Fernanda Mazzoli – Vecchi e nuovi amici dell’umanità.

Fernanda Mazzoli - Amici dell'umanità


Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.
Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».
Fernanda Mazzoli – La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.
Fernanda Mazzoli – Quei nostri morti: Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani. Modena 9 gennaio 1950

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Quei nostri morti: Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani. Modena 9 gennaio 1950

Fernanda Mazzoli - Modena 1950

Gianni Rodari, nel 1950 giovane cronista,
scrisse su «L’Unità» del 11/1/1950:
Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia.
La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani
.

Fernanda Mazzoli

Quei nostri morti:

Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani.

Modena 9 gennaio 1950

Dalla facciata del settecentesco Grande Spedale degli Infermi, poi a lungo Ospedale cittadino ed ora sede di un polo culturale, sei facce d’altri tempi guardano scorrere il traffico di passanti e biciclette sulla Via Emilia centro. Non molto lontano da lì, in una fredda mattina di gennaio di settantun anni fa, il loro tempo incrociò, davanti alle Fonderie Riunite di Modena, le fucilate tirate dalla polizia di Scelba e si arrestò bruscamente.
Certo, non passavano di là per caso, avevano scelto di esserci per portare la loro concreta solidarietà agli operai delle Fonderie che protestavano contro la serrata della fabbrica ed i 500 licenziamenti stabiliti dalla direzione, seguiti dalla decisione di assumere ex novo 250 dipendenti non sindacalizzati.
Erano là perché sapevano che la lotta dei lavoratori delle Riunite era la loro e che questa lotta era in continuità con quella che si era da poco conclusa contro gli occupanti tedeschi ed i loro alleati fascisti. Tre di loro avevano preso parte alla Resistenza, tutti erano comunisti con la determinazione, la generosità e l’ingenuità con la quale si poteva essere comunisti nel 1950 a Modena, città nella quale la lotta di liberazione aveva avuto una forte base di massa e aveva alimentato speranze e domande di radicali trasformazioni sociali, confluite poi negli anni immediatamente successivi in un deciso protagonismo operaio, forte di uno stretto legame con le campagne, percorse dalle agitazioni dei braccianti e dei mezzadri. È un’intera comunità politica e territoriale che non accetta di ritornare diligentemente ad occupare quei ruoli subordinati in cui pretendono di confinarla le nuove classi dirigenti dell’Italia repubblicana, in sostanziale continuità con il passato prefascista. Essa rivendica con orgoglio il proprio diritto ad occupare la scena pubblica, diritto che si è conquistata a duro prezzo durante gli anni della guerra di liberazione. Le fabbriche sono state salvate dai lavoratori, con le armi in pugno, e le sentono loro, rappresentano qualcosa di più di un semplice luogo di lavoro, devono diventare uno spazio di socialità aperto al quartiere e alla comunità.
Solo a Modena il PCI conta più di 70.000 iscritti e in Emilia la CGIL ne registra quasi un milione: il conflitto sociale e politico è alto, i rapporti di forza sono pericolosamente sbilanciati a favore di quella che fonti delle forze dell’ordine chiamano la parte cattiva della popolazione.

Serve una lezione che stronchi velleità democratiche di partecipazione e controllo operaio e mostri chi veramente comanda, tanto più che sul piano nazionale si è ormai avviata la normalizzazione con la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 e la formazione del governo De Gasperi.
Il padrone delle Fonderie Riunite, il commendatore Orsi – un passato fascista che ha consentito alle sue aziende di prosperare ed un presente da uomo d’ordine – alle prese con la necessità di riconversione industriale del dopoguerra, vuole imporre la riduzione della mano d’opera, il ritorno al cottimo individuale e l’attribuzione ai lavoratori dei costi della mensa. Si apre così una dura vertenza sindacale che porterà il proprietario alla serrata della fabbrica e all’assunzione di nuovi operai e la FIOM ad organizzare scioperi e picchetti.
Il 9 gennaio è il giorno previsto per la riapertura dello stabilimento voluta da Orsi; quel mattino, la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale e una dimostrazione davanti alle Fonderie – presidiate da consistenti forze di polizia, così come tutto il quartiere – per impedire l’accesso ai “crumiri”. È probabile che l’apertura non sia veramente in programma: all’interno della fabbrica ci sono solo una cinquantina fra poliziotti e carabinieri, molti altri sono disposti all’ingresso e sui tetti, mentre la città è disseminata di posti di blocco. Verso le 10, un corteo di oltre 10.000 manifestanti, provenienti da tutta la provincia, si avvicina alle officine, aggirando i posti di blocco attraverso i campi, oppure facendo pressione sui cordoni di polizia disposti in modo frammentato.
Quando un gruppetto di scioperanti riesce ad attraversare il passaggio a livello ferroviario che li separa dalla fabbrica, la polizia inizia a sparare: tre lavoratori restano uccisi, diversi feriti. Questore e prefetto – raggiunti da una delegazione composta da due parlamentari comunisti e da un sindacalista – intimano di sciogliere la manifestazione, avvertendo che «sarà un macello», perché «abbiamo tanta forza da sterminarvi tutti».

Intanto, nelle vie adiacenti alle Fonderie si è scatenato il panico, molti cercano scampo dalla sparatoria in una fuga disordinata o bussando ai portoni delle case vicine, tanti finiscono accerchiati dai poliziotti e malmenati con i calci dei fucili. La mattinata si conclude con altri tre morti e centinaia di feriti, tutti dalla parte dei dimostranti, qualche contuso fra le forze dell’ordine.
Nel corso degli scontri 93 persone vengono arrestate e rilasciate nel giro di tre giorni, per mancanza di concreti elementi a loro carico; il 20 marzo si avvia un procedimento penale nei confronti del responsabile della commissione interna delle Fonderie Riunite e di altri 33 lavoratori (che si concluderà dopo un lungo e travagliato iter processuale con l’assoluzione degli imputati ed un risarcimento ai familiari delle vittime), mentre una veloce indagine condotta dagli stessi funzionari di polizia in servizio il 9 gennaio ha come esito il non luogo a procedere nei confronti di prefetto e questore.[1]

Settanta anni dopo, nell’ambito di un nutrito e meritorio calendario di iniziative commemorative,[2] le gigantografie in bianco e nero dei sei caduti hanno sovrastato per tutto il 2020 il Largo Sant’Agostino dove l’11 gennaio passò, percorrendo la Via Emilia, l’imponente corteo funebre, hanno ricoperto la facciata contro la quale si accalcarono quel giorno centinaia di persone venute a salutare per l’ultima volta i loro morti.

Gianni Rodari, Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia. La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani, «L’Unità», 11/1/1950.

Le loro fotografie furono scagliate contro i banchi del Governo – come un’arma di denuncia, di sdegno e di rivendicazione di giustizia brandita a nome dei disarmati – dove sedevano De Gasperi e Scelba dalla deputata comunista modenese Gina Borellini, medaglia d’oro della Resistenza, che accompagnò il gesto con un’accusa precisa: in quel banco siedono degli assassini.

Sono le fotografie di quelli che il Presidente del Consiglio, appena un mese dopo, chiamerà sprezzantemente i vostri morti, dimostrando sicuramente scarsa sensibilità umana, ma una precisa coscienza del carattere antagonistico insito nelle agitazioni operaie e contadine dell’Emilia rossa di quegli anni.

Questi nostri morti hanno facce serie e vere che parlano di lavoro, fatica, stenti, guerra, dignità, non sorridono, guardano l’obiettivo con la fissità un po’ stupita di chi non è abituato a farsi fotografare, ci parlano di un Paese non ancora investito dalla mutazione antropologica degli anni Sessanta, così lontano dallo scintillio dei salotti televisivi, dal vociare compiaciuto dei social, dall’arroganza e dalla volgarità del self made man di successo, dall’opaca rassegnazione dei vinti.[3]

Angelo Appiani ha ventinove anni, una moglie e un figlio, lavora presso le Officine meccaniche Martinelli, è stato nella Resistenza ed è un attivista comunista. La fronte alta sormontata dai capelli gettati all’indietro suggerisce una certa fiducia nell’avvenire. Viene raggiunto per primo da un colpo sparato dal tetto delle Fonderie Riunite occupato dalla polizia che continua a sparare sulla folla dei dimostranti, uccidendone due e ferendone altri.
Arturo Chiappelli ha 42 anni, è stato partigiano, è attivista comunista, ha lavorato come spazzino, ora è disoccupato, ha tre figli. La bocca è una linea sottile che gli taglia il viso magro, la vita non deve essere stata tenera con lui.
Arturo Malagoli ha 20 anni, è figlio di contadini, è il primo della famiglia ad essere andato a lavorare in città come operaio; malgrado la giovane età, si è già dato da fare nel 1948 per il Fronte popolare ed un mese prima di morire ha fatto conoscenza con la galera per avere partecipato ad una manifestazione.[4] Sulla foto sembra un bambino; come gli altri due ventenni uccisi poco dopo ha nello sguardo una luce quasi infantile, come scrisse il giorno dei funerali Gianni Rodari, allora giovane cronista dell’Unità.[5] Allo scrittore i tre ragazzi sembrano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti pare dovuta «ad un sogno angoscioso e passeggero».
Trenta minuti dopo l’inizio della sparatoria, Roberto Rovatti, 35 anni, operaio, partigiano e militante comunista, con un cartello in mano e la sua solita sciarpa rossa al collo, a cinquecento metri di distanza dalle Fonderie viene circondato da un gruppo di carabinieri, picchiato con il calcio dei fucili, buttato in un fosso e poi freddato da un colpo sparato a bruciapelo. Ha uno sguardo fiero che deve avere indispettito i suoi aguzzini, forse non potevano reggerlo, forse smuoveva qualcosa nel fondo del loro animo che era meglio lasciare perdere.
Le ore passano, già due ne sono trascorse dall’inizio della strage, la Camera del lavoro ha già annunziato un comizio per il pomeriggio ed è anche arrivata l’autorizzazione, ma le forze dell’ordine continuano a sparare.
Ennio Garagnani ha vent’anni, lavora come carrettiere con il padre che gli ha consigliato di starsene in casa per quel giorno, ma lui non lo ascolta, è un attivista comunista e con i suoi amici va alla manifestazione. Si sta allontanando dalla zona degli scontri, ma non abbastanza in fretta da evitare la mitragliatrice dell’autoblindo della compagnia autocarrata dei carabinieri di Bologna. È un bel ragazzo, l’aria vagamente sognante, un po’ malinconica. Viene colpito, di spalle, alla testa.
Anche Renzo Bersani si sta allontanando, ma incrocia un carabiniere che si inginocchia nel mezzo della strada, lo prende di mira e lo colpisce mortalmente, alle spalle. Ha ventun anni, è un militante comunista, lavora in fabbrica, prima ha fatto il calzolaio. I tratti del volto lasciano trasparire una sorta di caparbietà fanciullesca, fatica e disillusione hanno risparmiato per sempre il suo volto di ragazzo del dopoguerra, quando si cresceva in fretta.
Le loro fotografie vennero appese dappertutto a Modena e in provincia, in quei giorni, e continuarono a circolare a lungo. Dovevano fare paura, tanto che ancora tre anni dopo una nota dell’Ufficio politico si rivolge al Prefetto, informandolo che la parte sana della popolazione di Spilamberto (paese distante una ventina di chilometri dal capoluogo) lamentava che le autorità non avessero ancora tolto dai portici del comune il quadro con le foto dei sei operai uccisi il 9 gennaio.[6]

La loro memoria è sopravvissuta come un torrentello carsico che scorre sotto le arterie dell’opulenta città, storica vetrina del modello emiliano, un po’ appannato ora dai perversi intrecci affaristici all’ombra delle cooperative.[7] Chi allora era giovane non ha dimenticato quei giorni di stupore, (sembrava di essere tornati in guerra, a detta dei testimoni), di rabbia e di paura e continua a raccontare a figli e nipoti; a scuola, qualche professore di storia vi accenna; ogni anno, attorno al cippo eretto a memoria, si tiene una manifestazione promossa da quei sindacati che così poco hanno saputo e voluto difendere i lavoratori dal massacro sociale neoliberista.
L’episodio, che ebbe rilevanza nazionale, in quanto segnò una svolta nella storia sindacale e politica della giovane repubblica italiana in direzione di una progressiva normalizzazione del conflitto sociale e della carica rivoluzionaria della base e dei quadri intermedi del PCI, non trova generalmente posto nei manuali scolastici di storia ed è ancora oggi insufficientemente oggetto di studio da parte della storiografia. L’acceso dibattito interno a sindacato e partito che seguì i fatti di Modena rappresenta una tappa importante nell’approdo del PCI verso le sponde della socialdemocrazia e dovrebbe, dunque, essere materia di analisi e riflessione non solo per gli storici di professione, ma per quanti cercano di comprendere, da una prospettiva di parte, come furono assorbite e neutralizzate le potenzialità rivoluzionarie e antagonistiche di una parte significativa della
Quel mondo – in cui una tradizionale cultura del lavoro aveva incrociato istanze politiche di radicale cambiamento sociale – non c’è più da tempo, spazzato via da pesanti processi di ristrutturazione capitalistica, dal trionfo della società dei consumi, dal crollo del comunismo storico novecentesco, dalla deregolamentazione e frammentazione del lavoro. Quelle facce non si incontrano più nelle nostre strade, percorse da una folla anonima, uniformata da mode e parametri estetici democraticamente imposti dallo spettacolo mediatico, dalla pubblicità, dagli influencer.
Di fronte a tali e tanti sconvolgimenti, la nostalgia non è che una tentazione meramente consolatoria, una fragile ancora sballottata dalle ondate violente e capricciose della società liquida che non conosce pensiero forte ed identità strutturate.
Eppure, a settant’anni di distanza, quei volti si impongono con la forza di uno schiaffo, o di un sasso lanciato nella palude dell’assuefazione e della rassegnazione che accompagnano come un’ombra anche noi, che di quella storia continuiamo a sentire nel profondo il cuore vivo, pulsante, noi che sappiamo che le loro ragioni sono, oggi più che mai in un regime di sfruttamento capitalistico sicuramente diverso, ma non meno brutale, l’humus in cui cresce una vita umana degna di essere vissuta. È simpatia che essi chiedono, soffrire, sperare e trepidare con loro per ciò che è stato e ciò che non è stato.

