismo speculativo, risponde ad esigenze immediatamente razionali, ma in realtà ha l’effetto – nel suo moltiplicarsi incontrollato – di occupare ogni spazio fisico e mentale fino al loro annichilimento.

False soluzioni
Il traffico può procurare fastidio in alcuni, si possono denunciare gli effetti immediati, ma tali critiche non colgono la profondità del problema, restano all’interno dell’empirico, registrano i dati dell’inquinamento, ma non colgono la verità del fenomeno traffico, gli interessi privati che si celano dietro l’occupazione del suolo pubblico:

«Un po’ tutti si lamentano del cosiddetto traffico, sia pure a livelli diversi, corrispondenti a diversi gradi di sensibilità. Le persone di più consistente spessore umano non sopportano il sequestro allucinante di tutte le strade in tutte le ore alla socialità comunicativa, ad opera dei veicoli che invadono ogni spazio, lo percorrono spesso in modo pericoloso, lo ammorbano di gas, lo rendono costantemente pericoloso». [2]

Le critiche, le lamentale, non turbano i poteri, in quanto esse non producono alternative, poiché non sono estranee al problema nella sua abissale profondità, e non conducono alla prassi, anzi, le critiche impotenti sono sollecitate, perché sono l’orpello della democrazia formale.
Si cerca di risolvere il problema senza cambiare gli equilibri sociali, senza mettere in discussione la struttura economica e la sovrastruttura culturale. Si sposta il traffico in altre zone della città, si libera una parte minuscola della città rappresentandola come svolta green, come l’inizio di un nuovo modo di vivere e di abitare la città per lasciare tutto inalterato, anzi si ammorbano maggiormente parti della città, spesso abitate dai ceti meno abbienti subiscono gli effetti del dirottamento ecologico. Il consumo del territorio, l’inurbamento di aree sempre più ampie, in presenza di calo demografico, comporta la costruzione di strade su cui percorrere distanze sempre più ampie. Le strade attraggono auto, sono il segno che invita al loro uso, alla cultura del dominio e della sottomissione del suolo:

«Succede, però, che l’ampliamento degli spazi a disposizione delle automobili attira nuove automobili, ed i problemi di scorrevolezza si riproducono con il passare del tempo identici, ma con quantità maggiori di veicoli, e quindi con più devastanti effetti ecologici». [3]

Lo spazio liberato dal traffico è diversamente sussunto alle logiche acquisitive: si eliminano le auto per sostituirle con il traffico dei consumatori. Lo spazio di vita dev’essere sotto l’imperio della reificazione, per cui le zone liberate dal traffico sono occupate dalla medesima logica acquisitiva: nessuno spazio deve sfuggire allo scambio mercantile.

 

Città senza cittadinanza
Le soluzioni propagandate come ecologiche ed innovative, riproducono la struttura gerarchica dell’integralismo economico, la città è divisa in due strati: la superficie per gli automobilisti, sotto terra – con la costruzione delle metropolitane – i pedoni. La divisione degli spazi spesso coincide con la subalternità dei pedoni all’automobilista. Si gerarchizzano gli spazi: le auto sempre più costose per il loro mantenimento sono dei più ricchi, di coloro che non sono ancora del tutto precarizzati, mentre i pedoni chiusi nel loro buio orizzonte, nella caverna metropolita giudicano naturale la propria condizione:

«Per migliorare la circolazione urbana, si sono costruite metropolitane, ma in questo modo, dirottando i pedoni sotto terra , si è resa più forte l’idea che le città appartengono agli automobilisti, e si sono creati nuovi flussi di traffico da e per le stazioni delle metropolitane». [4]

Il traffico educa all’isolamento gli automobilisti rinchiusi ed al sicuro nell’abitacolo del veicolo imparano l’atomistica delle solitudini, i pedoni subiscono l’occupazione dello spazio pubblico, si abituano alla privatizzazione dello Stato. La città – curvata al solo valore di scambio – è città senza agorà e dunque è lo spazio realizzato del nichilismo, poiché lo spazio non è per gli esseri umani, ma è finalizzato allo scambio mercantile, alla violenza del plusvalore. Le violenze che attraversano le città contemporanee sono l’epifenomeno della negazione della città come convivialità e comunità, al suo posto non vi è che la violenza sulle ruote e del cemento. Il cittadino non è parte della comunità cittadina, ma assiste e serve la bestia selvaggia del mercato. Si assiste alla costruzione della spazialità piena, ingombra di merc. Il traffico diviene modello spaziale, per cui l’unico spazio possibile e vivibile è nella sola pienezza delle merci.

