Salvatore Bravo – Ne parlava anche Paul Lafargue. Cronofagia, ovvero predazione del tempo. Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

Paul Lafargue - Le droit à la paresse
Paul Lafargue, Le droit a la paresse, 1883, prima edizione originale

Salvatore Bravo

Cronofagia, ovvero predazione del tempo.

Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo.
Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

1Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli (Saturno devorando a su hijo), 1821.

Iperattivismo di regime
Il capitalismo assoluto si caratterizza per una serie di attributi che riflettono la verità della sua sostanza. Comprendere il capitalismo assoluto nella sua attuale fase è possibile mediante un’attenta osservazione delle pratiche che ha introdotto. La velocizzazione è uno degli attributi del capitalismo attuale. L’inno alla velocizzazione è corale, i canti alla divinità del capitale sono perpetui, per cui ogni suo desiderio nel clero mediatico trova la sua conferma. Si inneggia senza problematizzare le conseguenze della cronofagia, ovvero della predazione del tempo. Ci si limita ad un coro sempre affermativo, sempre servile. Lo slogan attuale è la velocizzazione nella forma digitale e dei trasporti. Informazioni e merci devono scorrere senza limiti. Il feticismo della velocizzazione implica l’adeguamento degli esseri umani ai ritmi delle potenze della velocità. Non solo servitù: si richiede di diventare simile al padrone, alla macchina che detta i tempi, per cui ogni segmento temporale vissuto nell’ottica della categoria della qualità è giudicato una pericolosa trasgressione; la condanna sociale si fa stringente, il disprezzo è pubblico. Il famoso detto nietzscheano “Pubbliche opinioni, pigrizie private” è la nuova formula a cui i popoli devono abbeverarsi. Con la velocizzazione si è chiamati a svolgere sempre più attività, a raggiungere nuovi risultati in tempi sempre più brevi: in tal modo si sottrae tempo per ogni attività politica e pensante, per cui l’attività è solo di ordine strumentale. Alla capacità di effettuare innumerevoli attività corrisponde la pigrizia del pensiero; non v’è tempo per pensare il telos (fine) dell’attività: si è parte di un automatismo che divora con la velocità il concetto. Si derealizza la vita e si conserva lo stato presente. Affinché il reale possa essere pensato – e dunque razionalizzato – necessita del tempo del pensiero. Ma la propaganda inneggiante all’attivismo scoraggia ogni scelta legata al pensiero rappresentandola come inutile ed improduttiva. All’attivismo bisogna contrapporre l’ozio, la pigrizia positiva capace di rimappare i significati, di decodificare il presente. Paul Lafargue (Santiago 1842 – Draveil 1911), genero di Marx, in un’intelligente breve testo, Inno alla pigrizia, scorge nell’attivismo industriale che si profila già nell’Ottocento una nuova patologia sociale che mette in catena i sudditi del sistema: classe operaia e classi medie si piegano alla logica dell’iperattività non comprendendone il valore ideologico ed asservente:

«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé quella miseria individuale e sociale che da due secoli tortura la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale i preti, gli economisti e i moralisti hanno reso sacro e santo il lavoro: uomini ciechi e limitati hanno voluto essere più bravi del loro Dio, uomini deboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo né cristiano, né economista o moralista, contro il loro giudizio, mi appello a quello del loro Dio, mi appello alle spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista contro le prediche della loro morale religiosa, economica e del libero pensiero. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica».[1]

Tanto più l’attivismo ghermisce la vittima, tanto più aumenta la miseria dell’operaio. Non solo miseria materiale, ma specialmente miseria morale. Il tempo accelerato del lavoro è causa di alienazione: ci si atomizza dal mondo per diventare semplici esecutori di operazioni il cui fine è incomprensibile.

 

Mediocrità programmata
Se il mondo greco ha conosciuto la grandezza del pensiero, se la cultura greca si è eternizzata ciò è accaduto in quanto l’ozio, quale tempo liberato dal lavoro, e dedicato al logos è stato il fondamento di un’intera civiltà. L’ozio favorito dalla schiavitù in assenza delle tecnologia, non è stato per i Greci semplice astensione oziosa e festaiola dal lavoro, ma simposio del pensiero, processo di umanizzazione e conoscenza. La pratica filosofica e del logos consentiva di vivere con l’essenziale senza rinunciare alla qualità di vita. La pornocrazia industriale, invece, non conosce che la quantità, per cui accumula, aumentando le miserie dell’abbondanza oltre ogni pensabilità:

«Anche i Greci del periodo classico non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare, l’uomo libero non conosceva che gli esercizi fisici e i giochi di intelligenza. Era il tempo in cui un manipolo di prodi sgominava a Maratona le orde provenienti dall’Asia che Alessandro avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano a disprezzare il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, dono degli Dei: Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit».[2]

Si alleva una nuova umanità organica al potere e mediocre nei desideri mediante l’intensificazione lavorativa. La mediocrità è rassicurante, non aspira che a se stessa, non concepisce che vi siano alternative e giudica il presente come intrascendibile, resta nell’immanenza della certezza sensibile.

 

Tempo correzionario
Allungare il tempo del lavoro e del consumo è la nuova formula correzionaria del capitalismo. Il lavoro sempre più tecnologico e cinetico consente una produzione sempre più elevata, per cui il produttore deve diventare il consumatore coatto delle eccedenze. È l’allevamento in serie del nuovo lavoratore-consumatore, similmente agli allevamenti in batteria degli animali da consumo:

«Dodici ore di lavoro al giorno: ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Ma siamo riusciti a superare questo nec plus ultra! Le fabbriche moderne sono diventate case di correzione ideali dove vengono incarcerate la masse operaie, vengono condannati ai lavori forzati per dodici e quattordici ore non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati corrompere dalla religione del lavoro a tal punto da accettare dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici le ore di lavoro nelle fabbriche; essi proclamavano il diritto al Lavoro come un principio rivoluzionario. Proletariato francese, vergogna! Solo degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza. Ci vorrebbero vent’anni di civiltà capitalista a un greco del tempo eroico per concepire un tale abbruttimento».[3]

Miseria da lavoro
Il lavoro senza limiti osannato produce miseria collettiva. La qualità della vita decade, l’accumulo di tensione diventa aggressività, la distanza spaziale e temporale dagli affetti disintegra le micro e le macro comunità. L’accumulo di lavori in taluni diventa disoccupazione per altri, i lavoratori presi dalla gabbia della competizione sono l’uno contro l’altro nello stesso luogo di lavoro come a distanze chilometriche. La solitudine del lavoratore globale affonda le sue ragioni in un attivismo che mal distribuisce impegni lavorativi come i salari. Tanto più ciò, oggi, è scandaloso, se si considera che l’automazione può sostituire in molte mansioni i lavoratori e che la iperproduzione sta alimentando dinamiche distruttive ed irreversibili a livello ambientale ed umano. Non si ha tempo per pensare, per organizzare la resistenza individuale e di classe, in quanto il paradigma dell’attivismo batte come un martello esiziale nei pensieri di ciascuno: non più esseri umani, ma consumatori e produttori. Lo spirito (Geist) della storia non governa il mondo, al suo posto vi è un immenso ingranaggio cronofago che divora con le vite il tempo del pensiero e della politica:

«Lavorate, lavorate proletari, per aumentare il patrimonio sociale e la vostra miseria individuale; lavorate, lavorate affinché, diventando più poveri, abbiate più motivi di lavorare e di essere miserabili. È questa l’inesorabile legge della produzione capitalista. Poiché, dando ascolto ai fallaci discorsi degli economisti, i proletari si sono consegnati anima e corpo al vizio del lavoro, essi fanno precipitare la società intera in quelle crisi industriali da sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, poiché vi è sovrabbondanza di merci e penuria di acquirenti, le fabbriche chiudono e la fame flagella il popolo lavoratore con il suo frustino dalle mille corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di presunta prosperità è la causa della loro miseria attuale; non dovrebbero correre verso i granai gridando: “Abbiamo fame e vogliamo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo ma, benché pezzenti, noi abbiamo mietuto il grano, noi abbiamo vendemmiato l’uva…”. Altro che assediare i magazzini di Bonnet, a Jujurieux, inventore dei conventi industriali, gridando: “Signor Bonnet, ecco le sue operaie ovaliste, torcitrici, filatrici, tessitrici. Tremano di freddo sotto le loro vesti di cotone leggero così rattoppate da far piangere un ebreo; tuttavia sono state loro a filare e tessere gli abiti di seta delle cortigiane di tutta la cristianità».[4]

Cosa resterà della nostra “civiltà”? È una domanda che dovremmo cominciare a porci nei luoghi del lavoro e nei luoghi di formazione, ma per farsi delle domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Rubare tempo al capitale è già una forma di resistenza a cui non ci si può sottrarre.

Salvatore Bravo

[1] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, Aristos, Trieste 2013, pp. 13-14.

[2] Ibidem, pp. 15-16

“Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit” ; trad.: Un dio ci ha donato questi ozi (Virgilio, Egloghe, 1, 6).

[3] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, op. cit., pp. 19-20.

[4] Ibidem, pag. 26.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

Lev Semenovich Vygotsky-Bravo

La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo.
La parola è il microcosmo della coscienza umana.
L. S. Vygotsky

Salvatore Bravo

Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole.
Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

 

Comunità e parola
La comunità è il luogo della comunicazione, [1] ogni comunità è tale se condivide significati, se le parole sono veicolo di unità e scambio. La parola è il primo dono, la parola è il luogo dell’incontro, è la soglia sulla quale ci si conosce per non restare stranieri ed estranei. Sull’uscio delle parole per la prima volta si scopre di essere parte di un tutto e di appartenersi senza padroni. La comunità è viva sulla soglia delle parole, perché nello scambio dei significati non vi è il semplice transito di informazioni: le parole uniscono il passato con il presente per orientarsi sul futuro.
Le parole sono un dono, nessuno le possiede, esse sono la testimonianza della storia che vive nel presente. Le parole sono il guscio fonetico della storia degli uomini e delle donne. Il significato delle parole ha la sua genealogia nell’uso che uomini e donne hanno fatto di esse, nell’urto che hanno provato nel vivere i significati. La parola è il dono che ogni comunità fa ai propri membri, è un passaggio di significato che esige il rispetto del presente e del passato. Trasmettere significati non è un atto neutro o meccanico, ma un atto etico: la parola ci vincola al rispetto del significato, alla trasparenza che unisce.
La parola è comunità, in quanto è un patto: nello scambio ammettiamo non solo un legame umano, ma anche la fedeltà alla promessa. Nominare significa trascendersi, è un appello all’alterità, una promessa che non solo unisce, ma implica la cura (Sorge) dell’altro e della comunità tutta. Per avere cura della comunità e dei singoli bisogna, in primis, assumersi l’impegno silenzioso di rispettare i significati.
La parola è simbolo[2] che racchiude il significato: in quanto simbolo unisce non divide, non manipola. Senza la parola non vi è concetto. Si diventa persone con le parole con le quali si scopre la dualità insita in ogni persona; ogni “io” se non parla con se stesso, non è pienamente umano. Socrate ed il suo demone: quest’ultimo è la parola resa consapevole, è il concetto che ha pensato il mondo attraverso se stesso.

 

Ambiente e mondo
Il mondo (Welt) è possibile solo se ci sono le parole, solo se i significati divengono il materiale plastico con cui dare forma al mondo. Con le parole si rompe la fosca immanenza per pensare il mondo che verrà, per scrutare i limiti del presente. Le parole umanizzano, sono la differenza ontologica tra la persona e l’animale non umano. L’animale è il suo ambiente (Umwelt), non ha parole, non può trascenderlo e simbolizzarlo, è parte integrante di esso, non immagina una possibilità altra, è addomesticato al suo eterno presente.
Il mondo c’è dove vi è comunità. Le parole uniscono, sono il logos vivo; esse uniscono e dividono, a volte confliggono; i significati possono essere portatori di dialettiche e tensioni. Ma anche nell’unità pregna di tensione vi è comunicazione. Vi è prassi se ci si sente all’altezza delle parole. Se perdono valore e significato, se indicano la doppiezza ancipite del mondo, smettono di parlarci, e lo spirito della storia (Geist) si ritrae dal presente.