Fernanda Mazzoli

***

[1] Per un’accurata ricostruzione della vicenda ed una approfondita analisi del contesto locale e nazionale in cui essa si inserisce, cfr. L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Ed. Unicopli, Milano, 2012 e F. Tinelli, Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950, Bébert edizioni, Bologna, 2015, che fornisce un’interessante documentazione prodotta dalla magistratura.
[2] L’iniziativa, promossa, in occasione del settantesimo dall’eccidio, dai sindacati, dall’Istituto storico, dal Centro documentazione Donna e dal Comitato comunale per la storia e la memoria del Novecento, ha proposto una ricca mostra fotografica, un concerto ed una bella narrazione ad opera di Carlo Lucarelli che si può seguire su «youtube»: Fonderie, 9 gennaio 1950. Un racconto di Carlo Lucarelli.
[3] Con buona pace delle vestali del politicamente corretto e della nuova narrazione del capitalismo inclusivo, il miliardario statunitense Warren Buffet, con onesto cinismo, ha riconosciuto che la lotta di classe esiste, ma che è la classe ricca che sta facendo la guerra e che la sta vincendo.
[4] Lo ricorda la sorella Marisa, all’epoca bambina di sei anni, che fu poi adottata da Togliatti: https://sites.google.com/site/sentileranechecantano/schede/morire-per-il-lavoro/l-eccidio-di-modena-nei-ricordi-di-marisa-malagoli.
[5] G. Rodari, 300.000 lavoratori ai funerali delle 6 vittime, «L’Unità», 11/1/1950.
[6] La nota è riportata in F. Tinelli, op. cit., p. 28.
[7] Uno scorcio sulla realtà sociale, fatta di sfruttamento, precariato, connivenza tra imprese ed istituzioni, che si nasconde dietro il mito del miracolo emiliano è proposta da Giovanni Iozzoli in https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/18651-giovanni-iozzoli-maxiprocessi-zamponi-e-tortellini.html


Fonderie 9 gennaio 1950.
Un racconto di Carlo Lucarelli


Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
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Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.
Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».
Fernanda Mazzoli – La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Raffaeli – Jules Vallès, ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi.

Raffaeli Massimo . Jules Vallès

Solo l’esito infelice della Comune e il successivo esilio a Londra fecero di Jules Vallès uno scrittore e, anzi, uno dei più singolari del suo tempo. Prima era stato un giornalista di estrema sinistra sotto Napoleone III detto il Piccolo, collaboratore di fogli più o meno effimeri quali La Rue e poi fondatore di un giornale, Le Cri du peuple (chiaro omaggio all’archetipo di Jean-Paul Marat), che della Comune sarebbe divenuto l’emblema. Alverniate di origine, allevato in una famiglia piccolo-borghese che in realtà è un universo concentrazionario (suo padre insegnante contegnoso, ligio al governo, sua madre contadina prodiga di castighi e di pregiudizi), Vallès fa parte della generazione che esce dalla sconfitta del 1848 e dalle barricate parigine di giugno di cui dicono le pagine più tese di Herzen in Passato e pensieri.
Nella capitale fin dal 1851, che è l’anno del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, non ha un preciso apprendistato politico se non quello che gli viene dalla inquietudine degli studenti e, in clandestinità, dai propositi rivoltosi di taluni circoli operai: Vallès è un libertario o in sostanza un socialista rivoluzionario (e, va anche detto, un anti-marxista dichiarato), i suoi autori sono Proudhon e lo storico Jules Michelet di cui è assiduo alle lezioni di storia nel Collège de France. Quella che appare già sua, viceversa, è una scrittura che gli deriva dagli autori di un tribolatissimo baccalaureato, specie Sallustio e Tacito, una scrittura rapida, ritmica, scandita da inversioni, impennate, brucianti aforismi e perciò lontana dalla tipica retorica umanitaria con accenti calligrafici degli autori della II Internazionale.

 

Le inchieste nei «Refrattari»
Argomento pressoché esclusivo di Vallès giornalista (che non ama la politica politicante e malvolentieri, durante la Comune, accetta la elezione a deputato del XV arrondissement) è l’esistenza quotidiana degli individui marginali e reietti, la folla di umiliati e offesi di cui la dittatura fondiaria e/o bancaria dell’Impero sta affollando le strade di Parigi: nel 1865 (l’ultima edizione italiana, da SugarCo, risale invece al 1980) riunisce le sue inchieste in un volume dal titolo programmatico e persino autobiografico, I refrattati, che chiude virtualmente la vicenda di giornalista.
Testimone fino all’ultimo della Comune nella cosiddetta «settimana di sangue», sottrattosi rocambolescamente alla caccia all’uomo dei versagliesi di Thiers, poco incline alle diatribe dei reduci e alla frequentazione degli altri comunardi in esilio, è dunque a Londra che Vallès progetta qualcosa che combini il suo tracciato autobiografico, insomma un memoir, con il meccanismo di un romanzo di formazione scritto da chi peraltro non si vuole un letterato à la page ma solo un fervente lettore di Balzac, di Victor Hugo e di Charles Dickens. Titolo complessivo è un nome assonante con il suo, ]acques Vingtras, e si tratta di una trilogia aperta da L’enfant (1879) che prosegue con Le bachelier (1881) e si conclude con L’insurgé (1886) immediatamente postumo.
Ora, dopo una assenza lunghissima, escono in contemporanea, grazie a due appassionati studiosi e a due piccoli benemeriti editori, Il diplomato (a cura di Enrico Zanette, edizionispartaco, «Dissensi», pp. 309, € 16.50) che è una princeps italiana in assoluto, e L’insorto (a cura di Fernanda Mazzoli, Petite Plaisance pp. 318, € 27.00) la cui versione precedente di Giacomo Cantoni uscì nel 1953 per la Universale Economica, libretti dalla copertina gialla o arancione immancabili nelle sezioni dei partiti operai. Nel primo, Vingtras è già a Parigi e vive la vita di bohème che Henri Murger, ai propri occhi, ha edulcorato e di fatto ha tradito. Tra infime bettole e sottotetti di fortuna, egli è alla ricerca disperata di un impiego da scritturale, da insegnante o da giornalista, ma quando lo ottiene (e al quotidiano Le Figaro, addirittura) se lo gioca rifiutando di piegare la schiena e di adattarsi, parlando d’altro, ai tabù del regime napoleonico: epicentro è il Quartiere Latino, che il protagonista draga nel suo dedalo di miseri ritrovi come un uomo di continuo risucchiato tra la folla di reietti come lui ma nel frattempo delegato a loro portavoce nella clandestinità di quanti si oppongono, ancora mutamente, alla dittatura.
Romanzo della miseria piccoloborghese e della etimologica viltà di un ceto che la lotta di classe sta per annientare, Il diplomato è il luogo di fermentazione di «un’opera di lotta», così la definisce Enrico Zanette, che culmina nella partitura oramai polifonica de L’Insorto. Vallès qui ripercorre la parabola della Comune, il suo sguardo è al solito portato dal basso e il luogo del protagonista è collocato a latere: chi dice «io» in effetti dice «noi», senza doverlo proclamare con enfasi perché qui la scrittura – nota puntualmente Fernanda Mazzoli – è un «riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente».

 

Il «ragazzo» latitante
Infatti lo scrittore può persino permettersi un finale avventuroso, da racconto picaresco. E qui va detto che è un peccato continui a latitare dal 1973 (catalogo di Feltrinelli, versione magnifica di Lisli Basso) l’incipit della trilogia, Il ragazzo, un autentico capolavoro. Scritto stavolta al chiuso di una monodìa della sofferenza adolescente e nello stile esplosivo di quella che Vallès chiamava langue verte (cioè gergale ma anche ruvida, acerba), il romanzo rappresenta un atto di accusa contro la famiglia tradizionale e le altre istituzioni, a partire dalla scuola, che assortiscono l’universo disciplinare dell’infanzia.
Ambientato nei borghi della Alvernia nativa, il piccolo Jacques Vingtras vi conosce la pedagogia delle gifles, le sberle, le atroci penombre di una provincia ignorante e bigotta, infine il sussiego di una piccola borghesia che si immola per imitare, vanamente, le grandigie della classe superiore; ma Vingtras qui può anche vivere, almeno a momenti, l’estasi di un contatto carnale con la natura, errando per i boschi e le vaste praterie lontano dalla ferula dei suoi istitutori. Memore di Hugo (in particolare di Gavroche, le gamin, il monello de I Miserabili) e anche dell’Oliver Twist di Dickens, Il ragazzo ha ispirato espressamente il personaggio di Bardamu ne il Viaggio al termine della notte (e Céline, di solito avaro di riconoscimenti, ranunenta Vallès ancora nelle tarde interviste di Meudon) ma ha influenzato anche un paio di capolavori della cinematografia francese, Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo, piccola bibbia della ribellione impubere, e il folgorante esordio di Francois Truffaut, Les Quatre Cents Coups (1959) il cui protagonista Antoine Doinel è quasi un redivivo Jacques Vingtras, una vittima sacrificale della famiglia e della scuola.
«Vi si vedrà come il pane, il denaro, l’habitat, la promozione sociale, i valori borghesi e rivoluzionari, la ricchezza e la povertà, l’oppressione e la rivolta, le classi sociali siano solo investimenti in cui i genitori hanno il ruolo di agenti di produzione e di antiproduzione particolari, sempre là a prendersi per l bavero con altri agenti che essi esprimono tanto meno in quanto sono alle prese con loro nel cielo e nell’inferno del bambino. E il bambino dice: perché?»: sono parole tratte da un libro molto amato dalla generazione antagonista, L’anti-Edipo (Einaudi 1975) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, e sono scritte giusto a proposito del capolavoro di Jules Vallès.

Massimo Raffaeli, Vallès. Ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi, «Alias», il manifesto, 27-12-2020, pp. 3-4.


Jules Vallés (1835-1885) – «L’insorto». Libro “della” Comune e “nella” Comune di Parigi. La passione durevole di Vallès per una prassi di emancipazione comunitaria.

Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi

Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.

Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.


Massimo Raffaeli, filologo e critico letterario, è nato a Chiaravalle nel 1957. Scrive su quotidiani (La Stampail manifesto) e collabora con le riviste Nuovi ArgomentiIl Caffè illustrato. Ha scritto testi per programmi radiofonici di Rai Radio 3 e della Radio Svizzera Italiana (RSI). Ha curato testi di autori del Novecento (fra cui Primo Levi e Paolo Volponi) e ha tradotto opere di Antonin Artaud, René Crevel, Louis-Ferdinand Céline, Jean Genet, Roger Nimier e Tony Duvert. Si è interessato dell’intreccio tra calcio e letteratura in L’angelo più malinconico (2005) e Sivori, un vizio (2011). Parte della sua produzione è raccolta, da ultimo, nei volumi I fascisti di sinistra e altri scritti sulla prosa (Aragno 2014), Il pane della poesia. Epicedi 1994-2013 (Cadmo 2015) e L’amore primordiale. Scritti sui poeti (Gaffi 2016). Nel 2019 è uscito Marca francese, frutto di un ventennale confronto con gli autori e le pagine più belle della letteratura francese moderna e contemporanea.


Dobbiamo smarcare la letteratura dall’intrattenimento”: dialogo con Massimo Raffaeli

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Massimo Raffaeli


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Con ‘governance’ e ‘inclusione’ la colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.

