Autori, e loro scritti

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Derek Walcott (1930-2017) – Mappa del mondo nuovo. Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato per tutta la tua vita.

David Foster Wallace (1962–2008) – Nella scrittura il talento è solo uno strumento. Fondamentale è lo scopo da cui è mosso il cuore della scrittura, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore.

Bernhard Waldenfels – Il problema dell’estraneo comincia con la sua nominazione. L’alterità dell’altro si annuncia nella forma di un pathos, l’altro è qualcuno che è mio simile.

Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

Peter Watkins – La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese. Le questioni che i comunardi affrontarono erano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi.

Kurt Weill (1900-1950) – Una musica che semplicemente fornisce un commento agli eventi sulla scena, non è musica per un’opera.

Simone Weil (1909-1943) – Silenzi che educano l’intelligenza.

Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015.

Simone Weil (1909-1943) – Trovare uomini che amino la verità.

Simone Weil (1909-1943) – Il desiderio di luce produce luce: un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.

Simone Weil (1909-1943) – Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza. Le nostre idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta di vita, ormai hanno solo un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri soltanto davanti alla materia. I Greci furono geometri innanzitutto nell’apprendimento della virtù.

Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.

Simone Weil (1909-1943) – L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. È puro quel che è sottratto alla forza.

Simone Weil (1909-1943) – La nozione di valore è al centro della filosofia.

Simone Weil (1909-1943) – Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo.

Simone Weil (1909-1943) – Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana.

Simone Weil (1909-1943) – L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano. La coscienza umana, su questo punto, non è mutata mai.

Herbert George Wells (1866-1946) – Ecco la logica conseguenza dell’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo.

Wim Wenders – Il senso della vista è cambiato con il passaggio al digitale, che ha reso l’atto stesso del vedere meno prezioso, e non un atto misterioso, sacro.

Walt Whitman (1819-1892) – Gioventù … lo sai che la Vecchiaia può succedere a te con grazia uguale, fascino e uguale vigore?

Oscar Wilde – Libri morali e/o immorali?

Oscar Wilde (1854-1900) – Quel che un uomo ha davvero è ciò che è in lui. Nessuno sprecherà la sua vita ad accumulare cose. Per essere felici bisognerebbe vivere. Ma vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente si limita ad esistere, e nulla più.

Elie Wiesel  –  Sai cos’è il riso? Te lo dico io cos’è. È l’errore di Dio!

John Williams – La sostanza specifica dell’amore.

Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) – La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza.

Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) – Se vi sembra inconcepibile che si possa mostrare la forza del pensiero in un’altra parte del corpo, che non sia la testa, imparate qui come la mano d’un artista creatore abbia il potere di spiritualizzare la materia.

Ludwig Wittgenstein (1889-1951) – Il pensatore somiglia molto al disegnatore che vuole riprodurre nel disegno tutte le connessioni possibili.

MARIO VEGETTI e DIEGO LANZA – Oggi, 11 marzo 2013, a cinque anni dalla loro scomparsa: in ricordo di una amicizia filosofica, e sempre memori del loro magistero che continua a vivere.

Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise

Mario Vegetti / Diego Lanza

Gherardo Ugolini, Giusto Picone

In ricordo di una amicizia filosofica

ISBN 978–88–7588-282-2, 2021, pp. 120,  Euro 13
In copertina: Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, Parigi, Museo del Louvre, 1518-1520 circa.

indicepresentazioneautoresintesi


Diego Lanza e Mario Vegetti sono stati due importanti accademici, ma non solo. Sono stati due amici, e questo aspetto ha influito molto sul loro contributo scientifico, che si è reciprocamente arricchito dell’apporto che ciascuno ha fornito all’altro. Solo una profonda amicizia consente una proficua dialettica, e la dialettica costituisce il lievito di ogni dinamica culturale. Lanza e Vegetti, principalmente due storici del pensiero antico, sono stati anche – come ha rilevato Silvia Gastaldi con riferimento soprattutto a Vegetti – due filosofi. Hanno cioè saputo rapportarsi alla realtà non solo contribuendo significativamente ad allargare il proprio ambito specialistico, ma assumendo la realtà anche come un intero complesso, in cui la valutazione dell’elemento sociale e politico risulta imprescindibile, come ha rilevato Fulvia de Luise con riferimento soprattutto all’interpretazione platonica della Repubblica di Vegetti. Il loro pensiero è di una tale ricchezza che non può essere circoscritto nell’ambiente accademico. L’elemento umano, comunitario – come emerge, soprattutto per Lanza, dai ricordi qui presentati da Giusto Picone e da Gherardo Ugolini – che ha unito questi due studiosi per oltre sessanta anni, risulta una chiave importante per comprendere il loro pensiero.


Diego Lanza (1937-2018), grecista e accademico dei Lincei, titolare della cattedra di Letteratura greca all’Università di Pavia a partire dal 1968. Ha curato edizioni con commento di Anassagora e Aristotele e ha contribuito a opere collettive come Lo spazio letterario della Grecia antica (1992-1996) e I Greci. Storia, cultura, arte, società (1996-2002). È autore di opere e saggi di grande respiro storico-letterario. Nel 2013 esce Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Ottocento e Novecento, e nel 2017 Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento ad oggi. Nel 2018 Bompiani ha pubblicato la nuova edizione delle Opere biologiche di Aristotele a cura di D. Lanza e M. Vegetti, con il titolo Aristotele, La vita. Testo greco a fronte. Vedono nuova luce La disciplina dell’emozione; Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune; Il tiranno e il suo pubblico e, postumo, esce Il gatto di piazza Wagner.

Mario Vegetti (1937-2018), professore emerito di Storia della filosofia antica presso l’Università di Pavia, è stato membro dell’Istituto Lombardo – Accademia di scienze e lettere. Ha tradotto e commentato opere di Ippocrate (1965) e Galeno (1978) e gli scritti biologici di Aristotele (1971). Tra le sue opere più importanti vanno ricordate: Il coltello e lo stilo (1979), Tra Edipo e Euclide (1983), L’etica degli antichi (1989), Quindici lezioni su Platone (2003), Dialoghi con gli antichi (2007), «Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento (2009), Chi comanda nella città. I Greci e il potere (2017). Ha curato la traduzione e il commento della Repubblica di Platone in sette volumi (Bibliopolis, Napoli 1998-2007), da cui è tratta l’edizione BUR con testo greco a fronte (2007) .


Sommario

Nota editoriale
Silvia Gastaldi : Mario Vegetti: lo studioso e il maestro
Fulvia de Luise : Amicus Plato
 
Mario Vegetti : La filosofia e la città: processi e assoluzioni
Diego Lanza : Un’insolente familiarità
 
Gherardo Ugolini : Ricordo di Diego Lanza
Giusto Picone : Con Diego Lanza a Siracusa

Silvia Gastaldi, professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata), è stata presidente della Società italiana di Storia della Filosofia antica (SISFA) nel triennio 2016-2018. È membro del comitato scientifico della Collane “Symbolon. Studi e testi di Filosofia antica e medievale” e della rivista “Lexis”. Fa anche parte del consiglio direttivo della rivista “Il confronto letterario”. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca tra il V e il IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla “Repubblica” e sulle “Leggi” di Platone, sulle “Etiche” e sulla “Politica” di Aristotele. Fa parte del “Collegium Politicum”, un gruppo di ricerca internazionale finalizzato allo studio delle teorie politiche antiche e della loro tradizione. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Discorso della città e discorso della scuola. Ricerche sulla “Retorica” di Aristotele (La Nuova Italia 1981); Storia del pensiero politico antico (Laterza, 1998); Bios Hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis 2003); Introduzione alla storia del pensiero politico antico (Laterza 2008); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci 2014).

 

Fulvia de Luise insegna Storia della Filosofia Antica presso in Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata). Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia, contribuendo con numerosi saggi alla produzione di un commentario dell’opera (pubblicato in sette volumi, tra il 1998 e il 2007, per i tipi della Bibliopolis, Napoli). Tra il 1989 e il 2001 ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate (clicca qui per le pubblicazioni di Fulvia de Luise).

 

Gherardo Ugolini, già docente all’Università di Heidelberg e all’Università Humboldt di Berlino, insegna Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino all’università di Verona (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). I suoi interessi scientifici riguardano in modo particolare la tragedia greca antica e le sue interpretazioni, il giovane Nietzsche studioso della cultura greca, la fortuna dell’antico nella tradizione letteraria moderna, la storia degli studi classici. È membro della redazione di Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies. Tra le sue pubblicazioni: Friedrich Nietzsche, il mito di Edipo e la polemica con Wilamowitz (1991); Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio (1991); Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica (2000); Guida alla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche (2007). Nel 2017 ha vinto il Premio Nazionale di Editoria Universitaria con il libro Storia della filologia classica (Carocci, 2016), curato e scritto insieme a Diego Lanza.

 

Giusto Picone ha insegnato Letteratura Latina nell’Università di Palermo dal 1977 al 2017 (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). Ha pubblicato numerosi saggi sulle tragedie di Seneca, sulla storiografia latina (Sallustio, Giulio Ossequente), sull’epica (Virgilio, Lucano), sulle orazioni di Cicerone, sulla poesia d’età augustea, sulla tematica dell’esilio, sulle opere filosofiche di Cicerone e di Seneca, sul Dialogus de oratoribus, sulle problematiche relative alla didattica delle culture classiche. È direttore di Dionysus ex machina, rivista on line di studi sul teatro antico e di ClassicoContemporaneo, rivista on line di studi su antichità classica e cultura contemporanea edita in collaborazione con la Consulta Universitaria di Studi Latini; dirige le collane scientifiche Hermes e Letteratura classica (Palumbo editore). È referente dell’Università di Palermo nel Centro Internazionale di Studi e Ricerca sul Teatro Antico “Progetto Segesta”, del quale è coordinatore scientifico; è inoltre coordinatore scientifico del Centro Interdipartimentale di Ricerca dell’Università di Palermo “Migrare. Mobilità, differenze, dialogo, diritti”.


Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.
Diego Lanza (1937-2018) – La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti
Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.
Diego Lanza (1937-2018) – Euripide porta sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita di ogni giorno.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.
Diego Lanza (1937-2018) – Il libro di A. Meillet ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche. Il rapporto tra lingua e società si definisce con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico.
Diego Lanza (1937-2018) – «Il tiranno e il suo pubblico» è il tentativo di definire la genesi, lo sviluppo e la fortuna di una figura ideologica, che sempre meglio si precisa nella letteratura ateniese tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C.


Casa della cultura di Milano – «Per Mario Vegetti» * Scritti di: Ferruccio Capelli, Michelangelo Bovero, Eva Cantarella, Fulvia de Luise, Franco Ferrari, Silvia Gastaldi, Alberto Maffi, Fulvio Papi, Valentina Pazé, Federico Zuolo.

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».
Mario Vegetti (1937-2018) – Mario Vegetti a due anni dalla morte ci lascia alcuni messaggi. Tenere aperto lo spazio dell’incertezza. Resistere al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero. Resistere alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”. Restare fedeli, insomma.
Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
Mario Vegetti (1937-2018) – È attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. La parte essenziale dell’uomo è l’anima. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica.
Mario Vegetti (1937-2018) – La felicità ha bisogno di durata e di costanza ed esige una prassi tenacemente virtuosa.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il dominio e la legge. La «Costituzione degli Ateniesi» è un testo violento, sia nel suo apparato teorico sia nel suo atteggiamento di fronte al sociale.
Mario Vegetti (1937-2018) – Ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Salvatore Bravo – Che tipo di umanità è l’umanità incapace di donare il proprio tempo? Parliamo del libro di Simone Lanza: «Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale».

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Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni

Simone Lanza, Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale. Prefazone di Serge Latouche, Editore Writeup, 2020, pp. 170.


Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.


 

Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:

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Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

Simone Lanza

Perdere tempo per educare

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta


Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Elogio dell’educazione lenta

Elogio dell’educazione lenta


Slow school. Pedagogia del quotidiano

Slow school. Pedagogia del quotidiano

Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Carmelo Vigna – «La compassione vera». Un essere “per altri” in cui non si è “per altri” in quanto si ha bisogno d’altri, ma si è “per altri” in quanto ad altri ci si offre come il loro bene o come un aiuto. La compassione è l’accadere della purezza del dono di sé ad altri, ancor prima che altri chieda.

Carmelo Vigna, Didascalie filosofiche, Orthotes, Nocera Inferiore, 2022.

Descrizione

Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.