 

Tradimento
La comunità (Gemeinschaft) che non riconosce il significato delle parole è solo società dei bisogni (Gesellschaft). Il tramonto dell’Occidente è l’inabissarsi delle parole, il loro uso mercantile; tradire il significato significa iniettare nella comunità la dispersione della stessa, sentire le parole e non avere fiducia che quanto detto corrisponda all’intenzione. È il tradimento del patto primo che non può che vivere della reciproca promessa di rispettare i doni ricevuti. Vi è in tal modo un doppio tradimento: verso il presente e verso il passato.
Le parole non ci appartengono, sono doni trasmessi, per cui il loro uso manipolato o retorico provoca una cesura tra il presente ed il passato. Si diventa creature astratte che non si riconoscono nella comunità del passato come del presente. La parola orwelliana è solipsismo; al suo posto vi è la chiacchiera (Gerede): nessuno ascolta la chiacchiera, la ripensa o la rielabora per fondare mondi e concetti (Begriff). Si sente, avviene lo scambio, ma si resta fuori dalla soglia-uscio che unisce, perché si è mossi dalla sola intenzione di mettere in atto il valore di scambio.
L’altro giunge a noi con le parole.
L’esito nichilistico del capitalismo nella sua fase estrema è la deflazione della parola: non vi è un linguaggio alto o basso, ma la parola è solo un’arma per arpionare il cliente, è lo slogan che parla alla pancia dell’elettore. La parola uncinata destruttura la comunità, la quale diventa, ora, solo l’insieme dell’atomistica delle solitudini.

 

Invidiare il gregge
Se le parole sono annichilite sotto i colpi della violenza dell’economicismo, l’essere umano è condannato alla disumanità, alla nuda vita. L’impotenza è l’effetto del nichilismo delle parole; se i significati corrispondono a niente, se il parlante è altro rispetto alle parole, l’impotenza regna sovrana, il pessimismo diventa sentimento comune. Si è persone se il patto con le parole è rispettato, per cui il tradimento delle parole divenuto sistema, la doppiezza del dire, non può che provocare la fuga dal linguaggio, al punto da invidiare gli animali non umani. L’ultimo uomo non crede alle parole, in quanto sono stare vendute al mercato, per cui invidia l’animale:

 

«Considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato. È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo domandò una volta all’animale: “perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?” Anche l’animale voleva rispondere e dire: “è che dimentico costantemente ciò che volevo dire”, ma dato che dimenticò anche questa risposta e tacque, l’uomo se ne meravigliò. Egli si meraviglia anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. È un miracolo: l’attimo in un batter d’occhio è qua, in un batter d’occhio è là, prima nulla, dopo nulla, torna come un fantasma e disturba la tranquillità di un attimo successivo. Di continuo si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade giù, svolazza, vola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre. L’animale vive così in modo non storico, poiché si muove nel presente, come un numero, senza che ne rimanga una bizzarra frazione, non sa comprendere se stesso, non nasconde nulla e appare in ogni momento totalmente ciò che è, non può essere nient’altro che sincero. L’uomo, al contrario, si oppone al pesante e sempre più pesante carico del passato: questo lo schiaccia giù o lo spinge da parte, grava sul suo passo come un carico invisibile e oscuro, che l’uomo può far finta di rinnegare una volta e che anche in compagnia dei suoi simili rinnega volentieri, per risvegliare la loro invidia. Perciò lo tocca, come se si rammentasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge al pascolo o, in una situazione di maggiore confidenza, il bambino che non ha ancora rinnegato nulla del passato e che gioca fra gli steccati del passato e del futuro in beata cecità».[3]

 

Resistere all’inverno dello spirito deve significare riportare il logos e la parola alla sua verità. Accettare che la parola sia sostituita dalla sua imitazione nichilistica è già complicità. La fatica del concetto è il dovere primo contro la tracotanza che vuole che tutto sia, come affermava Heidegger, sottomano/allamano, ovvero manipolabile e vendibile. Contro il silenzio del turbocapitalismo bisogna rivendicare il primato della parola, la quale riporta la passione dove vige la mortificazione del silenzio. Per essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza le parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione.

Salvatore Bravo

***

[1] Comunicazione, dal lat. communicare, der. di communis «comune».
[2] Simbolo, dal latino symbolum che a sua volta si origina dal greco σύμβολον [symbolon] (“segno”) che a sua volta deriva dal tema del verbo συμβάλλω (symballo) dalle radici σύν «insieme» e βάλλω «gettare, unire ciò che è separato».
[3] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, traduzione a cura di Monica Rimoldi, pag. 3.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Salvatore Bravo – La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

G.W.F. Hegel - C. Preve
Salvatore Bravo
La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio
che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi,
alienazione da se stessi e dalla comunità,
luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

L’animalizzazione dell’essere umano
Il Regno animale dello spirito si manifesta nella moltiplicazione dei bisogni. L’animale non umano nella sua fissità naturale sviluppa bisogni che gli consentono di sopravvivere in un determinato ambiente (Umwelt), ne diviene parte integrante ed indistinguibile. In assenza di intelletto l’animale non ha i mezzi per creare nuovi bisogni, ma deve inevitabilmente rispondere con i suoi istinti all’ambiente a cui è adattato. La natura umana, invece, è dotata di intelletto e dunque moltiplica i suoi bisogni per soddisfare aspirazioni materiali. La moltiplicazione dei bisogni in modo illimitato finisce per disorientare ed annichilire l’essere umano. Essi hanno l’effetto di animalizzarlo in modo particolare: la vita finalizzata all’utile ed ai bisogni senza limiti nega la natura dell’essere umano, la quale si realizza nella storia mediante la relazione comunitaria. L’essere umano, come definito da Marx, è ente generico (Gattungswesen), si definisce nella storia, le sue potenzialità prendono forma nel tempo storico creando mondi (Welt), poiché la temporalità progettante permette di trascendere lo stretto orizzonte dell’ambiente. Il mondo è il luogo degli esseri umani, nel quale operano mediante il lavoro ed i concetti e significano i loro gesti per trascendere la contingenza.

Il bene, ovvero l’universale concreto, procede mediante la conoscenza di sé e del mondo storico: non vi può essere universale concreto che nella feconda tensione tra particolare ed universale. Nella storia l’essere umano mette in atto le sue potenzialità, si conosce e si definisce. Se ciò non avvenisse non vi sarebbe che violenza, poiché l’universale senza particolare è solo annichilimento del concreto. L’universale d’altronde necessità di un lungo processo educativo; perché si giunga ad esso necessita della conoscenza di sé mediante il riconoscimento dell’altro e l’autoriconoscimento. Sono momenti sincretici senza i quali l’essere umano resta in bilico tra l’essere ed il nulla. Lo stare in bilico tra condizioni non definite consente al potere il dominio.

 

Bisogni inautentici e potere
Nella produzione dei bisogni non vi è solo la necessità imperiale del mercato-plusvalore, ma in essi è iscritta la violenza e la razionalità del potere. La moltiplicazione infinita dei bisogni, particolarizza, individualizza nelle intenzioni del mercato che in tal modo si autorappresenta e si legittima nella funzione di soddisfare i bisogni individuali. Già in tale scopo vi è la negazione dell’universale, il soggetto deve atomizzarsi, deve separarsi dal concreto legame con la comunità, per viversi nella sovranità individuale. Hegel evidenzia che in tale individualizzazione dei bisogni, nell’io ipertrofico, in realtà, il soggetto si perde nella moltiplicazione dei bisogni indotti e nell’agire secondo il solo utile personale. In tale attività l’essere umano disperso tra desideri inautentici è solo un vuoto vaso in cui il caos regna. Si è così preda del mondo, cadono le difese del pensiero per essere parte del sistema che si trasforma in ambiente-mercato senza mondo. Si è gettati in un ambiente che chiede l’adattamento senza concetto ed immaginazione. La memoria, non più coniugata con la razionalità, perde la sua funzione di ricordare per concettualizzare ed orientare: essa si riduce al calcolo mediato, a semplice operatività applicativa di schemi predeterminati. Hegel rileva che il soggetto, ormai oggetto dell’economicismo nella corsa alla soddisfazione degli stimoli, non sente fortemente più nulla, diviene un essere anonimo disperso in desideri immediati. Il desiderio, sostituito dalle vogliuzze una per il giorno e una per la notte, come dirà Nietzsche, perde la capacità di favorire la conoscenza di sé, le proprie passioni, per regredire in dipendenza compulsiva. Il soggetto umano, mentre insegue l’iperstimolazione, diviene oggetto del sistema, che lo astrae dalla vita. Hegel constata e profetizza “l’ultimo uomo”, il quale non è un’improvvisa apparizione della storia, ma è l’effetto della “bestia del mercato”:

 

 

«L’animale è un che di particolare, ha il suo istinto e i limitati, non oltrepassabili mezzi dell’appagamento. Ci sono insetti che sono legati ad una pianta determinata, altri animali, che hanno una cerchia più ampia, possono vivere in differenti climi; ma interviene sempre un che di limitato di fronte alla cerchia che è per l’uomo. Il bisogno dell’abitazione ed abbigliamento, la necessità di non lasciar più il cibo crudo, ma di renderlo adeguato a sé e di distruggerne l’immediatezza naturale, fa sì che l’uomo non abbia la vita comoda come l’animale e che, inteso come spirito, neanche possa averla. L’intelletto, che concepisce le distinzioni, porta moltiplicazione in questi bisogni e, dal momento che gusto e utilità divengono criteri della valutazione, anche i bisogni stessi ne sono affetti. È da ultimo non più il bisogno, bensì l’opinione che deve venir appagata, e appartiene appunto alla cultura di scomporre il concreto nei suoi elementi particolari. Nella moltiplicazione dei bisogni risiede per l’appunto una inibizione del desiderio, poiché, quando gli uomini abbisognano di molte cose, la spinta verso una, di cui avrebbero bisogno, non è così forte, e ciò è un segno che la necessità in genere non è così potente».[1]

 

L’inibizione del desiderio diviene alienazione da se stessi e dalla comunità; al suo posto non resta che un mediocre succedaneo: il desiderio diviene immediatezza, sensazione da soddisfare e godere in tempi brevi. Di sensazione in sensazione si realizza la dispersione di sé, l’esistenza è così curvata “dalle passioni tristi” che rafforzano il potere, poiché il soggetto divenuto mezzo del sistema capitale non resiste allo svuotamento dell’io, il quale paradossalmente, diviene un io pieno ed ingombro di stimolazioni ingovernabili.