Fernan Mazzoli, governance, inclusione
Colpe individuali e rimozione della politica

 

La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.
Permette di istituire facili equivalenze immediatamente consumabili sul piano comunicativo: l’incauto camminatore che si è allontanato dalla propria casa oltre i metri stabiliti nei giorni proscritti (casomai per fare una salubre passeggiata solitaria in campagna) è additato alla pubblica riprovazione come novello untore, chi mette sbadatamente un contenitore in Tetra Pak nel bidone sbagliato della differenziata diventa un devastatore ambientale, il lavoratore che non segue l’ennesimo, ripetitivo e generico corso sulla sicurezza si configura come responsabile degli incidenti sul lavoro.
Il biasimo verso i trasgressori si abbevera alla retorica del piccolo gesto che fa la differenza. Tuttavia, la traiettoria del discorso piccola non è affatto, in quanto coglie con successo due bersagli che stanno al centro di un dominio che non si racconta più come tale.
Il primo è la rimozione del politico e del sociale, spazi per eccellenza della complessità, al fine di rigettare ogni responsabilità sul singolo: la peste del nuovo millennio corre veloce fra un aperitivo serale e un bacio ai nonni e non tra le programmate rovine della medicina territoriale, sacrificata sull’altare della progressiva privatizzazione del sistema sanitario; il saccheggio dell’ambiente non è la risultante necessaria ed inevitabile del modo di produzione capitalistico, ma la conseguenza dell’incuria del consumatore poco attento al riciclo dei materiali; gli infortuni che ogni anno mietono vittime nei cantieri e nelle fabbriche nascono dall’ignoranza e dalla distrazione dell’operaio piuttosto che dalla mancanza di adeguati dispositivi di protezione forniti dalle aziende.
Il secondo bersaglio è l’inclusione dell’ex-cittadino, ora imprenditore di se stesso, in uno spettacolo proiettato su scala globale, in cui è chiamato a giocare, in un copione scritto da altri, il ruolo di consumatore responsabile di merci ad alto contenuto simbolico ed emozionale dalla corretta fruizione delle quali dipenderebbe il buon andamento del pianeta.
In un periodo storico in cui la maggior parte della popolazione mondiale è totalmente esclusa dalle vere decisioni – al punto da ignorare spesso persino da dove provengano e in cui è preponderante il peso di organismi sovranazionali che nascondono dietro il volto algido di una tecnocrazia sorretta dall’oggettività di dati ed algoritmi, il viluppo bruciante di enormi interessi che a partire dall’economia si diramano in tutti i settori della vita associata –, non v’è politico, industriale, manager o amministratore che non agiti la bandiera dell’inclusione, divenuta il fulcro delle buone pratiche di goveranance.
Lungi dall’essere una semplice mistificazione costruita attorno ad un artificio linguistico, l’inclusione si declina piuttosto come la nuova virtù civica dell’attuale fase capitalistica, la forma ideologico-culturale in cui si traduce l’adattamento sociale.
Diversamente dal passato, questa virtù civica non si elabora nel corso di un processo di cittadinanza attiva in cui il soggetto si costruisce come soggetto politico e sociale, innanzitutto attraverso il conflitto e la messa in discussione collettiva di assetti istituzionali e di costellazioni culturali dominanti. Anzi, essa ne rappresenta la negazione, perché ignora, quando non esecra, il conflitto e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una costruzione abbozzata nei piani alti dei centri decisionali e da lì calata per una più puntuale mesa a punto nei livelli sottostanti del sistema mediatico onnipervasivo e del ceto accademico generalmente compiacente.
I destinatari del progetto inclusivo sono tenuti a collaborare, o perlomeno a non sottrarsi all’ecumenico abbraccio, e ad avanzare di tempo in tempo qualche educata riserva che attesti il loro grado di coinvolgimento e rafforzi il progetto stesso.
Chi, per svariati e anche contrastanti motivi, non prende il posto assegnato tra le fila dei soldatini del nuovo ordine mondiale confezionato con i ritagli del solidale, del sostenibile e del salutare o ne diserta provvisoriamente i ranghi, è il candidato ideale al ruolo di colpevole su cui scaricare i costi delle falle del sistema in fase di giudizioso riposizionamento dopo quarant’anni di predazione selvaggia all’insegna del neoliberismo.

 

Fernanda Mazzoli

 


Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.
Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

Arianna Fermani di Fernanda Mazzoli 01
                              Arianna Fermani
«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato».
         La speranza “antica”, tra páthos e areté

                         Petite Plaisance 2020, Euro 7

           indicepresentazioneautoresintesi
Fernanda Mazzoli
La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».

Recuperare la pregnanza di una parola a partire dalla sua etimologia, ritrovare le arterie di senso che si irradiano dal suo cuore vitale, ricostruire intorno ad essa un contesto culturale significa scavare nella sua profondità, fino a restituire quel nucleo originario che sopravvive miracolosamente intatto attraverso e malgrado le trasformazioni incise dal tempo e la patina opaca depositatavi sopra dall’uso quotidiano.
È quanto fa Arianna Fermani nel suo recente saggio Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato. La speranza antica tra páthos e areté con la parola bella ed impegnativa cui allude il titolo.
Per i Greci la speranza è páthos, emozione, desiderio, passione, ma anche areté, virtù intesa come capacità di comportarsi in un certo modo, guidando e amministrando la passione stessa. Il greco έλπίς va ricondotto ad una radice elp corrispondente alla radice latina vel che ritroviamo nel verbo “volere”. È dunque forte la dimensione volitiva, per cui il soggetto che spera non si limita a sognare ad occhi aperti, ad inseguire chimere irrealizzabili, ma si dispone ad agire per dare forma al suo anelito. Immaginazione e volontà si coniugano, logos e pathos si abbracciano, un equilibrio si crea fra ragione e desiderio in un’ottica più generale capace di dare conto della complessità dell’uomo e di metterne in dialettica relazione le diverse facoltà.

La costellazione semantica della speranza
La speranza si proietta verso il futuro e come tale cela in sé un’idea di attesa che si conserva in diverse lingue europee: lo spagnolo esperar ha assunto anche il significato di “aspettare”, così come anticamente il francese espérer, limitatamente all’area occidentale e meridionale del Paese, mentre attualmente mantiene tale accezione in particolari costrutti. Una sfumatura simile è presente nell’inglese hope, speranza, auspicio, ma pure attesa di un evento positivo.
Questa parola è al centro di una costellazione semantica di cui l’autrice traccia le coordinate che permettono al lettore curioso di affacciarsi su una fitta trama di corrispondenze, analogie od opposizioni e di intraprendere un’autonoma esplorazione che, conducendolo in forme ed universi culturali differenti, restituisce appieno il peso culturale rivestito nelle comunità umane, oltre che nella psicologia individuale, da questa aspirazione indirizzata verso il futuro.
Infatti, sottolinea Arianna Fermani, la prima nozione chiamata in causa dalla speranza è quella di orexis, aspirazione, termine che rinvia ad una tensione verso qualcosa o qualcuno. Questo movimento si ritrova nella radice sanscrita spa (tendere verso una meta) da cui il latino spes. Qualche studioso accosta tale radice alla radice spet che ha originato termini come il latino spatium o l’antico alto tedesco spannan,[1] distendere.

La speranza è apertura e rischio, si oppone alla paura
e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza
Dunque, la speranza è movimento, apertura e rischio e come tale si oppone alla paura e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza.
La paura (da pavor, formato su paveo, temo, sono percosso, abbattuto) costruisce prigioni intorno all’uomo, cancella ogni orizzonte oltre le sbarre, vanifica desideri e volontà. Disegna un universo claustrofobico dove l’anima geme nel suo tedio infinito e la Speranza, timido pipistrello, sbatte le ali contro i muri.
La poesia di Baudelaire Spleen mette in scena proprio il funerale della Speranza, la quale, dopo essersi invano dibattuta, lascia il campo all’Angoscia trionfante e dispotica che pianta sul cranio del poeta la sua nera bandiera.[2] Due sono i termini di cui dispone la lingua francese per “speranza”: l’Espérance (con una connotazione religiosa – una delle virtù teologali – e filosofica, disposizione dell’anima che porta l’uomo a considerare nell’avvenire un bene importante che desidera e che crede di potere realizzare) e l’Espoir, attesa di qualcosa di determinato, di preciso. Ora, nel componimento il passaggio dall’una all’altra è imprcettibile: l’Espérance della seconda strofa è un povero uccello prigioniero che cerca a tentoni una via di fuga e che finisce per assimilarsi all’Espoir in lacrime della strofa finale. Entrambe disfatte, tutte le strade sono chiuse, cielo e terra sono un’unica prigione.
La catastrofe esistenziale del poeta, che fu anche catastrofe politica dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario del giugno ’48 al quale egli aveva aderito con una certa ingenuità, forse, ma con un’autentica haine du bourgeois, trova proprio nella Speranza negata la figura chiave in cui si condensano angoscia, delusioni e sentimento di una vita mutilata. È, il suo, uno spirito intristito, che pure un tempo amava la lotta e che ora la Speranza non vuole più cavalcare e a cui non resta che la rassegnazione che il sonno regala al bruto.[3]

 

La speranza è il «giusto modo di sentire»
ed è il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista

L’ennui stende il suo sudario laddove la speranza muore, forse del suo stesso eccessivo ardore che l’ha portata a smarrire la dimensione di virtù che Aristotele le attribuiva, quel «giusto modo di sentire» che Arianna Fermani individua come il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista.
Fragile e resistente al tempo stesso, la speranza va custodita e coltivata con la cura attenta richiesta da una pianticella esposta a venti, pioggia e arsura o da un cucciolo che muove i primi incerti passi in un mondo di cui il suo sguardo vergine non sa ben calcolare le insidie.

 

La speranza si posa sull’anima forte della sua fragilità
È il piccolo uccello di Emily Dickinson, «quella cosa piumata che si viene a posare sull’anima» e non riesce a smettere di cantare, né si piega a tempeste o gelo, forte della sua fragilità.[4]
Speranza si nutre di fiducia, cioè di relazione: la radice fid- delle lingue neolatine si collega al greco peith-, il quale rinvia al sanscrito bandh-, legame, corda. La fiducia è riconoscimento del proprio limite e apertura verso un’alterità che può assumere volto umano o rispondere ad un’istanza ideale, o ad una proiezione in un’esperienza possibile. Chi dà la propria fiducia mantiene vivo il legame con il mondo, si dispone in un una dimensione dialettica, riempie l’attesa della fede che qualcosa avverrà e che sarà un bene. È proprio la scissione dai legami che lo uniscono al mondo che precipita l’uomo nella buia segreta dove ad essergli compagni sono il tedio, l’angoscia e la paura.

 

La speranza abita il campo della libertà,
la disperazione incatena al presente
Speranza e fiducia si protendono verso l’avvenire, la disperazione incatena al presente, rimuove persino un orizzonte altro, e come concede un solo tempo, così conosce un solo spazio, quello delimitato dalle sbarre della gabbia.
La speranza, dunque, abita il campo della libertà, perché osa pensare il possibile quando appare ancora impossibile e, in virtù della sua natura attiva, si spinge a pensare a come rendere realizzabile lo sperabile. Chi spera si confronta con la scelta: se non vuole cadere nelle sabbie mobili della vuota fantasticheria o nella trappola delle illusioni elegge, infatti, l’oggetto verso cui tendere, nella piena consapevolezza che l’atto stesso di sperare è indicativo di una mancanza.

Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità
Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità, si gettano oltre l’esistente, ben conoscendo i limiti di questo e i propri. Oltre la strada tracciata c’è un vasto continente aperto all’azione, nuove linee da disegnare che altre speranze si ingegneranno di valicare in un dialogo fecondo quanto più è serrato che ha al centro la capacità umana di immaginare e costruire nuovi scenari individuali e comunitari.
La speranza è dunque tutta interna a quel processo inesauribile che è la storia degli uomini, né è casuale che le grandi speranze collettive di liberazione sociale siano venute a cadere proprio in quegli anni in cui gli apologeti tardo novecenteschi del capitalismo decretarono la fine della storia, per assolutizzarne e naturalizzarne dominio ed egemonia ed espungere dall’orizzonte qualsiasi idea non solo di alternativa, ma persino di conflitto.
La speranza diventa allora virtù eminentemente politica, negazione del meccanismo schiacciante di riproduzione sociale ed affermazione della necessità di immaginare mondi diversi. È l’Espoir che spinge i repubblicani spagnoli a battersi contro i franchisti non solo in nome di un generico antifascismo, ma con la prospettiva di cambiare in profondità gli assetti sociali del loro Paese.[5]

 

La speranza è scommessa educativa,
paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori»
Fra le imprese umane costitutivamente rivolte al futuro, Arianna Fermani privilegia come particolarmente significativa la paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori», i quali per sbocciare necessitano di tempo, cura e fiducia. La scommessa educativa è imperniata proprio sulla fides, «un atto di fiducia originaria» che richiede i tempi lunghi della conoscenza e dell’intimità. Anzi, su un duplice atto di fiducia che lega docente e discente, chiedendo ad entrambi di ripensare il tempo stesso, recuperando il valore dell’attesa, della lenta maturazione contro l’immediatezza della performance, l’idolatria del risultato, desolante espressione della curvatura aziendalistica della scuola del neoliberismo.