Carmelo Vigna

Filosofo

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La compassione vera

September 15, 2022

Che vuol dire “compassione”? Vuol dire, in generale, avere un cuore che prova pietà per chi è in difficoltà, per chi dolora, per chi è emarginato, ferito dalla vita e quindi bisognoso di aiuto.

Ma perché “aver compassione” è cosa buona? Si può rispondere che lo è, perché l’ha detto il Cristo. Ma questa risposta, propria dell’uomo di fede cristiana, non è, certo, diversa da quella di fede ebraica, tratta dal Vecchio Testamento. Inutile qui ricordare quante volte lì tutto questo ricorra. E bisogna subito aggiungere che anche altre religioni invitano alla compassione. Lo fa il buddismo, per esempio. Pure la fede musulmana continuamente appella Dio come il compassionevole e prescrive la compassione per i poveri e i deboli. Il confucianesimo non è da meno. Persino le religioni antiche esortavano alla compassione, a modo loro: avevano ad es. il culto dell’ospitalità, che è poi compassione per lo straniero. Come mai questo convergere sulla compassione, mentre la storia umana è spesso senza compassione, ossia è crudele – a volte specialmente con gli indifesi?

La compassione in molti casi è qualcosa di spontaneo. Ma stranamente appare anche come qualcosa di spontaneo l’opposto della compassione, cioè poi l’odio nelle sue molte forme. Già questo cenno all’odio, come opposto della compassione, fa capire che la compassione è in realtà uno dei nomi dell’essere “per altri”, anzi che essere “contro gli altri”. E in effetti, l’essere “per altri” è prescritto non solo dal cristianesimo, ma anche dalle altre religioni. Almeno da quelle che ho prima evocato. Ebbene, in che si radica questo “amore” per gli altri? Rispondo: anzitutto in una inconscia percezione del nostro aver bisogno degli altri. Noi istintivamente amiamo gli altri, prima di tutto perché “sentiamo” che senza gli altri non potremmo vivere. Questo è evidente nei bambini, che hanno, appunto, bisogno dei genitori, questo è altrettanto evidente nella vita adulta, quando si ha bisogno di far coppia e si ha pure bisogno degli amici e di tutti quelli che ci rendono la vita più vivibile. Questo è evidente nell’ultima parte della nostra esistenza, quando l’impotenza o le malattie della vecchiaia ci fanno bisognosi di cure. Gli altri sono – in qualche modo – il nostro “bene”, ossia l’oggetto che nutre il nostro desiderio di vita. 

Certo, non è solo questo desiderio a spingerci verso gli altri. C’è pure una relazione più nobile, che, a un certo punto e a certe condizioni, si fa avanti, ossia l’apprezzamento e quindi l’amore per gli altri “disinteressato”: voglio bene all’altro indipendentemente dall’utilità che egli può procurarmi. Voglio il “suo” bene e non il “mio”. In questo caso, rovesciando il precedente dinamismo, sono io che mi rendo in qualche modo un bene per altri. E anche questo movimento vanta una certa sua spontaneità, specialmente nel rapporto umano maturo. Ma è da aggiungere che questo modo di essere “per altri” (cioè “disinteressato”) sorge solitamente durante o dopo l’avvertimento che l’altro mi vuole bene, cioè che si offre come un “bene” per me.

Ora, la compassione sembra proprio questo tipo di essere “per altri” in cui non si è “per altri” in quanto si ha bisogno d’altri, ma si è “per altri” in quanto ad altri ci si offre come il loro bene o come un aiuto. Questo salta subito all’occhio. E’ meno evidente però un elemento aggiuntivo – di particolare importanza – che fa essere veramente compassionevoli e che ora va sottolineato. E l’elemento aggiuntivo è questo: nella vera compassione, la compassione non è frutto della percezione mia di una qualche elezione da parte dell’altro. In altri termini, l’altro, come oggetto di compassione non è uno che mi ha previamente “scelto”; è, piuttosto, uno di cui molto spesso non so nulla e soprattutto è uno che non è neppure in grado di offrirmisi come un “bene per me”. Insomma, è uno che non mi ha mai dato niente e che non ha niente da darmi.

Diciamolo in altro modo. Noi, quando siamo veramente compassionevoli, ci offriamo come aiuto e sostegno ad altri senza attenderci o esigere alcun ricambio: né un ricambio a seguire, né un ricambio anticipatorio (come a volte accade quando si implora pietà e poi la si ottiene). La vera compassione prescinde da una qualsiasi condizione di reciprocità. Semmai, dà inizio alla reciprocità. Perciò si può dire che la compassione è l’accadere della purezza del dono di sé ad altri, ancor prima che altri chieda. Credo sia questo il motivo per cui la compassione viene, più o meno spontaneamente, associata al divino. Solo Dio, infatti, può essere sempre così. Ne viene che, quando noi lo siamo, diventiamo in qualche modo simili a Lui.

Carmelo Vigna, Didascalie filosofiche, Orthotes, Nocera Inferiore, 2022, pp. 21-23.


Tra i libri

di

Carmelo Vigna

Prima le copertine in galleria,
poi ogni singolo titolo con le copertine in sequenza cronologia.


La dialettica gentiliana,
in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1964, fasc. III, pp. 362-392.


Religione e filosofia nel pensiero di Giovanni Gentile,
in “Giornale critico della filosofia italiana, fasc. II, pp. 260-281, 1967.


Ragione e religione, CELUC, 1971


Filosofia e Marxismo, CELUC, 1974


Gentile interprete di Marx,
in AA.VV., Enciclopedia 76-77. Il pensiero di Giovanni Gentile,
Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, pp. 885-899, 1977


Le origini del marxismo teorico in Italia.
Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia,
Città Nuova, 1977


Antonio Gramsci. Il pensiero teorico e politico. La “questione leninista”,
con V. Melchiorre e G. De Rosa,
Città Nuova, 1979


La ragione e la dialettica.
Studi su Marx e Della Volpe,
Marsilio, 1980


Teorie della felicità II,
con D. Goldoni, I. Sciuto, P. Vidali,
Aldo Francisci Editore, 1986


La qualità dell’uomo.
Filosofi e psicologi a confronto,
on G. Trentini,
Franco A,geli, 1988


 Invito al pensiero di Aristotele,
Mursia, 1992


Dio e la ragione.
Anselmo d’Aosta, l’argomento ontologico e la filosofia,
Marietti, 1993


 L’etica e il suo altro,
Franco Angeli, 1994


Sostanza e relazione. Una aporetica della persona,
in L’idea di persona, a cura di V. Melchiorre,
Vita e pensiero, 1996


Strutture del sapere filosofico,
con E. Berti, A. Masullo, L. Ruggiu, E. Severino,
Il Cardo, 1997


La libertà del bene,
Vita e pensiero, 1998

La modernità ha perduto, lungo la sua parabola, la percezione profonda del legame originario tra la libertà e il bene. Eppure, solo questo legame è in grado di allontanare dalla storia dei singoli e dei popoli i mostri partoriti dall’arbitrio brutale della forza. Sappiamo che la forza è brutale quando è cieca, ossia quando è priva di uno scopo e di uno scopo giusto, quando non ha nulla in vista che non sia il ripiegamento su se medesima, in una sorta di delirio di onnipotenza, onnipotenza che sembra risiedere nella facoltà di oscillare infinitamente tra il bene e il male, come se in questo consistesse un reale dominio e del bene e del male. Ma ciò produce piuttosto il deserto della rescissione dei legami con le cose buone della vita. Per nostra fortuna, oltre alla libertà di compiere il bene o il male, v’è la libertà di compiere il bene anziché il male, cioè la libertà del bene. Una libertà da riscoprire. I saggi del presente volume tracciano una mappa essenziale della parabola di questa libertà. Antichi, medievali e moderni sono stati interrogati a fondo, così da offrire al dibattito contemporaneo e al lettore attento i riferimenti storici e teorici irrinunciabili per porre in modo nuovo la questione. A capo della raccolta appare, e per la prima volta, un saggio su “La libertà e il male” di Paul Ricoeur, una delle voci più autorevoli e più ascoltate della filosofia contemporanea.


La politica e la speranza,
con Virgilio Melchiorre,
dizioni Lavoro, 1999


L’enigma del desiderio,
con L. Ancona e P.A. Sequesri,
Edizioni San Paolo, 1999.

Non è difficile raccontare il desiderio. È difficile riconoscerne le radici e accettarne la compagnia; cercare di capire da dove viene e dove vuole farci arrivare. In una parola, accreditarlo come interlocutore autorevole e sensato della nostra vita. Sono molteplici le forme attraverso le quali esso insorge e s’afferma, assumendo i volti ambivalenti, spesso indecifrabili, di una forza salutare e inquietante, confidenziale e imprevedibile.


Essere giusti con l’altro,
Rosenberg & Sellier, 2000


Il frammento e l’intero.
Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere,
Vita e Pensiero, 2000


Introduzione all’etica,
Vita e Pensiero, 2001


Sul trascendentale come intersoggettività originaria,
in Le avventure del trascendentale,
a cura di A. Rigobello,
Rosenberg & Sellier, 2001


 Etica trascendentale e intersoggettività,
Vita e Pensiero, 2002


La persona e i nomi dell’essere.
Scritti di filosofia in onore di di Virgilio Melchiorre,
con F. Boturi, F. Totaro,
Vita e Pensiero, 2002


Multiculturalismo e identità,
con S. Zamagni,
Vita e Pensiero, 2002

La vecchia Europa vive una nuova stagione, come epicentro amato e odiato di una profonda migrazione di popoli che convengono soprattutto dall’oriente e dal sud del mondo, in cerca di una vita migliore o semplicemente per sfuggire alla fame, al dolore e alla morte. In non pochi casi, anche per ritrovare una dignità di vita. Come è accaduto e continua ad accadere per la vita sociale (e politica) americana, anche per noi europei v’è il problema di stabilire il giusto rapporto fra la necessità di reperire un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità etnico-culturale. La letteratura sull’argomento oscilla tra due estremi, non facilmente componibili: da un lato, si cerca la soluzione per sottrazione, e si bada al reperimento di alcune costanti dell’umano che dovrebbero da tutti essere riconosciute per via della loro universalità; dall’altro lato si nega che un tale compito possa essere eseguito e si ricorre a una soluzione per addizione. Il molteplice culturale dovrebbe essere semplicemente registrato e tutte le differenze essere coltivate. La fragilità di entrambe le soluzioni, che pure contengono una loro verità, è diventata fin troppo evidente. Bisognava, dunque, volgere lo sguardo altrove. Bisognava dare indicazioni intorno a una universalità concreta degli umani, che onorasse tanto ciò che li accomuna quanto ciò che li fa differire


Etiche e politiche della post-modernità,
Vita e Pensiero, 2003


Libertà, giustizia e bene in una società plurale,
Vita e Pensiero, 2003


Affetti e legami,
con F. Botturi,
Vita e Pensiero, 2004

Il primo volume dell’Annuario di Etica è concepito come inedito luogo di incontro e di elaborazione teorica, come proposta e confronto sui grandi temi dell’etica, a partire dall’attualità dell’esperienza morale. Esso coltiva una linea che pone a confronto alcune grandi tesi, nella convinzione che è ancora possibile la determinazione della verità e del bene, a fronte di una situazione presente rassegnata ad una pratica indifferenza reciproca dei diversi saperi e credenze, incline alla privatezza della verità e del bene e alla retorica del frammento.


Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità,
con E. Bonan,
Vita e Pensiero, 2004

Per nostra fortuna, da qualche parte le forme di alleanza tra gli umani risorgono incessantemente. Non può essere diversamente, perché sono la nostra prima radice. Risorgono tutte le volte che qualcuno invita vicini e lontani a condividere la verità e il bene. Allora giustizia, riconoscimento e responsabilità diventano parole d’ordine degne della nostra attenzione. Questo libro a più mani è un piccolo invito a esercitare questa attenzione essenziale….


La regola d’oro come etica universale,
con S. Zanardo,

Vita e Pensiero, 2004

La Regola d’oro (“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” o, in positivo, “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”) merita oggi un’attenzione filosofica particolare, anche se si tratta di un’intuizione sapienziale, innanzi tutto, e non di un principio teorico, più o meno raffinato nella sua formulazione. L’intuizione sapienziale ha in questo caso il grande vantaggio di esprimersi genialmente intorno al rapporto giusto tra esseri umani. Non ad “un” rapporto giusto, ma proprio “al” rapporto giusto. Ciò significa che la Regola d’oro contiene virtualmente in sé tutte le forme di comando per altri, poiché essa dice della “qualità” della relazione tra noi indipendentemente dal gesto singolare che dovesse incarnarla.