 

Dialettica e comunità
Al nichilismo individualistico e predatorio Hegel contrappone l’economia fondata sui bisogni della persona e della comunità. Tale fondazione necessita della dialettica, quale modalità per trascendere la minaccia del nichilismo. Il soggetto che si radica nella famiglia e nello stato fonda la sua vita sull’etica, ovvero nel riconoscimento della presenza dell’altro, ciò comporta l’autolimitazione dei bisogni inautentici, e dunque la libertà. Quest’ultima è possibile solo se il soggetto si sottrae all’iperstimolazione perpetua: la libertà è sospensione delle sollecitazione per pensarle e razionalizzarle astraendone la verità storica. Il soggetto impara ad ascoltare se stesso, mentre razionalizza il mondo. Tali disposizioni e desideri autentici si materializzano nella comunità, la quale dà forma storica e vita all’individualità. Lo stato, in tale contesto, è il luogo in cui il soggetto si radica nella storia patria per aprirsi al mondo, per disporsi al riconoscimento ed all’ascolto dell’alterità nella quale ritrova se stesso:

 

 

«Con ciò, che l’uomo debba esser qualcosa, intendiamo che egli appartenga ad uno ‘stato’ determinato; poiché questo qualcosa vuol dire che allora egli è qualcosa di sostanziale. Un uomo senza ‘stato’ è una mera persona privata e non sta in una reale universalità. Dall’altro lato, il singolo può ritener sé nella sua particolarità per l’universale, e presumere che si abbandonerebbe ad un che di inferiore, se entrasse in uno ‘stato’. È questa la falsa rappresentazione per cui, se qualcosa guadagna un esserci che gli è necessario, con ciò si limiti e rinunci a sé».[2]

 

Utilitarismo e vita astratta
L’atomizzazione, la privatizzazione dei desideri rendono il soggetto astratto. L’utilitarismo è una forma di vita astratta, in quanto il soggetto è avulso dal contesto, e si autopercepisce come creatore di se stesso, niente lo precede, per cui il mondo è a sua disposizione, sempre pronto all’uso. Il cosmopolitismo attuale è di ordine nichilistico ed utilitarista, poiché il soggetto senza legame patrio, linguistico e culturale non ha responsabilità alcuna verso qualsiasi comunità: è solo un atomo consumante che divora il mondo.
L’atomizzazione non è un destino, l’essere umano è molto più di ciò che il sistema capitale rappresenta. Il pensiero crea concetti, porge ascolto al disagio, cerca parole per capire. La speranza non è solo potenzialità astratta, ma è racchiusa in ogni vita, in quanto il pensiero creante può essere condizionato, ma mai determinato. La sfida è fendere la caverna capitale con i suoi miti per ritrovarsi comunità. Razionalità e socialità non sono scindibili, la natura umana esige la socialità e l’umanità, senza le quali non resta che il cosmopolitismo nichilistico attuale, il quale è il regno della violenza dell’astratto contrapposto all’internazionalismo, il quale è invece, l’incontro delle patrie, il riconoscersi nella differenza. L’esodo dall’utilitarismo e dal cosmopolitismo nichilistico non può che avvenire mediante il radicamento comunitario, il quale non tribalizza, ma permette alle differenze di ritrovarsi per conoscere e conoscersi in processi storici inesauribili:

 

 

«La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio al comunitarismo».[3]

 

L’animalizzazione dell’essere umano si configura mediante la dispersione utilitaristica che aliena dalla profondità del logos calcolante e senziente a cui si unisce la sottrazione della memoria. Senza storia, senza riflessione sulla storia individuale e collettiva il soggetto è disintegrato in attimi senza futuro e senza passato. La resistenza civile e politica non può che fondarsi sul riappropriarsi del tempo predato dall’utile e dal consumo immediato acefalo.

 

Salvatore Bravo

***

[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1999, p. 344.

[2] Ibidem, p. 346.

[3] C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, pp. 253-254.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Salvatore Bravo – La scuola virtuale del ministro Azzolina vuole studenti che ricevano pochi contenuti, ma edotti nell’uso non consapevole del digitale, dispersi in un presente senza passato.

Lucia Azzolina
Salvatore Bravo

La scuola virtuale del ministro Azzolina
vuole studenti che ricevano pochi contenuti,
ma edotti nell’uso non consapevole del digitale, dispersi in un presente senza passato

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Presente e Futuro senza Passato
La lettera del ministro della pubblica istruzione Azzolina del 27 Giugno 2020 non lascia dubbi: la pandemia è stata ghiotta occasione per dare la spallata finale alla scuola ed alla comunità. Azzolina si rivolge alla comunità, ma omettendo un dettaglio sostanziale: vi è comunità solo nel radicamento dialogico, nella storia, nel passato. Il presente ed il futuro sono dimensioni progettanti, solo se una comunità ha la chiarezza del proprio passato, degli errori, delle potenzialità inespresse come dei valori non contrattabili. Nel testo della lettera non vi è cenno all’importanza del passato, ma il tutto è schiacciato sulla dimensione del presente, con un miope mercificante sguardo sul futuro. La lingua e l’educazione classica fondano la comunità, si può leggere il presente e stabilire le finalità ontologiche ed assiologiche per il futuro, se il passato è parte integrante del presente. La lettera fa appello alla Costituzione, ma nei fatti di essa non vi è traccia, poiché lo sguardo è appannaggio del solo presente retoricamente reso anche futuro. Un popolo-comunità senza passato non esiste, è solo disperso nella globalizzazione-glebalizzazione. La lingua italiana ne è un esempio: è ormai giudicata retaggio del passato: l’inglese dei mercati divora la nostra lingua, sostituisce il lessico italiano con l’inglese. È l’esempio lapalissiano della didattica che punta sul presente e non ha memoria della propria identità che si radica in un arco temporale che unisce passato, presente e futuro. Le comunità possono comunicare se hanno un’identità, se hanno un passato. Se si disperdono nel “liquido” presente sono solo simulacri, per cui sono interscambiabili: pertanto la comunicazione è sostituita con il nichilismo passivo nel quale i popoli come le persone sono interscambiabili:

“Sarà una scuola radicata nel presente, ma con lo sguardo rivolto al futuro, perché ogni pietra che metteremo in questa ripresa sarà la base su cui costruire la scuola di domani. Abbiamo la straordinaria occasione di puntare sul digitale, sulla formazione del personale scolastico, sull’innovazione della didattica e degli ambienti di apprendimento, sul miglioramento dell’edilizia scolastica. Ambienti di apprendimento che non devono essere intesi solo in senso fisico, ma come spazi mentali ed emotivi che incoraggino l’apprendimento collaborativo”.

 

Mondo digitale
L’appello al digitale come opportunità didattica non è supportata da nessun dato scientifico. È un dogma che si abbraccia acriticamente, funzionale ai bisogni del mercato globale, il quale esige ed ordina che le nuove leve del capitale ricevano pochi contenuti, ma siano edotti nell’uso non consapevole del digitale. All’interno della scuola non vi è stato nessun dibattito, nessuna discussione sulla trasformazione che cade dall’alto ed a cui bisogna adeguarsi. Nessuna riflessione sugli effetti a breve o a lunga durata del digitale da un punto di vista fisico e psichico, ma solo accoglienza entusiastica e senza discussione in una scuola definita presidio di democrazia. Le novità che incidono nella vita delle persone, qualora esse siano il centro dell’azione, non possono essere introdotte senza sperimentarne e capirne gli effetti. Si inneggia al successo senza aver ascoltato docenti, genitori ed alunni. L’ascolto democratico è difficile, richiede tempo, e dev’essere argomentato con il concetto ed i dati oggettivi. Se ci si limita pertanto ad una propaganda da campagna elettorale non vi è democrazia, ma una parvenza di essa. Ancora una volta si deve rottamare il passato in nome del progresso. Il dubbio è d’obbligo: siamo sicuri che il nuovo nella forma del digitale formi maggiormente della didattica tradizionale già molto “innovata” negli ultimi decenni? Una comunità sana non procede per slogan, ma per domande e dubbi, ed in questi tempi terribili dubbi e domande profonde paiono assenti, mentre le risposte semplici sembrano prevalere.

Sempre più flessibili
La scuola di settembre sarà flessibile e aperta, dice il ministro, ma non si rende conto che i nostri alunni sono nelle classi per poter imparare i contenuti, per vivere un’esperienza di comunità che è ormai rara, in quanto le lezioni sono continuamente interrotte da PCTO, orientamento, Pon e … Lo scopo, si sospetta, non è di formare, ma di rendere i nostri alunni flessibili, pronti ad essere usati dal mercato:

“La scuola di settembre sarà responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata. Responsabile nell’accompagnare la comunità scolastica a comportamenti coerenti con le misure di sicurezza: istituti puliti e igienizzati, personale scolastico formato, famiglie, studenti e studentesse informati. Flessibile nella valorizzazione delle potenzialità derivanti dall’autonomia scolastica, per la rimodulazione degli orari e delle classi, per l’organizzazione degli ingressi e degli spostamenti. Aperta per la ricerca di nuovi spazi, anche oltre il perimetro scolastico, in un’ottica di integrazione e di alleanza con il territorio. Rinnovata nei locali e negli arredi scolastici, che consentano di modificare le metodologie didattiche e siano funzionali a creare geometrie d’aula variabili, a facilitare la collaborazione tra gruppi omogenei ed eterogenei per competenze e livelli. Rafforzata attraverso il potenziamento dell’organico del personale scolastico, in particolare per le classi di alunni più piccoli”.

 

Nessun dio verrà a salvarci. C’è da augurarsi che le comunità scolastiche possano concettualizzare il presente e le parole per poter difendere la formazione e la comunità da una disumanizzazione che avanza in mille forme e che richiede risposte a domande a cui non possiamo sottrarci.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo. La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona.

Giulio Reggeni
Salvatore Bravo
Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo.
La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi,
è possibile solo se si lotta per un’economia della pace,
per un’economia al servizio della persona.

La Repubblica della pace
La Repubblica e la Costituzione italiana hanno come fondamento il rifiuto della guerra quale modalità per risolvere le contese internazionali e sociali: è il risultato del processo di riflessione sui disvalori del nazifascismo e sui suoi effetti. La guerra e la violenza sono stati i paradigmi e la sostanza del fascismo. Il travaglio e la tempesta di fuoco scatenata dalla violenza fascista sono stati oggetto di processi di concettualizzazione collettiva al fine di fondare il nuovo Stato italiano dopo la seconda guerra mondiale. La Costituzione è espressione del progetto di fondazione di una nuova comunità nel segno della pace, dei diritti individuali e sociali. La violenza e la coartazione della volontà personale sono state sostituite dal rispetto della dignità della persona e dunque dalla sua autonomia decisionale. La Repubblica dovrebbe educare al logos, sostenere i processi di sviluppo della personalità (art. 3), rendere obbligatoria l’istruzione (art. 34), perché vi è pace dove vi è formazione e partecipazione. La pace è il valore della Costituzione e della Repubblica, non una pace zuccherosa, ma pace dialettica e dialogica, che fa dello scontro-incontro dialogico il fondamento della nuova Repubblica.
Di grande rilievo è l’articolo 11 ed il dibattito che l’ha preceduto. La relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini nel 1947 dichiarò, contro ogni nazionalismo, che l’Italia rinnega la guerra in nome del rispetto della pace all’interno dei rapporti internazionali, pace a cui giungere mediante rapporti di reciprocità e limitazioni eventuali della sovranità nazionale:

«Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali».

Articolo 11
L’articolo 11 è il risultato condiviso del dibattito, e dei confronti, e ribadisce in modo inoppugnabile che la Repubblica ripudia la guerra offensiva e promuove accordi che possano evitare conflitti, e a tal fine sostiene gli organismi internazionali, entro cui risolvere le tensioni internazionali:

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

La pace non è un valore che vive nell’iperuranio, dev’essere realizzata con una economia che soddisfa i bisogni autentici delle comunità. L’adesione alla NATO (4 aprile 1949) sin da subito ha inficiato l’articolo 11. Pace e giustizia sono un binomio inscindibile, l’una sorregge l’altra. Proclamare la pace e commerciare in armi non è solo una contraddizione, ma una scissione che struttura un modello culturale fondato sulla doppia morale, sull’ipocrisia. Si occulta la verità negando di fatto la pace proclamata nella Costituzione: non vi è pace che nella verità. La Repubblica – che, come da Costituzione, è res publica, cosa pubblica, patrimonio comune – non può perseguire le esclusioni, le conventicole lobbistiche e le verità di regime e del politicamente corretto, le quali sono la negazione della pace. La nostra Repubblica è distante dalla pace e dalla Costituzione che proclama, ora, è solo oligarchia, e dunque non vi è democrazia, ma solo un teatrino ideologico senza spessore: il male è superficiale affermava la Arendt.

 

L’omicidio Reggeni
L’omicidio di Giulio Reggeni commesso in Egitto tra il gennaio ed il febbraio del 2016, non è un semplice caso giudiziario, ma svela la tragedia e le contraddizioni della Repubblica. Le torture della polizia egiziana tormentarono a tal punto Reggeni che la madre dichiarò di averlo riconosciuto dalla punta del naso: le sembrava che tutto il male del mondo si fosse riversato sul figlio. Nelle parole della madre si palesa la verità: il male è del mondo e nel mondo, quest’ultimo è un intreccio di relazioni spesso inconfessabili. L’Egitto, nello scacchiere mediorientale, ha una posizione strategica, può contribuire a determinare i destini della Libia destabilizzata dall’occidente (2011), per cui è oggetto degli interessi di inglesi, francesi e turchi. La Libia galleggia su gas e petrolio. Pertanto il caso Reggeni è interno a tali logiche di depistaggio con tentativi di inquinare i rapporti internazionali al fine di saccheggiare la Libia condizionando la politica egiziana. Si ipotizza che il suo assassinio possa coinvolgere i servizi segreti egiziani e non, al fine di incrinare i rapporti tra Italia ed Egitto con lo scopo di indebolire una concorrente (l’Italia) nell’area mediorientale. È solo un’ipotesi. Il caso Reggeni è un intrigo internazionale che svela la realtà del Capitalismo assoluto, e specialmente svela quanto l’economicismo abbia attaccato frontalmente la Costituzione al punto da renderla solo un documento da utilizzare per la propaganda di circostanza. L’articolo 11 afferma il dialogo internazionale come valore ed abiura la guerra. Samo abituati al linguaggio orwelliano, grazie al quale le missioni di guerra divengono missioni di pace: manipolazione della lingua, tradimento del dettato costituzionale e del popolo, si pratica la guerra, ma si proclama il valore della pace.