La speranza è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice,
fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento

Che la speranza attraversi i destini individuali nel periodo strategico della formazione trova ampio riscontro nel peso che essa assume nel Bildungsroman. Lo slancio verso il futuro, l’immaginazione creatrice, la fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento si scontrano con l’opacità e la solidità granitiche di una società ostile, di tempi difficili scanditi dall’accumulazione di capitale e dalla mentalità utilitaria. Così, le grandi speranze di riscatto sociale di Pip[6] o i giovanili sogni di gloria dei personaggi di Balzac si infrangono contro questa superficie dura e trascinano i loro portatori o nel naufragio esistenziale o verso il porto di un’amara saggezza. La speranza, quando non soccombe alla disperazione, si fa esperienza, perde di vigore, si acquatta nell’intimo, istituisce nel cuore del soggetto una mancanza che ne guiderà i passi come un’eco lontana. Dei suoi due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio secondo Agostino, citato dalla Fermani, resta, pur a capo chino, il primo, germe di consapevolezza, forse di nuova speranza. Quanto al secondo, ha le ali spezzate o forse aspetta un’occasione favorevole.
Se non può contare su entrambi, la speranza è mutilata, si ripiega su se stessa, diventa nostalgia o, al contrario, folle corsa verso il nulla.
In tempi di dilagante conformismo politico e culturale e di narcisismo nichilistico, ove la diversità sbandierata dalla società dello spettacolo ha come comune denominatore lo slogan thatcheriano There Is No Alternative,[7] le parole del filosofo di Ippona ci indicano la via diritta per comporre un’attitudine etica capace di ritrovare il filo di una speranza attiva, smarrito nelle secche di un presente contrabbandato come eterno.

 

Fernanda Mazzoli

***

[1] A.M. Carassiti, Dizionario etimologico, Odysseus, Genova, 1997.
[2] C. Baudelaire, I fiori del male, Mondadori, Milano,1973.
[3] Cfr. Ivi, Il gusto del nulla.
[4] E. Dickinson, La speranza è quella cosa piumata, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano,1997.
[5] A. Malraux, L’Espoir, Gallimard, Paris,1937.
[6] Il protagonista di Great Expectations (Grandi speranze) di Charles Dickens. In Hard times (Tempi difficili) Dickens scrive una vibrante denuncia del nascente industrialismo.
[7]Non c’è nessuna alternativa”, slogan coniato da Margaret Thatcher, noto anche sotto l’acronimo TINA, e ripreso da diversi uomini di governo.


Fernanda Mazzoli, insegna Lingua e civiltà francese presso il Liceo Linguistico Raffaello di Urbino. Per alcuni anni ha collaborato con il Dipartimento di ugro-finnistica dell’Università di Bologna, occupandosi di letteratura orale e processi di stregoneria, con particolare riferimento all’area ungherese. Nel 1992 ha pubblicato con I quaderni italo-ungheresi, un testo sulla figura della strega tra immaginario e storia (La strega nella tradizione ugro-finnica e in quella occidentale) e, negli anni successivi, articoli relativi a fiabe di magia e credenze popolari su Il polo, rivista trimestrale dell’Istituto Geografico Polare Silvio Zavatti, ai canti lapponi per Settentrione (rivista di studi italo-finlandesi) e, nel 1997, uno studio (traduzione e analisi testuale) di due fiabe ungheresi per la rivista di Gianni Scalia In forma di parole. Nel 2016 ha pubblicato per Sensibili alle foglie un testo sulla deriva aziendalistica della scuola pubblica (La scuola liquida. La liquidazione della scuola pubblica), nel quale ha cercato di fare incontrare esperienza diretta ed analisi puntuale delle dinamiche innestate dalle ultime riforme della pubblica istruzione. Nel 2019 ha curato con sua nuova traduzione L’Insurgé di Jules Vallès (il rivoluzionario “réfractaire” prima, durante e dopo la Comune di Parigi), L’Insorto testo pubblicato da Petite Plaisance. Nel 2020 ha pubblicato Di argini e strade. Un racconto di pianura. Collabora con la redazione di Koinè, e scrive recensioni di saggi ed opere letterarie pubblicate sul blog Invito alla lettura della editrice Petite Plaisance.


Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

L'io minimo e il covid 19
– Il robot è quasi perfetto. Gli manca solo un’anima.
– Ti sbagli, è meglio senz’anima.
Metropolis, 1927, Regia di  Friz Lang, soggetto e sceneggiatura di Thea von Harbou

« Ceux-là, quand la liberté serait entièrement perdue et toute hors du monde,
l’imaginent et la sentent en leur esprit, et encore la savourent, et la servitude ne leur est
de goût, pour tant bien qu’on l’accoutre».
Etienne de La Boétie,
Discours de la servitude volontaire.

Fernanda Mazzoli

L’io minimo ai tempi dell’epidemia

***

Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza.

La vita quotidiana divenuta mero esercizio di sopravvivenza.

L’io fattosi ancor più minimo.

Il rapporto malato con il tempo.

La mentalità della sopravvivenza era già all’opera.

Misure securitarie e dispositivi di controllo sociale.

La nuova forma di governance è il catastrofismo di Stato.

In quarantena libertà ben più sostanziose.

Mentalità della sopravvivenza come modalità ordinaria.

La vita è considerata innanzitutto nella sua accezione biologica.

Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.

Assolutizzazione del presente.

La storia rimossa dall’orizzonte dell’homo consumens.

***

Uno spettro si aggira per l’Europa e, purtroppo, non è quello del comunismo. È lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza che si è saldamente installata nel cuore del vecchio continente, facendo accettare ai suoi sgomenti abitanti pesanti restrizioni di quelle libertà individuali di cui andavano tanto fieri e che, esauritisi i grandi movimenti per l’emancipazione sociale, sembravano essere restati i soli esiti di quelle gloriose stagioni.
Le paure scatenate dalla pandemia da Covid 19, alimentate dal chiacchiericcio costante dei media, dalle notizie di incerta attendibilità che rimbalzano da un social all’altro, dalle nude cifre degli scienziati e dagli allarmi di politici che, dopo avere distrutto scientemente la sanità pubblica, si ergono a difensori della stessa, hanno promosso la mentalità della sopravvivenza a fattore culturale-antropologico dominante.
Di questo mutamento si è occupato già a metà degli anni Ottanta del Novecento lo storico delle idee Christopher Lasch la cui indagine – che spazia negli ambiti più diversi dell’attività intellettuale e del costume – fornisce una chiave di lettura molto stimolante per affrontare gli aspetti culturali messi in gioco dall’attuale fase. Lo studioso individua il nucleo fondante di tale mentalità in un rapporto malato con il tempo: è preferibile non guardare al passato per non farsi sommergere dalla nostalgia; quanto al futuro, l’attenzione è tutta concentrata su come scampare agli eventi disastrosi che ci si attende. Così, la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza.
Che altro è se non un esercizio di questo genere lo scarto del nostro passo, divenuto già istinto, quando incrociamo qualcuno per strada, lo sguardo preoccupato con cui squadriamo chiunque si trovi nel nostro raggio d’azione, la corsa all’acquisto di dispositivi di protezione, l’aggressione verbale verso qualche incauto camminatore che potrebbe mettere in pericolo la nostra salute?
L’identità personale si è ulteriormente rimpicciolita entro le protettive pareti domestiche, minuscole roccaforti dello stato d’assedio generalizzato, l’io si è fatto minimo, riducendosi ad «un nucleo difensivo armato contro le avversità».[1] L’altro è diventato un ricettacolo di virus, un propagatore, tanto più pericoloso quanto meno consapevole, di malattie, una minaccia immediata alla sopravvivenza individuale e della cerchia familiare più stretta.
Nell’eccezionalità fa sempre, tuttavia, capolino la normalità: se è stato così facile confinare in casa milioni di persone, interrompere i legami sociali e “sospendere” le loro vite nell’attesa della fine della pandemia è perché ce ne erano già le condizioni latenti, ovvero la mentalità della sopravvivenza era già all’opera da tempo. Il timore delle sanzioni applicate ai trasgressori non spiega se non in minima parte la riuscita quasi totale delle politiche di contenimento: basti pensare al fallimento delle misure repressive nei confronti della movida di cui erano ostaggio, fino a febbraio, i centri storici di tante città: ordinanze municipali, multe, chiusure temporanee di locali non avevano di certo dissuaso i forzati del divertimento dall’occupare piazze e vicoli fino a notte tarda. Non solo: ogni iniziativa in tale senso messa in atto da amministrazioni comunali costrette ad intervenire in seguito alle rimostranze dei residenti non aveva mancato di suscitare vibranti proteste da parte di improbabili difensori della libertà, pronti a ravvisare nei provvedimenti restrittivi il pugno di ferro di sindaci-sceriffi, se non a tirare in ballo nientedimeno che il fascismo!
Niente di tutto questo oggi, quando ad essere state messe in quarantena sono libertà ben più sostanziose di quelle del diritto allo schiamazzo notturno bicchiere in mano.
Certo, c’è di mezzo la pandemia, un’emergenza sanitaria che non sembra superiore per gravità ad altre già affrontate in passato dall’umanità e che, però, è riuscita a fare tabula rasa nel volgere di qualche giorno di comportamenti e modi di vivere consolidati ed orgogliosamente rivendicati come irrinunciabili diritti dell’individuo. Se ciò è stato possibile, è perché già la nostra civiltà aveva fatto della sopravvivenza un asse della propria dimensione quotidiana, un orizzonte privilegiato entro cui strutturare forme di pensiero e di vita. Incalzano non da oggi nel dibattito pubblico e nel senso comune, e non sempre senza una qualche ragione, apocalittiche visioni di un futuro segnato da catastrofi di ogni genere, fino all’estinzione finale del pianeta, con le quali si alimenta un incessante spettacolo mediatico spesso funzionale alla ristrutturazione del capitale e alle sue riconversioni produttive, nonché alla creazione di un clima di pericolo permanente che da un lato autorizza il consumismo sfrenato e l’edonismo disperato all’insegna del «di doman non v’è certezza», e dall’altro spinge le popolazioni impaurite ad accettare le misure securitarie e i dispositivi di controllo sociale messi a punto dai governi. Il catastrofismo di Stato[2] si configura come una nuova, efficace forma di governance che presenta il grande vantaggio di consolidare sotto allures paternalistiche – attente alla protezione dell’individuo – e solidaristiche – sollecite del bene comune – forme di dominio ben più capillari di quelle tradizionalmente esercitate, in quanto esse vengono introiettate dal singolo come necessario scotto da pagare per garantirsi un margine di salvezza di fronte al dilagare di una negatività distruttrice che assume i caratteri di una fatalità avulsa da ben precise dinamiche sociali.
L’io minimo trova conferma nella compiaciuta distillazione mediatica dei disastri in atto, generosamente sbandierati da esperti, giornalisti ed associazioni specializzate nei diversi rami della “cittadinanza attiva”, e nella prospettiva di quelli a venire che incombono sulla sorte di un’umanità troppo spensierata, quale castigo per “stili di vita” poco virtuosi che, da volano della crescita, sono divenuti il freno di un capitalismo lanciato verso una nuova fase.
Non solo: la mentalità della sopravvivenza, prima ancora di alimentarsi di disastri ecologici e di potenziali guerre, di cui predazione delle risorse e conflitti geo-politici costituiscono in effetti micce potenti, diventa una modalità ordinaria di affrontare la vita nella giungla della società di mercato, dove vigono ferree e non dichiarate leggi di “darwinismo sociale”.
Se il futuro è un incubo e il passato una successione di colpe, resta il presente che, per quanto stentato ed incerto, è pur sempre meglio di quello che ci aspetta. Ecco allora che l’humus dove nasce e si nutre incessantemente l’io minimo è quello dell’assolutizzazione del presente e della negazione della storia, i quali hanno rappresentato il tratto culturale ed ideologico caratterizzante gli ultimi decenni. In questa cornice angusta, la preoccupazione per la sopravvivenza si impone come prioritaria e rende tollerabile il ripiegamento dell’individuo-monade su se stesso e l’allentamento del vincolo sociale della cui contraddittorietà e ricchezza si percepisce solo il lato rischioso.
Anche l’io perde la sua complessità – il suo fascio relazionale, la sua storia – e si assottiglia su una dimensione sola: il malato, il paziente, il potenziale contagiato o l’inconsapevole untore. Queste nuove figure del disastro di oggi – l’epidemia da Covid 19 – sono permutabili con le figure del disastro di domani: le minacce non mancano e, quel che è peggio, non sono certo prive di fondamento. Tali figure sono le manifestazioni sociali dell’io minimo nell’ epoca della crisi permanente – nuova e accorta gestione della normalità – che presenta e promuove se stessa come evento spettacolare su scala planetaria.
L’io minimo è chiamato a fare la sua parte nella grande recita globale, per un verso passivizzato come vittima compassionevole di un’oscura calamità naturale – la peste del XXI secolo, la guerra dichiarata da un ignoto virus alla comunità mondiale – per l’altro arruolato d’ufficio nella battaglia contro il nemico alle cui sorti egli contribuisce con l’obbedienza fisica e l’adattamento mentale alle prescrizioni decise da uno Stato fattosi improvvisamente “paterno”, dopo essere stato a lungo patrigno.
L’io minimo può quotare la sua razione di spirito solidale sul mercato delle emozioni e rimpolpare il proprio spessore con una manciata di buoni sentimenti innaffiati da un pizzico di retorica umanitaria che è quella, poi, che olia ai nostri tempi gli ingranaggi altrimenti troppo stridenti del capitale. L’apparato propagandistico che sostiene e rilancia lo spettacolo opera inversioni di significato: così, il distanziamento sociale, invece di prefigurare scenari riconducibili all’homo homini lupus, ricopre la casella dell’altruismo e della responsabilità civica e offre una compensazione gratificante ad un soggetto ulteriormente impoverito, in quanto privato della sua dimensione pubblica, politica e fortemente dimidiato anche in quella privata.
L’altruismo, come la sollecitudine per l’altro non possono, infatti, essere imposti per via di decreto: per essere tali, avrebbero dovuto essere espressione di una libera e consapevole scelta. Invece, l’accettazione delle norme che hanno limitato, quando non annullato, nel silenzio quasi generale, libertà individuali e collettive scaturiscono dal terreno infido, aperto a tutti i giochi dell’egoismo e dell’isteria, della paura dell’evento disastroso. Questo terreno, poi, è stato sottoposto alla spietata potenza di fuoco dell’artiglieria pesante dell’informazione che, da tutti i canali, da tutti i siti, da tutte le testate e per ventiquattro ore al giorno, ha bombardato la popolazione con notizie, immagini e bollettini degni di un’esplosione nucleare o di un’invasione aliena del pianeta.
Non è questione di negazionismo; l’epidemia c’è stata, è ancora in corso, non è la prima nella storia dell’umanità e non sarà l’ultima. Il suo impatto, sulla psicologia e le condotte degli uomini, è stato, però, così violento da far pensare che questi abbiano dimenticato la verità elementare e sconvolgente che la vita biologica ha dei limiti – il deperimento fisico, la malattia, la morte – con i quali sia il pensiero individuale, sia la coscienza collettiva devono confrontarsi con lucidità ed umiltà, senza demandarne la definitiva, e distopica, risoluzione ad una scienza caricata di attese millenaristiche. Ciò non significa, naturalmente, che un buon sistema sanitario pubblico, i progressi della ricerca ed adeguate misure di prevenzione e di gestione dell’emergenza non possano contenere e ridurre i fattori patogeni e la mortalità.
La questione, qui affrontata, è un’altra: la mentalità e i comportamenti emersi in occasione di questa pandemia hanno proclamato a chiare lettere che sopravvivere è preferibile a vivere e ad assumersi i rischi che ogni vita mortale comporta.
Ciò che si è affermato in questi giorni è che le libertà politiche e le libertà personali – che non sono solo un fiore all’occhiello propagandistico dell’Occidente, ma l’esito storicamente determinatosi di battaglie secolari di carattere politico, sociale e culturale – sono divenuti un abito che si dismette facilmente di fronte a un pericolo che sembra minacciare la sopravvivenza dei singoli (il Covid 19 oggi, qualche altra emergenza, non necessariamente sanitaria, domani) e sono subordinate alla conservazione della vita, considerata innanzitutto nella sua accezione biologica.
Non è in gioco, qui, un giudizio moralistico, si tratta di constatare un fenomeno il cui rilievo non può sfuggire e che dovrebbe destare non poche preoccupazioni. Invece, si sono levate solo alcune voci isolate,[3] prontamente accusate di negazionismo, di irresponsabilità civica, di individualismo, come se ad essere stato congelato non fosse stato innanzitutto proprio l’ambito pubblico che si avvale di momenti politici – elezioni, manifestazioni, assemblee – e di momenti di socialità più generale, non necessariamente ascrivibili a peccaminoso intrattenimento. Penso ai malati terminali cui è stato negato il conforto di un ultimo contatto umano o ai loro familiari e amici che non hanno potuto essere loro vicini in quel passaggio estremo e, spesso, nemmeno seppellirli, compiendo quei gesti pietosi che hanno accompagnato l’uomo in tutta la sua storia e che sono patrimonio intimo di tutte le civiltà.
La storia, ancora una volta: ma è proprio essa ad essere azzerata nell’esperienza vissuta dall’io minimo, contratto sul proprio presente e sulla necessità di mettere in atto modalità di sopravvivenza efficaci. Certo, l’allestimento spettacolare del disastro non va mai disgiunto da una certa dose di manipolazione psicologica, di solito riservata ai media. Tuttavia, la sua riuscita, che ha superato le più rosee previsioni, non sarebbe stata coronata da un tale successo se non si fosse innestata su una già esistente predisposizione psicologico-antropologica, se non avesse trovato sulla sua strada l’io dimezzato dell’homo consumens, del cittadino-consumatore. Consumatore innanzitutto dello spettacolo offerto dalle merci, anche culturali, e di emozioni, come la voglia di compensare la perdita di una cittadinanza reale con un qualche simbolico gesto di integrazione in una comunità virtuale che canta dai balconi e si rassicura che tutto finirà bene, mentre gli speaker televisivi annunciano compunti per l’autunno una nuova offensiva del virus.
Le crisi ambientali, le cui cause vengono ascritte a comportamenti individuali, combinate all’esposizione alla “società del rischio”, che è prima di tutto perenne messa in discussione della capacità del singolo di restare a galla nella giungla economica del modo di produzione capitalistico e di essere all’altezza delle prestazioni richieste, hanno reso l’io disponibile alla sola avventura che gli resta, una volta che la storia – pensieri, azioni, lotte degli uomini in un interscambio ininterrotto fra passato e presente – è stata rimossa dal suo orizzonte ed è solo una disciplina di studio per gli specialisti. Restano il ripiegamento sulla sopravvivenza individuale/domestica – di cui si avrà cura di promuovere la resa spettacolare, moltiplicandola su scala globale, individui-monade l’uno accanto all’altro – e la disponibilità ad accogliere acriticamente, o come il male minore, ogni misura che si prefigga come fine il suo mantenimento.

