Giancarlo Paciello – Per il popolo palestinese. La trasformazione demografica della Palestina. Cronologia (1882-1950). Ma chi sono i rifugiati palestinesi? Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo: occupazione militare e colonie.

Paciello Giancarlo 06 copia

Giancarlo Paciello 

 

008GPer il popolo palestinese


La trasformazione demografica della Palestina

da una comunità residente di lingua araba, costituita in prevalenza da musulmani, ad una comunità con una schiacciante maggioranza di ebrei, provenienti dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa, nel 78% della Palestina (lo Stato d’Israele, dopo le guerre del 1948)

Premessa – Primo periodo: dal 1822 al 1921 – Secondo periodo: dal 1922 al 1931 – Terzo periodo: dal 1932 al 1947 – La rottura dell’equilibrio demografico in Palestina: la spartizione – Conclusioni

***

Cronologia (1882-1950)


ed inoltre

Ma chi sono i rifugiati palestinesi?

Il popolo palestinese e il diritto internazionale. Esiste il popolo palestinese, per i sionisti? La frantumazione di un popolo

***

Appendice documentaria

IL POPOLO PALESTINESE VISTO DALLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

***

Hamas, un ostacolo per la pace?

L’unico vero ostacolo: occupazione militare e colonie

Premessa. 2 Il nazionalismo palestinese. 3 Il movimento islamico palestines. L’Intifada. a) La generazione dell’Intifada; b) L’organizzazione; c) La strategia; Medio Oriente in guerra. Il processo di pace. Camp David e l’Intifada al-Aqsa. Repetita juvant. Le ragioni della vittoria elettorale. Le ragioni della collera. L’ora della verità. Lezioni importanti. Slogan del passato.mReazioni e commenti 11. Conclusioni


008GPer il popolo palestinese

 

008G

Giancarlo Paciello,
Per il popolo palestinese


 

Giancarlo Paciello

La conquista della Palestina.
Le origini della tragedia palestinese
.
Con testi di Henry Laurens, Francis Jennings,
Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir

indicepresentazioneautoresintesi

 



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Lev Semenovich Vygotskij (1896-1934) – Il miracolo dell’arte: ha la capacità di trasformare l’acqua in vino. La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo.

Vygotskij, Lev Semenovič01

Psicologia dell'arte

«Le parole di un racconto o d’un verso danno della realtà il senso letterale, la sua acqua; ma la composizione, creando su tali parole, al di sopra di esse, un nuovo significato, dispone il tutto su un piano completamente diverso, e lo converte in vino».

Lev S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, 1976, p. 218

***

«Il vero compito della psicologia sta nell’ indagare la miscela allo stato fluido, la realtà psichica della società, non già la sua ideologia. Linguaggio, costumi, miti, sono semplicemente il risultato dell’azione della vita psichica sociale, non già il suo vivo processo».

Lev S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, 1976, p. 35

***

La tragedia di Amleto, Editori Riuniti, 1973

La tragedia di Amleto, Editori Riuniti, 1973


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Baruch Spinoza (1632-1677) – Di che cosa sia capace il Corpo, non è stato ancora definito da nessuno. Non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura.

Baruch Spinoza 07
«[…] di che cosa sia capace il Corpo, non è stato ancora definito da nessuno […] Ma, diranno, dalle sole leggi della Natura, in quanto questa sia considerata esclusivamente come corporea, non sarebbe possibile dedurre le cause delle opere architettoniche, dei capolavori della pittura, e di tutte le altre cose simili, prodotte soltanto dall’arte umana: il Corpo umano, diranno, non sarebbe in grado di fabbricare alcun tempio, se a ciò non fosse determinato e guidato dalla Mente. lo ho già dimostrato, però, che costoro non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura».

Baruch Spinoza, Etica, III, prop. 2, sc.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.
Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.

Alessandro Pallassini – Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza.

Coperta 279

Alessandro Pallassini

Finitezza e Sostanza

Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza

indicepresentazioneautoresintesi

Leggi l'estratto

Invito alla lettura (alcune pagine del libro “Finitezza e Sostanza)

 


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Brian Selznick – Le bugie sono un abuso del linguaggio. Le bugie uccidono la bellezza. Le bugie uccidono il significato.

Brian Selznick
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Le bugie sono un abuso del linguaggio.

Le bugie uccidono la bellezza.

Le bugie uccidono il significato.

Brian Selznick

Traduzione di Martina Testa.

 

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Selznick_La_stanza_delle_meraviglie_PIATTO


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John Donne (1572-1631) – Per nessun altro, amore, avrei spezzato questo beato sogno, meglio per me non sognar tutto il sogno, ora viviamo il resto. Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata possente e orrenda. Non lo sei. Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

John Donne 02
Poesie amoros. Poesie teologiche

Poesie amorose. Poesie teologiche

 

****
**
*

La vita

 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi.
E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno,
lo prolunghi.
Tu cosí vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

****
**
*

La morte

Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata
possente e orrenda. Non lo sei.
Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,
povera morte, e non mi puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, mere immagini
di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,
si genera. E più presto se ne vanno con te
i migliori tra noi, pace alle loro ossa,
liberazione dell’anima. Tu, schiava
della sorte, del caso, dei re, dei disperati,
hai casa col veleno, la malattia, la guerra,
e il papavero e il filtro ci fan dormire anch’essi
meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?
Un breve sonno e ci destiamo eterni.
Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

 John Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, a cura e traduzione di Cristina Campo, Einaudi, 1971  

 

 


E Morte più non sarà, Morte… tu morirai. Solo un respiro separa la vita dalla vita eterna, solo una virgola, una pausa. La vita, la morte l’anima, Dio, il passato, il presente… niente barriere insuperabili, niente punti e virgole, solo una virgola.

Vivien Bearing (Emma Thompson)

 


Quarta di copertina

Virginia Woolf ha notato come la qualità che piú avvince in Donne non sia tanto il significato, pur carica com’è di significato la sua poesia, quanto l’esposione con la quale egli rompe nel discorso. «Ogni prefazione, ogni parlamento è consumato, egli piomba nella poesia per la via piú breve», come un amante salta dalla finestra in una stanza, chiudendo fuori tutto il resto: epoca, luogo, universo. Ci arresta con un gesto «Stand still… Ferma… comanda. E fermarci dobbiamo». Il ciclo dei suoi poemi d’amore per Anne More ci ricorda quello, di poco piú tardo, delle scene familiari di Rembrandt e Saskia. Conosciamo ogni mobile delle loro stanze, ogni riflesso delle loro finestre, ogni bagliore dei calici in cui brindano, ogni piega dei cortinaggi del loro letto, ma del mondo esterno non si curano di dirci nulla.


John Donne (1572-1631) – Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.

 



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Brice Bonfanti – «Canti d’utopia». L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! Finito l’ominide, l’umano è infinito.

Brice Bonfanti02

 

 

http://blog.petiteplaisance.it/wp-content/uploads/2017/07/Brice-Bonfanti-2017-CHANTS-DUTOPIE-premier-cycle.jpg

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CHANT XVIII. SYRIE / FRANCE. Laylâ (Nuit Debout)

La nuit migrante, de Syrie réfugiée à Paris, souvit pour travailler, travaille pour souvivre. Comme tous ses semblables – hominidés invertébrés – elle rampe. Dans sa cave, athanor, où elle dort, elle traverse un œuvre au noir qui la conduit à voir : la substance automatique régnant sur le monde. La nuit accouche, par son travail, de sa colonne vertébrale – et debout, devient Laylâ, sort de sa cave, et retrouve au dehors une foule hors des caves.