Dichiarare la pace, ma vendere armi
Il caso Reggeni è emblematico della messa in scena dell’oligarchia italiana. Si rassicura la famiglia ed il popolo con i proclami, per poi scoprire che l’Italia ha venduto all’Egitto due fregate Fremm (classe Bergamini di nuova generazione) per 1,2 miliardi di euro, ma è solo un anticipo, perché l’Egitto e il principale partner commerciale dell’Italia in campo militare. Si calcola che le commesse ammontino a 9-11 miliardi di euro. L’articolo 11 dichiara che l’Italia rifiuta la guerra quale mezzo per risolvere le tensioni internazionali, ma l’Italia vende armi che potrebbero essere utilizzate per le guerre internazionali. Cosa resta dell’articolo 11? Nulla, solo un proposito senza contenuto. L’Italia alimenta la guerra con la vendita delle armi e la violenza che denuncia la coinvolge direttamente. Reggeni è stato ucciso da uno Stato che l’Italia arma. Vi sono colpe giuridiche e morali, l’Italia si trova nella posizione probabilmente di averne entrambe: la violenza che alimenta è un boomerang, come qualsiasi violenza, pronto a riversarsi su coloro che la alimentano.
Quando si legge l’articolo 11 si devono ricordare le parole della madre di Giulio nella dichiarazione del 29 marzo del 2016: «Sul viso di Giulio si è riversato tutto il male del mondo». Quel male ci appartiene e giustizia vorrebbe non solo che gli assassini fossero processati, ma anche che si comprendessero le responsabilità italiane. Vendere armi significa fomentare la violenza, per cui ogniqualvolta che leggiamo l’articolo 11 dovremmo rammentare e riflettere sulla vendita delle armi, ed essere presi dall’euristica della paura come l’ha definita H. Jonas. Ovvero, ogni arma venduta espone qualsiasi essere umano al pericolo della violenza che non resta radicata in un luogo, ma si diffonde e potrebbe tornare indietro con effetti non calcolabili. Difendere la pace, volere la giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona. La fase attuale capitalismo è di tipo imperiale, un numero limitato di oligarchi alimenta la violenza internazionale e consolida il proprio potere all’interno di logiche di aggressione e di diffusione di una potenza di fuoco senza comparazione nella storia dell’umanità. La guerra è la struttura del capitalismo nella sua fase imperiale:

«Quasi tutti riconoscono che la guerra attuale è imperialista, ma i più deformano questo concetto o lo applicano unilateralmente o cercano di far credere alla possibilità che questa guerra abbia un significato borghese-progressivo di liberazione nazionale. L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie».[1]

 

Perché vi sia giustizia bisogna riportare ogni morte violenta alla sua concretezza storica, altrimenti non potrà che esservi solo il teatrino del politicamente corretto. Abbattere statue, come in questi giorni, non produce cambiamenti di alcun genere. Le statue sono parte degli strati archeologici della storia, sono monumenti che devono indurre a riflettere sui valori delle nostre comunità. Abbattere, in assenza di progetti politici, è solo un atto disperato e nichilistico da parte di coloro che hanno rinunciato a creare nuovi concetti, a lottare contro i fondamenti su cui si basa il sistema. Vi è un malessere non concettualizzato che non preoccupa il potere, in quanto si limita ad azioni disorganiche e senza futuro, e, che anzi, confermano il presente. Se si vuole dare giustizia e pace alle vittime della violenza è necessario pensare la volenza di sistema per poterla neutralizzare.

Salvatore Bravo

 

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[1] V.I. Lenin, Il socialismo e la guerra, trascritta per Internet dalla redazione “Che fare”, Aprile 2000.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Libertà come urto qualitativo

Salvatore Bravo

L’integralismo non riconosciuto dell’Occidente

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La libertà come urto qualitativo
La libertà come desiderio
La libertà come qualità del vivere

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Senza una adeguata formazione assiologica e culturale
la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine.

La libertà è nel desiderio della qualità
senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci



L’Occidente si fonda sul mito della libertà trasformatasi in una vera superstizione e dunque in dogma indiscutibile. La libertà è il principio sventolato in nome del quale sono possibili i bombardamenti etici come la competizione economica senza regole: la liberà è invocata, ma mai definita. Si usa la parola libertà, ma non la si conosce. In tal modo diviene un catalizzatore mitico, in cui convogliare forze, risorse e popoli da utilizzare per la conservazione e l’imperialismo economico. La “libertà ideologica” presuppone una linea divisoria nel mondo, lungo la quale scorre il filo spinato che designa il confine tra l’impero del bene ed il male assoluto. Il semplicismo mediaticamente organizzato consente la supina accettazione di ogni azione militare in nome della libertà. La propaganda a tamburo battente demonizza la controparte per impedire che si colgano complicità ed interessi lobbistici.

Vi è davvero politica soltanto se i cittadini definiscono il significato delle parole, le interrogano per verificare la coerenza tra la definizione e la realtà storica. Una società senza il “ti estì” (il che cos’è) è senza filosofia e senza politica. La definizione non solo astrae dall’immediato, ma traccia significati, discerne e dunque definisce e crea concetti. Senza giudizio non vi è pensiero, ma solo collettivismo, e nel nostro caso collettivismo consumistico. La libertà è lo shopping presso gli ipermercati, dove rivivere la tragedia della solitudine programmata.

È la fine della politica come categoria del dialogo tra alterità. Al suo posto regna la tracotanza del pensiero unico, che tollera senza capire e capirsi: è il regno della monade-capitale. Le nuove generazioni sono formate alle “libertà-libertinaggio”: ovvero promiscuità e consumo irrazionale sono le pratiche entro cui si connota la libertà.

La libertà – nel senso autentico del concetto – necessita della mediazione del pensiero; l’azione non dev’essere irriflessa, ma consapevole, responsabile e teleologicamente tesa alla verità. La libertà è il processo dialettico che procede verso la concettualizzazione, è operare l’epochè del mondo per pensarlo, ridefinirlo e significarlo. Il neoliberismo invece, diseduca alla libertà del pensiero per favorire le semplici pulsioni: è il regno animale dello spirito. Si pensi all’ultimo iphone che consente l’acquisto immediato col riflettere il viso nello specchio magico del mezzo: acquisti sempre più veloci, sempre meno pensati. È la logica del frattale del consumo, dall’individuo, alle comunità locali, allo Stato, alle comunità di Stati associati, è il ripetersi di logiche sempre uguali: liberi, ma solo di vendere e consumare. Se la borghesia tradizionale è ormai scomparsa con le sue regole e valori, bisogna, tuttavia, ammettere che tra la borghesia finanziaria anonima ed apolide attuale e l’alta borghesia di tradizione vi è comunque un asse che ancora le unisce, malgrado le faglie, ovvero entrambe credono e praticano il progresso dell’accumulo senza limiti. Marx ed Engels avevano tematizzato il mito dell’illimitato associandolo alla grande borghesia dell’Ottocento, che oggi è massimamente sviluppato nella borghesia della finanza:

«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale».[1]

 

La fase imperiale del capitalismo divora la libertà, la quale è stata il vessillo da utilizzare contro le gerarchie feudali. Si assiste al rovesciamento delle logiche

 

La libertà come urto qualitativo
La libertà è conoscenza di sé, è valore maieutico, poiché nella libertà la persona rinasce e si conosce per progettare la vita, per tracciare percorsi significanti, in cui ritrovarsi. La libertà è un valore vitale che avvolge ritmicamente la vita per emanciparla dalle forme di alienazione in cui cade. La libertà è la categoria della qualità con la quale la quantità è governata e finalizzata ai reali bisogni della vita. Alla qualità si giunge, mediante il processo dialettico.
La dialettica di Fichte, con il suo lavoro quotidiano di autosuperamento, è il paradigma della libertà. La libertà è urto concettuale contro il non io, contro le rigidità superstiziosa del mondo, è prassi ed attività del pensiero:

«L’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo, questo è il presupposto assoluto. Di qui deriva una passività del non io, in quanto esso deve determinare l’io come intelligenza; l’attività contrapposta a questa passività è posta nell’io assoluto, quale attività determinata, esattamente come quell’attività mediante cui il non io viene determinato».[2]

La Rivoluzione permanente in nome dei consumi è nel codice genetico dell’integralismo capitalistico. Ma, mentre in passato si poteva distinguere il borghese dal proletario, il proletario dal bracciante, si assiste all’omologazione totale, per cui tutti sono consumatori. L’integralismo dell’Occidente ha fondato la prima società omologata della storia dell’umanità, la differenza è data dal censo, ma tutti si ritrovano eguali sulla linea eterodiretta della post-democrazia consumistica.
La violenza integralista deturpa le coscienze, le aliena al punto che anche dinanzi alla verità lapalissiana dei fatti, si risponde con l’esiziale “Non c’è alternativa”. Pertanto l’integralismo si accompagna con il dogmatismo religioso, con l’asservimento alle merci delle persone, non più esseri umani, ma automi pronti al consumo, all’edonismo di massa. Ogni voce critica è accusata di voler impedire la libertà. Quest’ultima è intesa solo come pratica concorrenziale distruttiva ed autodistruttiva. La libertà senza cultura del dono e curvata all’economicismo è sempre più simile alla lotta per la sopravvivenza, con l’effetto di fondare la libertà sulla devastazione:

«La normalizzazione dell’informale tende a distruggere i legami sociali infranazionali e infrastatali su cui si basa il suo dinamismo. Essa introduce in effetti i fermenti più distruttivi della modernità: l’egoismo, l’individualismo e la concorrenza selvaggia. Per ciò stesso, essa corrode la base sociale della creatività endogena: le reti neoclaniche di solidarietà e di clientela. Risulterebbe così compromessa proprio il successo delle speranze di cui è portatore l’informale di un passaggio alla postmodernità».[3]

Bisogna dialettizzare il presente per ricominciare a pensare che le categorie con cui rielaboriamo i dati non sono enti naturali, ipostasi, ma sono dedotte storicamente e pertanto modificabili.