Fernanda Mazzoli

***

[1] C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 7.

[2] Devo l’espressione a René Riesel e Jaime Semprún che nel loro Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Editions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2008, affrontano il nesso tra rappresentazioni del disastro e fabbricazione del consenso sociale.

[3] Cfr. le riflessioni sviluppate da Giorgio Agamben nel suo blog Quodlibet e da Alberto Giovanni Biuso su https://www.biuso.eu/2020/04/06/corpi-e-politica/



Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
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Jules Vallès – Studenti della Sorbona, è ora di ribellarsi. Non serve a nulla una educazione che renda chi la riceve vanitoso o miserabile.

Jules Vallès, ribellarsi è giusto
Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

indicepresentazioneautoresintesi

«La franchezza di Vallès lascia sconcertati».
Julien Gracq

 

 

Jules Vallès
Studenti della Sorbona, è ora di ribellarsi

Erano le sette meno cinque, la Sorbona era circondata. Da rue Saint-Jacques e rue Victor-Cousin affluivano plotoni di scolaretti e liceali della capitale, scortati ai fianchi, guidati da sorveglianti scolastici con la barba nera o con basettoni rossi, sotto un sole rovente. Avevano l’aspetto meno stupido di quanto non l’avessero gli studenti della mia generazione. La loro età era compresa fra i quattordici e i diciotto anni, ed erano tutti là, in attesa che aprissero le porte e potessero finalmente tradurre in francese moderno un testo in greco antico o unire qualche emistichio tradizionale a un esametro latino, come si attacca una coda di carta al posteriore di un insetto. Mi è parso che non avessero alcuna fiducia, quelle giovani creature, e non credo fossero davvero convinte che le operazioni che si apprestavano a compiere potessero effettivamente metterli al sicuro dal diventare, da grandi, uomini inutili, anche nel caso in cui avessero strappato il primo premio. Alcuni erano tristi, altri preoccupati. Erano soprattutto quegli studenti che, vivendo in un pensionato, sapevano quanto il loro destino fosse legato ai risultati ottenuti. Erano figli di povera gente, i loro genitori si dissanguavano per farli studiare, pensando che un giorno quei figli avrebbero ripagato e mantenuto l’intera famiglia. Talvolta i genitori li accompagnavano direttamente alla porta, buttando là un ultimo incoraggiamento, o confessando una angoscia segreta e lo scolaro, allora, il cuore gonfio, il cervello teso, cominciava a salire le scale che conducono alla sala comune.

[…]

Nel mucchio era facile riconoscere quelli che parevano nati per diventare maestri di scuola e a scuola sarebbero rimasti per tutta la vita, il collo stretto nei colletti di crine della pedanteria, votati al nero, con pantaloni rigonfi sulle ginocchia, una barbetta da smorfiosi, rigidi e inflessibili in qualunque luogo o circostanza, nella vita privata come in quella pubblica, con gli amici, i figli, le mogli, in classe, a tavola, per la strada e persino a letto! Mi tornava alla mente il tempo in cui, io stesso, riponevo qualche speranza nei versi latini. Un tempo triste, che non rimpiango di certo. Mai mi sarei annoiato tanto come in quello stanzone quasi vuoto della mensa di un convitto. Un giorno venni rimproverato e mi fu detto di stare bene attento, perché, continuando di questo passo, sarei finito alla ghigliottina prima dei trent’anni. […]

Quanti penosi ricordi mi tornano alla mente, davanti a questa casa squadrata che si chiama Sorbona, fra quegli scolari che portano i loro dizionari, i lessici, e se ne vanno carichi di sportine di cibo e di gavette come i soldati in una campagna di guerra, pronti a difendersi e a salire in alto, su quell’albero di cuccagna che dovrebbe essere l’università.

In alto? Ma cosa c’è lassù in alto? Come premio, ci sono dei bicchierini forati, dei frutti pieni di cenere. Inutile farsi illusioni, dall’università non si può trarre profitto che a condizione di indossare una livrea o di avere un bel maggiordomo al proprio servizio, ovvero se si è figli di gente ricca o di agenti di cambio. A chi ha gradi e diplomi, lo stato concede volentieri, come pane, la croce. Per quanti pochi libri uno abbia letto, basta conoscere una signora della buona società e, pure senza idee, senza talento, e persino senza troppi compromessi morali, e si può intraprendere una carriera piena di onori e di profitto. Ma i posti sono pochi e per «arrivare» bisogna se non inchinarsi, quanto meno rimpicciolirsi.

Bisogna lusingare l’uno e abbandonare l’altro, bisogna giocare con malizia, mettendoci dentro tutti gli assi disponibili, come a carte. Questa, in sintesi, è la storia di tutte le amministrazioni pubbliche passate, presenti e future. Ecco che cosa offre l’università ai suoi impiegati e ai suo privilegiati. Vale la pena affaticarsi sui libri e sui banchi di scuola per dieci anni, al fine di prendere parte a questa corsa a ostacoli, quando il premio di tutto è tanto misero, e sulla pista ci sono così tante barriere, buche, insidie, e al traguardo vi aspettano giudici che, palesemente, barano? A meno che uno non si chiami Girardin, Laboulayé o Littré! Ma chi? Chi tra loro ha davvero provato l’umiliazione della sconfitta? Avrebbero avuto tanto successo e tanta popolarità se un qualsiasi ministro non avesse dato loro una spintarella? Tutto diventa facile, quando si gode di una buona rendita economica e si può ambire a una buona poltrona universitaria. Basterà prendere una specializzazione dopo avere conseguito uno o due dottorati. Questi vecchi baroni, ingrigiti sotto il peso della scienza, si inorgogliscono quando vedono schiere e schiere di volontari occuparsi di materie delle quali sono loro le vestali e, nel loro intimo, forse provano persino stupore nell’osservare la retrograda e sterile curiosità di certi giovanetti. Ma, a parte questi uomini che nell’università trovano il loro scopo, e quegli altri che vi cercano la gloria, chi trae dunque beneficio da questo sistema di educazione? Bisognerebbe radere tutto al suolo, prendere a picconate questa bastiglia del Ministero dell’Educazione nazionale che tiene le sue assemblee in rue de Grenelle-Saint-Germain, ed espone le bandiere della Francia alle finestre.

Forse mi spiego male: chiedo libertà per tutti. Lascio al ministro la sua facoltà di dare ordini a chi gli pare, ma pretendo per me e per i miei figli il diritto di istruirmi come meglio ci pare. Non serve che ci si trascini come bestie alla Sorbona per prendere una laurea, o ci si porti in galera per oltraggio alla religione, non serve a nulla una educazione che renda chi la riceve vanitoso o miserabile.

Così, il mattino scorso, guardando tutti quei ragazzi che, sotto il sole cocente, se ne andavano a riempire una aula impestata d’inchiostro, mi dicevo che no, non siamo ancora degni della libertà. La società deve apportare alcune correzioni al sistema, ora che alimenta in se stessa, nei suoi collegi, una fiamma eterna di sommossa! È necessario che questi declassati si sistemino o si vendichino, ecco da dove viene tutto l’assenzio che scorre nei petti e tutto il sangue che cola sulle pietre, nelle strade. I figli abbandonati diventano alcolizzati o omicidi. Quando mi capita di incrociarne uno, come fosse un malato in un letto di ospedale, lo rialzo e gli mostro dove sta il suo nemico, dove si trova l’assassino che lo ha ridoto to in quello stato. Ho ascoltato molta gente che si dichiarava atterrita da «questo spettacolo». A ogni angolo di strada, vedremo sempre più miseria, più fame. Le vittime di questa educazione sterile e inconcludente, le vittime della Sorbona riempiranno presto prigioni e ospedali.