La verità del traffico veicolare
L’auto è la cinghia di trasmissione della privatizzazione. L’automobilista occupa lo spazio pubblico in modo diretto, e ne è separato, chiuso e racchiuso in un abitacolo che lo divide e che gli impedisce il contatto percettivo con il mondo esterno, lo guarda velocemente alla ricerca della sua meta, la quale è sempre funzionale ai suoi calcoli privati: il mondo intero è cancellato in nome dei personalissimi intendimenti privati:

«L’automobile, invece, essendo un abitacolo chiuso, sposta l’individuo attraverso lo spazio pubblico mantenendolo estraneo. Essa, cioè non è soltanto un mezzo privato di circolazione nello spazio pubblico, ma è anche uno spazio privato nello spazio pubblico, come fosse una piccola casa semimovente, o una stanza distaccata della casa spostabile nelle strade. […] L’automobile, quindi, determina la privatizzazione dello spazio pubblico non in quanto è un mezzo di proprietà privata, ma in quanto è uno spazio privato che si mantiene tale nello spazio pubblico. La privatizzazione dello spazio pubblico determinata dall’automobile ha creato modelli di comportamento collettivo che sono aberranti, e tuttavia generalmente accettati come normali».[5]

Lo spazio sotto l’effetto del traffico manifesta la verità della città nel tempo del capitalismo assoluto: non è più luogo della dialettica dell’incontro, ma è nella sua interezza valore di scambio, mercificazione totale degli spazi i quali sono occupati in nome della violenza del valore di scambio. La città non è più abitata, non ha più storia, ma è solo un immenso spazio espositivo per consumatori senza speranza.
Il gigantismo delle auto, inoltre, è l’espressione dell’onnipotenza del privato sul pubblico: auto dall’aspetto sempre più minaccioso palesano la potenza del privato. Il corazzamento veicolare causa l’espulsione dalla strada del pedone, che si ritrae dinanzi alla possibilità d’essere schiacciato dalla potenza automobilistica, la quale perde la sua funzione di spostamento veicolare per sottolineare la tracotanza sociale dei nuovi padroni sui normali pedoni. La minaccia è anche nel rumore assordante, vero strumento di inibizione del pensiero libero. Le città si estendono divorando suolo e spingendo folle umane verso la marginalità urbana. La violenza del sistema capitale si svela e nel contempo si struttura come abitudine intrascendibile.

La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare
Il sistema del capitalismo assoluto si regge sulla divisione, sulla deformazione dei sensi come dei sentimenti: si deve imparare ad inseguire solo gli interessi privati ed a cancellare il pubblico. L’automobilista rappresenta il microcosmo del capitalismo assoluto, egli è astratto dalla realtà concreta e sfrutta la strada pubblica per fini privati. Gli automobilisti “rischiano” di diventare il mezzo con cui il capitalismo estende le sue logiche:

«L’automobilista, in realtà, è una figura la cui logica di comportamento replica su scala di massima quella dell’imprenditore capitalistico, caratterizzata dall’uso privato di risorse pubbliche (nel caso dell’automobilista dello spazio stradale), e dell’esternalizzazione dei costi della sua attività (nel caso dell’automobilista la circolazione), che diventano così da privati costi sociali».[6]

La privatizzazione della vita negli ultimi anni si è estesa con mezzi ulteriori. Si pensi ai telefoni cellulari, allo sguardo perennemente rapito da immagini e messaggi, spesso vacui, che corrono sulle linee telefoniche. Anche il pedone non guarda la strada, ma costantemente resta legato alla catena della sua vita astratta, separata dalla collettività. Le nuove catene invisibili si moltiplicano, ed in esse ci si avvolge con la stessa normalità con cui si respira. L’auto prepara l’imprenditore, poiché forma all’occupazione del suolo pubblico, al suo sfruttamento, mentre il pedone prepara il precario, poiché formato alla passività ed alla naturalizzazione delle gerarchie sociali.

Riforma del paradigma privatistico
Risolvere il problema del traffico è possibile solo se si cambia paradigma di lettura del reale. Le soluzioni messe in atto in nome della svolta ambientale, stile Greta, hanno il fine solo di perpetuare lo stato di cose attuale. Il paradigma può cambiare solo se la consapevolezza, sempre collettiva (Geist), diviene motore di un cambiamento della struttura e della sovrastruttura. Si assiste invece a cambiamenti parziali per occultare il macrodato che il pianeta non regge a tali logiche arbitraristiche. Massimo Bontempelli propone, così, la sostituzione del traffico con il rafforzamento dei mezzi pubblici espressione di un senso della comunità ritrovata:

«I problemi creati dall’automobile, cioè, non possono essere sensatamente affrontati se non con nuovo paradigma di pensiero che legittimi livelli progressivi di interdizione e penalizzazione del mezzo automobilistico. Occorre, in primo luogo, contrariamente, a quanto suppone il senso comune, smettere subito di potenziare la rete stradale, e sviluppare invece il trasporto su rotaia. […] Alle crescenti difficoltà di usare le automobili si dovrebbe rispondere con l’offerta di migliori e più convenienti trasporti pubblici». [7]

Conclusione
L’analisi del traffico veicolare denota e connota il capitalismo assoluto, capace di produrre ricchezza e nel contempo di distruggere – con la sua irrazionale razionalità – l’ambiente e la socialità.
Le miserie del capitalismo speculativo sono innumerevoli, producono miseria materiale nelle nazioni che subiscono il neocolonialismo, ma anche forme di miseria ambientale ed etica che non rientrano nei pubblici dibattiti nei paesi ad economia avanzata. L’integralismo economico è per sua istituzione e storia adialettico al punto che il silenzio di ogni opposizione è oggi denominata inclusione:

«Il modo di produzione capitalistico ha ormai storicamente svelato la sua natura spaventosamente distruttiva su molteplici piani. Esso ha creato ricchezza economica ad un livello mai raggiunto da alcun sistema precedente. Ma la creazione capitalistica di nuova ricchezza ha dimostrato di essere, allo stesso tempo, creazione di nuove povertà, distruzione della socialità degli esseri umani, della loro sanità psichica, dell’ambiente naturale adatto alla loro vita biologica, delle risorse per il loro futuro. Esso è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso».[8]