 

La libertà come desiderio
La libertà è desiderio senza rappresentazione. L’immaginario colonizzato produce desideri indotti, mentre la libertà, in quanto attività desiderante è relazione con cui il soggetto nell’urto conosce se stesso, per scoprire di sé profondità che solo successivamente può rappresentare e concettualizzare. L’attività è relazione, poiché solo la relazione duale è capace di far emergere in modo spontaneo la verità e l’individualità che si conosce nella comunione desiderante:

«Nel nostro mondo, in cui “il deserto sta crescendo” (Nietzsche) e “l’angoscia si diffonde”, specialmente a causa della “pianificazione di una felicità uguale per tutti” (Heidegger), l’esistenza dell’altro apre una breccia in un orizzonte da cui siamo oppressi come un’ombra plumbea o un crepuscolo in cui tutto diventa grigio. Tramite il desiderio risvegliato o rivitalizzato in noi, l’altro ci chiama a un al di là – per vivere e per pensare il “non-ancora”. L’altro ci consente di conservare nella nostra memoria, in tutto il nostro essere, lo spazio di un “non ancora” come speranza di un futuro. Il “non-ancora” non deve essere vissuto come un vuoto da riempire, ma come il mantenimento in noi di una disponibilità ad accogliere la verità, la bellezza, la gioia, si potrebbe dire la grazia. Ciò può salvarci da un’eventuale disperazione o melanconia che derivano dal nulla che possiamo aspettarci, un nulla che possiamo costruire diventare. Il desiderio sconvolge la nostra rappresentazione del mondo in cui sono abolite le differenze e ciò che esse possono mettere in discussione del modello che ci viene imposto. Il desiderio riemerge come la fonte che ha strutturato l’insieme del nostro universo, una fonte di cui esso non sicura e che rimane al di fuori del suo orizzonte. Il desiderio ci ricorda la natura non rappresentabile dell’origine: la nostra, quella dell’altro e del mondo. Ripristina il legame tra il dentro di noi e il fuori di noi. Ci riporta a un essere in presenza estraneo al cerchio della rappresentazione».[4]

La libertà come qualità del vivere
L’integralismo dell’Occidente si connota per essere integralismo della passività rappresentata per attività. La trappola da cui congedarsi è l’illusione della libertà. All’integralismo della passività cinetica bisogna opporre l’attività desiderante senza la quale non vi è che il regime delle passioni tristi: il potere ci vuole tristi, estranei a noi stessi per poterci colonizzare. Senza il riconoscimento di tale verità non è possibile l’esodo dall’attivismo nichilistico. La libertà è pratica della qualità, per cui è necessario porre al centro il logos con il quale significare la quantità e porla nell’ordine razionale della comunità, ancora una volta i classici ci vengono incontro e ci donano verità su cui riflette e riprogettare il presente:

«Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».[5]

 

La democrazia è il luogo politico dove imparare ad essere liberi. Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci.

Salvatore Bravo

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Ousia, pag. 14.
[2] J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, 2017, pag. 483.
[3] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 2017, pag. 148.
[4] L. Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 71.
[5] Epicuro, Lettera a Meneceo, Ousia, pag. 4

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica.

Metafisica umanistica compendio bravo
Salvatore Bravo
La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi,
ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica
e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica

Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica.

ISBN 978-88-7588-201-3, 2017

indicepresentazioneautoresintesi

Necessità della metafisica
La necessità della rifondazione della metafisica è un’urgenza non procrastinabile. Il tramonto dell’Occidente coincide con la fine della metafisica.
Ma la metafisica è progettualità onto-assiologica. Una civiltà senza metafisica rinuncia ad ogni progettualità e rinuncia specialmente alla verità. Si configura una civiltà strutturalmente violenta: l’essere umano è solo nuda vita disponibile per il mercato, il quale ha come obiettivo il solo guadagno. L’economicismo diviene l’architrave della violenza che capillarmente si infiltra e si espande con l’effetto di produrre la barbarie tecno-crematistica. Nessuno spazio è lasciato alla libertà processuale umana, nessuna riflessione sui fondamenti ontologici ed etici.
L’abbandono della metafisica implica l’incapacità nel giudicare l’assetto sociale attuale. L’ostilità è specialmente di tipo ideologico, poiché l’essere umano – spogliato della sua capacità significante e metafisica – non è che vita offerta al mercato. Si è, in tal modo, servitori fedeli delle catene che obbligano ad una vita che nega il suo fondamento metafisico. La caverna oscura – con la sua buia ignoranza – è la normalità dell’Occidente senza metafisica.
L’infelicità ed il vuoto assiologico divengono acceleratori del consumo che spingono i popoli verso le passioni tristi. La “solitudine del cittadino globale” dinanzi al mercato è solitudine metafisica:

«Il mercato infatti, da solo, non è per sua natura in grado di mettere in contatto il bisogno insoddisfatto di beni/servizi di milioni di poveri, ed il bisogno insoddisfatto di lavoro, ossia di partecipazione sociale, di milioni di disoccupati. I primi, senza denaro, non possono produrre una domanda di mercato; i secondi, senza quella domanda, non possono produrre una offerta sul mercato del lavoro. Il mercato ragiona solo sul denaro e sul profitto, non sui bisogni e sulla felicità delle persone, che non riesce strutturalmente, ossia per essenza (è il fine che determina l’essenza: ed il suo fine è altro), a realizzare. Per evitare quindi che bisogni sociali importanti (cibo, medicine, ecc.) rimangano insoddisfatti, mentre – con forte stridore – milioni di persone rimangono disoccupate (o impegnate in attività futili, quando non dannose), occorre necessariamente affidarsi a modalità sociali pubbliche e comunitarie, statuali o meglio ancora sovrastatuali, che coordinino quanto è necessario produrre e come produrlo».[1]

 

La metafisica come ricerca
Luca Grecchi nel suo lavoro-ricerca di tipo filosofico ha non solo reso palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma specialmente ne sta rielaborando i fondamenti. La metafisica umanistica di Grecchi riconosce l’anima-razionalità umana quale fondamento onto-assiologico della natura umana. Il riconoscimento della razionalità, quale fondamento metafisico, non implica l’esclusione dall’orizzonte metafisico della trascendenza divina, ma constata che “attualmente” non abbiamo elementi che possano suffragare il fondamento divino, e che all’interno della storia metafisica tale principio primo è rimasto indimostrato.

Non si tratta né di ateismo, né di agnosticismo, ma di una postura aperta al possibile e sempre disponibile a riformulare e ridefinire il fondamento metafisico. Dove vige il dialogo filosofico i problemi non sono mai risolti in modo imperituro, ma sempre possono essere riconfigurati. L’assoluto, pertanto – nella condizione attuale –, non può che essere il logos, il quale non solo mette ordine al caos delle pulsioni, ma definisce i bisogni autentici della natura umana. Quest’ultima per natura è razionale, ovvero ha le potenzialità per calcolare le necessità autentiche dai bisogni indotti, per cui il fondamento giudica i valori, e li definisce; in tal mondo la metafisica si ricongiunge all’asse assiologico:

«Faccio qui riferimento in parte a quanto detto in precedenza circa la distinzione fra Principio e fondamento. Il Principio è quell’insieme di cause materiali, formali, finali ed efficienti, che hanno reso possibile l’essere ed il divenire del tutto. L’Uomo è il fondamento della comprensione di questo essere e divenire, l’unico ente dotato di capacità trascendentale, e pertanto il solo ente in grado di attribuire senso e valore alla realtà: in questo senso, sul piano onto-assiologico, può considerarsi l’Assoluto. Occorre però comprendere bene il significato della proposizione “L’Uomo è, sul piano onto-assiologico, l’Assoluto”, che è la prima proposizione inerente il Fondamento che mi propongo di analizzare».[2]

La realtà storica in cui si esplica la natura, si può modificare, ma non si può annichilire. La natura umana non è infinitamente modificabile, come vorrebbero gli assertori del totalitarismo del capitale. Non a caso il malessere generalizzato indotto dall’attuale sistema, induce verso desideri illimitati e dunque irrazionali non rispondenti alla natura umana:

 

«La realtà naturale, infatti, si può comprendere e – almeno entro certi limiti – modificare, ma non giudicare; la realtà sociale, invece, si può comprendere, modificare – sempre entro certi limiti, e prendendo come riferimento la natura umana –, ma soprattutto si può (e, direi, si deve) valutare. In questo senso più specifico l’Uomo è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere: nel senso che costituisce il solo riferimento valutativo del senso e del valore della realtà, del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto».[3]


Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero

ISBN 978-88-7588-061-3, 2012, pp. 240

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura

Tra ciclopi e lotofagi [4]
Il fondamento metafisico necessita del passaggio dalla potenza all’atto, pertanto tale passaggio dev’essere favorito dall’educazione, in primis, e dalla comunità. In tal modo la metafisica di Aristotele vive in feconda tensione con Platone: l’atto e la potenza è il binomio dinamico che pone le condizioni, affinché il soggetto possa giungere al bene, e dunque alla consapevolezza della natura veritativa. Non a caso Platone pone il bene all’apice della gerarchia delle idee: il bene è razionalità, calcolo e misura. Senza fondamento metafisico, non vi è “bene” né individuale né collettivo; al suo posto si afferma la società dei ciclopi e dei lotofagi, già descritta da Omero, creature che regrediscono a pura ferinità, dominate da appetiti senza misura e senza etica. I ciclopi ci ammoniscono sui pericoli di una civiltà senza metafisica e senza bene. Regnano, senza metafisica e senza bene, il caos e la violenza generalizzata. L’anomia, l’assenza di leggi etiche condivise, comporta il pericolo per tutti, e la condanna a vivere senza identità e senza coscienza di sé, per cui ciascuno è nessuno, ed il niente minaccia la vita di ognuno:

«Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui, come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto, di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici dell’Etna, i quali, “prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali, non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra” (Odissea, IV, vv. 105-108). La prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, “non hanno assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti, in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non si curano gli uni degli altri” (Odissea, IX, vv. 112-115). La a-nomia, ossia la assenza di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di cibo, scoprì che essi erano “prepotenti e selvaggi, senza giustizia” (Odissea, IX, 174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere».[5]

Lotofagi e ciclopi sono metafore della negazione della natura umana, la quale è razionalità etica che – per essere tale – necessita di memoria della propria storia personale e collettiva, perché la memoria e l’esperienza permettono di perfezionare la natura umana, la cui realizzazione è sempre in itinere. I lotofagi descritti anch’essi da Omero sono il simbolo della miseria dell’abbondanza: la soddisfazione degli appetiti senza misura ha l’effetto di causare la dimenticanza di sé e dei propri doveri morali.

«Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare “volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore, che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si allontana dalla propria vera umanità».[6]


Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi più) filosofia.

ISBN 978-88-7588-116-0, 2013, pp. 48.
In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, tempera su tela, 1568. Museo di Capodimonte, Napoli.

indicepresentazioneautoresintesi

Filosofia e metafisica
La filosofia nell’attuale contesto sociale non è solo di ausilio, ma imprescindibile per rispondere alla tragedia etica in atto. L’educazione filosofica coniugata con la storia risponde ai bisogni umani. Il ridimensionamento della filosofia classica, la quale ha per oggetto la verità, è la spia evidente della penetrazione del nichilismo mercantile nelle aule universitarie e scolastiche asservite ai bisogni del solo mercato:

«Nell’attuale disastro della società e della scuola, solo la filosofia intesa in senso classico può fornire ai giovani quella necessaria educazione importante per essere insieme, a pieno titolo, uomini e cittadini, non semplici produttori o consumatori. Solo una educazione filosofica in senso classico, che deve essere al contempo storica – come dimostrano le opere di Platone, Aristotele, Hegel e Marx, e come dimostra per converso la pressoché totale decontestualizzazione storico-sociale della filosofia accademica contemporanea, specie anglosassone –, può infatti educare alla cura delle potenzialità onto-assiologiche presenti nella natura umana».[7]

La parcellizzazione dei saperi risponde ai bisogni specialistici del mercato e non dell’essere umano. La specializzazione dei saperi è utile ai bisogni immediati, ma non consente di fondare la progettualità comunitaria a misura di natura umana:

«Le facoltà di filosofia oggi, per come sono strutturate, impediscono la comprensione e la valutazione dell’intero. Di metafisica, ossia del sapere rivolto all’intero, si parla certamente ancora, ed anzi esso è un sapere addirittura “di moda”, dato che se ne occupano la filosofia analitica, la logica formale, la teologia, ecc. Tuttavia, tale metafisica di cui oggi l’università si occupa, concerne appunto temi “analitici”, o “formali”, o “trascendenti”, non certo contenuti onto-assiologici, ossia di senso e di valore, come invece era nella metafisica di Platone e di Aristotele».[8]

La prova più concreta della necessità della metafisica, è il silenzio che è calato su di essa negli ultimi decenni. Tale silenzio dimostra la pervasività del sistema capitale, il quale pur di inibire ogni discorso razionale sulla totalità ha asservito il mondo accademico divenuto complice della conservazione in atto:

«Le facoltà di filosofia, oggi, impediscono nella sostanza la critica ed il dialogo costruttivo, su cui si è invece forgiata la filosofia. Non, certo, che non siano ammesse pacate ed argomentate obiezioni a risultati parziali o generali di studi specialistici. Esse sono sempre benvenute, in quanto la ricerca accademica, non producendo quasi più elaborazioni onto-assiologiche dell’intero, si giustifica principalmente su questo tipo di progressi. Tuttavia, salvo eccezioni, i docenti si rivolgono agli studenti scoraggiandoli dall’affrontare il discorso filosofico nel modo in cui facevano i classici, ossia prendendo di petto il tema della totalità ed affrontandolo in maniera autonoma».[9]