Spero che una nuova generazione, reclamando la propria libertà, spazzi presto via questi vecchi stracci che ancora ci legano, facendo dei nostri ragazzi degli uomini e che, invece di imbrattare ogni intelligenza con ammuffite versioni di greco e latino, impari a parlare la sola lingua che serve e che può parlare alle aspirazioni e ai bisogni dell’umanità.

il manifesto, 29-08-2007, p. 12 (Traduzione di Marco Dotti)


Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

Covid 19 e ripresa economica

Fernanda Mazzoli

La ripresa, finalmente!
Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19?
La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

La fase due dell’emergenza da Covid 19, fatta balenare con insistenza e puntualmente rinviata – come si addice ad un premio promesso a bambini della cui condotta virtuosa non si è ancora pienamente convinti –, potrebbe avere il merito, se non di accompagnare il Paese nella lenta e faticosa ripresa, di fare giustizia di tutto il discorso solidaristico ed umanitario che nella fase uno ha ricoperto con la stagnola dei buoni sentimenti il linguaggio del terrore e della punizione, snocciolato a suon di bollettini di guerra pomeridiani e di immagini di trasporti nella notte di povere salme scortate dai militari.

È naturalmente prematuro entrare nel merito di metodi e contenuti di tale fase, considerato il profluvio quotidiano di dichiarazioni da parte di politici, giornalisti, esperti a vario titolo tanto perentorie quanto prontamente smentite, ma alcuni indizi permettono di avanzare qualche ipotesi e di mettere a fuoco certe dinamiche e linee di forza che disegneranno il contorno del mondo post-emergenza.

Al netto di tutti gli appelli e gli auspici per una società diversa “dove niente sarà come prima”, ritualmente alternati all’elenco delle crude cifre di morti e contagiati, ci sono ragionevoli motivi di ritenere che tutto sarà peggio di prima. Il capitale non mancherà infatti di cogliere le straordinarie opportunità offerte dalla fase emergenziale per riposizionarsi e ridisegnare le proprie strategie, sacrificando alcuni “rami secchi” per colonizzare altri più promettenti ambiti, riconvertendosi in salsa green e sfruttando in profondità il prodigioso giacimento offerto dalle nuove tecnologie.

Che a guidare la task force incaricata di traghettare il Paese verso una graduale uscita dallo stato emergenziale che ne ha congelato la vita politica, sociale, economica e culturale sia Vittorio Colao,[1] uomo legato per formazione ed incarichi ricoperti alle banche d’affari, al settore delle telecomunicazioni, al Bilderberg[2] e alla Round Table of Industrialist[3] è un indizio su possibili futuri scenari che va ben oltre la biografia personale e le competenze individuali del personaggio. Con lui, si è scelto di porre la ricostruzione socio-economica dell’Italia sotto l’egida dei poteri forti, fortissimi che dominano il mondo: finanza e multinazionali.

Attendersi una svolta rispetto alle politiche liberiste degli ultimi anni e alle storture più feroci del capitalismo è mero esercizio per anime belle e forse troppo arduo anche per loro. Il “mondo diverso” di cui traboccano le pagine dei quotidiani e le invocazioni di smemorati politici nostrani e ceto medio riflessivo potrebbe avere le tonalità brutali del massacro greco, piuttosto che i colori di liberté, éaglité, fraternité sventolati da interessati, improbabili e improvvisati amanti dell’umanità.

A meno che, naturalmente, lo choc della realtà non sviluppi una salutare reazione capace di coinvolgere diversi strati della società e di creare forme adeguate di critica sociale, di organizzazione, di mobilitazione sotto il segno di una messa in discussione radicale del modo di produzione capitalistico.

Un altro tassello significativo per comporre il quadro del Paese post-epidemia viene dalla scuola che, in questo periodo, si è conquistata l’attenzione di giornali e televisioni grazie alla didattica a distanza che già da più parti viene indicata come un modello auspicabile di innovazione metodologica. Il Miur, che da oltre vent’anni è prontissimo a recepire e a sostanziare in “riforme” le svariate pressioni provenienti dal mondo dell’economia per orientare il sistema dell’istruzione in funzione del mercato, anche in tanto frangente ha dato prova di tutta la sua sensibilità.

Il ministro Azzolina ha di recente firmato un decreto con il quale ha istituito una commissione di esperti in innovazione didattica e formazione, per preparare non solo e non tanto il rientro a settembre, ma nientedimeno che la scuola del futuro. Non si pensi di trovare fra i prescelti intellettuali ed accademici di chiara fama; a quel che è dato sapere sino ad oggi, i nomi sono quelli di presidi impegnati da tempo nell’introduzione nelle loro scuole di una massiccia digitalizzazione o di strampalati metodi mutuati dall’estero dove sono già stati oggetto di puntuali critiche da parte di studiosi che hanno denunciato il calo delle competenze degli studenti in seguito all’adozione degli stessi.

Il presidente della Commissione Istruzione della Camera in una illuminante e trionfalistica intervista ci tiene a sottolineare che l’attuale fase di sperimentazione forzata ha innescato una vera e propria “miccia di un primo graduale cambiamento”, destinato a sviluppare la coesistenza tra la didattica tradizionale in presenza e quella a distanza messa in atto tramite efficaci piattaforme digitali.

Ora, la digitalizzazione della didattica è questione talmente complessa (sul piano teorico e su quello applicativo) e investe talmente tanti aspetti sovente interdipendenti – cognitivi, culturali, organizzativi, sociali, relazionali, psicologici, contrattuali, lavorativi, giuridici – che non è possibile affrontarli nello spazio di un breve intervento, ma sui quali sarà necessario interrogarsi e costruire analisi e risposte adeguate sul breve-medio termine.

Mi limiterò pertanto a sottolineare un elemento che si ricollega a quel primo indizio fornito dalla composizione della task force deputata a mettere in cantiere la fase due dell’emergenza.

La didattica a distanza richiede l’adozione di piattaforme digitali che vengono fornite dalle grandi imprese che gestiscono la rete. Google, Microsoft e Apple sono gli apripista nella corsa per fornire alle scuole programmi e supporti indispensabili per attivare l’e-learning,[4] con al seguito l’editoria scolastica che desidera ricavarsi la sua parte nel gran banchetto in allestimento.

Il ministero annuncia l’arrivo di altri 80 milioni da fondi strutturali europei per consentire alle scuole di dotarsi dell’attrezzatura indispensabile, mentre l’amministratore delegato di Google, in un empito di encomiabile generosità e di umana empatia, in linea d’altronde con le finalità benefiche della multinazionale dell’informatica che presiede, ha deciso di rendere gratuito fino a luglio Hangouts-meet,[5] uno dei software di videoconferenze più gettonato. Tanto il bello verrà a settembre …

E non concernerà soltanto la scuola, che di per sé rappresenta già una bella fetta di mercato, ma tutto il settore coinvolto nello smart working,[6] altra nuova frontiera promessa all’innovazione in materia di organizzazione del lavoro. E dell’esistenza, in quanto tale modalità “agile” è quanto di più pesantemente invasivo sia dato concepire in termini di sovrapposizione e confusione fra tempi di vita e tempi di lavoro. Per non parlare dell’atomizzazione sociale estrema che essa inevitabilmente comporta e dell’anomalia rappresentata da un lavoratore dipendente che utilizza i propri mezzi di produzione, con notevole pregiudizio per importanti aspetti normati contrattualmente, primo fra tutti la sicurezza.

Eppure, per il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di questo governo presieduto dall’Avvocato del Popolo, il “lavoro agile”, grazie all’assenza di vincoli spaziali e orari e alla sua organizzazione per obiettivi (preconizzata ormai da anni dai teorici del new management),[7] permetterebbe al lavoratore di conciliare tempi di vita e di lavoro e, contemporaneamente, migliorare la sua produttività.

Molti altri elementi legati all’attuale crisi suscitano domande di fondo circa la nostra società e la nostra stessa civiltà e promettono interessanti sviluppi ad una articolata e scrupolosa disamina; i tre punti qui accennati possono, però, bastare da soli a suggerire uno scenario futuro sicuramente all’insegna del cambiamento, ma nella stessa direzione di tutti i cambiamenti invocati e messi a punto fra i cori osannanti di intellettuali e giornalisti di regime negli ultimi decenni: la colonizzazione da parte dell’economia di mercato di settori crescenti della vita sociale ed individuale.

La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione proiettano in primo piano la questione centrale, ineludibile: ogni istanza di miglioramento dell’attuale assetto sociale, ogni anelito di giustizia, ogni aspirazione ad un mondo diverso da questo che ben conosciamo e di cui l’epidemia ha rivelato la sostanziale fragilità, per non ridursi a vana chiacchiera che oscura con orpelli retorici una realtà costruita sulla predazione e l’accaparramento di risorse naturali e lavoro umano in vista della massimizzazione dei profitti, richiede di porsi il problema – teorico ed organizzativo – della fuoriuscita dal capitalismo e dell’elaborazione di un socialismo per la nostra epoca. Compito tanto urgente quanto immane che richiede innanzitutto serietà e umiltà intellettuali: tante, troppe sono le macerie che gravano sulle nostre spalle e le suggestioni cinesi emergenti in questi giorni non contribuiscono certo a liberare la strada dalle rovine, rischiano, al contrario, di bloccarla per lungo tempo ancora.

Una progettualità che non può che accompagnarsi alla consapevolezza della necessità di un rilancio del conflitto sociale, per evitare che a guidare la ripresa siano gli stessi che con le scellerate politiche delle privatizzazioni hanno già depauperato la sanità, la scuola e l’ambiente.

Emergenza contro un qualche nemico esterno (ieri il terrorismo, oggi il virus, domani chissà quale altro morbo) e conseguente appello all’unità nazionale hanno storicamente favorito il rafforzamento di interessi privati assai poco unitari e nazionali, hanno rappresentato uno strumento politico-ideologico di punta in quella “guerra di classe dall’alto” che il capitale ha scatenato contro i ceti popolari dagli anni Ottanta del Novecento e che, per ora, ha vinto.

Fernanda Mazzoli

[1] Vittorio Colao, dirigente d’azienda, amministratore delegato di Vodafone dal 2008 al 2018. Laureato alla Bocconi, ha ottenuto un Master in Business Administration alla Harvard University. Ha iniziato la sua carriera lavorando a Londra presso la banca d’affari Morgan Stanley. Ha lavorato poi per dieci anni negli uffici diMilano della società McKinsey & Company. Nel 1996 divenne direttore di Omnitel Pronto Italia (oggi Vodafone Italia). Nel 1999 è nominato amministratore delegato di Vodafone Omnitel (divisione italiana). Nell’aprile 2020 è designato dal governo italiano per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia.

[2] Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg). I partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell’Unione Europea; prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell’alta finanza europea e anglo-americana.

[3] The European Round Table of Industrialists [Tavola rotonda europea degli industriali], abbreviazione ERT, è un gruppo di patrocinio nell’Unione europea composto da circa 50 leader industriali europei che lavorano per rafforzare la competitività in Europa. Il gruppo lavora sia a livello nazionale che europeo.

[4] Per apprendimento online (noto anche come apprendimento in linea, teleapprendimento, teledidattica. Cfr., V. Eletti (a cura di), Che cos’è l’e-learning, Roma, Carocci, 2002; G. Trentin, La sostenibilità didattico-formativa dell’e-learning: social networking e apprendimento attivo, Milano, Franco Angeli, 2008.

[5] Hangouts è un software di messaggistica istantanea e di VoIP sviluppato da Google. È disponibile per le piattaforme mobili Android e iOS e come estensione per il browser web Google Chrome.

[6] Il lavoro agile o smart-working è stato definito nell’ordinamento italiano [Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana] come: «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa», LEGGE 22 maggio 2017, n. 81 Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato., su gazzettaufficiale.it, 13 giugno 2017.

[7] Il New Public Management [Nuova Pubblica Amministrazione], conosciuto anche con la sigla NPM, è uno stile di governance (governo d’impresa) che è emerso nei primi anni Ottanta del Novecento nei lavori di alcuni teorici statunitensi. Cfr.: J. Boston, J. Martin, J. Pallot, and P. Walsh, Public Management: The New Zealand Model, Auckland, Oxford University Press, 1996; Patrick Dunleavy, Helen Margetts, New public management is dead: Long live digital era governance, Journal of Public Administration Research and Theory, July 2006; Jan-Erik Lane, New public management, Routledge, 2000; G. Gruening, Origini e basi teoriche del New Public Management, in M. Meneguzzo, Managerialità, Innovazione e Governance: La Pubblica Amministrazione verso il 2000, Aracne; L.L. Jones, F. Thompson, L’implementazione strategica del New Public Management, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; K. Mc Laughlin, S. Osborne, E. Ferlie, New Public Management: Current Trends and Future Prospects, Routledge, London 2002; M. Meneguzzo, Ripensare la modernizzazione amministrativa e il New Public Management. L’esperienza italiana: innovazione dal basso e sviluppo della governance locale, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; A. Di Paolo, L’introduzione del New Public Management e della Balanced Scorecard nel processo di riforma dell’Amministrazione pubblica italiana, in Economia Pubblica, 2007.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.