Il breve scritto di Bontempelli, dunque, non è solo una riflessione sul traffico, ma insegna a filosofare, ad assumere un comportamento antidogmatico, a pensare per agire e vivere diversamente. L’attività filosofica consiste nell’interrogare il noto, per scoprire che è sconosciuto. Tale processo implica il passaggio da uno stato di passività ad uno di attività consapevole e concettuale.
Se i tempi paiono lontani dalla rivoluzione del paradigma, i testi di Bontempelli consentono comunque di far rimanere in vita idee e concetti che possono essere ritrovati e avere nuova fioritura, in quanto ciò che ora appare come intrasmutabile con la propagandata «fine della storia» ideologicamente onnipresente nei ministeri della (falsa) verità del capitalismo, già lavora per il suo superamento anche se in tempi non profetizzabili.

Salvatore Bravo

[1] Massimo Bontempelli, L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001, pag. 7.

[2] Ibidem, pag. 5.

[3] Ibidem, pag. 6.

[4] Ibidem.

[5] I Ibidem, pp. 9-10.

[6] Ibidem, pp. 11.

[7] Ibidem, pp. 12-13.

[8] Massimo Bontempelli – Marino Badiale, Per salvare la vita. 28 tesi contro la barbarie.

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Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.
Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».
Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.
Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.
Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.
Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.
Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.
Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.
Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.
Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.
Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.
Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.
Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.
Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.
Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.
Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.
Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.
Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.
Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.
Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.
Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.
Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.
Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.
Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.
Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.
Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.
Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.
Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.
Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.
Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.
Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.
Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.
Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.
Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.
Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.
Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.
Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.
Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».
Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

György Lukács_ 12a
La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.

Salvatote Bravo

Lukács: filosofia e ordine del discorso

La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere
i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx

Libertà e coscienza

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo

Storia e libertà

Libertà e necessità

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico

Coscienza e comunità

Coscienza e “falsa coscienza”

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza

Libertas philosophandi


Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács


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La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine
László Rudas (1885-1950) direttore della Scuola centrale del Partito comunista ungherese, membro dell’Accademia ungherese delle scienze e difensore dell’ortodossia marxista, rappresenta la “disposizione” dei burocrati a rinchiudersi in rassicuranti caverne concettuali dalle quali giudicare e condannare coloro che deviano dal cammino stabilito dalle confraternite del pensiero unico ed unidirezionale. La filosofia per sua “natura” è uscita dalle caverne, è attività creativa e logica, è legein attività significante capace di generare concetti nuovi su tradizioni pregresse per trascenderle in nuove configurazioni speculative.
La distanza tra László Rudas e G. Lukács ben simboleggia l’incomprensione intellettuale che vi può essere tra il burocrate di partito ed il libero pensatore, il quale è parte di una storia politica, ideologica, filosofica, ma nello stesso tempo è sempre volto verso l’esodo, poiché “la vita come ricerca” lo porta a divergere dagli schemi, dai paradigmi del potere. L’ortodossia marxista non poteva perdonare a Lukács la sua inesausta aspirazione teoretica, la fedeltà a se stesso, quale condizione imprescindibile per poter aderire ad un progetto politico.
La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine, non è iattanza intellettuale, ma autonomia senza solitudine. Il potere è corrente fredda che congela l’ideologia, stabilisce il grado di purezza degli intellettuali, ed il livello di dissenso che si può tollerare.

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx
Lukács – rispetto ai paradigmi del partito comunista – è stato sempre sull’orlo della colpevole deviazione: László Rudas ne critica lquello che lui, il burocrate, chiama l’«eclettismo» del filosofo, per aver innestato sulla metodologia di Marx la categoria della totalità hegheliana ed il pensiero di Max Weber, e dunque per essersi allontanato dal Marx del partito comunista in un percorso autonomo e, a suo parere, sincretico. In primis si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx con elementi culturali altri. Dunque, l’accusa è aver osato interpretare Marx in modo innovativo ed originale. Non gli si perdona la deviazione rispetto al Marx codificato ed utilizzato per giustificare il comunismo reale. Si rifiuta la dialettica del confronto per prediligere il purismo ideologico senza incontro dialettico:

«Fin da questo articolo voglio altresì dimostrare che Lukács è incoerente ed eclettico e non solo come idealista in generale, ma anche in problemi specifici di rilievo egli deriva elementi da filosofi o sociologi borghesi, tuttavia sempre senza le premesse e le conseguenze che nei pensatori borghesi rendono comprensibili questi concetti e teorie e senza le quali tali elementi rimangono del tutto indigesti e deturpano il marxismo come corpi estranei. Egli mescola il marxismo con elementi che lo contraddicono conseguenza non insolita dell’incoerenza».[1]

 

Libertà e coscienza
Una delle accuse più ricorrenti rivolte a Lukács è l’aver negato il prevalere della struttura sulla coscienza la quale, per l’ortodossia dei burocrati, non è che il riflesso della struttura. La coscienza è parte della natura e va spiegata secondo le leggi della natura, ha la sua genetica all’interno dei rapporti di causa ed effetto: si vuole così applicare alla storia la stessa dialettica della natura seguendo la “coerentizzazione” di Marx svolta da Engels. I fatti sociali sono giudicati alla stregua dei fenomeni naturali e dunque non solo sono spiegabili secondo leggi scientifiche, ma specialmente la storia diventa prevedibile esattamente come qualsiasi fenomeno naturale, nessuna libertà è lasciata alla coscienza, alla storia, nessuno effetto di sdoppiamento è considerato possibile:

«In generale, tanto nella scienza della natura quanto nella scienza marxista della società, la causalità (o l’interazione) è una forza realmente operante naturale o sociale che instaura un certo rapporto reciproco tra i fenomeni, rapporto che è dato nella realtà, non è modificabile e può essere analizzato empiricamente, ma non costruito secondo un “fine conoscitivo”. Si tratta pertanto di un rapporto generale, nel senso che non solo singoli fatti, ma intere serie si trovano in un nesso di reciproca dipendenza causale, espressa da una legge generale. Che può essere, per esempio, la legge darwiniana dell’evoluzione o la legge marxiana della dipendenza tra processo produttivo e processo politico spirituale delle società».[2]

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo
Non vi è spazio per nessuna elaborazione. L’essere umano si forma nelle strettoie dell’economia che modella la coscienza. Quest’ultima, così si vuole credere, non può trascendere tale condizionamento: è costretta all’interno della sua storia. Si esclude la possibilità che la posizione ideologica in cui il soggetto è posto dalla sua storia personale, sociale e di classe possa essere ripensata, vissuta in modo da poter ricostruire orizzonti di senso che possano riorientare al superamento irriflesso dei propri interessi personali e di classe. Gli stessi giudizi di valore sono spiegati dalla classe di appartenenza, senza che essi possano essere l’effetto della riflessione sulla propria ed altrui condizione:

«Marx ed Engels si opposero sempre nella maniera più decisa alla lacerazione del marxismo per mezzo di “giudizi di valore” […]. Anche i giudizi di valore, infatti, pronunciati da un individuo o da un’intera classe, e nei quali qualcosa è eticamente approvato o condannato, devono essere spiegati causalmente. Possono essere sintomi di trasformazioni intervenute nel processo sociale, che vengono proclamate in questa forma (quando, per es., la schiavitù salariata viene condannata senza riconoscerne l’essenza), ma chi affermasse che la coscienza di classe del proletariato è costituita da tali giudizi di valore, potrebbe essere tutto meno che marxista».[3]

Storia e libertà
Si contesta la prassi della coscienza e specialmente l’umanesimo anomalo di Lukács che pone l’atto del pensiero consapevole quale fondamento ontologico della storia, ci si “assicura” vittoria e ruolo mediante un uso acritico ed ideologico della storia:

«Per Lukács il pensiero pensante è l’uomo reale; il mondo pensato il solo reale. Ora, è un fatto che gli uomini hanno una coscienza che svolge una funzione determinata, mai irrilevante. Ogni teoria della società deve fare in primo luogo i conti con questa realtà, sebbene essa sia stata il punto di partenza di tutti gli idealisti i quali ebbero un ruolo del tutto irrilevante nella storia dello spirito dell’umanità. Che cos’è questa coscienza e che funzione svolge nella storia? La risposta del marxismo è una risposta chiara e precisa: io constato il fatto che gli uomini hanno una coscienza; seguo la storia e constato che essa vi adempie questa o quella funzione. Ma non mi riesce di negarla! O di sostituirla mediante una coscienza “costruita”, che non si può cogliere da nessuna parte, di cui non si sa se sia un uccello o un pesce, che esiste solo nel mio concetto». [4]

Libertà e necessità
Per Lukács l’essere umano è un’unione indissociabile di libertà e necessità. Fa la storia in circostanze non scelte, ma è sempre ad un bivio, può scegliere se restare all’interno del confine sociale in cui si è formato o mettere in atto il riorientamento gestaltico. L’essere umano introduce con la teleologia (il fine) la storia della collettività. La storia è l’intreccio di finalità, i cui effetti non sono del tutto prevedibili.
La coscienza per l’ortodossia è solo un ente determinato che ha l’illusione di potersi determinare ed essere libera nelle scelte. Per Lukács le coscienze sono dinamiche, vivono e si formano all’interno del modo di produzione, interagiscono con esso, sono attività creante, quindi sono portatrici di un potenziale di emancipazione capace di portarle al di là degli spazi di significato delle strutture di sistema. Il logos, la razionalità, ha la possibilità di rigenerare la totalità della prospettiva storica di cui la persona è parte con nuovi significati. Per l’ortodossia comunista-marxista la coscienza è invece consegnata ad un determinismo controllabile e concluso:

«Gli uomini hanno idee, sentimenti, si pongono persino taluni scopi e giungono a immaginarsi che tali idee e sentimenti abbiano un ruolo importante e autonomo nella storia; che tali scopi siano i medesimi che vengono realizzati nella storia. I materialisti hanno sempre combattuto questo modo di pensare. A seconda della formulazione specifica della teoria materialista si è perciò ricondotta la coscienza degli uomini ora a questo ora a quello, finché il moderno materialismo marx-engelsiano l’ha collegata in ultima istanza alla struttura economica. Del resto, non si tratta di una coscienza costruita, ma di quella vivente realizzata nella mente degli uomini. Ma ogni materialismo, qualunque sia la sua formulazione, ha in comune l’idea che tra la coscienza degli uomini e il mondo (società) che la circonda sussiste una connessione causale! La coscienza degli uomini è il prodotto del mondo che li circonda. Si tratta di una verità elementare, ma purtroppo tutta la nostra polemica contro il compagno Lukács verte su verità elementari del materialismo marxista». [5]