La resistenza propositiva al sistema, in tale condizione storica, non può che avvenire fuori dalle aule universitarie. La filosofia in ogni epoca ha bisogno di eroi, questa è un’epoca in cui la difesa dell’umanità non può che concretizzarsi in atti e comportamenti donativi. La Filosofia è – per sua fondazione – trasgressiva e critica rispetto ai poteri costituiti. Deve pertanto tornare ad essere tale, altrimenti, rischia di perdersi nel nichilismo dei mercanti:

«Nella sua disinteressata ricerca della Verità e del Bene, la filosofia non deve essere al servizio di niente e di nessuno. Questa disinteressata ricerca, tuttavia, è per sua essenza finalizzata alla costituzione della migliore totalità sociale, ossia delle più umane modalità di vita. Questa la sua utilità pubblica, da molti oggi – politici, scienziati, intellettuali – non riconosciuta. È questo anche il problema del “senso”, così mediaticamente irriso da una generazione accademica cinica ed indifferente in larga parte dei suoi membri più influenti. Il “senso della vita”, che i giovani studiosi di filosofia solitamente ricercano, non è la mera consolazione esistenziale che la filosofia sicuramente offre, come già molti secoli fa colse Severino Boezio».[10]

Archiloco

L’umanesimo di Grecchi non si intreccia soltantoo con la metafisica, ma anche con la storia letta attraverso il paradigma veritativo. È un’operazione finalizzata a mostrare il carattere carsico della metafisica, la quale scorre attraverso civiltà e periodi storici differenti. In tal modo si dimostra la sua universalità declinata nella polisemia espressiva della storia. Si tratta di ricongiungere i sentieri interrotti che la furia della specializzazione ha rescisso:

«Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica; fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale. Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto coniugando l’eroismo in chiave umanistica. Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri, come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui concetti di “limite” e di “misura” (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)».[11]

Resistere significa, dunque, interrogare la storia ed i classici per tracciare nuovi percorsi che si ricongiungono con le verità che si sono rivelate nella storia. La resistenza civile ed intellettuale deve radicarsi nella tradizione senza rifiuto del nuovo per poter riportare l’umanità dove imperano la seduzione delle merci e gli automatismi senza concetto.

Salvatore Bravo

 ***

[1] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pag. 35.
[2] Ibidem, pag. 26.
[3] Ibidem, pag. 12.
[4] Lotofagi, dal greco lōtophágos, comp. Di lōtós, ‘loto’, e della radice di phageîn ‘mangiare’.
[5] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia 2012, pag. 151.
[6] Ibidem, pag. 163.
[7] Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pag. 21.
[8] Ibidem, pag. 26.
[9] Ibidem, pag. 26.
[10] Ibidem, pag. 35.
[11] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, op. cit., pag. 95.

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

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Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?

Luca Grecchi – Sulla progettualità

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Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.

Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.

Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.

Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.

Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.

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Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.

Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società

Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)

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Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università

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Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Disunitevi in nome del capitale. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica: i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine.

Davide Hume 01
Salvatore Bravo
Disunitevi in nome del capitale.
Il neoliberismo ha la propria visione antropologica:
i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine

 

«Proletari di tutto il mondo unitevi». Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels si concludeva con l’appello all’unità, alla contraddizione dialettica per superare le ingiustizie e le sperequazioni sociali. L’unità e la consapevolezza di classe scorrono carsiche in tutte le opere di Marx: i dati economici, la critica economica, la scoperta del plusvalore e del valore di scambio sono la denuncia di Marx al “sistema capitale”. La prassi esige la denuncia teorica. Questo binomio consente la prassi, ma solo se fondata sulla fiducia, solo se l’altro con cui si condivide destino sociale e consapevolezza non è percepito come una minaccia, ma come compagno di lotta con cui condividere il sudore della passione politica. Il sudore è qui utilizzato nella sua accezione biologica e simbolica. La lotta è vicinanza, è carnalità in relazione, è la singolarità che vive in tensione con il gruppo, essa è contatto visivo, tattile e olfattivo Le idee emergono dal vissuto, dalla condivisione della carne negli spazi vissuti. Senza tale realtà e verità fenomenologica non vi è che il nulla. La dialettica è il fondamento dell’unità e della consapevolezza. L’io deve incontrarsi con il tu, senza tale relazione le idee non emergono, vi è solo timore e tremore, vi è solo la creatura isolata e depotenziata. L’esperienza Covid-19 consente un giusto e razionale sospetto, ovvero che si voglia rendere non eterni i provvedimenti di distanziamento sociale, ma si voglia abituare al distanziamento sociale. Si progetta di inoculare, in modo costante, il sospetto verso l’altro. Si sta strutturando in modo definitivo l’atomismo sociale mediante l’abitudine all’isolamento.

 

L’abitudine all’isolamento
Educato l’essere umano al distanziamento, a percepire l’altro come un pericolo potenziale, il dopo Covid-19 renderà la divisione e l’isolamento un automatismo. Alla competizione agonica del liberismo si sarà aggiunto un altro livello di isolamento più profondo: l’altro è potenzialmente mortale, è portatore non di idee o di amicizia, ma di virus aggressivi da cui è necessario difendersi ponendolo a distanza. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica che basa i suoi fondamenti nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine, pertanto la ripetizione del gesto, in questo caso del distanziamento sociale, produce comportamenti automatici duraturi:

Qualcuno forse mi domanderà se sono veramente convinto di ciò che mi affatico tanto a dimostrare, se sono realmente uno di quegli scettici che sostengono che tutto è incerto e che il nostro giudizio non ha alcuna misura del vero e del falso in nessuna cosa. Rispondo che la domanda è del tutto superflua, e che nessuno, né io né altri, è stato mai sinceramente e costantemente di quest’opinione. Per un’assoluta e irresistibile necessità, la natura ci porta a giudicare come a respirare e a sentire; né possiamo trattenerci dal considerare certi oggetti sotto una luce più forte e piena a causa della loro abituale connessione con un’impressione presente, di quel che possiamo impedirci di pensare finché siamo svegli o di vedere i corpi circostanti quando volgiamo gli occhi attorno in pieno mezzogiorno. Chiunque si è preso la pena di confutare i cavilli di questo scetticismo totale, ha in realtà discusso senza avversari e ha cercato di sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha precedentemente ben radicata nello spirito e resa inevitabile. La mia intenzione nell’esporre con tanta cura gli argomenti di tale setta fantastica, è soltanto di convincere il lettore della verità della mia dottrina: che, cioè, tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivano dall’abitudine, e che la credenza è più propriamente un atto sensitivo che un atto cogitativo della nostra natura. Io ho provato che gli stessi princípi che ci portano a giudicare di un oggetto e a correggere poi questo nostro giudizio con la considerazione delle nostre inclinazioni e capacità, dello stato della mente quando consideriamo quel soggetto: questi stessi princípi, dico, quando sono estesi e applicati ad ogni nuovo giudizio riflesso, con la continuata diminuzione dell’evidenza primitiva, devono da ultimo ridurre questa a niente e sovvertire completamente tutte le nostre credenze e opinioni. Se la credenza [belief] fosse dunque un semplice atto del pensiero, e non un modo speciale di concepire con un aumento di forza e di vivacità, essa dovrebbe infallibilmente distruggere se stessa e riuscire in ogni caso a una totale sospensione del giudizio. Ma l’esperienza convincerà facilmente chiunque volesse farne la prova, che, per quanto possa non trovare nessun errore nei precedenti argomenti, tuttavia egli continua a credere, a pensare e ragionare come al solito; se ne può cosí tranquillamente concludere che il suo ragionamento e la sua credenza sono una certa sensazione, ossia una maniera speciale di concepire, che le semplici idee e riflessioni non possono distruggere[1].

 

Si associa l’altro ad una malattia con il risultato che la passione triste diventa il sentimento che veicola il trionfo della finanza ed il tramonto dell’occidente. L’occidente non potrà creare più nulla, ma solo produrre plusvalore e beni per il mercato. La regressione umana viene istituita per DPCM.

 

Imparare il distanziamento
L’abitudine all’isolamento palesa la verità del sistema capitale, il quale è profondamento antipolitico. La politica è il luogo della comunità in cammino, è la polis alla ricerca di configurazioni comuni. Con la fine della politica muore l’Occidente fondato sull’esperienza della città e del dialogo. Nel Fedro (227a-228e) Socrate afferma che non vuole andare in campagna, ma restare in città, perché solo in città si può imparare a diventare esseri umani con l’arte del logos e della maieutica. Con il distanziamento divenuto struttura emotiva non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perché l’altro è veicolo di malattia, di morte, per cui i contatti vengono limitati. Non vi è settore della vita sociale che non sia coinvolta nel distanziamento, ovunque si deve imparare l’abitudine alla distanza.

– In strada il distanziamento avviene con l’uso di mascherine e distanza spaziale.
– In casa l’igiene fino all’ossessione rende la casa molto simile ad un sanatorio che accoglie potenziali malati.
– In chiesa si arriva al ridicolo, non solo i fedeli sono posizionati a debita distanza, all’ingresso ci si disinfetta, al momento di distribuire l’ostia il prete si igienizza le mani, indossa i guanti e la mascherina e passa tra i banche a distribuire l’ostia in mano ai fedeli. Il corpo di Cristo simbolo e sostanza (per i credenti) di unità, è negato nella sua verità.
– Lo smart working isola i lavoratori e specialmente il lavoratore paga i costi della gestione del mezzo di lavoro e dell’ambiente in cui avviene l’uso dal proprio reddito. I contatti con i colleghi sono sostituiti dalla digitalizzazione che verte solo su pratiche lavorative.

– A scuola si ipotizza l’isolamento mediante plexiglass: a scuola si impara la condivisione come in famiglia, per cui l’attacco è palese.

– Si progetta anche la didattica ibrida, come nuova frontiera innovativa della scuola, la DaD diviene organica alla scuola.

– Nei luoghi di lavoro non ci si tocca, non ci si saluta che con un’ incomprensibile emissione di suono a causa della mascherina.

 

Tacere e non ascoltare
La mascherina isola, rende la voce e le comunicazioni incomprensibili, per cui si impara a tacere e a non ascoltare, in alternativa si usano le tecnologie dalle quali si astraggono informazioni per la sorveglianza globale che opera attraverso il controllo concreto dei singoli. L’isolamento vocale, la disabitudine ad esprimersi è, forse, l’elemento più inquietante, che in pochi hanno rilevato. La mascherina è diventata da ausilio sanitario una nuova museruola sociale per colpire il logos e ridurre l’essere umano a pura funzione biologica.
Il dopo Covid-19 dovrà affrontare tali problematiche nel silenzio di partiti e sindacati, mentre in televisione scorrono immagini che educano all’isolamento sociale esaltandone gli effetti benefici. Nessun piano di recupero della socialità è previsto, e ciò dovrebbe indurci collettivamente a riflettere sull’uso strumentale del Covid-19. Un ultimo dubbio, mentre si esalta l’economia green ed i suoi effetti, nessuno ci spiega come verranno smaltite mascherine e plastica annessa. Le industrie della plastica fanno affari e lavorano per un mondo fatto solo di plastica.

Salvatore Bravo

[1] David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro primo, Parte quarta, Sez. prima (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 888-889).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – José Ortega y Gasset ci aiuta a riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto.