 

chant 18

 

 

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

IV

 

Il giorno dopo, la mattina, fece notte. La minuscola finestra a feritoia era otturata da calcinacci. La notte percepì, per strada, dei fracassi – di distruzione? di costruzione? di barricata? Si sarebbe detto: alla peggio degli scontri, alla meglio l’insurrezione, oppure una rivoluzione.

Un incendio si dichiarò nel suo edificio, scivolò nel suo scantinato, sprofondò l’edificio, la notte divenne totale, più nera del nero. E il suo luogo di sottovita si fece luogo della sua morte, la sua tomba, athanor, ermeticamente chiuso, illuminato soltanto, totalmente, dall’incendio. Potendo muoversi appena, la notte si carbonizzò, e divenne massa nera.

Ed è come morta la notte, e si sente come morta la notte, ma il suo fisico e il suo psichico sono vivi, persino in suspense. Si annienta l’attività della coscienza del fuori, alla coscienza non giunge nessuna immagine del fuori.

Dopo un po’, dalla minuscola feritoia, attraverso i calcinacci, colarono all’improvviso due acidi, nitrico e cloridrico, che inondarono l’athanor: quella massa nera che era fu tormentata e umiliata, si dissolse, divenne liquido nero.

La notte trova e secerne il segreto di tenere la sua coscienza sveglia nel processo dissolutivo: vive una morte ermetica – morte volontaria e morte vissuta, salvezza gratuita.

Dopo un po’, una volta espulso il doppio acido, quella pozza nera che era coagulò, ridivenne massa nera. Ma l’acido rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse; e lei, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse coagulò. E gli acidi non rivennero più.

Ora, la morte volitiva e attiva è l’unico mezzo, per un’anima, di trasformarsi, cambiare forma. Questi stati dello spirito modificano le relazioni tra le parti dell’anima unita.

Dopo un po’, si intenebrò, si imputridì e si addensò, attraversò gli inferi, vi appagò i suoi appetiti, avidità di vanità, soddisfò i vizi suoi tutti, e fu punita per i vizi suoi tutti, in se stessa, per se stessa, per processo naturale, castigo e giustizia immanenti, annientò i suoi appetiti, avidità di vanità, vomitò i suoi vizi, il suo esser nero, ritrovò dei colori, colore dopo colore: e con il viola, divenne unicolore, con il blu, bicolore, con il verde, tricolore, il giallo, quadricolore, l’arancione, quinticolore, il rosso, esacolore.

Dopo un po’, si congelò, si essiccò e sbiancò. E allora, alla fine, avendo raggiunto l’oro della fine, avendo raggiunto la fine dell’oro… gli occhi della notte si aprono. Gli occhi della notte si aprono, un istante, e per l’eterno. E la notte, immobile, non fu mai così mobile.

Gli occhi della notte si aprono, per la prima volta nella sua sottovita che abbandona in questo istante, la notte adocchia là, là nello scantinato e nel mondo, ovunque in alto ovunque in basso, a sinistra a destra, la notte adocchia là, decidendo tutto e contro tutto, disorientando ogni minimo gesto e opinione ominidi, disaccordando tutte le città, le società, le produzioni, degenerando i terrorismi e le guerre, la notte adocchia tutto quello che i filopseudosofi ignavi non vogliono vedere, ma che i filosofi sanno vedere, la notte adocchia là, in questo mondo dove la legge vertebrale vale poco, il falso idolo invertebrato vale su tutto, la notte adocchia là, avvolgendo il mondo, invadendo il mondo, dominandolo, avvilendolo, e dominando tutti quei – molto pochi – dominanti, non sapendosi dominare, e distruggendo tutti quei – ben troppi – dominati, non sapendosi dominare, la notte adocchia là, non qui, perché il qui è così raro, ed eccola la notte adocchia là:

la sostanza automatica.

Sostanza automatica, cieca e meccanica, diventata pulsionale, che libera senza misura il peggio, pulsionale, negli ominidi invertebrati, divenuti pulsionali. Sostanza automatica, lasciar-stare autoritario di un ciclone d’arbitrari e d’astratti flussi monetari, che sacrifica l’ominide nella sua tendenza verso l’umano. Sostanza automatica, processo senza alcun soggetto che sottomette il mondo intero, oggetto inetto in un processo che riduce ogni soggetto in oggetto, falso destino che, spiritualmente e materialmente, sopprime – in massa –, sostiene – a pezzi – l’ominide secondo il suo posto.

La notte adocchia e vede la sostanza del mondo, sa di non potervi scappare, perché lei è il suo ambiente in cui si vive e non la si vede, ma sa, anche, di poter agire su di lei. La notte agisce e modifica quello che vede: e con un colpetto, fa crollare una banca, con un altro un basso stato, con un altro un’industria, e due piccioni con un colpetto, due media finanziati da una banca, un basso stato, un’industria: un giornale, che riporta il solo male del giorno; e un canale – sia incanalante sia incanalato – di telececità, telefissione. Tra l’altro, altrove, altri uguali a lei stessa agiscono, da sé, allo stesso modo.

E la notte si vede doppia, si vive doppia, e la notte vede un doppio, vive un doppio che dice: “Mi si concedeva: una realtà, realtà senza verità, come quella del mondo, reale senza verità; e una verità, una verità irreale, come quella del mondo, vero senza realtà.”

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

La notte si vede, si riconosce, in colui che dice tutto ciò; dice tutto ciò che dice lui; allora il doppio si fa notte, e la notte, da ominidea, diventa generica umana. Ha appena partorito, con il suo lavoro, con la sua colonna vertebrale. Laylâ è in piedi.

E lo scantinato in carbone nero e pesante, tutto in carbonio caotico, diventa diamante, il più puro e il più trasparente, tutto in carbonio rettificato.

Nella notte fuori tutto è notte luminosa: la luna piena si è alzata, e illumina la terra, ricoperta dei cactus i cui fiori, Regine di Notte, si schiudono, tutto è bianco sulla terra.

Brice Bonfanti

http://www.bricebonfanti.com/


CANTO DI LAYLÂ

siamo quello che ancora non siamo

SIRIA – FRANCIA

(Canti d’utopia, XVIII)

Traduzione italiana di Paolo Taccardo.


Premier cycle

 

Réunis en neuf chants, les Chants d’utopie réfèrent à de courtes épopées reliant étroitement l’historique au mythique. Ils y évoquent l’émancipation universelle au travers de nombre de pensées qui ont traversé les âges. Les champs de l’espérance, du paradis, et du meilleur, s’y associent à celui de la catastrophe, du cataclysme, et du pire, enrobant le tout et son contraire.