Georges Perec, Les choses

Il romanzo di Georges Perec Les choses,[1] pubblicato nel 1965, realizza un singolare paradosso: tanto è esiguo il volumetto, tanto esso pesa. Pesa di lunghe liste di oggetti, mobili, cibi, vestiti, aggeggi di ogni sorta che riempiono il vuoto in cui si dipana l’esistenza dei due protagonisti, Jerôme e Sylvie. Lo spazio della narrazione è disegnato da questo succedersi di pieni e di vuoti: pieno di cose e di desideri, vuoto di vita e di storia.
A partire dalla stessa vicenda narrata che avrebbe destato l’invidia di Flaubert per la sua semplicità, la sua banalità, la sua quotidianità, condizioni ottimali perché l’autore riesca a fare “un livre sur rien” (“un libro sul nulla”).
Una vita come tante, quella dei due protagonisti, senza éclat e senza infamia: un’origine sociale modesta, studi frettolosi e poco convinti, ma sufficienti per farne dei semi-colti con qualche aspirazione culturale e molte ambizioni, lavori precari in un settore di terziario avanzato (le ricerche di mercato, la pubblicità) che se non garantisce sempre, nell’immediato, un reddito soddisfacente avvia a un futuro di promettenti carriere, una cerchia di amici che gravita nello stesso ambiente professionale, un tentativo fallito di dare una svolta ad un’esistenza che ristagna con un trasferimento nella Tunisia da poco indipendente, la scelta di tornare in Francia e di accettare un lavoro fisso e ben remunerato a Bordeaux.
Nessuna azione degna di nota, nessuna passione travolgente: il ménage di Jerôme e Sylvie si installa ben presto sulle vie discretamente oliate della routine quotidiana; ad unirli è una complicità cameratesca, una condivisione di gusti ed aspirazioni e a dividerli qualche volta le momentanee difficoltà economiche.
Romanzo-non romanzo abitato da antieroi, nel solco di un ripensamento radicale del genere, sulla scia del nouveau roman? C’è molto altro in questo libriccino e non solo perché Les choses si distanziano da quest’ultimo per la linearità della narrazione e la persistenza dei personaggi, ancora dotati di stato civile e caratterizzazione se non psicologica almeno affettiva e “ideale”, ma in ragione, innanzitutto, del sottotitolo: une histoire des années soixante (una storia degli anni ‘60).
La non-storia di questa coppia è, insomma, profondamente radicata in un periodo ben preciso nel quale i molteplici possibili della storia sembrano avere imboccato una impasse che ha, però, tutta l’apparenza di un viale scintillante di luci e vetrine, di insegne allettanti di cinema e ristoranti. È nella società dei consumi di massa che Jerôme e Sylvie muovono i loro passi, e in modo letterale: le loro avventure sono quelle di cavalieri erranti del consumo, spinti a percorrere le vie di una capitale scrigno di tutte le ricchezze del mondo, alla ricerca degli oggetti dei loro sogni.

«Le loro prime uscite fuori dal mondo studentesco, le loro prime incursioni in questo universo dei magazzini di lusso che non avrebbero tardato a divenire la loro Terra Promessa furono […] particolarmente rivelatrici».

È un vero percorso iniziatico tra i templi del consumismo, da cui traggono una nuova conoscenza di se stessi che ruota intorno al riconoscimento di bisogni inediti, crescenti e spesso fuori della loro portata.

«Fecero a Parigi, in quegli anni, interminabili passeggiate. Si fermarono davanti ad ogni antiquario. Visitarono i grandi magazzini, per ore intere, stupiti, ed anche spaventati, ma senza ancora osare dirselo, senza ancora osare guardare in faccia questa specie di accanimento pietoso che sarebbe divenuto il loro destino, la loro ragione di essere, la loro parola d’ordine, stupiti e già quasi sommersi dall’ampiezza dei loro bisogni, dalla ricchezza esibita, dall’abbondanza offerta».

Non solo: la loro intera esistenza sembra trovare una direzione ed un senso proprio in questa abbondanza scoperta giorno dopo giorno e che si offre ai loro sguardi, modella i loro desideri e si rivela inesauribile, ponendo sempre un poco più in alto l’asticella della soddisfazione.

«Di stazione in stazione, antiquari, librai, commercianti di dischi, menù di ristoranti, agenzie di viaggio, camiciai, sarti, fabbricanti di formaggio, di scarpe e di dolciumi, salumerie di lusso, cartolai, i loro itinerari componevano il loro vero universo: là poggiavano le loro ambizioni, le loro speranze. Là era la vita vera, la vita che volevano conoscere, che volevano vivere: era per quei salmoni, per quei tappeti, per quei cristalli, che, venticinque anni prima, un’impiegata ed una parrucchiera li avevano messi al mondo».

La loro idea di felicità è legata strettamente al possesso delle cose, di cui vorrebbero godere con l’impazienza della giovinezza e quel fondo di innocenza che continuano a serbare e che li spinge ad ambire ad assaporare tutta la ricchezza del mondo come se essa si offrisse naturalmente ai loro appetiti ed aprisse loro le porte ad una vita piena ed armoniosa, dove tutto non è che «luxe, calme et volupté».[2]
Ben presto inciampano, però, in un ostacolo formidabile che impedisce loro di bere dalla coppa dell’abbondanza e di stringere fra le mani la felicità: il denaro, il denaro che manca, che non è mai abbastanza, che si dilegua appena guadagnato, perché possono contare soltanto sui redditi incerti di un lavoro che vogliono precario per non compromettere con un’occupazione stabile una libertà che ogni giorno appare più illusoria. Georges Perec commenterà più tardi, rovesciando il proverbio “chose promise, chose due” (“ogni promessa è debito”) che nella società capitalista “choses promises ne sont pas choses dues”.
In questo senso, Les choses non rappresentano una condanna della società dei consumi, come ha sottolineato l’autore stesso: sia perché, fedele alla lezione di Flaubert, Perec vuole conservare una certa distanza rispetto all’oggetto della narrazione, sia perché, intendendo scrivere una storia che dia conto di quegli anni, non può fare a meno di constatare che esiste «fra le cose del mondo moderno e la felicità un rapporto obbligato».
Il fatto è che questa promessa di possesso rimane solo un possibile: fallimento e frustrazione sono dietro l’angolo, la sua realizzazione mobilita energie smisurate e finisce per consumare il godimento che viene sempre differito, subordinato al raggiungimento di un bene ancora più grande. Infatti, tutto intorno alla giovane coppia è disposto in modo tale da instillare nei loro cervelli «a colpi di slogan, di locandine pubblicitarie, di neon, di vetrine illuminate, che erano sempre un poco più in basso nella scala».
Di modesta estrazione sociale, ma non poveri, sempre a pochi passi dalla riuscita e ad altrettanti dal fallimento, sono affascinati dal lusso e dal confort dei grandi borghesi, cui tradizione familiare e disponibilità economica conferiscono quella sicurezza, quell’eleganza e quella leggerezza che suscita le loro invidie ed alimenta le loro fantasticherie.
Sognano invece di agire, si immergono con voluttà e perseveranza in un sogno galleggiante nel gran mare dell’abbondanza. Sognano le spiagge alla moda, la cucina esotica, le scarpe esclusive, i musei e i pub di Londra, i ristorantini caratteristici, i maglioni di cashmire, le valigie ultimo grido.
Ed un grande, luminoso appartamento, con i suoi mobili e i suoi accessori immaginati e pregustati nei minimi dettagli. Non è casuale che il saggio di Baudrillard Le système des objets[3] (nato come tesi di dottorato discussa nel 1966 davanti ad una commissione di cui facevano parte Barthes, Bourdieu e Lefebvre) che si propone di investigare le modalità con cui le persone entrano in relazione con gli oggetti nella società dei consumi di massa, con particolare riferimento all’arredamento e al mobilio, dedichi un capitolo centrale alla coppia Jérôme et Sylvie e alla loro relazione con le cose che li circondano.
Né è casuale che il romanzo si apra su una lunga descrizione, attenta ad ogni particolare – stanze, mobili, arredi, caratterizzati con precisione quanto a forma, colore, dimensioni, materiale, collocazione – dell’appartamento sognato dai due protagonisti. Il sogno, nel suo minuzioso e lento dipanarsi, cui l’uso esclusivo del modo verbale del condizionale conferisce un ritmo quasi ipnotico, sposta poco per volta l’attenzione dagli oggetti alle fortunate persone chiamate a condividere con loro gli spazi.
Ed ecco che «la vita, là, sarebbe facile, sarebbe semplice. Tutti gli obblighi, tutti i problemi che implica la vita materiale troverebbero una soluzione naturale». Le fastidiose incombenze domestiche sarebbero sbrigate da personale di servizio, a loro resterebbe il godimento di una lunga, calma giornata ove ogni azione – pasti, lavoro, lettura, uscite con gli amici – si inserirebbe armoniosamente in un quadro spazioso, luminoso, elegante, creato apposta per loro. Nulla sembrerebbe impossibile, né alcuna cattiva passione – rancore, amarezza, invidia – turberebbe il loro equilibrio.

«In effetti, i loro mezzi e i loro desideri si accorderebbero, sotto tutti gli aspetti, sempre. Chiamerebbero questo equilibrio felicità e saprebbero, con la loro libertà, la loro saggezza, la loro cultura, preservarlo, scoprirlo ad ogni momento della loro vita comune».

In realtà, i due abitano un appartamentino di trentacinque metri quadri di cui trascurano la manutenzione e la sistemazione di cui avrebbe bisogno per trasformarsi in un interno accogliente, funzionale e non privo di fascino. O tutto o niente: senza autentica presa sulla realtà, essi scelgono di abbandonarsi alla dismisura dei loro desideri, cui fa da contrappunto l’esiguità delle loro azioni reali. Si lasciano modellare con compiacenza da sogni di lusso e ricchezza e rinunciano a dirigere la propria vita, ad assumersi la responsabilità e la fatica di un progetto razionale, scambiando per libertà questa rinuncia.
Eppure, il tempo lavora per loro e finirà per condurli alla decisione che muterà per sempre l’esistenza della coppia. Dopo una deludente esperienza di lavoro in una città tunisina, in cui si consuma nel volgere di qualche giorno ogni loro illusione esotica, al rientro a Parigi finiscono per accettare, come già hanno fatto tutti i loro amici, ciò che si erano ripromessi di evitare: quell’impiego stabile e ben remunerato che aprirà loro la possibilità di nuotare sul serio nel mare dell’abbondanza. Non sarà veramente la fortuna favolosa dei loro sogni.

«Non diverranno Presidenti e Amministratori delegati. Non maneggeranno che i milioni degli altri. Gliene lasceranno alcune briciole, per lo standing, per le camicie di seta, per i guanti in pecari color fumo. Si presenteranno bene. Saranno ben alloggiati, ben nutriti, ben vestiti. Non avranno nulla da rimpiangere. […] Avranno le stanze immense e vuote, luminose, i disimpegni spaziosi, i muri in vetro, le viste assicurate. Avranno le ceramiche, i coperti d’argento, le tovaglie ricamate, le ricche rilegature in cuoio rosso. Non avranno ancora trent’anni. Avranno la vita davanti a loro».

Per traghettare i suoi eroi nel loro nuovo mondo di classe media realizzata, Georges Perec passa dal condizionale al futuro, un futuro che sembra consumarsi mano a mano che il treno che li porta a Bordeaux – dove assumeranno la direzione di un’agenzia di pubblicità – si allontana dalla capitale ed essi, quasi senza accorgersene, prendono congedo dalla giovinezza per approdare ad una maturità abbastanza prevedibile e forse deludente. Con un biglietto di prima classe in tasca, a loro agio negli abiti leggeri, confortevolmente installati alla tavola di un pretenzioso vagone-ristorante, l’impeccabile coperto sembrerà «il preludio di un festino sontuoso. Ma il pasto che serviranno loro sarà francamente insipido».
La conclusione rapida e stringente, una delle rare occasioni in cui l’autore tradisce la sua presenza, suggella con un cenno quasi divertito un destino. Uno spazio bianco e poi una citazione da Marx che ricorda come il mezzo faccia parte della verità, tanto quanto il risultato, ciò che richiede che la ricerca della verità sia essa stessa vera. È al suo stesso lavoro che Perec pensa, al suo tentativo di restituire la verità di un’epoca, o, piuttosto, alla confusa ricerca della felicità da parte dei due protagonisti, probabilmente avviata ad arenarsi nelle sabbie della disillusione?[4]
Certo è che Les choses questo paesaggio degli anni ‘60, in cui il punto di vista è dato dal rapporto stregato tra uomini e cose, riescono a comporlo, se non in tutta la sua complessità, sicuramente in quelli che sono i suoi elementi di punta, ciò che ne costituisce la specificità e la novità. D’altronde, quel paesaggio Perec lo conosceva bene, aveva all’epoca più o meno l’età dei suoi personaggi e non mancano nel libro gli spunti autobiografici. Ed il suo sguardo penetrante e chiaroveggente ha saputo individuare e cogliere nel suo tempo ciò che non era affatto transitorio, ma un modo di vita e di relazione al mondo che, nato sul terreno del boom economico del secondo dopoguerra, era destinato a germogliare con travolgente vigore fino a modellare la vita sociale e la psicologia individuale ben oltre quegli anni.
Rapporto stregato con le cose, si sottolineava: esse esercitano un moderno incantesimo su Jérôme e Sylvie, protagonisti del romanzo solo per semplicità espositiva, in quanto sono le cose stesse le autentiche protagoniste, sono esse ad invadere e strutturare lo spazio della narrazione, ad orientare l’esistenza della coppia, a calamitare i loro pensieri. Le cose non rinviano più a chi le possiede, non aiutano a comprenderne lo statuto sociale o la sfaccettatura psicologica, si fondano su se stesse, acquisiscono una potente individualità, tendono a sganciarsi dall’universo utilitario, dalla dimensione strumentale che dovrebbe essere di loro pertinenza, così come da quella simbolica.