Annuario di Etica,
Di un altro genere, genere femminile,
con P. Ricci Sindoni,
vol. 5, Vita e Pensiero, 2008

L’attuale dibattito teorico del femminismo europeo e americano sembra ormai definitivamente assestato su posizioni antiessenzialiste e antinaturaliste, secondo cui la differenza sessuale – usualmente accettata nelle due forme di maschile e di femminile – va al contrario ricondotta alle sue configurazioni sociali e storiche e, dunque, raccolta dentro un’indistinta uniformità di genere. Il sesso non è più un elemento distintivo di una marcatura ontologica duale, ma un orientamento soggettivo segnato dalla libertà del singolo. La negazione dell’identità sessuale, insomma, posta al servizio di una ridefinizione ‘neutra’ della natura umana, eleva il ‘genere’ a nuovo paradigma culturale, ormai sempre di più accettato e promosso dalle politiche mondialiste dell’ONU e dell’UE. Questo volume, che si avvale dei contributi delle più acute pensatrici italiane, intende affrontare i nodi ancora irrisolti della questione femminile nelle sue declinazioni storiche, culturali e politiche, alla ricerca di un’antropologia duale, ontologicamente fondata ed eticamente produttiva, per raggiungere la trama intersoggettiva della differenza, dove equilibrare pathos e logos, esperienza emotiva ed esperienza cognitiva, passione e dovere, concretezza del vivere e universalità della condizione umana, complessità dei legami intersoggettivi e responsabilità morale.


Bontadini e la metafisica,
Vita e Pensiero, 2008

Gustavo Bontadini (1903-1990) è uno dei grandi nomi della filosofia italiana del Novecento. Molti protagonisti dell’attuale dibattito filosofico sono stati alla sua Scuola. Basti citare – per tutti – il nome di Emanuele SeverinoQuesto libro è una sorta di corposo up-date sulla figura di Bontadini e, nel contempo, una coraggiosa messa alla prova della sua eredità speculativa. Qui si confrontano in modo appassionato ben tre generazioni di studiosi, in gran parte suoi allievi. Il pensiero bontadiniano è scrutato in profondità e anche discusso con grande e affettuosa libertà di spirito. A tema è soprattutto l’ontologia metafisica del Maestro e l’esplorazione storiografica preparatoria. Ma anche la sua formazione giovanile viene scandagliata con ricchezza di particolari. Perché Bontadini è uno di quei pensatori che vengono da lontano: è nato all’interno di una grande Scuola e ha fatto a sua volta Scuola come pochi altri in Italia e altrove.

Chi legge questo libro, poi, ha in mano anche uno spaccato della filosofia italiana del Novecento: non un resoconto di superficie, ma una indagine di struttura, simile a quella che Bontadini aveva tante volte coltivato in vita sua, per far vedere come la metafisica rappresenti non solo il luogo dell’antica verità, che i Greci per primi avvistarono, ma anche il luogo del riscatto dialettico dell’intera modernità. In funzione del tempo presente. La metafisica di Bontadini è un ‘discorso breve’. Quasi un punto speculativo. Ma su questo punto sta, come sul vertice di un cono rovesciato, il senso dell’essere di memoria parmenidea. L’essere di Parmenide nella sua purezza, cioè nella sua assoluta e sovrana libertà dal negativo, sta oltre l’orizzonte dell’unità dell’esperienza. Questo il guadagno della metafisica, che Bontadini rigorizzò con impareggiabile acume, dedicando al grande compito l’energia di una vita intera. Questo anche il suo lascito fondamentale. Il libro che il lettore ha tra mano intende onorarlo al meglio.

Interventi di: Carlo Arata, Aldo Bergamaschi, Enrico Berti, Lucio Cortella, Giulio Goggi, Luca Grion, Virgilio Melchiorre, Leonardo Messinese, Paolo Pagani, Mario Ruggenini, Dario Sacchi, Angelo Scola, Emanuele Severino, Enzo Sisti, Davide Spanio, Antonio Tessarin, Francesco Totaro, Fabrizio Turoldo, Carmelo Vigna.


Etica di frontiera.
Nuove forme del bene e del male,
con S. Zanardo,
Vita e Pensiero, 2008

L’etica è una delle teorie più legate alla fluidità della vita umana, perché è mirata al governo dell’agire, che è sempre singolare; dunque determinato dalle coordinate dell’empiria (lo spazio e il tempo; cioè poi il molteplice e il divenire). Essa orienta in tal modo la vita. Ma, se deve seguire della vita le volute, deve pure, nel contempo, ritrarsene. Come ogni teoria. Una teoria, anzitutto e per lo più, risulta dalla comprensione dei fenomeni. L’etica deve coniugare il singolare con l’universale, cioè stare al singolare con uno sguardo universale, per rendere universale il singolare. L’etica, allora, non è una teoria come tutte le altre. Se comprende il singolare per orientarlo all’universale, deve stare in certo modo sempre alla frontiera, cioè deve sempre scrutare la realtà del nuovo che avanza, se vuol dargli la forma trascendentale dell’oggetto conveniente con il buon uso della libertà. La frontiera è una cifra simbolica piena di fascino, perché sembra alludere nel linguaggio comune alla possibilità di straordinarie avventure. Tace, però, quasi sempre intorno ai rischi che tutto questo porta con sé. Quando qualcosa viene a noi, non sempre è per noi. Anzi, non di rado è contro di noi, fino a minacciarci di morte. Per questo le frontiere sono state sempre, in realtà, vigilate. Essere alla frontiera è lo stesso che vigilare sulla frontiera. In faccia al nemico, perché il nemico non sorprenda. Essere alla frontiera è proteggere dal male e custodire il bene.


Metafisica e violenza,
con P. Bettineschi,
Vita e Pensiero, 2008

Che la metafisica sia violenta è diventata oramai una ‘vecchia storia’. Nondimeno essa circola sempre sotto nuove spoglie. Oggi la metafisica sembra accusata di violenza, soprattutto perché ostacolerebbe la percezione della ‘finitezza’. Come se si potesse determinare la ‘finitezza’, senza dare significato (fosse pure semplicemente negativo) anche a ciò che ad essa assolutamente si oppone, ossia all’infinità. Paradossalmente, è proprio la storia della metafisica a contenere nel proprio patrimonio teorico la messa a tema della determinazione del ‘finito’. Ogni buon metafisico sa, infatti, che la posizione di ciò che oltrepassa il finito implica necessariamente la posizione del finito come tale. Anzi, questa è per lui la maggiore ‘fatica del concetto’. La metafisica, in sé e per sé, non c’entra nulla con la violenza, perché è una realtà di un altro ordine. La metafisica è un teoria, la violenza è una pratica. E si possono usare le teorie più vere per le pratiche più aberranti. Provvede un essere umano, nella sua libertà, a far da tramite. La metafisica è solo il guadagno di questa fondamentale e semplice convinzione, che lo strato infinito dell’essere, che necessariamente si dà (Parmenide), trascende infinitamente il finito. Proprio questa convinzione può rendere ineseguibile la ‘cortocircuitazione’ della soggettività e del senso dell’Intero, che è la vera radice della umana violenza.


Giorgio La Pira.
Un San Francesco nel Novecento,
con E. Zambruno,
AVE, 2008


Multiculturalismo e interculturalità.
L’etica in questione,
con E. Bonan,
Vita e Pensiero, 2011

Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C’è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell’interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l’etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l’umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l’ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell’interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.


Sulla verità e sul bene,
con L. Grecchi,
Petite Plaisance, 2011

Con questo volume Luca Grecchi continua la serie meritoria dei suoi dialoghi con filosofi italiani, aggiungendo un nuovo numero ai precedenti colloqui con Umberto Galimberti e con chi scrive. Come i lettori noteranno, non si tratta di interviste, ma di vere e proprie discussioni a due voci, anche se l’iniziativa è in genere di Grecchi, che pone le domande e in tal modo sceglie di volta in volta gli argomenti su cui discutere.

Nel caso di questo dialogo con Carmelo Vigna, egregio rappresentante di una specie divenuta ormai rara, quella dei fautori della metafisica classica, la conversazione assume ancora di più che nei casi precedenti il carattere di una vera e propria discussione filosofica, genere anche questo divenuto – ahimè – alquanto raro. Vigna infatti non solo risponde alle domande di Grecchi, ma lo sollecita a sua volta a prendere posizione e poi lo critica, assumendo in tal modo lui stesso il ruolo che nelle discussioni dialettiche antiche era quello dell’interrogante, svolto ad esempio da Socrate nei dialoghi platonici. Si assiste quindi ad un coinvolgente scambio di ruoli, che ricorda appunto, per le sue modalità e i suoi contenuti, le pratiche dell’antica dialettica, ormai quasi completamente abbandonate dai filosofi di oggi.

Si delineano così due posizioni che si fronteggiano su di un piano di parità, anche se quella di Vigna presenta uno spessore teoretico maggiore per esperienza e maturità. Carmelo Vigna è infatti uno dei pochi rappresentanti rimasti della gloriosa scuola di Gustavo Bontadini, fedele al suo maestro nonostante la “secessione” determinata da Emanuele Severino e il conseguente esodo di filosofi dall’Università Cattolica di Milano all’Università di Venezia. Anche Vigna è docente a Venezia, ma tra i “veneziani”, pur riconoscendo il suo debito verso Severino, è ancora il più “bontadiniano”. Vigna tuttavia non è solo questo: è anche un filosofo teoretico, che ha approfondito e sviluppato la posizione di Bontadini soprattutto nel libro Il frammento e l’intero (Milano 2000), ed è un filosofo morale tra i più importanti in Italia, che dirige il Centro Interuniversitario di studi sull’etica ed è alla testa di una scuola fiorente per quantità e qualità di allievi e di iniziative.

Luca Grecchi è un giovane filosofo non accademico, quindi “autodidatta” nel senso migliore del termine, poiché si è formato da sé attraverso una serie impressionante di letture, è autore di una serie notevole di pubblicazioni ed è dotato di una passione senza uguali per la filosofia. Anche Grecchi è per la metafisica, ma per una metafisica “umanistica”, che identifica l’intero con la totalità sociale e che si ispira in una certa misura – oltre che a Platone ed Aristotele – a Marx, venendo in tal modo anch’egli a rappresentare una specie divenuta ormai rara, quella dei filosofi di ispirazione marxista che non hanno rinnegato Marx, nonostante da tempo egli non sia più di moda. 

I temi scelti da Grecchi per la discussione sono numerosi e variati, perché vanno dalla filosofia antica (Platone, Aristotele, lo Stoicismo, il Neoplatonismo) alla filosofia moderna (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche) e a quella contemporanea (Weber, Heidegger, Arendt, Habermas, Rorty), dall’epistemologia al comunismo, al capitalismo (da lui ricondotto alla “crematistica”), al senso della vita, alla filosofia della storia, con incursioni nell’antico Oriente, e con un’attenzione sempre fissa – e questa è una delle cose che maggiormente apprezzo in lui – per gli antichi Greci. Egli è a volte giovanilmente “intemperante” nei suoi giudizi, spesso molto duri soprattutto verso i filosofi contemporanei, ma è anche a volte capace di intuizioni illuminanti, come a proposito della “svergognatezza” degli Stoici, dell’accostamento di Kant a Smith, del debito di Marx verso i Greci, della filosofia della storia nell’antichità.

Su tutti questi temi Vigna ha qualcosa di importante da dire, con giudizi in genere più equilibrati, ma poi vi aggiunge dal canto suo altri temi, altri problemi, come quello dell’importanza di Leibniz e Vico, quello dello sviluppo dell’idealismo gentiliano in Bontadini, quello della critica alla riduzione dell’intero, quello della differenza tra la metafisica di scuola milanese e la metafisica di scuola padovana, quello fondamentale del rapporto fra teoria e prassi, e non si risparmia a sua volta critiche a filosofi italiani contemporanei, come Colletti e Pera, o stranieri, come Levinas, e a tendenze politiche come il berlusconismo.