Des lieux pour chacun d’eux : France, Grèce, Allemagne, Italie, Argentine, Turquie, Russie, Espagne, Israël, États-Unis d’Amérique, Égypte, Brésil, Hollande, Pologne…

Des personnages tirés de notre histoire : Dante Alighieri, Johann Gutenberg, Antônio Conselheiro, Sergueï Essenine, Voltairine de Cleyre, Elif Shafak…

 

Collection:
Date de parution:
19/04/2017

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Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Evald Ilyenkov 01

 

 

La filosofia vive negli uomini e nelle donne che hanno saputo renderla testimonianza vivente. Evald Ilyenkov (1924-1979) è stato un filosofo sovietico, che ha pagato con la vita la sua coerenza: è morto suicida. Le persecuzioni, la depressione dovuta anche a quel sentimento di estraneità che spesso coglie gli uomini di pensiero, lo hanno indotto al gesto estremo. Non sapremo mai le ragioni profonde ed ultime che inducono a fuggire dalla vita, possiamo solo immaginare situazioni che ne favoriscono la genesi. Ilyenkov è rimasto sepolto sotto il crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione sovietica. Fedele al comunismo autentico, all’emancipazione degli uomini dalle idee socialmente imposte che lo vorrebbero servo e passivo nel pensiero, non ha avuto “padrini”: la sua scelta di libertà e per la libertà del pensiero è stata vissuta fino all’estremo. Le sue opere sono poco pubblicate e molte attendono la traduzione dal russo. Era un filosofo, ma non solo. Si interessò sia di estetica come di psicologia. Diede un valido contributo allo studio per l’apprendimento nei bambini sordo ciechi. Lo sguardo rivolto alla totalità degli esseri umani, alle concrete condizioni che ne limitano lo sviluppo, è tipico dei pensatori che sentono il mondo: in essi la razionalità si completa con il thumos.[1] La ragione senziente può ricercare orizzonti che gli uomini piegati alla sola ratio – intesa limitatamente come calcolo – non possono comprendere. Ilyenkov ha definito l’universale come forma sintetica di particolare ed universale; in tal modo ha contribuito a formulare una definizione di universale all’interno delle dinamiche sociali e storiche. L’universale posto dall’uomo e dalla sua comunità comprende in sé la specificità dei casi particolari letti all’interno di un fenomeno universale che ne consente la chiarificazione razionale senza eliminare i dati particolari che vivificano l’universale, stando tra di loro in una relazione processuale. L’universale così definito si sottrae ai conformismi della naturalizzazione che li rendono intoccabili, al di fuori dello spazio e del tempo e dunque della storia. Gli universali devono essere riportati nella concretezza della storia, perché in essa vivono, in essa sono oggetto di attività per essere mutati: «Il concetto centrale della logica di Hegel, pertanto, è il concretamente-universale, e la sua differenza dalla semplice universalità astratta della sfera della rappresentazione è illustrato splendidamente dallo stesso Hegel nel suo famoso opuscolo Chi pensa astrattamente? [1807]. Pensare in astratto significa essere servilmente sottomessi alla forza delle parole correnti e dei luoghi comuni, delle vuote definizioni unilaterali, significa vedere nelle cose reali, sensibilmente intuite, soltanto una parte insignificante del loro contenuto effettivo, soltanto quelle loro determinazioni che sono già “congelate” nella coscienza e vi funzionano come stereotipi già pronti. Da qui anche la “forza magica” delle parole e delle locuzioni correnti che celano all‘uomo pensante la realtà, anziché servire come forma della sua espressione. Solo in questo senso la logica diviene veramente logica della conoscenza dell’unità nella multiformità, e non uno schema di manipolazione mediante rappresentazioni già pronte, diviene logica del pensiero critico ed autocritico, e non un mezzo di classificazione critica e di schematizzazione pedante delle rappresentazioni presenti. Muovendo da premesse di questo genere, Hegel giunse alla conclusione che il pensiero effettivo in realtà procede in forme ed è guidato da leggi diverse da quelle che la logica corrente considera le sole determinazioni del pensiero. È evidente che bisogna studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione, nel corso della quale l‘individuo coi suoi schemi di pensiero cosciente adempie soltanto a funzioni particolari».[2]

Il pensiero è dunque attività collettiva e materiale, si esplica nella storia, ed è movimento dialettico. Non esiste pensiero se non nella comunità, nella rete relazionale che si dipana per piani diversi dai modi di produzione alla posizione che ciascuno occupa all’interno del sistema alla relazione tra i singoli ed i gruppi, al corpo vivente. Il pensiero è comunitario, questa è la grande lezione che il filosofo sovietico aveva imparato da Hegel, Marx, Lenin. Il pensiero per essere emancipativo non può che essere autocritico, altrimenti diventa una sterile schematizzazione e classificazione senza alcuna consapevolezza. L’astrazione è la condizione dello spirito robinsoniano, ovvero gli universali, i modi di vivere, le categorie di senso entro cui leggere i dinamismi sono ritenuti naturali, da sempre esistenti, per cui tracciano negli individui forme di passività. Il corpo da essere pensante – secondo la lettura di Spinoza di cui Ilyenkov è stato grande interprete – diventa semplice ed automatico riflesso del sistema. Spinoza aveva insegnato al filosofo che il pensiero è corpo pensante, esso è attività che dà forma spaziale e significato a ciò che si percepisce. Il corpo pensante è dunque attività, per cui il pensiero non si può identificare con la corteccia cerebrale; è attività che modifica il corpo pensante mentre pensa; l’uomo è attività per cui può essere libero, non totalmente perché sottoposto alle leggi di natura, ma può modificare se stesso nell’unità psico-corporea che lo compone: «Cos’è dunque il pensiero? Come trovare la giusta risposta a questa questione, vale a dire fornire una definizione scientifica a un dato concetto, e non semplicemente enumerare tutti gli atti che noi per solito riuniamo sotto questa denominazione, ragionamento, volontà, fantasia, e via dicendo, come faceva Descartes? Dalla posizione di Spinoza scaturisce un suggerimento assolutamente preciso: se il pensiero è un modo di agire del corpo pensante, allora per definire il pensiero noi dobbiamo anche analizzare accuratamente il modo di agire del corpo pensante a differenza dal modo di agire (dal modo di esistere e di muoversi) del corpo non pensante. E in nessun caso la struttura o la costruzione spaziale di questo corpo in stato d’inerzia. Perché il corpo pensante, quando è inerte, non è più un corpo pensante, ma semplicemente un “corpo”. L’analisi dei meccanismi materiali (spazialmente determinati) grazie ai quali si realizza il pensiero entro il corpo umano, vale a dire lo studio fisiologico-anatomico del cervello, è beninteso, una questione scientifica d‘estremo interesse; ma anche la risposta più completa ad essa non ha una relazione diretta con la risposta alla questione indicata: “Che cos‘è il pensiero?”. Perché qui si chiede tutt’altra cosa».[3]