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Salvatore Bravo

José Ortega y Gasset ci aiuta a riscoprire la concentrazione,
il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría.
Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli,
ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero,
ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto

Differenza nell’unità
Siamo ad un bivio nella storia dell’umanità: è in atto una mutazione antropologica. L’essere umano è creatura progettante, storicamente teleologica, la cui vita è segnata dal passaggio dalla potenza (dynamis) all’atto (enérgheia ed entelécheia), oggi è minacciata dall’inautenticità afasica. Ogni esistenza autentica si intreccia alla comunità, luogo in cui aristotelicamente «l’albero diviene fiorito», è possibile l’esplicarsi dell’umanità. L’umanità è condizione ontologicamente processuale.
Si diventa umani se la comunità tutta accoglie la vita, partecipando alla sua libera realizzazione. Il bene del singolo è dunque speculare al bene della comunità. Sono due volti della stessa medaglia, olisticamente l’uno speculare all’altro. Ciascuno è portatore di un talento irripetibile, anche semplice, ma prezioso per lui/lei stesso/a e per la comunità vivente tutta.
La vita è differenza nell’unità, e la comunità è l’epifenomeno e fondamento di tale condizione ontologica. Tale dimensione, sempre ideale ed in itinere, necessita del pensiero, della vita attiva, del tempo del pensiero.
L’autenticità presuppone la comunità che ha posto l’attività del pensiero, quale suo fondamento.
L’autenticità dell’esistenza ha una precondizione imprescindibile, la possibilità di sottrarsi ai cicli della produzione (i quali sono il mezzo e non il fine), per poter creare strutture di pensiero autonome attraverso le quali definire il progetto vitale personale e comunitario.
La riflessione sottratta alla stimolazione perenne muove alla domanda, che è anche un imperativo etico ineludibile di ogni essere umano “Conosci te stesso”. Il detto iscritto sul tempio di Delfi, indicava agli uomini la ricerca di sé attraverso la consapevolezza del limite.

Pensiero ed umanità
La concentrazione sottrae gli esseri umani alla pervasività dell’eccesso di stimoli, per riportarli a vivere la pienezza del tempo del pensiero. La contemporaneità invece ci mette dinanzi ad una mutazione inquietante: la concentrazione è ritenuta un limite negativo, positivo è solo l’uomo del fare fine a se stesso. Da ogni parte politica si fa appello all’uomo del fare, mai all’uomo che pensa. Il pensiero mette in una condizione di paura, lo si ostracizza. Le riforme nell’ambito dellascuola si abbattono sulla formazione curvandola al solo fare automatico. Risuonano – nella mistificazione della neolingua – gli inni al concreto inteso in senso meramente pragmatico. Tale mutazione antropologica si esplica nella logica dell’azienda estesa ad ogni settore: dalla scuola alla sanità. La comunità stessa dovrebbe avere come obiettivo il pareggio di bilancio, non l’accoglienza degli esseri umani, i quali fungono da mezzo per la parità di bilancio. In tale contesto di attivismo vitalistico-nichilistico, l’essere umano deve rinunciare alla rappresentazione mediata della dialettica, per essere corpo meccanico in attività perenne.

Ortega Y Gasset e la scimmia
Ortega Y Gasset, ha ben colto la mutazione in atto. Il filosofo spagnolo riporta l’esempio della scimmia. Guarda in uno zoo le scimmie. Esse sono in perenne attenzione ad ogni stimolo, vivono in un fuori perenne, pronte a cogliere ogni messaggio, ma sono contenitori passivi; tra lo stimolo e la risposta è assente la mediazione del pensiero. La loro vita si esplica in un perenne atto meccanico, che non lascia loro tregua, sempre in difesa o in attacco a seconda dello stimolo. Ad Ortega Y Gasset sembra che l’umanità, sotto l’effetto del fare, della stimolazione tecnica, stia regredendo, poiché sta rinunciando a ciò che la distingue dalle scimmie, a ciò che con fatica ha acquisito durante l’evoluzione biologica: la concentrazione. Le scimmie vivono in uno stato di continua alterazione. L’umanità, all’epoca del prometeo scatenato, del turbocapitalismo sta diventando sempre più simile alle scimmie. La comunità intera invita, incita, spinge all’uso. La comunità – che non è più tale – è un immenso potentato economico, in cui l’essenziale è vendere per usare e consumare, in un eterno ciclo. Questa nuova forma di totalitarismo non riconosciuto, sta delineando un nuovo essere umano: la scimmia tecnologica, in perenne attività oculo-manuale. Si guardino le nostre strade. Ovunque giovani e non, anche in uno spazio pubblico, si esibiscono nell’uso delle tecnologie. Non si guarda veramente, non si fa attenzione allo sguardo dell’altro, alla povertà materiale ed alle miserie morali che sono sempre più palesi. Si vede senza guardare, l’attenzione percettiva è orientata su dettagli ed automatismi, e pertanto la verità si ritira dall’orizzonte cognitivo. Passeggiare è sempre stato il momento meditativo con se stessi e con gli altri. Si pensi al peripato, come alla scuola pitagorica. Ora invece, è il luogo dove il mondo scompare, al suo posto vi è lo schermo del desktop. L’attenzione è nella risposta immediata allo stimolo, in tal modo il logos è sostituito dall’automatismo.
Naturalmente il “γνῶθι σαυτόν”(Conosci te stesso) è il vero nemico assoluto del turbocapitalismo. Esso spinge verso la “scimmia”. Occorre cominciare ad interrogarsi collettivamente, se si è per le tecnologie o esse per noi. L’animale è consegnato alla servitù delle cose, mentre l’essere umano – tramite la concentrazione – sospende la signoria delle cose per pensarsi e pensarle; è questa la sfida antropologica del nostro presente e che segnerà il futuro di tutti. Dobbiamo scegliere se essere “umani o nuove scimmie”:

«L’uomo si trova, non meno dell’animale, consegnato al mondo, alle cose intorno, alla circostanza. All’inizio la sua esistenza differisce appena da quella zoologica: anche lui vive governato da ciò che lo circonda, inserito fra le cose del mondo come una di esse. Senza dubbio non appena gli esseri intorno gli lasciano un po’ di respiro, l’uomo facendo uno sforzo gigantesco, ottiene un attimo di concentrazione, si mette dentro se stesso, vale a dire mantiene a fatica la sua attenzione fissa sulle idee che spuntano dentro di lui, idee che le cose hanno suscitato e che si riferiscono al loro comportamento, a ciò che poi il filosofo chiama “la sostanza delle cose”. Si tratta intanto di una idea molto grossolana sul mondo, che però permette di abbozzare un primo piano di difesa, una condotta prestabilita. Ma né le cose intorno gli consentono di rimanere a lungo in questo stato di concentrazione, né, anche se quelle lo consentissero, sarebbe capace quest’uomo primitivo di prolungare più di alcuni secondi o minuti quella torsione speculativa, questa attenzione fissa sugli impalpabili fantasmi che sono le idee. Questa attenzione verso l’interiorità, che è l’ensimismamiento, è il fatto più antinaturale ed extrabiologico. L’uomo ha tardato millenni e millenni nell’educare un po’ niente più che un po’ la sua capacità di concentrazione. Quello che gli riesce naturale è sviarsi, sviarsi verso ciò che è l’esterno, come la scimmia nella selva e nella gabbia dello zoo. Il Padre Chevesta, esploratore e missionario, che è stato il primo etnografo specializzato nello studio dei pigmei, probabilmente la varietà di uomini come si sa più antica che si conosca e che è andato a cercare nelle selve tropicali più nascoste, il Padre Chevesta, che ignora completamente la dottrina da me ora esposta e si limita a descrivere ciò che vede, dice nella sua ultima opera del 1932, riguardo ai nani del Congo: “Manca loro totalmente la facoltà di concentrarsi. Sono sempre assorbiti dalle impressioni esteriori, il cui continuo cambiamento, impedisce di raccogliersi in se stessi, che è la condizione inevitabile per ogni apprendistato. Metterli a sedere al banco di una scuola, sarebbe per questi ometti un tormento insopportabile, perciò il lavoro del missionario e del maestro si fa particolarmente complicato” [Bambutti, die Zwerge des Congo]. Però, sebbene istintivo e rozzo questo primitivo atto di concentrazione va a separare radicalmente la vita umana dalla vita animale, perché ora l’uomo, questo uomo primigenio, va ad immergersi di nuovo nelle cose del mondo contrastandole senza consegnarsi a loro completamente. Ha un piano contro di loro, un progetto di relazione con loro, di manipolazione delle loro forme, che produce una minima trasformazione intorno a lui, quanto basta perché lo opprimano un po’ meno e di conseguenza, gli permettano più frequenti e profondi aumenti di concentrazione… e così via. Sono dunque tre momenti differenti che ciclicamente si ripetono nel corso della storia umana in forme ogni volta più complesse e l’uomo con uno sforzo energico si ritira nella sua intimità, per formarsi idee riguardo le cose e il loro possibile dominio; è la concentrazione, la vita contemplativa, di cui parlavano i romani, il theoretikós bíos dei greci; la theoría; l’uomo torna ad immergersi nel mondo, per agire in esso secondo un piano prestabilito; è l’azione, la vita activa, la praxis».[1]

 

Un mondo di scimmie

Un mondo di “scimmie” perennemente in attività, estranee all’attività del pensiero è un mondo senza politica e senza speranza: solo attività senza concentrazione. La società della sorveglianza, con i suoi inesauribili meccanismi di condizionamento – dalla neuro-economia alle neuroscienze – cela il sogno distopico: eliminare dalla storia la variabile incontrollabile della coscienza, addomesticarla per renderla organica al sogno (incubo) di una società umana sempre più simile ad un mondo di insetti gerarchizzato per funzioni. La morte di dio, metaforicamente della verità, comporta il facile trionfo delle scimmie, poiché se non vi è verità, regnano i mezzi che vampirizzano l’essere umano. La sorveglianza digitale isola, atomizza, ed impedisce il pensiero, in quanto l’esperienza della solitudine, del ritirarsi dal chiasso del mondo per concettualizzare, è ostacolata dalla continua invasione mediatica:

«Le attività mentali e, come si vedrà in seguito, in primo luogo il pensare – il dialogo senza voce dell’Io con se stesso – possono essere comprese come l’attuazione di quella dualità o scissione originaria tra me e me stesso che è inerente alla coscienza».[2]

La coscienza pone la storia, la devia, la rende imprevedibile, e pertanto inquieta il totalitarismo del nuovo capitalismo che racchiude nel suo grembo la perversa religione del controllo. Solo mutando gli esseri umani in scimmie tecnologiche, il nuovo capitalismo può aspirare a realizzare il “suo sogno”. Pertanto più fortemente bisogna opporre alla barbarie tecnologica che avanza la trasgressione della coscienza. La resistenza civile contro il disumano che avanza è l’imperativo a cui non ci si può sottrarre.

Salvatore Bravo

***

[1] Ortega Y Gasset, Ensimismamiento y alteraciónObras completas, Alianza, Madrid 1987, traduzione di Alessandra Costa .

[2] Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, pag. 157.


José Ortega y Gasset (1883-1955) – La scienza necessita di un lavoro di ricostruzione. Ciò richiede uno sforzo di unificare, ogni volta più difficile, regioni più vaste del sapere totale.
José Ortega y Gasset (1883-1955) – La filosofia è un grande desiderio di trasparenza e una risoluta volontà di mezzogiorno. La filosofia è parola, scoprire nella più grande nudità e trasparenza della parola l’essere delle cose, dire l’essere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvarore Bravo – «Intus legere». La Matrix europea e il gruppo Bilderberg.