Ne risulta così una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa, divenuta invece oggi oggetto di scherno per sedicenti filosofi che non hanno più nulla da dire e, invece di incolpare se stessi, incolpano l’oggetto di cui dovrebbero parlare. Ovviamente avrei anch’io da dire alcune cose su alcuni dei temi affrontati da Grecchi e Vigna, ma non posso trasformare un dialogo a due voci in un dialogo a tre, avendo già fatto la mia parte in un volume precedente. Potrebbe essere interessante trovare un’occasione per discutere tutti insieme, magari con l’aggiunta di un’altra voce di ispirazione marxista, che potrebbe essere quella di Mario Vegetti, in alcuni passi citato da Grecchi. Se non altro, ci prenderemmo tutti insieme l’accusa di avere resuscitato il “catto-comunismo”. Scherzi a parte, mi auguro che discussioni come questa continuino, e ringrazio Luca Grecchi per il fatto di averle promosse.


Life and the Sacred,
con R. Alvira,
Olms, 2012

One of the concepts which deserves particular attention by philosophers of the 21th century is that of life and, more specifically, that of human life. Because life on Earth is limited, mankind has historically relied on religion for its promise of salvation and an afterlife.Yet, recently, people have been relying on alternative institutions, such as the state or market, for answers to their questions about the limited nature of human life. With the rise of dependence on such instituions comes the rise of new questions: are the state and market responsible for defining the meaning of life and for providing adequate answers to the suffering and death that afflict humankind? Can the state make use of technology and scientific knowledge in order to regulate population according to its objectives? Is there any ethical limit to the experimentation with the different phases of human life? Is it possible to preserve a sacral sphere for human life? This book provides extensive reflection and possible solutions to these perplexities.


La vita spettacolare.
Questioni di etica,
con Riccardo Fanciullacci,
Orthotes, 2013

Pasolini, di fronte alle trasformazioni che il capitalismo neoliberista imprime alla forma di civiltà, non esita a parlare di “mutazione antropologica” e arriva a dire: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”. Queste “macchine” hanno solo un debole legame con gli esseri umani che ancora crediamo di essere e che diverse istituzioni, come quelle della democrazia, presuppongono che siamo: la vita spettacolare ci avvolge e ci seduce. I saggi di questo volume interrogano questa configurazione della vita con radicalità. Ma proprio per questo arrivano a riconoscere come essa non occupi e non possa occupare l’intero spazio dell’esistenza e come il desiderio, seppur plasmato da quei modelli, non vi si adegui mai del tutto: conserva in sé le tracce di una verità etica che attende l’invenzione di nuove forme di legame attraverso cui possa orientare una vita più giusta e più felice. Saggi di: Francesco Callegaro, Carlo Chiurco, Adriano Fabris, Riccardo Fanciullacci, Giacomo Ghidelli, Peppino Ortoleva, Antonio Petagine, Maddalena Pezzato, Teresa Scantamburlo, Giovanni Ventimiglia, Carmelo Vigna.


Etica del desiderio come etica del riconoscimento,
Orthotes, 2015

L’Occidente – e non solo – è malato nel suo desiderio. Riusciamo a difenderci molto più di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘esterne’, che ci fanno ammalare nel corpo; riusciamo a difenderci molto meno di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘interne’, che sono cose di desiderio e che ci fanno ammalare nell’anima. Storditi dalla facile disponibilità di beni materiali, crediamo ingenuamente che anche i beni dello spirito siano subito a portata di mano. Ma la felicità, la gioia di vivere, la benevolenza, la sobrietà, l’ordine degli affetti, la solidità dei legami e cose simili non si possono comprare al supermercato. Sono, piuttosto, modi di incontrare gli altri e il mondo, cioè ‘disposizioni’ permanenti, frutto di scelte mirate e a lungo ripetute. Una volta queste disposizioni si chiamavano ‘virtù’ e l’insieme organico di queste virtù si chiamava saggezza’. La ricerca secondo verità intorno alle virtù e intorno alla saggezza è poi quella che, ancora oggi, si chiama ‘etica’. Un’etica del desiderio è l’oggetto fondamentale di questo libro. Che mira, quindi, a istruire il senso delle virtù e della saggezza.


Il frammento e l’intero.
Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere,
Orthotes, 2015, 2 voll., 708 pp.

Ma è poi vero che l’ultima cifra del senso dell’essere è il frammento che siamo? No, è subito da rispondere; non è per nulla vero. Questo libro ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (cioè di dimostrare) l’impossibilità che il frammento che siamo, cioè poi il finito, sia l’ultima parola intorno al senso dell’essere; e ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (dimostrare) che ciò che finito non è, sta ontologicamente oltre il finito. Ne è il fondamento di senso e ne è il fondamento d’essere. In altri termini, il frammento che siamo implica necessariamente l’Intero o la totalità dell’essere, ma come altro da sé.


Etica dell’economia.
Idee per una critica del riduzionismo economico,
con A. Biasini,
Orthotes, 2016


Sostanza e relazione.
Indagini di struttura sull’umano che ci è comune. Ediz. integrale,
Orthotes, 2016

L’umano che ci accomuna è da proteggere: questo è il compito fondamentale del nostro tempo, dopo le tragedie immani del secolo scorso e quelle che si annunciano già agli inizi di questo secolo. Qualsiasi forma di protezione è in ogni caso un che di pratico: è una forma della cura. Ogni cura, poi, e ogni protezione hanno una mira determinata. Una mira determinata è certo già la protezione dell’umanità che ci accomuna. Ma che cosa propriamente ci accomuna? Che cosa dell’umano storico dobbiamo tenere custodito senza tentennamenti e che cosa invece possiamo lasciar fluttuare nel tempo o anche dismettere? Non si può rispondere a queste domande senza tornare a interrogarsi – con rigore speculativo – sul senso della persona umana. Il senso di qualcosa è, in primo luogo, ciò che di qualcosa permane nel variare delle circostanze. E ciò che permane nel variare delle circostanze è quel che si usa da gran tempo indicare come l’universale. Nel nostro caso, come l’universale umano. Ebbene, l’universale umano è ciò su cui queste pagine indagano, senza indulgere alla chiacchiera filosofica, spesso oggi contrabbandata nelle vesti di un cattivante vestito prêt à porter.


Differenza di genere e differenza sessuale.
Un problema di etica di frontiera,
Orthotes, 2017

Nella cultura contemporanea, anche in quella più vulgata, differenza di genere e differenza sessuale tendono oramai a significare due “opzioni antropologiche” divaricate. La prima espressione allude sempre di più al differire come a una costruzione semplicemente culturale, la seconda invece al differire come a una condizione naturale (biologica) e nel contempo simbolica. La divaricazione è il risultato di una stagione complessa, e piuttosto recente, legata ai “Gender Studies” di matrice angloamericana. È soprattutto da questa matrice, infatti, che la differenza sessuale è stata messa radicalmente in questione: i ruoli del maschio e della femmina umani sarebbero degli stereotipi socialmente e politicamente accreditati per rendere stabile la sottomissione violenta delle donne agli uomini. E la “liquefazione” o “dissoluzione” della differenza sarebbe il rimedio più efficace per stroncare tutte le discriminazioni su quella differenza fondate. Ma le cose stanno proprio così?


 Il dovere dell’ospitalità,
Orthotes, 2018

L’ospitalità è dovuta a ogni essere umano che la richieda e che abita la faccia della terra. Non è, l’ospitalità, una sorta di opzione da buonismo ma, appunto, uno dei fondamentali doveri del nostro vivere insieme. Questo, del resto, si è sempre in molti modi pensato e praticato nei secoli in Occidente. E questo viene qui indagato, secondo molti lati, da una serie di contributi autorevoli. I quali rendono conto anche dei limiti inevitabili secondo cui l’ospitalità può essere offerta nella vita quotidiana. Limiti già codificati ? sul piano giuridico ? nella nostra Carta costituzionale. Ma tali limiti non possono essere invocati a giustificazione delle pulsioni xenofobe e razziste che serpeggiano nelle società industrializzate, pulsioni malamente mascherate spesso da ragioni di sicurezza o addirittura di supremazia bianca. Questo viene qui energicamente sottolineato. E questo viene pure qui denunciato attraverso una disamina severa di quel che veramente accade in Italia nella nostra (cosiddetta) attività di accoglienza a livello istituzionale.


 Introduzione generale e logica.
Corso di filosofia tomista,
R. Verneaux autore, C. Vigna traduttore,
Claudiana, 2019

Il lavoro di Roger Verneaux funge da volume introduttivo al «Corso di Filosofia Tomista» edito negli anni 60 dai professori dell’Institut Catholique di Parigi. Il volumetto si distingue per la chiarezza e la scioltezza del dettato, ma soprattutto per la sempre vigile attenzione alle domande della cultura filosofica contemporanea, discusse nelle pagine iniziali dell’opera. La parte preponderante è dedicata alla logica, che viene illustrata e spiegata in tutte le sue parti, dalla nozione di logica in generale, ai termini, la proposizione, l’argomentazione, il sillogismo, il sillogismo ipotetico e l’induzione, fino alla dimostrazione, i suoi intenti, i suoi elementi, i suoi principi.


Studi gentiliani,
Orthotes, 2019

Giovanni Gentile, il maggior filosofo italiano del primo Novecento, è da dimenticare, come taluni vorrebbero? Per nulla, bisognerebbe rispondere. L’apparato categoriale da lui costruito genialmente, nonostante la sua (relativa) semplicità speculativa, è forse la maggiore leva di forza per intendere ancora il nostro tempo. Anche quello della Rete e dei “social network”, dove trionfa un contenuto sterminato che Gentile avrebbe sicuramente relegato nel ruolo di “pensiero pensato”. Il fatto è che Gentile, ostracizzato per i suoi legami con il fascismo, tutto sommato estrinseci, ci appare oggi, una volta smaltite le nebbiose e spesso ingiuste polemiche nel dopoguerra intorno alla sua eredità intellettuale, come il Maestro insuperato della grandezza del “pensiero pensante”. E anche come colui che offre ancora le ragioni più profonde per intendere appieno la natura inviolabile della nostra umana dignità. Questo libro, soprattutto dedicato alla logica e alla religione di Gentile, non è tuttavia un’apologia dell’attualismo; ché anzi l’attualismo sottopone ad una analisi serrata e senza sconti di sorta, per indicarne “ciò che è vivo e ciò che è morto”.


Studi marxiani,
Orthotes, 2019.

Se si volesse racchiudere in una breve indicazione il risultato del lavoro di analisi riversato in questi “Studi marxiani”, non si andrebbe lontano dal vero se si dicesse che si è qui tentato di “spaiare” in Marx e nel marxismo italiano la cifra (economico-politica) del “plusvalore” dalla cifra (veritativo-speculativa) del “materialismo storico”. Perché la prima pare ancora molto utile per leggere il presente neocapitalistico, mentre la seconda pare non solo sbagliata, ma anche molto datata. E in effetti, si tratta di una cifra ottocentesca, che la storia filosofica e culturale del Novecento ha, di fatto e in molti modi, archiviato. Avere offerto argomenti per l’operazione di “spaiamento”, quando – negli anni settanta – tutti ne osannavano la saldatura è (forse e ancora) il merito di queste pagine. E del resto un’operazione siffatta, inevitabile su qualunque sapere “regionale” che si presenti con la pretesa di essere la forma del sapere assoluto dell’Intero del senso, resta sempre di utilità speculativa per chi ama la filosofia, perché invita a riflettere su certe mosse radicali che una partita teorica così alta pone necessariamente in campo.


Storia e verità.
Medioevo e Novecento,
Orthotes, 2020

I saggi di storia della filosofia raccolti in questo libro sono dedicati alla grande Scolastica medievale (parte prima) e al Novecento (parte seconda), specialmente italiano (parte terza e quarta). La ricostruzione storica non è stata dettata solo da naturali preoccupazioni narrative, ma anche da altrettanto naturali (benché spesso dagli storici della filosofia trascurate) preoccupazioni teoriche. Ad avviso dell’autore, infatti, non si può ripercorrere la storia del pensiero, quale che essa sia, senza presentarla a un lettore non solo curioso dei risultati della ricerca, ma anche curioso della solidità veritativa dei risultati della ricerca. Questo ci hanno insegnato i grandi Maestri di filosofia che si sono occupati anche di storia della filosofia (da Aristotele a Hegel, almeno). Questo è giusto non dimenticare e, nei limiti delle proprie forze, praticare. Ed è ciò che in questo libro si è cercato di tenere sempre a mente: storia e verità.