Spinoza con i dialettici sono stati i grandi maestri di Ilyenkov, accomunati dalla passione per l’uomo. L’uomo è attività. Qualsiasi sistema voglia ridurre l’uomo ad esecutore passivo di piani economici e sociali ideati in un altrove indeterminato ed espressione di gruppi lobbistici, non si può che definirlo totalitario. La riduzione dell’uomo a passività, ad ente biologico, a soffio vitale, è stata esperienza del secolo trascorso. Ma i Musulmani, come li chiamava Levi, sono anche le generazioni di uomini votati al feticismo delle merci e dei consumi, il cui io è disabitato. Ogni totalitarismo ed integralismo esige che l’umanità sia al servizio del potere. Spinoza, pur vivendo nella tollerante Olanda, soffrì le conseguenze dell’esclusione sociale dovuta alle sue idee rivoluzionarie. L’integralismo religioso fa della speranza e dell’ansia il puntello del suo sistema. Spinoza volle mostrare che speranza ed ansia sono l’effetto di idee inadeguate e pertanto la religione trova linfa in esse, rendendo gli uomini oggetto del destino. Hegel e Marx, da prospettive diverse, ma non opposte, mostrarono che il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Ilyekov elabora il concetto di ideale, nel cui sfondo si sente la presenza degli autori citati. Il pensiero marxiano dimostra che ogni sistema produce i suoi ideali, rappresentazioni nelle quali si sono oggettivati i rapporti sociali: «Il vecchio materialismo muoveva da una concezione dell‘uomo come parte della natura, ma, non riconducendo il materialismo alla storia, non poteva intendere l’uomo con tutte le sue peculiarità come un prodotto del lavoro che trasforma sia il mondo esterno che l’uomo stesso. In forza di ciò, l’ideale non poteva essere inteso come il risultato e la funzione attiva dell’attività lavorativa, sensibilmente oggettiva, dell’uomo sociale, come l‘immagine del mondo esterno che sorge nel corpo pensante non come risultato dell‘intuizione passiva, ma come prodotto e forma della trasformazione attiva della natura ad opera del lavoro delle generazioni che si sono succedute l’una all’altra nel corso dello sviluppo storico. Perciò la principale trasformazione che Marx ed Engels apportarono alla concezione materialistica della natura dell’ideale riguardò anzitutto il lato attivo dell’atteggiamento dell’uomo pensante verso la natura, cioè dell’aspetto che era stato sviluppato prevalentemente, per dirla con Lenin, dall’idealismo “intelligente”, della linea di Platone-Fichte-Hegel, e che da essi era stato messo in rilievo in modo astratto e unilaterale, idealisticamente».[4]

L’ideale è nel corpo pensante, è parte della vita biologica del soggetto, lo trasforma nella fisicità. Ilyenkov, con la sua analisi, mostra il difficile percorso dell’attività emancipatrice, la quale – per essere tale – deve trasformare i piani profondi del pensiero e dunque del corpo pensante. Rileva quanto i totalitarismi (mia è l’espressione) si rafforzano nell’incapacità indotta da parte dei soggetti di porre una distanza critica tra loro e le rappresentazioni ideali. Capire il radicamento del potere nel corpo pensante significa allora individuare strategie comunitarie per liberare e sublimare l’attività del pensiero verso la liberazione ed emancipazione. Il corpo pensante è attività per cui è sempre pensiero del possibile all’interno della storia. Nella società-comunità il soggetto e la comunità saranno consapevoli che la cultura, l’ideale, è produzione della società. La società comunista sembra delinearsi non come fine della storia, ma come movimento partecipato e comunitario: «E viceversa, la concezione materialista risulta naturale per l’uomo della società comunista, dove la cultura non si contrappone all’individuo come qualcosa di indipendente ed estraneo, impostogli dall’esterno, ma è la forma della sua propria azione attiva. Nella società comunista, come indicava Marx, diviene immediatamente evidente un fatto che nelle condizioni della società borghese si palesa solo per mezzo di un’analisi teoretica che dissolva le illusioni a questo punto inevitabili: il fatto che tutte le forme della cultura sono soltanto forme dell’attività dell’uomo stesso».[5]

[1] Thumos (anche ‘thymos’, in greco: θυμός) è una parola greca antica che esprime il concetto di “anima emozionale”. La parola indica un’associazione fisica con il respiro o col sangue.

[2] E. Ilyenkov, La Logica dialettica. Saggi di storia e teoria, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 271-272.

[3] Ibidem, pp. 63-64.

[4] Ibidem, pp. 370-371.

[5] Ibidem, p. 413.

 


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Henry David Thoreau (1817-1862) – Questa è la biblioteca, ma il mio studio è là fuori, oltre la porta. Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business.

Thoreau Henry David

«Viaggiare e scoprire nuove terre significa pensare e formulare nuove ipotesi. Negli spazi del pensiero sono le leghe di terra e di mare su cui gli uomini vanno e vengono».

 Henry David Thoreau

 

 

Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business. Henry David Thoreau (citato in Life without principle, in origine What Shall in Profit 1854)

 

thoureau_camminare

Henry D. Thoreau

Camminare e altri passi scelti

Piano B Edizioni, pp. 136, € 14,00

Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei ripose:
«Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta».
H.D. THOREAU, Camminare

 

 

Credo che non riuscirei a mantenermi in buona salute, sia nel corpo che nello spirito, se non trascorressi almeno quattro ore al giorno – e normalmente sono di più – vagabondando per i boschi, i campi e le colline, assolutamente libero da ogni impegno terreno. Potreste tranquillamente chiedermi: «Un penny per i tuoi pensieri», o mille sterline. Quando certe volte penso che gli artigiani e i commercianti se ne stanno nelle loro botteghe non solo l’intera mattinata, ma anche tutto il pomeriggio, e tantissimi di loro seduti a gambe accavallate – come se le gambe fossero fatte per sedervisi sopra anziché per stare eretti o camminare –, mi sembra che meritino una certa considerazione per non essersi suicidati tutti già da tempo.

Io, che non riesco a rimanere nella mia stanza un solo giorno senza ricoprirmi di un po’ di ruggine, e che le volte che mi è capitato di sgusciare fuori per una passeggiata nell’ora undicesima delle quattro del pomeriggio, troppo tardi per riscattare la giornata, nell’ora in cui le ombre della notte iniziavano già a fondersi con la luce del giorno, mi sono sentito come se avessi commesso un peccato da dover espiare – confesso che sono sbalordito della capacità di resistenza, per non parlare dell’insensibilità morale, dei miei vicini che si recludono in botteghe e uffici tutto il giorno per settimane e mesi, ma che dico, per anni interi. Non so proprio di che genere di stoffa siano fatti – lì seduti alle tre del pomeriggio come se fossero le tre del mattino. Bonaparte può parlare del “coraggio delle tre del mattino”, ma esso non è nulla in confronto al coraggio che a quell’ora del pomeriggio può starsene allegramente seduto contro il nostro volere, contro il nostro io che pure abbiamo conosciuto per l’intera mattinata a prendere per fame una guarnigione alla quale siano legati da così forti vincoli d’affetto. Mi stupisce che intorno a quell’ora, o diciamo tra le quattro e le cinque del pomeriggio, troppo tardi per i giornali del mattino e troppo presto per quelli della sera, non si oda per le strade un’esplosione generale che dissemini ai quattro venti una schiera di idee e fantasie stantie coltivate tra Ie mura domestiche per far loro prendere una boccata d’aria – e in tal modo far sì che il male si curi da sé.

 

 


INDICE DELL’OPERA

Il camminare come pratica concettuale: un’idea di filosofia, di Leonardo Caffo
Nota del Curatore

Camminare
Una passeggiata d’inverno
Notte e chiar di luna
Passi dai diari
Passi dalle lettere


La disobbedianza civile 01

La disobbedianza civile

La disobbedienza civile

La disobbedienza civile

Camminare e disobbedire

Camminare e disobbedire

 

Vita nel bosco

Vita nel bosco


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Alessandro Pallassini – Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza.

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«La finitude se réciproque avec l’infinitude (–). Là est le fil d’or qui permet à la pensée de Spinoza d’éviter la présomption de la métaphysique de la subjectivité et de la production pour la production. Là est le génie d’une philosophie d’au-delà du nihilisme contemporain» (A. Tosel, Spinoza ou l’autre (in)finitude, L’Harmattan, Paris, 2008, p. 269).