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico
La coscienza, per i marxisti-positivisti, è misurabile, è ridotta a mere qualità primarie, è quantificabile e dunque prevedibile. La si può addomesticare per anestetizzare la corrente calda del pensiero critico:

«Le leggi, che dominano nella natura, fanno dunque posto al volere cosciente. L’“atteggiamento che diventa attivo”, la coscienza degli uomini, è certo qualcosa di nuovo rispetto alla natura, pur essendo in egual misura scaturito dalla natura. Ma gli idealisti vogliono servircelo come l’elemento decisivo, l’elemento determinante “in ultima istanza” della storia». [6]

Per riportare la categoria del possibile nella storia è necessario distinguere i processi naturali dai processi storici. I primi seguono un ordine deterministico ed irreversibile, mentre i secondi non sono meccanicamente determinati: le condizioni storiche permettono di progettare l’alternativa al presente con la responsabilità del singolo e della collettività. Attribuire alla storia gli stessi processi della natura è tipico del capitalismo e della sua curvatura tecnocratica che ha l’obiettivo di omologare e sottrarre dalla storia il pericolo dell’indeterminato relativo:

«Le abitudini mentali proprie del capitalismo hanno impresso a tutti gli uomini, e soprattutto a quelli orientati verso gli studi scientifici, la tendenza a voler spiegare il nuovo sula base del vecchio, la realtà d’oggi riducendola ai dati della realtà di ieri». [7]

 

Coscienza e comunità
La coscienza è condizionabile, ma non determinabile. La coscienza individuale, e specialmente di classe, può disalienarsi attraverso la categoria della totalità che consente di ricostruire il dato all’interno di relazioni. Tale genealogia permette di riposizionarsi e di elaborare nuove potenzialità comunitarie, di ribaltare il condizionamento ideologico per un processo storico di liberazione ed emancipazione, introducendo una faglia sostanziale rispetto alla linearità deterministica:

«Infatti, “nel pensiero esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione”. Il materialismo volgare invece – per quanto possa assumere una maschera di modernità, come nel caso di Bernstein e di altri – resta prigioniero della riproduzione delle determinazioni immediate, delle determinazioni semplici della vita sociale. Esso crede di essere particolarmente “esatto” quando le assume semplicemente senza analisi ulteriore, senza sintesi nella totalità concreta, quando le mantiene nel loro astratto isolamento e le spiega unicamente mediante leggi astratte, non riferite alla totalità concreta. “La rozzezza e l’assenza del concetto – dice Marx – sta proprio nel fatto di porre in relazione tra loro in modo accidentale, di inserire in un contesto meramente riflessivo». [8]

Coscienza e “falsa coscienza”
Il proletariato, gli sfruttati, gli infelici, per il filosofo ungherese sono i portatori in potenza della verità della storia. Essi possono riportare la verità dove vige la falsa coscienza con la categoria della totalità, possono risolvere le contraddizioni dal “basso”, svelare l’orrido del sistema, perché lo vivono nel loro doloroso quotidiano, e non vi è partito o burocrazia che si può sostituire alla prassi della emancipazione che spetta solo a coloro che subiscono la violenza del sistema:

«Infatti, la situazione di classe del proletariato introduce direttamente la contraddizione nella sua stessa coscienza, mentre le contraddizioni che provengono alla borghesia dalla sua situazione di classe, dovevano necessariamente manifestarsi come limite esterno della coscienza. D’altro lato, questa contraddizione significa che nello sviluppo del proletariato la “falsa” coscienza ha una funzione del tutto diversa che nelle classi precedenti. Mentre cioè, nella coscienza di classe della borghesia, per via del suo modo di riferirsi all’intero della società, anche il corretto accertamento di singoli dati di fatto o momenti dello sviluppo mette in luce limiti presenti nella coscienza, scoprendosi come “falsa” coscienza, nella stessa “falsa” coscienza del proletariato si cela invece, persino nei suoi errori materiali, un’intenzione verso la verità».[9]

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi
La coscienza nell’interconnessone attiva resta fondamentale anche nelle fasi successive del pensiero, poiché senza di essa le connessioni storiche non sono possibili: la coscienza non è certo astorica, ma è nella storia, ad essa spetta il compito della prassi, di essere portatrice del movimento decisionale nella storia. L’ontologia dell’essere sociale è in continuità con la fase hegeliano-marxista, non è una discontinuità epistemologica, ma un affinamento del metodo e dei contenuti dell’indagine filosofica:

«La coscienza umana, invece, viene messa in movimento da posizioni teleologiche che oltrepassano l’esistenza biologica di un essere vivente, quantunque poi esse finiscano per servire direttamente anzitutto alla riproduzione della vita, in quanto a tal fine producono sistemi di mediazioni che in misura crescente retroagiscono, dal punto di vista tanto della forma quanto del contenuto, sulle posizioni stesse, per ritrovarsi però, dopo questi giro fatto di mediazioni sempre più ampie, di nuovo al servizio della riproduzione della vita organica». [10]