Studi aristotelici,
Orthotes, 2020

Aristotele non è solo un insuperato Maestro di metodo. Egli insegna anche che la comune esperienza umana del mondo (ta physikà) chiede d’essere oltrepassata. Oltrepassata, se letta secondo un sapere stabile o incontrovertibile (episteme). È infatti questo sapere che costringe a porre uno strato dell’essere che è metà ta physikà. Tanto i libri aristotelici di Metafisica quanto quelli di Fisica convergono su questo stesso risultato, preparato da una lunga ricerca che ha l’Accademia di Platone come luogo privilegiato di formazione intellettuale. Purtroppo, episteme e metafisica sono anche le due grandi cifre aristoteliche che la letteratura critica del secolo scorso ha spesso sottovalutato o ignorato o ridotto a convinzioni giovanili del loro Autore. Queste cifre vengono invece qui riproposte nella loro centralità, sullo sfondo della dottrina dell’analogia dell’essere, geniale congedo di Aristotele dal platonismo.


Pensieri cristiani,
Orthotes, 2021

“Questo libro raccoglie un gruppo di scritti da me dedicati a temi di “filosofia cristiana”. La filosofia in quanto tale non è cristiana. È opus rationis, semplicemente. E tuttavia, lo può in qualche modo diventare, quando aiuta la riflessione di un cristiano che vuole intendere, meglio che gli riesca, il senso della propria fede in Gesù di Nazareth come nel Figlio Eterno. Allora, l’apparato categoriale proprio del mestiere del filosofo si mette al servizio dei contenuti della Rivelazione, ma senza mai abdicare allo statuto che gli è proprio. Diventa, la filosofia, ancilla. D’accordo. Non però della teologia, ma della fides quae creditur. E così aiuta il credente cristiano a capire, ma aiuta pure o può aiutare chi al credente cristiano chiede conto della propria fede. Dalla teologia, perciò, in certo modo differisce, perché il sapere filosofico qui non è un utile strumento di facile sostituzione, a seconda delle mode culturali, ma una fonte veritativa, la cui formalità speculativa supera (lo dice Tommaso d’Aquino) quella della fede. Che offre, a sua volta e di suo, soccorso all’esistenza nostra, perché venga salvata. La filosofia fa luce. Ma non può salvare”.


Didascalie filosofiche,
Orthotes, 2022

Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi.

Fernanda Mazzoli

Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile

Tutta la vita della società industriale divenuta globale
si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi


Ci sono libri la cui qualità ed importanza – in termini di capacità di leggere la realtà con lenti lucide ed originali, offrendo al lettore una visione delle cose che rovescia i capisaldi delle opinioni correnti – sono inversamente proporzionali alla loro notorietà e diffusione. Paradosso solo apparente e piuttosto scontato di un mercato editoriale che misura la qualità in base al presenzialismo mediatico degli autori e all’adeguamento al pensiero dominante che, di questi tempi, veste progressista e fa l’occhiolino al bene comune, il quale, per una svista della logica e della storia, è andato a cacciarsi sotto l’ombrello protettore dei miliardari filantropi, dei finanzieri divenuti salvatori della patria e dei grands commis ai vertici degli organismi internazionali. Così, un libro poco conosciuto e ancor meno citato come quello scritto a quattro mani da René Riesel e da Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable,1 dovrebbe, invece, essere uno dei testi di riferimento ineludibili per chiunque voglia comprendere il presente – tra minacce di catastrofe sanitaria e ricorso ad un’emergenza divenuta ordinaria amministrazione – senza piegarsi sotto le forche caudine dell’informazione di regime, della narrazione mainstreem e delle troppo facili semplificazioni offerte dagli adepti delle teorie complottiste.

Parodiando un celebre incipit, gli autori affermano che «tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi», diffuse con il supporto mediatico da esperti che si richiamano ad una conoscenza quantitativa, ad un insieme di dati posti a fondamento di un’analisi incontrovertibile della realtà e di risposte altrettanto assolute. Dall’inevitabilità delle catastrofi consegue il successo della propaganda per le misure autoritarie altrettanto inevitabili se si vuole garantire la sopravvivenza del pianeta, la realizzazione delle quali mobilita un apparato burocratico-tecnologico sempre più robusto e più pervasivo, capace di un controllo totale delle condizioni di vita.

Semprun e Reiser si erano dati come oggetto del loro studio l’emergenza ambientale (di cui, peraltro, erano ben lontani dal negare la portata, da convinti avversari della società industriale, nonché del modo di produzione capitalistico, di cui hanno denunciato a più riprese le diverse nocività) ed è quindi particolarmente interessante riscontrare l’aderenza del loro discorso alla situazione determinatasi oggi intorno all’emergenza sanitaria. È anzi ragionevole ritenere che se nello spazio di un anno e mezzo molte società occidentali sono state disposte a rinunciare a quelle libertà individuali e collettive esibite orgogliosamente come cifra distintiva rispetto al resto del mondo chiamato a regolare il proprio passo su quello delle democrazie liberali, il terreno della rinuncia sia stato abbondantemente irrigato in precedenza da un discorso pubblico sempre più centrato sulla minaccia di una catastrofe incombente che ha assunto volti diversi (dal terrorismo al riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse naturali), ma egualmente efficaci ad attivare le condizioni politiche, i presupposti ideologici e i condizionamenti psicologici e mentali atti a legittimare uno stato di perpetua emergenza. La grande paura, creata e diffusa artatamente da istituzioni, informazione, esperti a vario titolo a partire da fenomeni reali, di cui si tende a rimuovere l’origine e la funzionalità, qualora esse mettano in causa l’intero sistema sociale, ha naturalizzato lo stato di emergenza, ha trasformato l’eccezione in normalità, ha sollecitato un enorme bisogno di protezione da parte delle popolazioni, cui solo le misure che si accompagnano allo stato d’emergenza sembrano capaci di dare una risposta. Che il prezzo da pagare siano l’autodeterminazione, le libertà faticosamente conquistate da un’intera civiltà nel corso della sua storia, i legami sociali poco importa, purché la minaccia dell’annichilimento sia stornata o rinviata. Ci si affida, dunque, con abbandono quasi infantile a quelli che prendono in mano «l’amministrazione del disastro», alla burocrazia di esperti incaricata di «una gestione di crisi permanente», si sacrifica loro quel poco che resta di spirito critico e di capacità di pensare ed agire autonomamente. È qui che si annidano tutte le derive autoritarie che oggi non sbandierano più il mito consunto e poco credibile del sangue e della razza, o dell’ortodossia ideologica, ma quello del bene della società, o meglio di ciò che i suoi esponenti di punta avvalorano come tale.

«È un dovere civico quello di essere in buona salute, culturalmente aggiornati, connessi. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. […] Chi si opporrebbe al mantenimento dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera?».

Spetta proprio ad una visione antagonista rispetto alla moderna società industriale quale quella sostenuta da Riesel e Semprun e, pertanto, particolarmente sensibile ai problemi posti dalla predazione dell’ambiente individuare con lucidità e denunciare la conversione ecologica del capitale in cerca di nuove frontiere che consentano di avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

A questo proposito, gli autori citano uno studio di Pierre Souyri,2 pubblicato postumo nel 1983 e dedicato alle trasformazioni del capitalismo, che fa piazza pulita delle illusioni alimentate oggi dalla green economy – ultimo tentativo in ordine di tempo di dare un volto presentabile a questo modo di produzione e intanto impegnarlo in una nuova fase – e dal diffondersi di una coscienza ecologica di massa sapientemente orchestrata dall’alto e funzionale alla prima.

«Le campagne allarmistiche scatenate intorno alle risorse del pianeta e all’avvelenamento della natura da parte dell’industria non annunciano certamente un progetto degli ambienti capitalistici di fermare la crescita. È piuttosto vero il contrario. Il capitalismo si impegna attualmente in una fase in cui si troverà costretto a mettere a punto un insieme di nuove tecniche di produzione dell’energia, dell’estrazione dei minerali, del riciclaggio dei rifiuti e di trasformare in merce una parte degli elementi naturali necessari alla vita. Tutto ciò annuncia un periodo di intensificazione delle ricerche e di sconvolgimenti tecnologici che richiederanno investimenti giganteschi. I dati scientifici e la presa di coscienza ecologica sono utilizzati e manipolati per costruire dei miti terroristi la cui funzione è quella di fare accettare come imperativi assoluti gli sforzi ed i sacrifici che saranno indispensabili per il compimento del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica che si annuncia».

Il catastrofismo, dunque, diventa il dispositivo ideologico perfetto per creare un consenso trasversale nella società intorno a scelte politiche ed economiche di fondo dalle ricadute radicali sulla vita dell’intera collettività, persuasa da una batteria di fuoco aperta da esperti, scienziati, giornalisti, esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura non solo ad accettare tali misure coercitive, ma a richiederle con entusiasmo in nome della salvezza propria e del pianeta.

Sono esattamente le stesse dinamiche in gioco nella gestione dell’epidemia sanitaria da Covid 19: la creazione della grande paura, da Apocalissi del nuovo millennio, l’emergenza continua, la demonizzazione di ogni dubbio o dissenso, fino alla secca alternativa tra vaccinarsi o morire, di malattia o di messa al bando dalla società civile fino all’allontanamento dall’attività lavorativa.

Che si tratti di ambiente o di salute, è l’irreggimentazione forzata o volontaria nelle nuove armate del Bene, fertile humus per ogni torsione autoritaria che richiede e al tempo stesso presuppone quella che i nostri autori definiscono «normalizzazione degli spiriti».

«La domanda sociale di protezione nella catastrofe» non chiama più in causa solamente l’apparato statale e burocratico, ma è tutta la società, – «attraverso gli uomini qualunque che vi si mobilitano per raccogliere le sue inquietudini e fabbricare l’immagine di una pretesa “società civile” – che reclama norme e controlli».

Non si tratta tanto di negare la realtà del disastro ambientale o dell’epidemia, quanto di comprendere che il combinato disposto fra allarmismo mediatico, idolatria dei dati, declinazione della scienza in nuovo dogma religioso e conseguente intervento dello Stato in veste di tutore concorrono ad una condizione permanente di amministrazione del disastro dove, ad essere confermata e consolidata, è la sottomissione3 degli individui e dei popoli, mentre nuove catastrofi, ecologiche e sanitarie, si profilano all’orizzonte.

Dove trovare un giacimento di paura e di coercizione altrettanto prezioso per la governance globale, pronta ad approfittarne per ridisegnare l’economia, il modo di vivere, le strutture della politica in una direzione più funzionale alla fase in cui il capitale è entrato?

Fernanda Mazzoli

1 Pubblicato a Parigi nel 2008 dall’Encyclopédie des Nuisances, fondata e diretta dallo stesso Jaime Semprun, il libro è disponibile in traduzione italiana dal 2020 per i tipi della casa editrice dell’Ortica con il titolo Catastrofismo, amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Le citazioni del presente articolo sono state da me tradotte dal testo originale. Quanto agli autori, entrambi hanno preso parte al Maggio francese e sono stati vicini, per qualche anno, all’Internazionale Situazionista; hanno pubblicato studi di critica sociale, collaborando alla rivista dell’Encyclopédie des Nuisances, poi trasformata in casa editrice. René Riesel, allevatore di ovini, per la sua militanza anti-OGM ha subìto arresti ed un periodo di detenzione.

2 Pierre Souyri, La Dynamique du capitalisme au vingtième siècle, Payot, Paris, 1983. L’autore, di formazione marxista, è stato partigiano, militante comunista (uscito dal PCF nel 1944 su posizioni antistaliniste) e ha fatto parte del gruppo Socialisme ou barbarie.

3 Il titolo del saggio in questione gioca sul doppio significato del francese durable, durevole e sostenibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Jules Romains (1885-1972) – La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo.

Jules Romains 001

Salvatore Bravo

Mercato e malattia

I popoli non sono più costituiti da cittadini, ma sono potenziali malati, e quindi consumatori di farmaci. La nuova plebe deve brucare farmaci. In questo modo è sancita la dipendenza dal mercato gestito dalle multinazionali e nel contempo i “farmaco-dipendenti” continuano ad essere ossessionati dalla “salute” del corpo senza spirito: scrutano dunque i sintomi di ogni potenziale malattia, ne inseguono pervicacemente l’evoluzione e le manifestazioni apprezzabili, e ne vogliono prevenire farmacologicamente lo sviluppo. La distinzione tra malati e sani diviene tanto sottile da non essere più distinguibile. L’anti-umanesimo si radica, anche, nel mito della salute ad ogni costo, del corpo come feticcio da adorare e servire, mentre la vita interiore avvizzisce e la creatività è addomesticata con la fobia della malattia. L’atomocrazia si espande mediante la paura dell’altro, il quale è portatore di virus e batteri. Ogni politica decade e si cancella nel timore che l’altro sia il latore della morte.