 

Coperta 279

Alessandro Pallassini

Finitezza e Sostanza

Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza

indicepresentazioneautoresintesi

 


 

Leggi l'estratto

Invito alla lettura (alcune pagine del libro “Finitezza e Sostanza)


Introduzione

Ad Alessandro Mazzone, Pedro González, André Tosel,
in memoriam

A Fernanda, per tutto

Parlare della libertà nella filosofia di Spinoza non è semplice: in primo luogo perché il rigido determinismo che fin dalle prime battute sembra dominare l’intera filosofia spinoziana pare escludere ogni forma di condotta libera; in secondo luogo perché, in apparente contraddizione con la prima affermazione, la teoria della libertà pervade l’intera opera matura del filosofo olandese, ivi inclusi i trattati. È necessario, perciò, vedere se e come queste due affermazioni, apparentemente contrapponentesi, si possono conciliare. In altre parole, è necessario vedere se all’interno della filosofia spinoziana sia possibile trovare concretamente una teoria della libertà che rifugga dall’indeterminismo (libero arbitrio) e dal determinismo etero imposto.
Il lavoro da svolgere deve, quindi, partire dall’analisi delle condizioni materiali su cui è possibile costruire una teoria della libertà che permetta di evitare i problemi prima citati. Il luogo in cui ricercare tali fondamenti è costituito dalla teoria generale della Sostanza e dal rapporto che quest’ultima intrattiene con i modi. Solo definendo un primo livello di necessità/libertà, dettato dalle leggi generali della Natura, è possibile porsi concretamente il problema di una teoria della libertà che si articoli a livello modale. Tuttavia, è bene chiarire fin da subito che sarebbe un errore contrapporre modalità e Sostanza, libertà modale e libertà sostanziale. Infatti, la prima, come cercheremo di dimostrare, si forma e si articola all’interno della seconda. La vera difficoltà, come ha ben notato A. Tosel, rimanda alla definizione della possibilità per la modalità specificamente umana di conquistarsi un proprio campo di libertà, di porsi come elemento attivo e produttivo.[1] La prima parte di questo lavoro indirizzerà pertanto la propria analisi verso la descrizione dei fondamenti che sottendono alla teoria spinoziana della Sostanza. È infatti a questo livello che le basi teoriche per poter parlare della libertà umana vengono gettate; in particolar modo è a livello di concettualizzazione modo/sostanziale che un primo snodo teorico è da ricercare. Infatti, se il rapporto tra la Sostanza e i modi fosse solamente unidirezionale, se la causazione si muovesse in una sola direzione, l’uomo, la cui condizione ontologica è quella di un modo, non potrebbe godere di nessuna libertà, ma sarebbe necessitato in forma coatta da un rigido determinismo che lo vedrebbe riassorbito nella Sostanza. Per poter parlare di libertà occorre che, in prima istanza, il rapporto tra Sostanza e modi sia pensabile non come un rapporto uni­direzionale, di degradazione, ma è necessario poter pensare la totalità intensiva dei modi come la Sostanza stessa. In altre parole, deve essere possibile intendere la Natura Naturans e la Natura Naturata, non come due entità contrapponentesi, ma come la medesima cosa sotto due punti di vista differenti. Lo statuto del modo deve essere considerato in maniera attiva, perché esso è una produzione della Sostanza e come tale è una parte attiva di quest’ultima, capace di porsi come forza produttrice di effetti, come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni.
La teoria spinoziana della libertà deve, perciò, fin dall’inizio, risolvere queste difficoltà; deve fornire la base materiale che permetta alla modalità umana di articolarsi come forza attiva, capace di porsi tendenzialmente come causa adeguata delle proprie azioni. In questo senso, la libertà di cui gode il modo e quella di cui gode la Sostanza debbono essere qua­litativamente omogenee. La Sostanza risulta essere un’astrazione senza i modi mentre i modi sono impensabili senza quest’ultima. La necessità di pensare il rapporto Sostanza/modi come un rapporto isomorfo è la prima determinazione della teoria spinoziana della libertà. La produttività del modo è così introdotta all’interno della struttura complessa della realtà, dalla quale essa è determinata e al tempo stesso nella quale produce i propri effetti, si pone come forza produttiva.
Questa concezione del rapporto tra Sostanza e modo viene a definire quello che possiamo chiamare il primo livello di libertà/necessità, quello che inerisce alla Sostanza nella sua totalità come universalità di determinazioni. La teoria della Sostanza fornisce le basi materiali per sviluppare la teoria della libertà secondo una direzione che rifugga dal libero arbitrio e dal determinismo eterodiretto. In questo senso, il determinismo spinoziano, proprio in virtù del rapporto pe­culiare che vige tra la Sostanza e i modi viene a connotarsi non come impossibilità di agire da parte del modo, ma come impossibilità di esercitare il libero arbitrio. Il determinismo spinoziano, fonda perciò, l’agire concreto. Si può allora dire che già nelle prime parti del De Deo la tensione politica è fondamentale nell’analisi di Spinoza. Si manifesta fin da subito la strettissima e inseparabile relazione tra ontologia, etica e politica.[2]
Il primo livello di necessità/libertà è la base materiale su cui è possibile costruire un secondo livello di necessità/libertà, quello propriamente modale e, nel nostro caso, specificamente umano. Per quanto riguarda la sfera della libertà umana occorrerà, pertanto, partire dall’analisi concreta delle sue condizioni, vale a dire dalla radicale passività originaria che affetta il modo. Sarà necessario comprendere come il suo statuto all’interno del primo livello di necessità sia ontolo­gicamente egualitario con le altre produzioni naturali e come pertanto le acquisizioni teoriche proprie di questo livello siano immediatamente valide per gli esseri umani. L’uomo non può essere considerato come un impero all’interno di un impero, come soggetto costituente assoluto, ma deve essere indagato a partire dalla sua condizione che lo pone come un modo con pari dignità rispetto agli altri modi della Sostanza, al tempo stesso passivo, perché sovrastato da un’infinità di cause esteriori infinitamente più potenti di lui, ed attivo, perché produzione attiva della Sostanza e quindi egli stesso potenzialmente attività e produttività. Tutto l’agire umano, per riprendere un’espressione di Martinetti, avviene in modo necessario e determinato, ma questa necessità da cui discende l’agire umano è duplice.[3] Infatti, una cosa è la necessità coatta, quella che viene subita dall’esterno e di cui ogni individuo nasce schiavo. Altra cosa è, invece, la necessità dalla quale ogni individuo è attraversato da parte a parte. L’uomo nasce necessariamente in una condizione di sopraffazione passionale dovuta alla predominanza delle cause esteriori su di lui; in questa condizione la necessità non può che pre­sentarsi come necessità coatta, subita dall’esterno. In quanto egli si conosce passionalmente extra Deum, e non come parte attiva della Natura, deve necessariamente cadere sotto il dominio delle altre cose. La passione è appunto questo processo per cui il nostro essere incontra un’energia straniera dalla quale si sente sopraffatto e verso la quale non può porsi come causa adeguata. La necessità dalla quale l’attività dell’uomo è determinata, in questo caso, è necessità servile. L’uomo è costretto pertanto ad alienarsi verso gli oggetti esterni, gli altri individui o verso le divinità che egli crede possano determinare la propria condotta. La condizione umana a questo livello è radicalmente passiva e l’individuo è costretto a crearsi una griglia interpretativa del mondo puramente immaginativa attraverso la quale darsi delle spiegazioni sulla realtà. È da questa condizione che nascono i fenomeni immaginativi, che si forma l’idea di una divinità creatrice del mondo e che deriva il concetto di miracolo, come possibilità della divinità di interrompere o modificare il corso naturale della realtà. Ma è anche in questa condizione che l’uomo si crea una griglia di rapporti intersoggettivi basati sulla dipendenza passionale, sull’alienazione verso gli altri individui e sulla repulsione verso quest’ultimi. Si possono quindi sviluppare cicli passionali in cui l’alienazione positiva si alterna con quella negativa, l’amore e l’odio si succedono senza soluzione di continuità in una condizione che rimane sempre aperta alla fluctuatio animi.