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi
La coscienza umana si forma all’interno dei rapporti materiali, ma non è il suo semplice epifenomeno: l’interazione con la realtà materiale consente “il salto qualitativo”. Nell’interazione si forma la consapevolezza decisionale. Nel lavoro, nella prefigurazione del fine, nella trasformazione attiva, la coscienza struttura la prassi, poiché gli stimoli ricevuti sono rielaborati, ne svelano l’attività decisionale senza la quale nessuna struttura economica è trascendibile:

«L’essenza del lavoro consiste proprio nel suo andar oltre questo arrestarsi degli esseri viventi alla competizione biologica con il loro mondo circostante. Il momento essenzialmente separatorio è costituito non dalla fabbricazione di prodotti, ma dal ruolo della coscienza, la quale per l’appunto qui smette di essere un mero epifenomeno della riproduzione biologica: il prodotto, dice Marx, è un risultato che all’inizio del processo esisteva “già nella rappresentazione del lavoratore”, cioè idealmente». [11]

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza
Il trionfo della libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza, la quale nella storia impara a conoscere la realtà materiale, se stessa e a tessere percorsi teleologici collettivi. La coscienza è libera se trasforma un dato astratto in concreto. La reificazione (“rendere qualcosa di astratto una cosa concreta”) è la condizione da cui emanciparsi, ma tale processo dialettico nella storia dell’umanità non avviene in modo necessario: solo in natura i processi accadono secondo leggi a cui nulla può sfuggire. Costanzo Preve, con la sua capacità di scandaglio, coglie la complessità del concetto di libertà e coscienza di classe nel filosofo ungherese, palesando che in Lukács la libertà e la coscienza non sono atti puri, ma vivono nell’interazione attiva della storia:

«La coscienza proletaria invece lo può fare, perché il proletariato non aspira a divenire una nuova classe sfruttatrice, ma ad abolire tutte le classi. Detto altrimenti, per la borghesia l’universalismo è impossibile, mentre per il proletariato è invece possibile. A sua volta, la categoria di possibilità non deve essere intesa nel senso di scelta arbitraria (katà to dynatòn), ma nel senso di possibilità necessariamente iscritta in una potenzialità ontologicamente garantita (dynamei on)». [12]

Costanzo Preve interpreta e giudica G. Lukács il più grande marxista del Novecento che ha congiunto Marx con le conquiste teoriche di Fichte, e che ha testimoniato – con la sua produzione filosofica controcorrente – la passione durevole per il comunismo e dunque la libertà quale fondamento non contrattabile.

Libertas philosophandi
Lukács è la testimonianza della inevitabile frizione tra potere e filosofia, tra libertas philosophandi e burocrazia. Ogni filosofo è “fedele al proprio destino”, risponde a se stesso, all’esodo perenne che lo sostanzia, che lo trasforma in un problema o in un enigma per il potere. Lukács, e la sua vicenda tormentata, simboleggiano l’errare della filosofia fuori dalle caverne nelle quali si vorrebbe rinchiudere il pensiero teoretico.
Ancora oggi Lukács è oggetto di rimozione nella sua patria, l’Ungheria, al punto che il governo di Viktor Orban ha chiuso nel 2012 l’Archivio Lukács privandolo dello status di luogo di ricerca e nel 2017 ha rimosso, nell’indifferenza globale, la sua statua dal parco San Istvan di Budapest.
Il pensiero, e la teoretica della libertà continuano ad intimorire – nel passato come nel presente. Sono cambiate le forme con cui si effettua l’uccisione, ma i liberi pensatori continuano ad essere una minaccia inquietante per i padroni dell’ordine del discorso. La congiuntura storica attuale ha relegato Lukács tra gli autori da censurare. Ma il pensiero sopravvive alle congiunture nefaste, per cui la storia – nel suo dinamismo – gli restituirà ciò che il presente gli toglie.
La filosofia è libertà dialettica che si occupa e pensa il concreto nella sua espressione massima, è ontologicamente fondata nella necessaria potenzialità umana di pensare per poter costruire percorsi di senso nella storia.

Salvatore Bravo

Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács

[1] AA.VV., Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukacs. 1923-24, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 79.

[3] Ibidem, pag. 80.

[4] Ibidem, pag. 89.

[5] Ibidem, pag. 90.

[6] Ibidem, pag. 103.

[7] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013, pag. 133.

[8] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, pagg. 12-13.

[9] Ibidem, pagg. 94-95.

[10] G.Lukács, Ontologia dell’essere sociale, volume II, Editori Riuniti, Roma 1981, pag. 267

[11] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, op. cit., pag. 13.

[12] C. Preve, Il testamento filosofico di Lukács, IV parte, paragrafo 14, kelebek.


La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
Il governo ungherese odia la filosofia: rimossa la statua di Lukàcs, ebreo e marxista

Il governo ungherese di Orban ha deciso di rimuovere la statua del filosofo ungherese hegelo-marxista György Lukács, autore di pietre miliari della filosofia del Novecento. Un gesto criminale, che denota non solo ignoranza, ma anche un chiaro intento politico.