La trasformazione del cittadino in paziente è il successo delle multinazionali del farmaco colluse con la politica, in un flusso incontenibile e vorticoso di denaro. Non solo hanno rinnegato il Giuramento di Ippocrate, seppellendolo nella strategia di marketing, ma hanno trasformato i popoli in plebi impaurite dalla malattia. I nuovi pazienti sono sollecitati ad allungare i giorni della propria vita affidandosi religiosamente a medici e luminari che spesso sono rappresentanti delle multinazionali, sono la truppa che assalta il mercato diffondendo timori, incutendo il terrore, ammalando i pazienti che dovrebbero guarire. Il mercato trasforma il farmaco in prodotto e il cittadino in consumatore: per arrivare a questo obiettivo deve diffondere l’inquietudine della malattia. La minaccia è introiettata nel consumatore, che si auto-percepisce come malato perenne in continua lotta contro le malattie. L’attenzione è orientata alla difesa della sola “nuda vita”, ogni movimento interiore scompare nella battaglia contro le tempeste delle potenziali malattie.



Il mercato del farmaco[1] diviene “luogo dei veleni”, si inventano malattie, si aumentano gli effetti delle stesse, si insegna ad osservare i segni del suo apparire per medicalizzare i popoli e porli sotto custodia dei potentati farmaceutici e dei suoi “generali”, ormai divi televisivi che dispensano nelle loro liturgie l’imperativo categorico della medicalizzazione della vita. Sono i nuovi sacerdoti che castigano i nuovi peccati: la cura di sé dev’essere orientata al corpo biologico, ogni deviazione è un peccato che si paga con la malattia e con la morte. La nuova obbedienza è generale, la nuova chiesa è la multinazionale del farmaco che dispensa farmaci come fossero sacramenti. Si inventano malattie per aumentare, con i “sacramenti”, gli introiti. La sindrome disforica premestruale ne è un esempio: è stata creata per vendere il “Sarafem”, le inchieste lo hanno dimostrato. Il Prozac stava scadendo per cui è stato riciclato dandogli una nuova veste con cui giustificare la sua reintroduzione nel mercato. L’ansia sociale, una volta timidezza, è una nuova patologia da curare con il Paxil. Chiunque in una società competitiva mostri sintomi di ansia sociale risulta malato: per normalizzarlo si utilizza il farmaco.

Il mercato è sempre alla ricerca di nuovi malati: si può ipotizzare che il nuovo malato su cui si sta puntando possa essere “il maschio” rappresentato nelle cronache come “patologico aggressore”, e dunque, da curare. La cornice sociale con le sue dinamiche non compare, la violenza in tal modo è spiegata facendo riferimento alla “natura patologica”. Le patologie sono strategia di marketing che trovano nella cultura dell’astratto il loro humus di formazione. Se la capacità dei popoli di contestualizzare declina, è inevitabile che siano disarmati dinanzi all’esercito di “graduati” delle multinazionali. Verità e menzogna si confondono, la platea dei veri ammalati è minima, ma per vendere il farmaco è necessario allargare la platea degli ammalati. Il bio-potere colluso con la politica diviene un corpo unico che avanza con i suoi cingolati e slogan contro i popoli. Se lo dice la scienza tutti tacciono, la scienza è rappresentata come imparziale, come la divinità mondana che con i suoi oracoli indica la strada per la salvezza dalla malattia. L’astratto ancora una volta sostituisce il concreto. La letteratura umanistica e critica sempre meno praticate ci consentono di capire il presente con i suoi pericoli.

 

Knock, ovvero il trionfo della medicina
L’opera teatrale Knock, ovvero il trionfo della medicina (Knock ou Le triomphe de la médecine) di Jules Romains scritta nel 1923, denuncia la medicina che si trasforma in un affare. Il dottor Knock usa il tamburino, oggi si utilizzano i mezzi mediatici per penetrare nella psiche ed indebolire le difese critiche. Lo scopo è lo stesso: favorire la sensazione che non ci si curi abbastanza. È il nuovo peccato:

 

«K Comprendete, amico mio, quello che io voglio innanzitutto, è che la gente si curi. Se volevo guadagnare era a Parigi che m’installavo o a New York.
T Ah! Avete messo il dito sulla piaga. Non ci si cura mai abbastanza. Non ci si vuole ascoltare, e ci si tratta troppo duramente. Quando si ha male ci si sforza. Tanto varrebbe essere degli animali.
K Noto che ragionate molto giustamente, amico mio».[2]

 

A scuola di medicina
La nuova medicina per imporsi deve allearsi con l’istruzione, deve diffondere il terrore dei germi, deve favorire un’igienica distanza. Il dottor Knock si allea col maestro, l’istruzione dev’essere assimilata al bio-potere, dev’essere asservita per allevare i futuri consumatori nella paura della malattia che si trasforma nel timore dell’altro. La socializzazione dev’essere inibita in nome del terrore batteriologico, in modo da assicurarsi un fiorente mercato nel presente e nel futuro:

 

«K Vediamo! Voi eravate in relazioni costanti col dott. Parpalaid, vero?
B Lo incontravo di tanto in tanto al caffè dell’Hotel. Ogni tanto facevamo una partita al biliardo.
K Non è di quelle relazioni che voglio parlare.
B Non ne avevamo altre.
K Ma … ma … come vi eravate ripartiti l’insegnamento popolare dell’igiene, l’opera di propaganda nelle famiglie … che so … i mille compiti che il medico e il maestro non possono che svolgere d’accordo!
B Non ci eravamo spartiti nulla di nulla.
K Cosa?? Avete preferito agire ciascuno isolatamente?
B È più semplice. Non ci abbiamo pensato né l’uno né l’altro. È la prima volta che si parla di questo a San Maurizio.
K (con tutti i segni di una grande sorpresa) Ah! … Se non lo sentissi dalla vostra bocca, vi assicuro che non ci crederei.
B Sono desolato di causarvi questa delusione, ma non potevo prendere io una decisione di tal genere, l’ammetterete, anche se ne avessi avuto l’idea, e anche se il lavoro della scuola mi avesse lasciato più tempo libero.
K Evidentemente! Voi aspettavate un appello che non è venuto». [3]

L’assimilazione opera con “le parole buone che celano cattive intenzioni”. Il maestro è osannato come “autorità morale”, ma è solo il servo del nuovo marketing. La nuova medicina penetra nelle istituzioni per trasformarle in allevamento per i futuri consumatori, facendo appello al timore più inquietante, ovvero alla paura di ammalarsi e morire. Il nuovo terrore scorre e circola in nome della vita:

 

«B Qui l’acqua è buona, siamo in montagna.
K Sanno almeno cos’è un microbo?
B Ne dubito molto! Qualcuno conosce la parola, ma devono immaginare che si tratti di una specie di mosca!
K (si alza) E’ spaventoso. Ascoltate, caro signor Bernard, non possiamo riparare, noi due, in otto giorni anni di … diciamo d’incuria. Ma bisogna fare qualcosa.
B Non mi rifiuto, temo solo di non potervi essere di molto aiuto.
K Signor Bernard, qualcuno che vi conosce bene, mi ha rivelato che Voi avete un grave difetto: la modestia. Siete il solo ad ignorare che qui Voi avete autorità morale ed una influenza personale non comuni. Mi dispiace di dovervelo dire ma nulla di serio si può fare qui senza di voi.
B Voi esagerate dottore.
K Certamente, io posso curare i miei malati senza di Voi. Ma la malattia chi mi aiuterà a combatterla? Chi istruirà questa povera gente sui pericoli che ogni secondo attentano il loro organismo? Chi insegnerà loro che non bisogna aspettare di essere morti per chiamare il medico?
B Sono molto negligenti, non lo nego.
K Cominciamo dall’inizio. Ho qui il materiale di molte conferenze divulgative, note molto complete, belle figure e una lanterna (antico strumento per proiettare le diapositive). Sistemerete tutto ciò come sapete fare. Tenete, per cominciare, una breve conferenza, tutta scritta, certamente molto gradevole, sulla febbre tifoide, le forme insospettabili che prende, i suoi numerosi veicoli: acqua, pane, latte, molluschi, verdure, insalata, polvere, fiato, ecc… le settimane e i mesi durante i quali cova senza tradirsi, gli accidenti mortali che provoca immediatamente, le complicazioni temibili che trascina in seguito; il tutto abbellito da graziose vedute: bacilli ingranditi in modo formidabile, dettagli di escrementi tifoidi, gangli infetti, perforazioni intestinali, e non in bianco e nero, ma a colori, rosa, marrone, giallo, bianco verdastro come potete vedere Voi stesso (si siede di nuovo)».[4]

 

Conferenze e seminari divengono luoghi dell’ammaestramento al mercato, sono occasione per inoculare la paura e guadagnare clienti in nome della difesa della vita.

 

In farmacia
La rete medicale-mercantile si allarga, la nuova medicina trova nei farmacisti gli alleati per l’affare. Knock invita il farmacista Mousquet ad essere parte del dispositivo, bisogna trasformare la popolazione in graduati della malattia, bisogna spillare da ciascuno denaro offrendogli in cambio il prodotto salute. La persona non dev’essere più tale, ma deve sentirsi un ammalato in modo che la rete medicale possa ridurlo a cliente dell’apparto medico-mercantile, nessuno deve sfuggire al dispositivo, ma tutti vi devono partecipare:

 

«K Ammalarsi … vecchia nozione che non regge più di fronte ai dati della scienza attuale. La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Sa cosa diceva Pasteur: “Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo”. Per parte mia io conosco solo gente più o meno affetta da malattie, più o meno numerose ad evoluzione più o meno rapida. Naturalmente se Voi andate a dir loro che stanno bene … non chiedono di meglio che credervi, ma Voi li ingannereste. Vostra sola scusa sarebbe che avete già troppi malati da curare per prendere di nuovi. Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … così come in un esercito ci sono i soldati, i graduati, gli ufficiali, i generali …
M In ogni caso è una gran bella teoria.
K Teoria profondamente moderna, signor Mousquet, riflettete, è parente molto prossima dell’ammirabile idea della nazione armata che fa la forza dei nostri stati.
M Voi siete un pensatore dottor Knock, e i materialisti avranno un bel sostenere il contrario, il pensiero guida il mondo.
K (si alza) Ascoltatemi! (Tutti due sono in piedi) Può essere che io sia presuntuoso. Forse mi aspettano amare disillusioni. Ma se, in un anno, giorno dopo giorno, Voi non avrete guadagnato i venticinquemila franchi netti che vi sono dovuti, se madame Mousquet non avrà le gonne, i cappelli e le calze che la sua condizione esige, vi autorizzo a venirmi a fare una scena qui e vi porgerò le guance perché possiate schiaffeggiarmi.
M Caro dottore, sarei un ingrato se non vi ringraziassi con effusione e un miserabile se non vi aiutassi con tutto il mio potere».[5]

 

Moda per ammalati
I nuovi poteri si alleano con i nuovi. Si viene a riprodurre una nuova configurazione, una nuova geometria. La signora in viola è una nobile decaduta, comprende la finalità del medico e subodora l’affare. Propone di usare il suo prestigio sociale per incoraggiare “la pubblica salute”, per vincere reticenze e timori, in cambio risolverà i suoi problemi economici lanciando camicie da notte per gli ammalati. L’affare si allarga, diventa tentacolare:

 

 «SV Ecco. Ho voluto dare l’esempio. Trovo che voi avete avuto una bella e nobile ispirazione. Ma conosco la mia gente. Ho pensato: “Non ne hanno l’abitudine, non ci andranno. E questo signore ci resterà male per la sua generosità”. E mi sono detta: “Se vedono che una signora Pons, signorina Lempoumas, non esita a inaugurare le consultazioni gratuite, non avranno più paura di presentarsi”, perché i miei anche minimi gesti vengono osservati e commentati. Il gioco è fatto. Ci sarà la fila fra poco qui fuori, caro dottore.
K Il vostro comportamento è molto lodevole signora. Vi ringrazio.
SV (si alza e fa come per ritirarsi) Sono felice, dottore, di aver fatto la vostra conoscenza. Resto a casa tutti i pomeriggi. Viene sempre qualcuno. Facciamo salotto attorno a una vecchia teiera Luigi XV che ho ereditato dai miei avi. Ci sarà sempre una tazza a parte per Voi (Knock si inchina, la signora in viola avanza verso la porta). Sapete che io sono veramente molto, molto tormentata dai miei affittuari e dai miei titoli. Passo delle notti senza dormire. E’ orribilmente stancante. Non conoscete, dottore, un segreto per far dormire?».[6]