Se la dipendenza originaria è radicale, ciò non significa che essa non sia modificabile. Il rapporto di dipendenza è un rapporto dinamico, modificabile, riconnotabile in permanenza. Comprendere la vera struttura del reale è condizione necessaria per poter invertire la passività originaria in attività. La filosofia di Spinoza si troverà dunque a confrontarsi con questo secondo problema relativo alla possibilità di porci come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni, riducendo la frattura che vige tra l’individuo e il resto del mondo e che lo rende passivo di fronte alle cause esterne. Il problema è quello di ricercare gli strumenti che consentano di rendere concreta questa inversione, questa transizione tendenziale dalla passività all’attività. La teoria spinoziana della conoscenza si reciproca allora con la maggiore o minore capacità di porsi come essenza attiva, come forza produttiva all’interno della Natura. Se l’uomo non potrà mai porsi come totalmente libero, ciò non toglie che possa porsi indefinitamente sempre più libero, liberandosi dalle finzioni relative all’idea di un Dio creatore e rettore del mondo e possa comprendere la necessità senza più subirla. Questo è il primo passo verso la conquista dell’attività. Nel momento in cui riusciamo a comprendere la vera struttura del reale e comprendiamo che la necessità che determina l’intero corso della realtà non è qualcosa di imposto dall’esterno, ma è determinata internamente, cominciamo a conoscerci non più extra Deum, ma in Deo: riusciamo a comprenderci come parte attiva e produttiva dell’intera Natura. Essere libero infatti non è più essere capace di fare o non fare una determinata cosa, ma essere capace di porsi come causa adeguata delle nostre azioni.
Il riconoscimento della necessità, comporta la fine dei concetti immaginativi di creazione e di libero arbitrio e consente di strutturare un percorso che renda possibile l’inversione della passività in attività. Se la passività totale e l’attività totale sono impensabili, quello che è importante nella teoria spinoziana della libertà è il passaggio da uno stadio ad un altro, da una fase di passività ad una di maggiore attività. L’Etica definisce questo percorso mostrando quali siano i mezzi da sviluppare per inverare la possibilità di acquisire uno statuto attivo riducendo sempre più la nostra passione originaria; essa appare come teoria pura dei modi di produzione umani e della loro dinamica. La produttività infinita della Sostanza – una volta conosciuta – fa sistema con le forme di vita, con il passaggio dalla vita in schiavitù, dominata dalla causalità ex alio e la determinazione ex alieno decreto, alla vita liberata, dominata tendenzialmente dalla causalità per sé e la determinazione ex proprio decreto. L’Etica pone in essere la possibilità di una liberazione del conatus umano, della forza produttiva umana. A partire dalla definizione della condizione umana nella Natura, operata nella prefazione alla terza parte e nelle prime proposizioni della quarta e proseguita con l’analisi dei meccanismi passionali ed alienativi che si sviluppano tra individui e Natura e reciprocamente tra individui, l’Etica apre un nuovo corso. All’interno del pro­cesso anonimo della Natura comincia a costruirsi la transizione etica dalla passività all’attività. In questa opera, la parte quinta rappresenta il punto superiore; raggiunto questo livello, la liberazione diviene libertà. Non ci conosciamo più come extra Deum, ma ci comprendiamo come parte attiva della Natura e in quanto tale ci comprendiamo come Dio, per quanto la nostra condizione modale ce lo permetta. Si apre il cammino verso la conquista dell’eternità, verso la piena attualizzazione della nostra essenza, verso l’estensione quantitativamente indefinita di interiorizzazione del processo produttivo della Sostanza.
L’Etica così facendo produce le condizioni della propria pensabilità; il cerchio si chiude e il processo di acquisto di causalità adeguata può svilupparsi secondo la propria dinamica quantitativamente indefinita. Ma l’Etica non si chiude su se stessa; se il processo di transizione dall’in alio all’in sé è dato dalle dinamiche messe in moto nell’analisi, per così dire, pura che l’Etica svolge, ciò nonostante questo processo è possibile solamente se sussistono le basi materiali per la propria realizzazione. La politica, allora, diviene il luogo in cui il movimento descritto dall’Etica deve produrre le pro­prie basi materiali. L’etica e la politica fanno sistema e quest’ultima diviene il luogo in cui i diversi sviluppi del conatus umano entrano in contatto e trovano una sintesi; la transizione etica descritta in precedenza deve riflettersi nella sfera politica, assumendo così concretezza. Il problema politico diviene quello di approntare gli strumenti adatti che rendano possibile l’acquisto di causalità adeguata, sia a livello collettivo che individuale. La ricerca spinoziana in politica non è ricerca del modello normativo migliore, ma tensione verso la democrazia, come mezzo migliore per rendere possibile il passaggio dalla causalità inadeguata alla causalità adeguata. Essa rende possibile la concretizzazione della transizione etica, fornendole le basi reali su cui strutturarsi. Fuori da ogni modello astratto ed infondato, il problema della politica per il filosofo olandese coincide con il problema della democrazia, con la necessità di trovare gli strumenti per rendere operante l’acquisto di potenza e di causalità adeguata, per rendere possibile il porci come causa tendenzialmente ade­guata delle nostre azioni.
La democrazia, ponendosi come il luogo in cui il conatus si socializza nella forma migliore, fungendo così da operatore di una socializzazione quasi-razionale, rende possibile il passaggio da una forma di vita in schiavitù ad una forma di vita libera, ma essa non esaurisce totalmente questo processo. La sfera politica si presenta come il luogo in cui la transizione etica, trovando le condizioni per la propria riuscita, si concretizza e si rilancia, evitando di esservi riassorbita totalmente. La strategia spinoziana volge il proprio sguardo verso i mezzi più idonei per assicurare il passaggio da una condizione in cui si è determinati ex alieno decreto e si è spinti ad operare, ad una condizione in cui la determinazione deriva ex proprio decreto e siamo in condizione di agire.[4] La politica è il luogo e il mezzo che Spinoza appronta per rendere concreta questa possibilità di transizione dalla passività all’attività e al tempo stesso è il luogo in cui questo processo concretizzandosi può rilanciarsi. Il Trattato Teologico Politico e il Trattato Politico vengono allora a saldarsi con il nucleo teorico dell’Etica, la quale, per riprendere le parole di A. Tosel, funge da stenogramma concettuale dei trattati politici. Il processo puro descritto nell’Etica si invera nei trattati politici che mirano a fornire le condizioni della realizzazione del progetto etico, ma al tempo stesso rendono possibile il rilancio dell’azione etica travalicando la stessa sfera della politica.
La filosofia di Spinoza appare allora nella sua intrinseca coerenza; essa si presenta come analisi strategica delle possi­bilità e dei mezzi per rendere reale l’adeguarsi della modalità umana al movimento di produzione del reale, per rendere possibile da parte dell’uomo la propria comprensione non più extra Deum, ma in Deo come parte prodotta e al tempo stesso producente, attiva, della Sostanza. L’Etica si presenta allora come ontologia politica e al tempo stesso come politica ontologica, in cui la liberazione della nostra forza produttiva nella durata si identifica con il processo del nostro divenire eterni; è in questa ottica che la filosofia spinoziana intende il processo storico, come processo di conquista dell’eternità da parte del modo, come capacità da parte dell’individuo umano di porsi come causa tendenzialmente adeguata delle proprie azioni in un processo che se qualitativamente riproduce se stesso circolarmente, quantitativamente è infinito e può essere riattivato ad ogni passaggio.
La teoria della libertà spinoziana rimane questione aperta, non esauribile una volta per tutte in un modello determi­nato, ma il dispositivo filosofico messo in atto dal filosofo olandese rende conto, nella propria coerenza sistematica, della direzione nella quale occorre muoversi per affrontarla e questa direzione ci indirizza concretamente verso la capacità di porci tendenzialmente come causa adeguata delle nostre azioni e delle nostre idee, come forza produttiva all’interno della Natura, certamente sempre limitata dalle cause esterne, ma non per questo irreale. Al contrario, essa è ben concreta e processualmente sviluppantesi verso sempre nuovi acquisti di causalità adeguata e di produttività. Seguendo questa direzione, Spinoza può riuscire a costruire una teoria della libertà che rifugga dalle due aporie relative al libero arbitrio e al determinismo eteroimposto; la libertà rimane questione aperta, ma non incoerente ed affrontabile concretamente.
Nelle nostre analisi, che non prevedono confronti esterni con altri sistemi filosofici ma solamente una modellizzazione interna delle idee del filosofo olandese, prenderemo in considerazione le posizioni espresse da Spinoza nell’Etica e nei due trattati politici, considerando questo gruppo di opere come l’espressione più matura della filosofia spinoziana. Inoltre, la linea interpretativa che abbiamo seguito fa riferimento alle analisi che, a partire dall’opera, ormai divenuta classica, di A. Matheron Individu et communauté chez Spinoza, si è sviluppata soprattutto in Francia e che ancor oggi continua a dare risultati che, a nostro avviso, la pongono all’avanguardia nell’interpretazione della filosofia di Spinoza.
Abbiamo deciso di mantenere le citazioni della letteratura secondaria nella lingua originaria, perché la loro funzio­ne è solamente quella di supporto alle tesi esposte e quindi possono essere evitate dal lettore che non padroneggia tali idiomi. Al contrario, abbiamo deciso di mettere, oltre all’originale latino, anche la traduzione delle citazioni delle opere di Spinoza, perché la loro comprensione è funzionale alla interpretazione delle tesi sostenute.