Diventano segni, osserverà Baudrillard, esterni alla relazione con il possessore o ad una situazione vissuta. Ed ecco compiersi la logica formale della merce, già analizzata da Marx.

«Come i bisogni, i sentimenti, la cultura, il sapere, tutte le forze proprie dell’uomo sono integrate come merci nell’ordine di produzione, si materializzano in forza produttiva per essere vendute, oggi tutti i desideri, i progetti, le esigenze, tutte le passioni e tutte le relazioni si astraggono (o si materializzano) in segni e in oggetti per essere comperate e consumate».[5]

Baudrillard trova la storia di Jérôme e Sylvie davvero esemplare: la finalità oggettiva della coppia diventa il consumo di oggetti e proprio di quegli oggetti domestici tradizionalmente simbolo della relazione. Anzi, questi oggetti-segni perdono tale ruolo e descrivono piuttosto il vuoto della relazione, ancor prima di sostituirsi ad essa. La relazione è destinata a consumarsi negli oggetti, ad abolirvisi in quanto relazione vissuta. Il potere degli oggetti di riempire il vuoto si rivela un’illusione, perché essi sono presenti essenzialmente come idea ed è la loro idea sola ad essere consumata.
Infatti, le cose che si affollano nelle pagine di questo singolare romanzo-non romanzo sono, innanzitutto, immaginate in estatici sogni ad occhi aperti, ammirate dietro seducenti vetrine o sulle pagine di riviste alla moda, piuttosto che comperate, usate, amate. È, insomma, il rutilante, inesauribile, sempre uguale e sempre diverso spettacolo delle merci che si offre agli sguardi concupiscenti ed ammaliati della coppia e del lettore. È alle immagini delle cose che Jérôme e Sylvie votano il loro culto, più che agli oggetti stessi: in questo senso, Baudrillard evoca «una logica idealista del consumo», tanto estranea alla soddisfazione del bisogno quanto al principio di realtà, un processo sistematico che nasce da un’esigenza delusa di totalità.
Proprio in quegli anni, Guy Debord individua nel feticismo delle merci spinto al parossismo il carattere saliente del capitalismo avanzato e nella società dello spettacolo l’espressione compiuta della mercificazione della vita moderna. L’occupazione totale della vita sociale da parte dell’economico «conduce ad uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima».[6] Persa l’unità sul piano del reale, a causa della frammentazione sociale susseguente al dominio indiscusso di un settore – l’economia – su tutti gli altri, resta lo spettacolo che realizza sul piano delle immagini la ricomposizione dell’unità perduta. Il flusso delle immagini – immagini scelte e costruite da altri – diviene il perno della relazione dell’individuo con il mondo, al punto da sostituirsi alla realtà, mentre la visione dello spettacolo è un surrogato della vita che manca.

«Più egli [il consumatore-spettatore; N.D.A.] contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio».[7]

Non si potrebbe dare definizione più calzante della storia della giovane coppia del romanzo di Georges Perec, costruito sullo stridente contrasto tra l’enormità dei desideri indotti e dei sogni di accumulazione e la pochezza delle azioni messe in atto e condotte a termine per realizzare gli obiettivi agognati. I due psicosociologi (mestiere in voga in quegli anni e consistente nell’intervistare le persone sui soggetti più svariati per indagini di mercato) non sanno, infatti, comprendere la propria vita, né cosa veramente vogliono, al punto da rinviare anno dopo anno l’accettazione del rapporto ineludibile fra denaro e accesso al regno dell’abbondanza. Sognano di improbabili eredità o di miracolosi ritrovamenti di ingenti somme , quando non di spericolate rapine. In fondo, sono tipi simpatici, Jérôme e Sylvie: nessuna arroganza o sicumera, nessuna brutalità o perfidia da arrivisti, sembrano sensibili e alla mano, amano restare a letto sino a tardi a leggere romanzi gialli e di fantascienza e adorano le commedie americane. Prede indifese della società dei consumi nel suo momento di affermazione inziale, quando, rinforzata dal compromesso fordista fra capitale e lavoro, la sua brillante superficie non mostrava ancora le vistose crepe attuali, non sono talmente sprovveduti, tuttavia, da non percepire talora come disperatamente vuoti i loro valori, desideri e ambizioni. È, infatti, ai tesori del mondo intero che essi aspirano confusamente: i prodotti dei fertili campi e il bestiame delle ricche fattorie, i mari pescosi e le fabbriche immense, le vette innevate solcate dalle sciovie e le foreste dove camminare senza mai fermarsi, le camere confortevoli e discrete fatte per l’amore e le pianure percorse da cavalli sfrenati.

«Ma queste immagini scintillanti, tutte queste immagini che arrivavano in folla, che si precipitavano davanti a loro, che scorrevano in un fiotto irregolare, inesauribile, queste immagini di vertigine, di velocità, di luce, di trionfo, sembrava loro per prima cosa che si incatenassero con una sorprendente necessità, secondo un’armonia senza limiti, come se, davanti ai loro occhi meravigliati, si fosse innalzato improvvisamente un paesaggio finito, una totalità spettacolare e trionfale, un’immagine completa del mondo, un’organizzazione coerente che essi potevano finalmente comprendere, decifrare».

Il fatto è che, nel tempo storico in cui essi vivono, questa totalità si offre loro sotto la forma frammentaria e sviata di merce, di un oceano di merci, negando se stessa in quanto totalità. Eppure, questo tempo storico non è poi così piatto ed omogeneo, né esclusivamente dedito al culto mercantilistico: sono gli anni della guerra d’Algeria, con le sue pesanti ricadute sulla società francese. Tuttavia, è proprio il rapporto con questo evento – che avrebbe potuto imprimere una svolta alle loro vite, costituire il punto di non ritorno, orientarli verso una nuova consapevolezza del loro essere sociale – a confermarli nella loro routine desiderante. Studenti di vaghe simpatie gauchistes, hanno partecipato alle proteste contro l’inizio della guerra, per finire, più tardi, per condividere il disprezzo venato di superiorità verso la politica esibito dall’ambiente della pubblicità in cui lavorano, ambiente che si richiama, comunque, ad un generico progressismo. Nondimeno, il conflitto algerino per quasi due anni li ha «protetti da se stessi»: i gravi avvenimenti che segnarono in Francia il biennio 1961-1962 (il putsch di Algeri e i morti nella stazione della metropolitana di Chambronne, le violenze quotidiane) li hanno costretti a mettere in secondo piano le usuali preoccupazioni rispetto al loro avvenire e alle loro possibilità di riuscita. E a prendere posizione, per quanto in modo sporadico e superficiale, al limite del ridicolo per le immagini ingigantite dei pericoli che la partecipazione alle attività di un Comitato antifascista di quartiere avrebbe potuto loro procurare. Nessuna azione significativa, qualche volantinaggio e qualche manifestazione, senza eccessivo coinvolgimento, con la speranza di fare qualcosa di necessario per se stessi, prima ancora che per la causa, ma con la consapevolezza di fondo che la loro vera vita è altrove.
La Storia li sfiora, fa loro intuire le sue potenzialità, anche in rapporto alle loro esistenze individuali, ma essi vi passano a lato, ancora una volta catturati «dalle trappole affascinanti della felicità», prigionieri del loro universo. Rimpiangono di non avere vissuto gli eventi capitali del secolo, di non avere avuto vent’anni all’epoca della guerra di Spagna o della Resistenza, ma ancora una volta si appagano di immagini di un passato glorioso, dietro le quali giustificare le loro tiepide condotte nel presente.
D’altronde, il loro disincanto matura nel confronto con tutti quegli uomini che si sono battuti e continuano a battersi per il pane e a cui vanno le loro istintive simpatie: infatti, come ci si può battere – si chiedono con nascente cinismo – per dei divani Chesterfield? Al massimo, si sfidano i pericoli della viabilità parigina per arrivare sino ai mitici (ed interdetti al loro portafoglio) negozi in cui essi sono esposti …
Appiattiti sul presente, divorati da desideri la cui enormità e proliferazione ingenera una passività di fondo, incapaci di un progetto esistenziale coerente, alla soglia dei trent’anni Jérôme et Sylvie entrano nella vita adulta, lasciandosi alle spalle ogni tentazione bohème e prendendo posto alla tavola apparecchiata per loro dal tempo, dalle circostanze, dalle esigenze produttive della Francia delle Trente glorieuses.

Storia degli anni sessanta, recita il sottotitolo, ma di un’attualità sconcertante, attraversato da una chiaroveggenza che solo la letteratura può avere, il romanzo non si limita a tratteggiare un brillante quadro di un mondo alle prese con l’affermazione dei consumi di massa, ma individua in un processo spinto all’estremo di reificazione i tratti precipui di una nuova antropologia delle società a capitalismo avanzato. La semplicità narrativa, una certa impersonalità di scrittura e la pacatezza del tono, appena increspata qui e là da una vena di divertita ironia, che molto devono al flaubertiano souci d’exactitude sottolineano questa dimensione molto meglio di quanto avrebbero fatto gli accenti dell’apostrofe accorata o della veemente denuncia politica. Arrivano con indubbia efficacia a inoculare una salutare dose di dubbio nello sguardo che il lettore, portato ad identificarsi con i due protagonisti in virtù della loro medietà, proietta sulla quotidianità della sua stessa esistenza. Non solo: Les choses continuano a interrogare, senza concessioni e compiacimento, la coscienza di chiunque voglia esercitare – nella riflessione filosofica, nella prassi politica, nelle scelte di vita – un punto di vista anticapitalista, costringendolo a ripensare con serietà e senza infingimenti il suo stesso rapporto con la forma merce. Non si intende certo arruolare d’ufficio Georges Perec nel campo di coloro che mettono in discussione l’attuale modo di produzione e i rapporti sociali ad esso legati, dimenticando o nascondendo che a più riprese lo scrittore si è detto convinto non esserci alternativa alla società dei consumi di massa. Capita, tuttavia, che i libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicano molto di più di quel che dicono i loro autori.

 

Fernanda Mazzoli

 

Tutte le traduzioni dai testi in francese sono di Fernanda Mazzoli.

[1] G. Perec, Les Choses, Julliard, 1965, Paris.

[2] Cfr. il celebre sonetto di Charles Baudelaire, Invitation au voyage in Les fleurs du mal.

[3] J. Baudrillard, Le système des objets, Gallimard, 1968, Paris.

[4] Che il finale resti, comunque, aperto lo conferma Perec, commentando in un’intervista che lui per primo non sa se la loro sia stata una scelta felice o infelice: cfr. S.Henderson, Etude sur Les choses. Georges Perec, Ellipses, 2007, Paris, p. 41.

[5] J. Baudrillard, Le système des objets, op. cit., p. 278.

[6] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, 1997, Milano, p. 57.

[7] Ibidem, p. 63.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Jules Vallès (1832-1885) – La caricatura non uccide. Con voce serena lascia cadere parole taglienti che scavano scie di luce nel cervello degli abitanti dei sobborghi, e scie rosse nella carne Borghese. Unisce l’evidenza diretta della figura al testo scritto che colpisce diritto il bersaglio.

Jules Vallés _caricature
Caricatura firmata André Gill che ritrae il suo amico Jules Vallès

Durante la Comune fecero la loro comparsa innumerevoli pubblicazioni.
Tra i giornali più diffusi vanno ricordati: Le Cri du Peuple (con una tiratura di 100 mila copie), Le Mot d’ordre, La Montagne, Le Pére Duchesne, Le Vengeur et la Commune, Le Combat, L’Action, L’Ami du Peuple, Le Tribun de Peuple, La Commune, L’Estafatte, Paris Libre, La Caricature Politique, Le salut public, La Sociale, ecc.
In tale periodo assunse grande importanza la caricatura politica come forma di comunicazione e propaganda.
«La caricatura non uccide – come ha scritto Jules Vallés –, ma è uno strumento che agisce a due livelli, il livello iconografico e quello verbale, unisce l’evidenza e la comunicazione diretta del disegno, della figura, immediatamente leggibile – e leggibile a tutti! – al testo scritto, alla didascalia, che attraverso il tono epigrammatico, colpisce diritto il bersaglio».

Maria Emanuela Raffi, Vallès et les cultures orales, «Autour de Jules Vallès», Revue de lectures et d’études vallesiennes, n. 44, 2014, pp. 318.

Federico Montanari, LA COSCIENZA CRITICA DELLA BOHÈME NATURALISTICA NEI « RÉFRACTAIRES » DI JULES VALLÈS, Belfagor, Vol. 32, No. 4 (31 LUGLIO 1977), pp. 430-444

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