Francesco Amodeo - La Matrix europea
Salvatore Bravo

«Intus legere»

La Matrix europea e il gruppo Bilderberg

 

 

La prassi è sempre sincrona alla teoria, alla comprensione, la quale è sempre un atto intellettuale, ovvero “intus legere”: capire significa leggere dentro, astrarre la verità dalla contingenza, apparentemente costituita da frammenti, da situazioni frammentate. In realtà esse hanno il loro senso nel substrato che dà significato all’empirico. Il periodo attuale, ormai trentennale, ha la sua verità nella tecnocrazia di sistema. La tecnocrazia è altro dalla scienza: essa ha il fine di trasformare ogni ente in fondo per il plusvalore. La crematistica risponde alla legge della tecnocrazia globale, entifica popoli e culture al fine di trasformare ogni esistente in plusvalore da consumare ed immettere sul mercato. Il nichilismo è diventato la legge dell’occidente globale. Gli esseri umani si differenziano dagli altri enti, solo poiché ricoprono una doppia natura storicamente indotta: produttori e consumatori. Il tempo ciclico della produzione esige che vi siano consumatori: senza la doppia natura innestata dal sistema tecnocratico l’economicismo non reggerebbe. La tecnocrazia non è un fenomeno naturale, la sua pervasività capillare è sicuramente favorita da condizioni storiche, ma curvare queste ultime per teleologie di questo genere è possibile solo in presenza di lobby organizzate per tali finalità. La democrazia boccheggia sotto i colpi di gruppi di privilegiati che costruiscono progetti per i popoli utilizzando il loro immenso potere economico per determinare le decisioni degli Stati. Il gruppo Bilderberg è la cupola finanziaria all’interno della quale non lavorano solo finanzieri, ma anche manager, giornalisti e carrieristi che in nome “del martello dell’economia” sono disponibili a mettere in pratica cinici propositi:

 

 

«Stando alle notizie raccolte, la conferenza del Bilderberg sarebbe organizzata da una commissione permanente, detta anche Comitato Direttivo (Steering Committee), della quale fanno parte alcuni membri di circa diciotto nazioni differenti. Alcuni di questi membri fanno parte di un secondo cerchio ancora più chiuso, e formano il Comitato Consultivo (Advisory Committee) del Gruppo. L’Advisory Committee è composto da pochissime personalità, tra le quali in passato spiccavano i nomi di Giovanni Agnelli e David Rockefellerche ne è il Presidente Onorario. Oltre al presidente della Commissione, è prevista la figura di Segretario Generale onorario. Non esiste la figura di membro del Gruppo Bilderberg, perché i membri vengono invitati di volta in volta, ma solo quella di membro della Commissione Permanente (member of the Steering Committee). Esiste anche un gruppo distinto di supervisori. Quando giunge l’invito, generalmente a ridosso della riunione, agli invitati è richiesto di non annunciare pubblicamente la loro partecipazione al meeting, pena l’esclusione dall’incontro. Chi osserva e conosce il Gruppo da parecchi anni afferma che anche la preparazione delle riunioni segue un rituale “curioso”, mirato a tutelare questo ambito di massima riservatezza. L’hotel selezionato viene occupato con qualche giorno di anticipo. Parte del normale personale viene sostituito con personale di fiducia». [1]

 

Matrix europea
La Matrix europea è testimoniata da una incontestabile cronologia. I partecipanti al gruppo Bilderberg sono premiati per la fedeltà al progetto tecnocratico mediante un rapido passaggio dalla partecipazione all’occupazione di ruoli strategici per condizionale politica ed economia dei popoli[2]: Angela Merkel, Blair, Clinton, Prodi, Monti, Lagarde, Bonino sono passati in tempi strettissimi dalle riunioni segrete della finanza a svolte nella loro carriere che hanno coinciso con provvedimenti letali per i popoli. Per il gruppo Bilderbeg il male da curare è la democrazia, in quanto lenta nei suoi passaggi. Naturalmente la lentezza implica la discussione e la partecipazione, e ciò è un ostacolo al governo mondiale della finanza. I popoli devono trasformarsi in plebi obbedienti alla plutocrazia, la quale deve mettere in atto un progetto di dominio globale finalizzato al profitto:

 

 

«Sin dall’inizio il loro intento era quello di creare un nuovo ordine economico internazionale, e per riuscirci elaborarono il concetto di “tecnocrazia” come mezzo per controllare la società, sostituendolo sempre più al concetto di politica come dovrebbe essere inteso nelle nostre democrazie. Sono convinti che non ci sia più bisogno dello Stato, così come lo si è inteso per centinaia di anni, e quindi agiscono per poter eliminare il concetto di sovranità nazionale e di autodeterminazione degli Stati. Già alla fine degli anni 70 l’analisi della crisi globale da parte della Commissione Trilaterale imputava le cause alla troppa democrazia ed ai troppi poteri del Parlamento. I membri della Commissione sono convinti che l’eccessiva partecipazione democratica sia un male, e che i popoli vadano tenuti all’oscuro: infatti, la Commissione stessa è nata dalla volontà dichiarata proprio da David Rockefeller di superare quelli che lui definisce “lenti e farraginosi processi di discussione parlamentare”, e per stabilire processi decisionali che scavalchino le decisioni delle assemblee istituzionali. Il fulcro di questo pensiero è stato riassunto in un rapporto del 1975 dal titolo: “La crisi della democrazia”, pubblicato in Italia con la prefazione di Gianni Agnelli firmato da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki ad hoc per la Trilaterale. Osservando le condizioni politiche di Stati Uniti, Europa e Giappone, il documento, divenuto successivamente un libro, dimostra come i problemi di governance derivino secondo gli autori “dall’eccesso della democrazia». [3]

 

Società di solo mercato
Il fine è fondare la civiltà della merce, affinché il feticismo della merce possa trionfare, il gruppo agisce secondo due modalità: utilizzando circostanze eccezionali per attaccare lo stato sociale e favorire la privatizzazione dei servizi, e nel tempo ordinario mettere in campo una perenne campagna dei media contro i diritti sociali rappresentati come “debito” verso la comunità. Il convincimento collettivo è orchestrato, in modo che la pluralità dei giornali, nominalmente di aree diverse, comunichino lo stesso messaggio, ovvero che i diritti individuali e la privatizzazione sono i pilastri del mondo libero, mentre i diritti sociali sono “il male” che ha corrotto le finanze dello Stato:

 

 

«Le riforme strutturali più’ urgenti, oltre a quelle politiche, sono secondo la banca quelle in termini di riduzione dei costi del lavoro, di aumento della flessibilità’ e della libertà di licenziare, di privatizzazione, di deregolamentazione, di liberalizzazione dei settori industriali “protetti” dallo stato. Il problema non è solo una questione di reticenza fiscale e di incremento della competitiva’ commerciale, stando alla loro spiegazione, bensì’ anche di “eccesso di democrazia” che va assolutamente ridimensionato. L’élite finanziaria internazionale lascia intendere che se i paesi del Sud d’Europa vogliono rimanere aggrappati alla moneta unica devono rassegnarsi a rinunciare alla Costituzione. Rockefeller ha spesso fatto dichiarazioni molto esplicite, come quando ha dichiarato che: “Siamo sull’orlo di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la ‘giusta’ crisi globale e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale”. Ed altre che non lasciano dubbi sui suoi intenti: “Alcuni credono che facciamo parte di una cabala segreta che manovra contro gli interessi degli Stati Uniti, definendo me e la mia famiglia come “internazionalisti”, e di cospirare con altri nel mondo per costruire una più integrata struttura politico-economica globale, un nuovo mondo, se volete. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole, e sono orgoglioso di esserlo». [4]

La finanza vuole assumere il ruolo di un perverso Demiurgo platonico: deve plasmare il mondo ad immagine e somiglianza della nuova razza padrona che in nome del “più mercato meno stato”, propone e attua l’annichilimento delle comunità, queste ultime senza diritti sociali non sono che veloci giustapposizioni di gruppi umani pronti a sciogliersi sotto il moto del capitale. I suoi membri sono all’interno di movimenti e sussulti economici che non governano, ma a cui devono adattarsi passivamente:

 

 

«La liberalizzazione dei mercati finanziari rappresenta il logico punto di arrivo di tutto questo e la mission di queste organizzazioni. Questi, infatti, sono i punti che gli oligarchi hanno portato avanti contemporaneamente attraverso Reagan, Thatcher, Mitterran e Kohl per plasmare il mondo e che silenziosamente vedrete portare avanti a tutti coloro che da queste organizzazioni sono riusciti ad arrivare ai vertici dei governi con la conseguenza che:

– i costi del debito pubblico saranno scaricati sui risparmiatori, sui lavoratori, sui pensionati, sui redditi e i capitali non delocalizzabili;

– i costi dei buchi delle banche saranno scaricati sui depositanti, sugli obbligazionisti, sugli azionisti (bailin) e sugli italiani in generale;

– i costi della competitività saranno scaricati sui salari e sulla previdenza; Le crisi economiche diventano, così lo shock indispensabile per realizzare la delegittimazione dei meccanismi istituzionali e di partecipazione democratica, le deregolamentazioni a discapito del lavoro salariato con la progressiva eliminazione dei diritti dei lavoratori e l’inesorabile scomparsa delle lotte sindacali». [5]

 

Complicità
Il gruppo Bilderber ed affiliati palesano la verità dell’attuale fase del capitalismo, esso è sempre più simile, fino a confondersi, alle mafie, ha una cupola ed i suoi esecutori. Le riunioni sono segrete, ed i partecipanti obbediscono alla legge del silenzio. La cupola ha le sue complicità trasversali, per cui pur nell’evidenza della sua strategia di decostruzione delle democrazie continua ad operare indisturbata. Essa è il semenzaio per una pluralità di oligarchie interconnesse ed antitetiche ai popoli:

 

 

«E soprattutto di adoperarsi per applicare la legge Anselmi che “considera associazioni segrete e come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione quelle che, anche all’ interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali, ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici, anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale” e prevede per i promotori di tali associazioni e per i semplici partecipanti la pena alla reclusione». [6]

 

Maastricht (1992) e il Trattato di Lisbona (2007) sono il compimento di un lungo percorso iniziato già con il piano Marshall (1947 -1951): il progetto era trasformare l’Europa occidentale nell’avamposto degli Stati Uniti, con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ogni limite al liberismo è caduto, e si è configurato il progetto del governo mondiale sotto l’egida della finanza. È, ora, la moneta a determinare politiche e scelte sociali degli stati ridotti ad esecutori di ordini superiori:

 

 

«Il Trattato di Maastricht, costituendo il SEBC, ovvero il sistema europeo delle banche centrali, viola palesemente alcuni principi sanciti dalla nostra Costituzione e può essere considerato un duplice attacco alla sovranità ed all’indipendenza nazionale. Da un lato il Trattato fornisce base giuridica al fine di consentire che sia l’Europa a dettare le politiche economiche delle nazioni, dall’altro priva le nazioni stesse di una Banca Centrale con cui finanziare in autonomia dette politiche. “L’Italia, con una moneta così concepita, perdeva, sia il controllo diretto dei tassi d’interesse che vengono oggi decisi dal mercato e che ovviamente può facilmente influenzarli con le speculazioni (come accaduto con la crisi dello Spread del 2011), sia la possibilità di svalutare la moneta stessa. Possibilità che si era resa necessaria in alcune circostanze a causa di shock esterni”: da Maastricht in poi non sarà più la moneta ad adeguarsi all’economia ma l’economia a doversi adeguare alla moneta (svalutando i salari!). Il denaro, quindi, da strumento alternativo al baratto per consentire lo scambio di beni e servizi di cui costituiva unicamente l’unità di misura, diventa esso stesso prodotto e strumento di predazione». [7]

 

La domanda legittima è se i popoli sono innocenti. Poiché, ancora una volta, è ingenuo e semplicistico pensare ed ipotizzare che la plutocrazia apolide svolga il suo progetto in autonomia. Vi è, infatti, la zona grigia degli esecutori, che possono non essere informati sulla cupola, sui meccanismi di trasmissione degli ordini e sul progetto finale, ma è possibile verificare nel quotidiano gli effetti della finanziarizzazione della vita. È necessario agire, informare, emancipare la zona grigia delle complicità, senza le quali tali gruppi di potere non potrebbero rendere esecutivo il loro progetto di conquista predatoria dei popoli. La tecnocrazia della finanza non solo aliena, ma specialmente punta a rendere gli esseri umani anonimi e sostituibili. Tale obiettivo deve essere denunciato, poiché in tale sistema nessuno è al sicuro. Su tale verità bisognerebbe agire, in modo che si possa essere consapevoli che gli effetti esiziali del capitalismo della finanza possono travolgere chiunque in qualsiasi momento e che non vi sono sacche di privilegio che possano ritenersi al riparo dalle tempeste della moneta. Non esistono solo le responsabilità di banchieri e politici, ma vi sono anche le responsabilità delle classi medie acculturate che capiscono le dinamiche in atto, ma non si scandalizzano della tragedia etica che si dipana dinanzi a loro.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Francesco Amodeo, La Matrix europea, Edizioni Matrix, 2019, p. 10.

[2] Ibidem, pp. 13-14.

[3] Ibidem, p. 24.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 57.

[6] Ibidem, p. 97.

[7] Ibidem, pp. 101-102.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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