Per chiudere questa introduzione, alcuni ringraziamenti dovuti.
Sono particolarmente grato ad André Tosel, che ho conosciuto, da studente, a Parigi ormai molti anni fa e di cui oltre al rigore e alle intuizioni teoretiche ho apprezzato l’infinita umanità. Sebbene a distanza, non ho mai smesso di seguirlo come penso testimoni questo testo. Lo considero il mio maestro di spinozismo e di comunismo della finitezza, per quanto chi scrive sia un allievo profondamente indegno soprattutto perché non ha saputo coltivare questo rapporto prelibato come avrebbe dovuto e potuto fare. La notizia della sua morte mi ha raggiunto mentre terminavo la revisione di questo scritto, che si era gentilmente offerto di introdurre.
Il mio ringraziamento va anche a Carmine Fiorillo e Luca Grecchi per la vicinanza e la pazienza dimostratami in questo periodo. Luca ha altresì letto e valutato il dattiloscritto, fornendomi preziosi consigli e anche per questo lo ringrazio. Va da sé che ogni deficienza riscontrabile in questo lavoro è da addebitarsi solamente a chi scrive.
Ringrazio i miei che mi hanno indicato la barricata e mi permisero di andare a conoscere Baruch Spinoza in salsa francese. Sarò sempre loro grato e non solo per questo.

Infine, alcune esplicazioni circa le dediche.
Alessandro Mazzone è stato il mio professore di Filosofia della Storia. Spero che da lui sia riuscito ad apprendere il rigore teoretico ed il culto della lentezza analitica. Pedro González era un caro amico peronista. Parlare con lui è stata una esperienza unica e purtroppo irripetibile. Non scorderò mai la sua umanità ed i suoi insegnamenti, che valgono molto di più di tanti dottorati e molte esperienze accademiche.
La terza dedica è per André Tosel, che come abbiamo detto, è venuto a mancare durante la ultima revisione di questo testo a cui si era offerto di fare l’introduzione. Sebbene i nostri contatti fossero molto sporadici, non ho mai smesso di seguirlo e di considerarlo il mio maestro di spinozismo e di comunismo della finitezza.

Fernanda è mia moglie.
Semplicemente, senza di lei niente avrebbe senso.

Alessandro Pallassini

[1] Cfr. A. Tosel, Spinoza ou l’autre (in)finitude, L’Harmattan, Paris, 2008, pp. 157-172.

[2] Ha ben espresso questa idea E. Balibar affermando che: «Non c’è il lui da una parte una metafisica (o un’ontologia) dall’altra parte una politica o un’etica, considerate come applicazioni “seconde” della filosofia “prima”. Dal suo cominciare, la metafisica è un pensiero della pratica, dell’attività. E la politica è una filosofia: essa costituisce il campo dell’esperienza nel quale si dispiega la natura umana e lo sforzo di liberazione». Cfr. E. Balibar, Il Transindividuale, Ghibli, Milano, 2002, p. 46.

[3] P. Martinetti, La dottrina della libertà in B. Spinoza, in Chronicon Spinozarum, vol. IV, 1926, pp. 58-67.

[4] Sulla distinzione tra essere spinti ad operare ed agire e sul suo valore nella filosofia di Spinoza, torneremo, più volte, in seguito.

 


Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.


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Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Eric Hobsbawm01
Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la Revoluciòn di E. Hobsbawm è un resoconto delle potenzialità critiche e rivoluzionarie dell’America Latina. Lo storico de Il secolo breve analizza le condizioni storiche che hanno fatto dei paesi dell’America latina un laboratorio politico nel quale esperimenti sociali si coniugano con potenzialità rivoluzionarie e riformiste inespresse. L’attenta e documentata rassegna dei diversi movimenti sono esaminati cogliendo le contraddizioni ed i limiti che hanno imbrigliato le possibilità politiche e rivoluzionarie. Leggendo il testo non si possono non cogliere analogie con l’attuale condizione italiana ed europea. Lo sguardo cognitivo rivolto verso l’America latina ci offre strumenti per capire la condizione dell’Occidente. Nell’anomia dell’informazione e della politica abbiamo necessità di capire, il diritto a capire e ad agire politicamente è stato sostituito dal flusso delle informazioni senza concetti, in tal modo non resta che il “panta rei”, per cui tutto scorre, ma nulla resta di concettualizzato ed elaborato per l’azione: si assiste al divenire senza l’essere metafora della politica.