 

Vecchia e nuova medicina
Il dottor Parpalaid simbolo della medicina della cura e non dell’affare vorrebbe riprendere il suo posto, ma il dottor Knock riesce a gabbarlo, ad incutere anche in lui il timore della malattia. La vecchia medicina è sconfitta. Al suo posto vi è l’immenso potere della nuova medicina penetrata in ogni gesto, parola, pensiero e comportamento. Il paesaggio è impregnato di medicina e di ammalati. Il mercato ha fagocitato il paese vivo. Al suo posto vi è un immenso affare, pazienti intimoriti dalla malattia e dalla morte e dunque manipolabili:

 

 

«K Perbacco! Guardate un po’ qua, dottor Parpalaid, certo conoscete la vista che si ha da questa finestra, tra una partita di biliardo e l’altra, a suo tempo, non avete potuto non vedere: là in fondo il monte Aligre che segna il confine del Comune. I paesi di Mesclat e di Treburn si intravedono a sinistra; e se, da questo lato le case di San Maurizio non facessero una specie di rigonfiamento, avremmo d’infilata tutti i cascinali della valle. Voi non avrete visto in ciò null’altro che quelle bellezze naturali di cui siete avido. È un paesaggio rude, a malapena umano, che contemplavate. Oggi ve lo mostro tutto impregnato di medicina, animato e percorso dal fuoco sotterraneo della nostra arte. La prima volta che mi sono piantato qui davanti, il giorno dopo del mio arrivo, non ero molto fiero, sentivo che la mia presenza non aveva gran peso, che questo vasto territorio esisteva indipendentemente da me e dai miei simili. Ma ora io sono a mio agio qui come un organista davanti al suo grande organo. In duecentocinquanta di queste case – non le vediamo tutte a causa del fogliame – ci sono duecentocinquanta camere dove qualcuno s’inchina alla medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo steso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso medico. La notte è ancora più bello, perché ci sono i lumi. E quasi tutte le luci sono mie. I non malati dormono nelle tenebre. Sono spariti. Ma i malati hanno tenuto la loro lampada accesa. La notte mi sbarazza di tutto quello che è rimasto ai margini della medicina, me ne nasconde il fastidio e la sfida. Il cantone lascia il posto ad una specie di firmamento del quale io sono il creatore continuo. E non vi dico delle campane. Pensate che per tutti loro, il primo compito delle campane è ricordare le mie prescrizioni dato che esse ne sono la voce. Pensate che tra qualche minuto suoneranno le dieci, che per tutti i miei malati le dieci sono la seconda misurazione della temperatura rettale, e che tra qualche istante, duecentocinquanta termometri penetreranno allo stesso tempo…». [7] Atto III

 

L’opera del 1923 è profetica. È stata rappresentata a teatro come in film. Ci parla ancora, è viva nella sua verità, e pone il problema fondamentale che si vuole rimuovere, ovvero il senso della medicina e dell’informazione. Al suo posto, oggi, in attesa che la domanda si ponga, imperano le sirene delle multinazionali e dei suoi gendarmi.

Salvatore Bravo

[1] Farmaco deriva dal greco φαρμακον, pharmakon, che vuol dire “rimedio, medicina”, ma anche “veleno”.

[2] Knock, ovvero il trionfo della medicina, Knock e il tamburino.

[3] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[4] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[5] Ibidem, Knock e il farmacista Mousquet.

[6] Ibidem, Knock e la signora in viola.

[7] Ibidem, Atto III.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Mario Vegetti (1937-2018) – L’idraulica platonica dei flussi di energia psichica contribuisce a chiarire il senso dell’elevarsi nella ricerca di contenuti veritativi: si tratta di chiudere un possibile canale per costringere questa energia a defluire verso scopi più alti, a beneficio dell’anima intera e non di una sola sua parte.

Vegetti Mario 016

 

Ἀλλὰ μὴν ὅτῳ γε εἰς ἕν τι αἱ ἐπιθυμίαι σφόδρα ῥέπουσιν, ἴσμεν που ὅτι εἰς τἆλλα τούτῳ ἀσθενέστεραι, ὥσπερ ῥεῦμα ἐκεῖσε ἀπωχετευμένον.

«Quando in una persona il desiderio è incanalato verso un solo obiettivo, gli altri desideri diretti ad altri obiettivi sono attenuati come se il loro flusso fosse stato deviato verso quell’unica parte».

Platone, Repubblica, VI, 485 d 7-9.

 

«Il recupero all’anima delle istanze del desiderio e della passione ne fa certo il teatro di un conflitto sempre presente fra centri motivazionali diversi. Ma, dal punto di vista di una politica dell’anima, questo comporta anche due decisivi vantaggi rispetto alla concezione tradizionale. Se desideri e passioni appartengono all’anima e non al corpo, essi risultano in qualche modo omogenei alla facoltà razionale, al principio d’ordine dell’anima, e sono quindi almeno potenzialmente educabili, governabili, persino utilizzabili per le finalità superiori; la parte irrazionale dell’anima non è tanto impenetrabile ed ostile al governo della ragione quanto lo era una corporeità intrinsecamente malvagia» (p. 130).

«Le parti dell’anima (ognuna delle quali ha i suoi desideri specifici) vanno […] concepite come possibili canalizzazioni di un’unica fonte di energia psichica, che proviene dal suo fondo irrazionale, e che può dar luogo a diverse spinte motivazionali a seconda della direzione in cui fluisce» (p. 132).

«L’idraulica platonica dei flussi di energia psichica contribuisce a chiarirne il senso: si tratta di chiudere un possibile canale per costringere questa energia a defluire verso scopi più alti, a beneficio dell’anima intera e non di una sola sua parte» (pp. 134-135).

Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1996.


Diego Lanza-Mario Vegetti 2021

Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise

Mario Vegetti / Diego Lanza

Gherardo Ugolini, Giusto Picone

In ricordo di una amicizia filosofica

ISBN 978–88–7588-282-2, 2021, pp. 120,  Euro 13
In copertina: Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, Parigi, Museo del Louvre, 1518-1520 circa.

indicepresentazioneautoresintesi


Diego Lanza e Mario Vegetti sono stati due importanti accademici, ma non solo. Sono stati due amici, e questo aspetto ha influito molto sul loro contributo scientifico, che si è reciprocamente arricchito dell’apporto che ciascuno ha fornito all’altro. Solo una profonda amicizia consente una proficua dialettica, e la dialettica costituisce il lievito di ogni dinamica culturale. Lanza e Vegetti, principalmente due storici del pensiero antico, sono stati anche – come ha rilevato Silvia Gastaldi con riferimento soprattutto a Vegetti – due filosofi. Hanno cioè saputo rapportarsi alla realtà non solo contribuendo significativamente ad allargare il proprio ambito specialistico, ma assumendo la realtà anche come un intero complesso, in cui la valutazione dell’elemento sociale e politico risulta imprescindibile, come ha rilevato Fulvia de Luise con riferimento soprattutto all’interpretazione platonica della Repubblica di Vegetti. Il loro pensiero è di una tale ricchezza che non può essere circoscritto nell’ambiente accademico. L’elemento umano, comunitario – come emerge, soprattutto per Lanza, dai ricordi qui presentati da Giusto Picone e da Gherardo Ugolini – che ha unito questi due studiosi per oltre sessanta anni, risulta una chiave importante per comprendere il loro pensiero.


Diego Lanza (1937-2018), grecista e accademico dei Lincei, titolare della cattedra di Letteratura greca all’Università di Pavia a partire dal 1968. Ha curato edizioni con commento di Anassagora e Aristotele e ha contribuito a opere collettive come Lo spazio letterario della Grecia antica (1992-1996) e I Greci. Storia, cultura, arte, società (1996-2002). È autore di opere e saggi di grande respiro storico-letterario. Nel 2013 esce Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Ottocento e Novecento, e nel 2017 Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento ad oggi. Nel 2018 Bompiani ha pubblicato la nuova edizione delle Opere biologiche di Aristotele a cura di D. Lanza e M. Vegetti, con il titolo Aristotele, La vita. Testo greco a fronte. Vedono nuova luce La disciplina dell’emozione; Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune; Il tiranno e il suo pubblico e, postumo, esce Il gatto di piazza Wagner.

Mario Vegetti (1937-2018), professore emerito di Storia della filosofia antica presso l’Università di Pavia, è stato membro dell’Istituto Lombardo – Accademia di scienze e lettere. Ha tradotto e commentato opere di Ippocrate (1965) e Galeno (1978) e gli scritti biologici di Aristotele (1971). Tra le sue opere più importanti vanno ricordate: Il coltello e lo stilo (1979), Tra Edipo e Euclide (1983), L’etica degli antichi (1989), Quindici lezioni su Platone (2003), Dialoghi con gli antichi (2007), «Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento (2009), Chi comanda nella città. I Greci e il potere (2017). Ha curato la traduzione e il commento della Repubblica di Platone in sette volumi (Bibliopolis, Napoli 1998-2007), da cui è tratta l’edizione BUR con testo greco a fronte (2007) .


Sommario

Nota editoriale
Silvia Gastaldi : Mario Vegetti: lo studioso e il maestro
Fulvia de Luise : Amicus Plato
 
Mario Vegetti : La filosofia e la città: processi e assoluzioni
Diego Lanza : Un’insolente familiarità
 
Gherardo Ugolini : Ricordo di Diego Lanza
Giusto Picone : Con Diego Lanza a Siracusa

Silvia Gastaldi, professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata), è stata presidente della Società italiana di Storia della Filosofia antica (SISFA) nel triennio 2016-2018. È membro del comitato scientifico della Collane “Symbolon. Studi e testi di Filosofia antica e medievale” e della rivista “Lexis”. Fa anche parte del consiglio direttivo della rivista “Il confronto letterario”. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca tra il V e il IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla “Repubblica” e sulle “Leggi” di Platone, sulle “Etiche” e sulla “Politica” di Aristotele. Fa parte del “Collegium Politicum”, un gruppo di ricerca internazionale finalizzato allo studio delle teorie politiche antiche e della loro tradizione. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Discorso della città e discorso della scuola. Ricerche sulla “Retorica” di Aristotele (La Nuova Italia 1981); Storia del pensiero politico antico (Laterza, 1998); Bios Hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis 2003); Introduzione alla storia del pensiero politico antico (Laterza 2008); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci 2014).

 

Fulvia de Luise insegna Storia della Filosofia Antica presso in Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata). Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia, contribuendo con numerosi saggi alla produzione di un commentario dell’opera (pubblicato in sette volumi, tra il 1998 e il 2007, per i tipi della Bibliopolis, Napoli). Tra il 1989 e il 2001 ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate (clicca qui per le pubblicazioni di Fulvia de Luise).

 

Gherardo Ugolini, già docente all’Università di Heidelberg e all’Università Humboldt di Berlino, insegna Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino all’università di Verona (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). I suoi interessi scientifici riguardano in modo particolare la tragedia greca antica e le sue interpretazioni, il giovane Nietzsche studioso della cultura greca, la fortuna dell’antico nella tradizione letteraria moderna, la storia degli studi classici. È membro della redazione di Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies. Tra le sue pubblicazioni: Friedrich Nietzsche, il mito di Edipo e la polemica con Wilamowitz (1991); Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio (1991); Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica (2000); Guida alla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche (2007). Nel 2017 ha vinto il Premio Nazionale di Editoria Universitaria con il libro Storia della filologia classica (Carocci, 2016), curato e scritto insieme a Diego Lanza.

 

Giusto Picone ha insegnato Letteratura Latina nell’Università di Palermo dal 1977 al 2017 (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). Ha pubblicato numerosi saggi sulle tragedie di Seneca, sulla storiografia latina (Sallustio, Giulio Ossequente), sull’epica (Virgilio, Lucano), sulle orazioni di Cicerone, sulla poesia d’età augustea, sulla tematica dell’esilio, sulle opere filosofiche di Cicerone e di Seneca, sul Dialogus de oratoribus, sulle problematiche relative alla didattica delle culture classiche. È direttore di Dionysus ex machina, rivista on line di studi sul teatro antico e di ClassicoContemporaneo, rivista on line di studi su antichità classica e cultura contemporanea edita in collaborazione con la Consulta Universitaria di Studi Latini; dirige le collane scientifiche Hermes e Letteratura classica (Palumbo editore). È referente dell’Università di Palermo nel Centro Internazionale di Studi e Ricerca sul Teatro Antico “Progetto Segesta”, del quale è coordinatore scientifico; è inoltre coordinatore scientifico del Centro Interdipartimentale di Ricerca dell’Università di Palermo “Migrare. Mobilità, differenze, dialogo, diritti”.


Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.
Diego Lanza (1937-2018) – La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti
Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.
Diego Lanza (1937-2018) – Euripide porta sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita di ogni giorno.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.
Diego Lanza (1937-2018) – Il libro di A. Meillet ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche. Il rapporto tra lingua e società si definisce con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico.
Diego Lanza (1937-2018) – «Il tiranno e il suo pubblico» è il tentativo di definire la genesi, lo sviluppo e la fortuna di una figura ideologica, che sempre meglio si precisa nella letteratura ateniese tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C.


Casa della cultura di Milano – «Per Mario Vegetti» * Scritti di: Ferruccio Capelli, Michelangelo Bovero, Eva Cantarella, Fulvia de Luise, Franco Ferrari, Silvia Gastaldi, Alberto Maffi, Fulvio Papi, Valentina Pazé, Federico Zuolo.

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».
Mario Vegetti (1937-2018) – Mario Vegetti a due anni dalla morte ci lascia alcuni messaggi. Tenere aperto lo spazio dell’incertezza. Resistere al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero. Resistere alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”. Restare fedeli, insomma.
Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
Mario Vegetti (1937-2018) – È attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. La parte essenziale dell’uomo è l’anima. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica.
Mario Vegetti (1937-2018) – La felicità ha bisogno di durata e di costanza ed esige una prassi tenacemente virtuosa.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il dominio e la legge. La «Costituzione degli Ateniesi» è un testo violento, sia nel suo apparato teorico sia nel suo atteggiamento di fronte al sociale.
Mario Vegetti (1937-2018) – Ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca.


Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».
Mario Vegetti (1937-2018) – Mario Vegetti a due anni dalla morte ci lascia alcuni messaggi. Tenere aperto lo spazio dell’incertezza. Resistere al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero. Resistere alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”. Restare fedeli, insomma.
  1. Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
Mario Vegetti (1937-2018) – È attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. La parte essenziale dell’uomo è l’anima. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica.
Mario Vegetti (1937-2018) – La felicità ha bisogno di durata e di costanza ed esige una prassi tenacemente virtuosa.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il dominio e la legge. La «Costituzione degli Ateniesi» è un testo violento, sia nel suo apparato teorico sia nel suo atteggiamento di fronte al sociale.
Mario Vegetti (1937-2018) – Ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca.
Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise, Gherardo Ugolini, Giusto Picone – ** MARIO VEGETTI e DIEGO LANZA **, In ricordo di una amicizia filosofica.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Diego Lanza-Mario Vegetti 2021

Silvia Gastaldi, Fulvia de Luise

Mario Vegetti / Diego Lanza

Gherardo Ugolini, Giusto Picone

In ricordo di una amicizia filosofica

ISBN 978–88–7588-282-2, 2021, pp. 120,  Euro 13
In copertina: Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, Parigi, Museo del Louvre, 1518-1520 circa.

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Diego Lanza e Mario Vegetti sono stati due importanti accademici, ma non solo. Sono stati due amici, e questo aspetto ha influito molto sul loro contributo scientifico, che si è reciprocamente arricchito dell’apporto che ciascuno ha fornito all’altro. Solo una profonda amicizia consente una proficua dialettica, e la dialettica costituisce il lievito di ogni dinamica culturale. Lanza e Vegetti, principalmente due storici del pensiero antico, sono stati anche – come ha rilevato Silvia Gastaldi con riferimento soprattutto a Vegetti – due filosofi. Hanno cioè saputo rapportarsi alla realtà non solo contribuendo significativamente ad allargare il proprio ambito specialistico, ma assumendo la realtà anche come un intero complesso, in cui la valutazione dell’elemento sociale e politico risulta imprescindibile, come ha rilevato Fulvia de Luise con riferimento soprattutto all’interpretazione platonica della Repubblica di Vegetti. Il loro pensiero è di una tale ricchezza che non può essere circoscritto nell’ambiente accademico. L’elemento umano, comunitario – come emerge, soprattutto per Lanza, dai ricordi qui presentati da Giusto Picone e da Gherardo Ugolini – che ha unito questi due studiosi per oltre sessanta anni, risulta una chiave importante per comprendere il loro pensiero.


Diego Lanza (1937-2018), grecista e accademico dei Lincei, titolare della cattedra di Letteratura greca all’Università di Pavia a partire dal 1968. Ha curato edizioni con commento di Anassagora e Aristotele e ha contribuito a opere collettive come Lo spazio letterario della Grecia antica (1992-1996) e I Greci. Storia, cultura, arte, società (1996-2002). È autore di opere e saggi di grande respiro storico-letterario. Nel 2013 esce Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Ottocento e Novecento, e nel 2017 Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento ad oggi. Nel 2018 Bompiani ha pubblicato la nuova edizione delle Opere biologiche di Aristotele a cura di D. Lanza e M. Vegetti, con il titolo Aristotele, La vita. Testo greco a fronte. Vedono nuova luce La disciplina dell’emozione; Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune; Il tiranno e il suo pubblico e, postumo, esce Il gatto di piazza Wagner.

Mario Vegetti (1937-2018), professore emerito di Storia della filosofia antica presso l’Università di Pavia, è stato membro dell’Istituto Lombardo – Accademia di scienze e lettere. Ha tradotto e commentato opere di Ippocrate (1965) e Galeno (1978) e gli scritti biologici di Aristotele (1971). Tra le sue opere più importanti vanno ricordate: Il coltello e lo stilo (1979), Tra Edipo e Euclide (1983), L’etica degli antichi (1989), Quindici lezioni su Platone (2003), Dialoghi con gli antichi (2007), «Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento (2009), Chi comanda nella città. I Greci e il potere (2017). Ha curato la traduzione e il commento della Repubblica di Platone in sette volumi (Bibliopolis, Napoli 1998-2007), da cui è tratta l’edizione BUR con testo greco a fronte (2007) .


Sommario

Nota editoriale
Silvia Gastaldi : Mario Vegetti: lo studioso e il maestro
Fulvia de Luise : Amicus Plato
 
Mario Vegetti : La filosofia e la città: processi e assoluzioni
Diego Lanza : Un’insolente familiarità
 
Gherardo Ugolini : Ricordo di Diego Lanza
Giusto Picone : Con Diego Lanza a Siracusa

Silvia Gastaldi, professore ordinario di Storia della Filosofia antica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata), è stata presidente della Società italiana di Storia della Filosofia antica (SISFA) nel triennio 2016-2018. È membro del comitato scientifico della Collane “Symbolon. Studi e testi di Filosofia antica e medievale” e della rivista “Lexis”. Fa anche parte del consiglio direttivo della rivista “Il confronto letterario”. Le sue ricerche riguardano soprattutto la riflessione etico-politica greca tra il V e il IV secolo a. C. Ha pubblicato numerosi studi sulla “Repubblica” e sulle “Leggi” di Platone, sulle “Etiche” e sulla “Politica” di Aristotele. Fa parte del “Collegium Politicum”, un gruppo di ricerca internazionale finalizzato allo studio delle teorie politiche antiche e della loro tradizione. Tra le sue principali pubblicazioni si collocano i volumi: Discorso della città e discorso della scuola. Ricerche sulla “Retorica” di Aristotele (La Nuova Italia 1981); Storia del pensiero politico antico (Laterza, 1998); Bios Hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis 2003); Introduzione alla storia del pensiero politico antico (Laterza 2008); Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Carocci 2014).

 

Fulvia de Luise insegna Storia della Filosofia Antica presso in Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata). Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia, contribuendo con numerosi saggi alla produzione di un commentario dell’opera (pubblicato in sette volumi, tra il 1998 e il 2007, per i tipi della Bibliopolis, Napoli). Tra il 1989 e il 2001 ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate (clicca qui per le pubblicazioni di Fulvia de Luise).

 

Gherardo Ugolini, già docente all’Università di Heidelberg e all’Università Humboldt di Berlino, insegna Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino all’università di Verona (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). I suoi interessi scientifici riguardano in modo particolare la tragedia greca antica e le sue interpretazioni, il giovane Nietzsche studioso della cultura greca, la fortuna dell’antico nella tradizione letteraria moderna, la storia degli studi classici. È membro della redazione di Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies. Tra le sue pubblicazioni: Friedrich Nietzsche, il mito di Edipo e la polemica con Wilamowitz (1991); Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio (1991); Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica (2000); Guida alla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche (2007). Nel 2017 ha vinto il Premio Nazionale di Editoria Universitaria con il libro Storia della filologia classica (Carocci, 2016), curato e scritto insieme a Diego Lanza.

 

Giusto Picone ha insegnato Letteratura Latina nell’Università di Palermo dal 1977 al 2017 (clicca qui per la pagina dell’Università a lui dedicata). Ha pubblicato numerosi saggi sulle tragedie di Seneca, sulla storiografia latina (Sallustio, Giulio Ossequente), sull’epica (Virgilio, Lucano), sulle orazioni di Cicerone, sulla poesia d’età augustea, sulla tematica dell’esilio, sulle opere filosofiche di Cicerone e di Seneca, sul Dialogus de oratoribus, sulle problematiche relative alla didattica delle culture classiche. È direttore di Dionysus ex machina, rivista on line di studi sul teatro antico e di ClassicoContemporaneo, rivista on line di studi su antichità classica e cultura contemporanea edita in collaborazione con la Consulta Universitaria di Studi Latini; dirige le collane scientifiche Hermes e Letteratura classica (Palumbo editore). È referente dell’Università di Palermo nel Centro Internazionale di Studi e Ricerca sul Teatro Antico “Progetto Segesta”, del quale è coordinatore scientifico; è inoltre coordinatore scientifico del Centro Interdipartimentale di Ricerca dell’Università di Palermo “Migrare. Mobilità, differenze, dialogo, diritti”.


Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.
Diego Lanza (1937-2018) – La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti
Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.
Diego Lanza (1937-2018) – Euripide porta sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita di ogni giorno.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.
Diego Lanza (1937-2018) – Il libro di A. Meillet ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche. Il rapporto tra lingua e società si definisce con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico.
Diego Lanza (1937-2018) – «Il tiranno e il suo pubblico» è il tentativo di definire la genesi, lo sviluppo e la fortuna di una figura ideologica, che sempre meglio si precisa nella letteratura ateniese tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C.


Casa della cultura di Milano – «Per Mario Vegetti» * Scritti di: Ferruccio Capelli, Michelangelo Bovero, Eva Cantarella, Fulvia de Luise, Franco Ferrari, Silvia Gastaldi, Alberto Maffi, Fulvio Papi, Valentina Pazé, Federico Zuolo.

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».
Mario Vegetti (1937-2018) – Mario Vegetti a due anni dalla morte ci lascia alcuni messaggi. Tenere aperto lo spazio dell’incertezza. Resistere al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero. Resistere alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”. Restare fedeli, insomma.
Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
Mario Vegetti (1937-2018) – È attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. La parte essenziale dell’uomo è l’anima. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica.
Mario Vegetti (1937-2018) – La felicità ha bisogno di durata e di costanza ed esige una prassi tenacemente virtuosa.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il dominio e la legge. La «Costituzione degli Ateniesi» è un testo violento, sia nel suo apparato teorico sia nel suo atteggiamento di fronte al sociale.
Mario Vegetti (1937-2018) – Ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Simone Lanza – Le nuove tecnologie digitali stanno privando infanzia e adolescenza della possibilità di sviluppare memoria, senso critico, capacità cognitive. La realtà virtuale non è l’opposto della realtà, è la dimensione peggiore della realtà odierna: questo libro è dedicato a chi creda che abbia ancora senso sollecitare tutta la comunità educante a perdere tempo per educare.

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Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni

Simone Lanza, Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale. Prefazone di Serge Latouche, Editore Writeup, 2020, pp. 170.


Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.


 

Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:

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Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

Simone Lanza

Perdere tempo per educare

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

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Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

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Elogio dell’educazione lenta

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Slow school. Pedagogia del quotidiano

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Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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