La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo–Fondazione Agnelli - Eudoscopio

Salvatore Bravo

La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”.
In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Ogni anno “il sistema formativo” attende il giudizio della Fondazione Agnelli. Similmente all’Apocalisse la Fondazione Agnelli con Eduscopio emette il suo giudizio sui vinti e sui vincitori, stila elenchi e graduatorie delle scuole superiori con esiti positivi e performanti, taluni salva, altri boccia. I risultati, ampiamente pubblicizzati, diventano strumento del marketing annuale delle scuole superiori. Le graduatorie e gli esiti, voce per voce, sono usate dalle scuole secondarie vincenti per attrarre iscritti, per divorare e cannibalizzare i perdenti. Le “grandi scuole” diventano polo di attrazione e di speranze per famiglie ed alunni in cerca di “successo formativo”. In tal modo le scuole perdenti, anno dopo anno, sono prosciugate degli iscritti, perdono la dirigenza, sono assorbile dalle scuole vincenti e dunque scompaiono: divengono parte di un’altra storia che nessuno narra, la loro identità evapora, è cancellata in nome del successo di pochi.
Il clima competitivo che si inietta è naturalmente fatale alla cultura come alla crescita formativa dell’essere umano, poiché la competizione a colpi di progetti e spettacoli in vetrina diviene la legge della sopravvivenza, per cui ogni mezzo è lecito pur di mantenere iscritti. Si punta sul “fare”, sul numero di progetti, sulla cancellazione dei debiti, sulla promozione facile, sulla scuola che in quanto prodotto è esposto nelle vetrine della contemporaneità. La scuola è un campo da giochi senza frontiera. Si silenziano i professori e le professoresse stile tradizione, ovvero che vorrebbero che i voti e la formazione non fossero un’icona vuota al cui interno vi è poco o nulla, ma spessore culturale e formativo.

La scuola della sola quantità
La pedagogia ufficiale sostiene la scuola azienda dichiarandosi scientifica e moderna e condannando tutto ciò che è in odore di mondo classico con annessi metodi. Le scuole ricattate dalle regole della competizione liberista, sostenute dalla pedagogia ideologica del liberismo, sono trasformate in un non luogo: non formano, deformano psiche e passioni degli alunni in nome del successo del fare e mai del pensare, sono la palestra che plasma i futuri competitori, insegna loro ad essere individui astratti che disprezzano le scuole e le persone che vivono negli istituti dei perdenti. Si naturalizza la lotta, gli alunni sono pedine di un gioco strutturale incompreso ed incomprensibile. La superstizione diviene la legge che muove le vite degli alunni e di tutta “la comunità” scolastica. Nessuno mette in dubbio il giudizio universale che cade sulla “testa” di ogni scuola, ma fatalmente si è trascinati nel gorgo degli eventi e dei giudizi. Nessuno osa fare una lettura critica della Fondazione Agnelli, fondazione privata di stampo liberista che caldeggia la scuola azienda speculare al mercato deregolamentato. Il suo giudizio non solo impera in modo anonimo ed asettico, ma le voci che utilizza per giudicare le scuole divengono i parametri a cui le scuole si devono adeguare: la sostanza prima è la quantità spacciata per qualità, il successo misurato su crediti. La scuola ed i processi formativi sono ridotti a numeri, a statistiche, a proiezioni algebriche. La parola che campeggia è successo espresso mediante graduatorie numeriche. I numeri divengono la parvenza di un’oggettività indiscutibile. I numeri sono neutri nella propaganda della Fondazione Agnelli che mediante Eduscopio dichiara l’oggettività assoluta della propria indagine. Si educa alla superstizione dei numeri, l’alfabeto numerico è rappresentato come un linguaggio oggettivo che parla da sé senza il bisogno di mediatori umani. In tal modo parametri e numeri divengono le voci divine del giudizio della nuova pedagogia che, anziché formare l’essere umano, ha sposato la causa delle statistiche, della quantità, dei parametri spacciati come unici possibili e scientifici. La superstizione è così acefala, nessuno mette in discussione i dogmi della religione della quantità, anzi ci si inginocchia, si spera nella sua clemenza ogni anno, ci si sente colpevoli dinanzi al giudizio fatale che ogni anno incombe. Si è pronti a mettere in campo ogni energia competitiva, affinché l’anno successivo il giudizio possa essere migliore, perché si possa scalare di qualche posizione la graduatoria annuale. La tensione è in ogni scuola, si colpevolizzano i docenti per non essere stati sufficientemente innovativi (parola dietro la quale vi è l’immissione di tecnologie e capacità di vendita del prodotto scuola). La soluzione per attrarre iscritti è l’unico scopo dell’attività quotidiana: si sarà giudicati per il successo, per la carriera degli studenti, non certo per la qualità, per la capacità di trascendere il particolare per l’universale. Si inseguiranno le attività che vuole e prescrive il mercato, si imposterà la didattica su domande stile test per insegnare agli alunni a superare esami universitari delle facoltà scientifiche che spesso utilizzano tali modalità all’ingresso e durante il percorso.