Hobsbawm evidenzia quanto lo stesso sviluppo economico dell’America latina produca un sistema neofeudale. I nuovi schiavi sono tali perché le classi subalterne sono completamente asservite agli interessi dei nuovi proprietari feudali. L’economia, divenuta complice della politica, l’ha resa sua serva, in assenza di limiti politici e mossa dalla necessità di produrre ad infinitum. Lo sviluppo economico neofeudale ha quale effetto, contadini e classi medie passivizzate e sempre più funzionali al nuovo sistema economico. Politica ed economia si confondono nel neofeudalesimo descritto da Hobsbawm. Lo sviluppo economico dev’essere demitizzato per essere compreso. Il dogma dello sviluppo economico, del Pil quale parametro unico di valutazione cela tra le sue pieghe contraddizioni vissute ma non consapevoli. Il neofeudalesimo dell’America latina è speculare al neofeudalesimo finanziario dei nostri giorni. Il sistema di sviluppo agricolo di La Convenciòn ha tutti i tratti del neofeudalesimo tra corvè e sfruttamento: «La Convenciòn impartisce un’ultima lezione allo studente di sviluppo economico, sebbene forse gli sia piuttosto familiare: dimostra una volta di più che la crescita stessa del mercato mondiale capitalista sulla frontiera dello sviluppo, in determinate fasi, produce, o riproduce, forme arcaiche di dominazione di classe. Le società schiaviste dell’America del XVIII e XIX secolo erano il prodotto dello sviluppo capitalista, e così – benché su scala più modesta e localizzata – è stato anche il neofeudalesimo che prevalse a La Convenciòn fino al suo crollo, speriamo definitivo, grazie alla rivolta dei contadini».[1]

Tali osservazioni furono scritte nel 1969: è implicita la critica al modo di studiare economia accademico, alla falsa oggettività con cui gli studenti di economia si confrontano e trasformano l’economia in una religione del progresso che ha nella quantificazione il paradigma unico della lettura dei fenomeni economici. L’economia, sembra dirci Hobsbawm, quella reale, è differente dall’economia naturalizzata delle accademie universitarie. Dinanzi al delinearsi di forme di neofeudalesimo nell’America Latina, ed a potenziali condizioni per la Rivoluzione spesso si assiste o a forme di spontaneismo rivoluzionario o a rassegnazione e fatalismo: «È ovvio che la Colombia, come tutti gli altri Paesi latino-americani – a eccezione, forse, di Argentina e Uraguay – contenga la materia prima per una rivoluzione sociale sia dei contadini sia dei poveri delle aree urbane. Come in altre nazioni del continente, infatti, il problema non è trovare “materiale infiammabile”, ma capire perché non abbia già preso fuoco». [2]

Hobsbawm sembra parlarci, quando afferma che le condizioni per una rivoluzione, o per una politica riformista, non son solo attraverso le diffuse ingiustizie sociali; o meglio, per poterle definire tali, vi dev’essere la consapevolezza di sé, della classe sociale a cui si appartiene mediata dalla coscienza che la miseria non è un fatto naturale ma il prodotto di una sperequazione sociale voluta ed intenzionale: non si nasce poveri, non si nasce schiavi, si pensi alla dinamica servo-padrone di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma lo si diventa quando si rinuncia a lottare ed a pensare: «Innanzitutto, il gruppo attualmente privo di terra, il proletariato rurale, è di norma uno dei gruppi agrari meno dinamici e facili da organizzare sul piano politico (tranne forse dove c’è un’economia di piantagione avanzata) attraverso i metodi quasi urbani del sindacalismo. È il contadino – e non necessariamente quello che ha una quantità di terra insufficiente – a costruire l’elemento esplosivo più immediato. In secondo luogo, il minifondismo o la povertà non sono in se stessi sufficienti a produrre agitazioni agrarie: di norma è la giustapposizione del contadino all’hacienda (soprattutto l’hacienda la cui struttura e le cui funzioni stanno cambiando, per esempio con il passaggio dall’uso estensivo a quello intensivo delle terre, o dalla piantagione diretta allo sfruttamento attraverso contratti d’affitto o di mezzadria) a produrre miscela politicamente infiammabile».[3]

Hobsbawm ribadisce più volte che il passaggio dalla potenza all’atto non è meccanico. In assenza di un partito comunista che talvolta è diffuso, ma i cui aderenti vi partecipano in vista di un generico e non chiaro desiderio di riforma, a cui si accompagnano forti divisioni interne nell’area di sinistra, il neofeudalesimo può avanzare, malgrado gli improvvisi scoppi di rabbia e le politiche di riforma parzialmente ottenute: «Purtroppo anche la sinistra marxista, che non fu mai una forza politica rilevante se non in un numero ristretto di Stati, oggi nella maggioranza delle repubbliche è forse troppo debole e divisa per fornire un efficace contesto nazionale d’azione o una forza politicamente decisiva dal punto di vista della leadership. Anzi, l’effetto concreto degli anni Sessanta è stato, per una varietà di motivi, quello di indebolirla e frammentarla più che mai, rendendo la sua unificazione e la sua normale azione molto problematici. Ciò non esclude le grandi trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie, ma fa in modo che, probabilmente, a mettervisi a capo, almeno da principio, siano altre forze».[4]

La sinistra divisa, ridotta in fazioni in lotta per briciole di potere, è ciò a cui assistiamo oggi. Ciò permette alle forze autoritarie in economia e travestite da libertarie in campo etico e dei diritti civili di naturalizzare il liberismo. Si diffonde l’idea della impossibilità dell’alternativa mortificando gli animi degli sfruttati per rafforzare potentati economici sempre più feudali. Nel vuoto di spazio politico autentico si generano movimenti anche violenti, ma privi di progettualità.

In assenza di forze aggreganti mosse da un radicamento nel territorio in America Latina il banditismo è divenuto il facile e sanguinoso surrogato dell’assenza di un progetto autenticamente emancipativo e dunque condiviso e partecipato: «Tuttavia, riformista o rivoluzionario che sia, il banditismo in sé non costituisce un movimento sociale. Può essere un suo surrogato, come quando i contadini ammirano i Robin Hood come propri campioni per sopperire alla mancanza di una propria attività positiva diretta». [5]

Hobsbawm sembra guidarci verso la comprensione del presente post ’89 mediante l’analisi dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina. La nostra condizione è ancora più difficile, poiché le cosiddette “sinistre” non sono solo divise, ma ciò che più temono è proprio di essere percepite come vicine comunismo e socialismo. Di qui il moltiplicacarsi del fatalismo attuale, che diventa elemento germinatore dello stesso neofeudalesimo. La chiarezza filosofica – che si saldi con la prassi – è invece aggregante poiché svela la possibilità di un oltre, e può sottrae le coscienze degli oppressi dal gorgo nichilistico in cui vengono quotidianamente precipitate.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] E. Hobsbawm, Viva la Revoluciòn. Il secolo delle utopie in America Latina, Rizzoli, Milano 2016, pag. 119.

[2] Ibidem, pag. 59.

[3] Ibidem, pag. 219.

[4] Ibidem, pag. 237.

[5] Ibidem, pag. 124.

 


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