Nel regno dell’astratto
L’astratto è la legge che guida il mondo della nuova religione con i suoi papi senza nome, senza volto: non è lecito sapere i nomi degli operatori, né vedere i loro visi, solo i numeri appaiono.
Anche la scelta universitaria è orientata dagli organismi privati, dalle università private, dai mezzi mediatici che continuamente inneggiano alla libertà nella forma dell’individualismo senza limiti, e nel contempo orientano alla scelta verso le facoltà richieste dal mercato. Il benessere psichico degli alunni, professori e dirigenti è ampliamente ignorato, la legge del mercato – con “il suo linguaggio oggettivo” – minaccia ed incalza,  e nessuno sembra rispondergli in modo critico. Non vi è epochè alcuna sul giudizio di tali enti, non vi è nessuna discussione, ma quotidiani e mezzi di informazione pubblicizzano i risultati delle scuole di successo aumentando il clima di tensione e mortificazione. Gli alunni delle scuole vincenti si sentono anime superiori, futura razza padrona destinata ad un grande futuro, mentre i perdenti acquisiscono un senso di inferiorità che li spinge verso la demotivazione o la frustrazione. Le gerarchie sociali si duplicano e si confermano: le scuole vincenti sono le scuole delle classi agiate, le scuole perdenti raccolgono un bacino meno fortunato.
Gli alunni imparano a dividere la realtà sociale secondo un confine invalicabile, i genitori spingono i figli ad iscriversi nei licei di successo, a fuggire i licei perdenti che a volte sono scuole di tradizione che di conseguenza si estinguono. Nessun senso sociale, ma ciascuno in un’ottica individualista pensa solo al proprio “particulare”. La tragedia appare in mille forme: la Fondazione Agnelli con Eduscopio è una delle sue voci. La situazione non sarebbe così grave, se l’intervento di Eduscopio non si inserisse in un contesto già segnato dalla competizione e dall’aziendalizzazione, paradigmi non messi in discussione da nessun partito e da nessun movimento. Anzi si accelera sempre più sull’autonomia e dunque sulla più dura competizione senza contenuti.
La formazione della persona è sostituita dalla formazione del competitore modulare che deve adeguarsi ai flussi del mercato. La fatale legge divora talenti e disposizioni emotive, è un olocausto silenzioso ed invisibile che non trova voce alcuna in una scuola che dev’essere votata al solo mercato. Sarebbe sufficiente applicare ad Eduscopio ed ai suoi parametri indiscutibili la lezione metodologica di Marx ed Hegel, poiché i licei che risultano in vetta per il successo formativo sono tali non per la eccezionale bravura dei contesti, che vi può anche essere, ma per il contesto materiale e sociale in cui sono inseriti. I licei primi nelle classifiche sono inseriti nelle grandi città, nei quartieri della borghesia benestante, la quale può attingere dal censo stimoli e possibilità formative in linea con il mercato, mentre i licei perdenti sono inseriti spesso in realtà periferiche la cui utenza è spesso problematica e, come sappiamo, risorse per gli ultimi non ci sono, anzi si dà a chi più, a chi ha successo formativo, con l’effetto di produrre l’immobilità sociale, la quale è poi santificata dalla liturgia annuale di Eduscopio che decreta i vincenti ed i vincitori che stranamente ogni anno sono sempre gli stessi: i licei del centro cittadino nei quali affluisce la borghesia agiata dei professionisti.

Il fato dell’economia
Nessuno pone il problema, così, la falsa scienza dell’oggettività continua ad emettere i suoi giudizi, a riprodurre le differenze che trovano complici gli istituti che, dinanzi al fato dell’economia, chinano le ginocchia con la rabbia inespressa di chi sa la verità. Ma la verità non è di moda: la doxa è la legge del mercato astratto. In questo modo una delle scelte più importanti della vita della persona, la scelta della professione, è oscurata dal gioco del mercato, dalla cecità della quantità che promette tanto, ma non mantiene nulla. Vorrei concludere con Pascal che aveva la chiarezza sulla questione che la scelta lavorativa non può passare per i parametri dell’oggettività o del caso determinato da forze superiori, ma per il rispetto dell’indole della persona:

«La cosa più importante di tutta la vita è la scelta di un lavoro, ed è affidata al caso. Muratori, soldati, conciatetti lo fanno per consuetudine. “È un eccellente conciatetti”, si dice, ma altri al contrario: “Niente è grande come la guerra, gli altri uomini sono vili”. A forza di sentir lodare fin dall’infanzia questi lavori e disprezzare tutti gli altri, si sceglie. Perché naturalmente si ama la virtù e s i disprezza la follia; sono queste parole a decidere; si sbaglia solo a metterle in pratica. Tale è la forza della consuetudine che, di quelli che la natura ha fatto semplicemente uomini, ne fa diversi tipi d’uomo. In certi paesi sono tutti muratori, in al tri tutti soldati, ecc. Non c’è dubbio che la natura non è così uniforme; dunque è la consuetudine che fa questo, perché costringe la natura, ma qualche volta la natura la supera e conserva l’uomo nel suo istinto, malgrado ogni consuetudine buona o cattiva». [1]

Il caso non può decidere di una comunità o del destino di una persona. Dove regna il caso, nel nostro caso il capriccio del mercato con i suoi flussi deregolamentati e variabili, non vi è che la violenza implicita e non riconosciuta che guida l’infelicità globale dei futuri cittadini che si vuole “schiavi del flusso tempestoso del mercato” che appare anonimo, casuale ed irrazionale e come tale impera sulle vite concrete delle comunità.

Salvatore Bravo

[1] B. Pascal, Pensieri, edizioni Acrobat pag. 80

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