Giovanni Sollima – La musica, il violoncello, è senza frontiere. Il canto popolare è una musica che nasce viaggiando, è un linguaggio che si sviluppa nel tempo ma che mantiene un’identità forte: non c’è un autore ma ce ne sono milioni. «Violoncelles, vibrez!».

Giovanni Sollima 01

«Seguire il canto popolare non vuol dire sentire solo il canto in se stesso, ma una traccia, una linea melodica. Non è nemmeno una ricerca, ma un fatto spontaneo. In pratica è una musica che nasce viaggiando: quando vado in giro per lavoro cerco i suoni del luogo piuttosto che un museo o il cibo tipico. I canti popolari che imparo sono quelli che a loro volta sono imparati dagli abitanti di quel luogo: non c’è un autore ma ce ne sono milioni. E’ un linguaggio che si sviluppa nel tempo ma che mantiene un’identità forte. Da siciliano inoltre ho viaggiato tantissimo pur rimanendo della mia isola, perché attingevo tutte le culture. Tutto questo per dire che la natura ha a vedere con i luoghi e l’attività umana».

Giovanni Sollima, Il violoncello è senza frontiere.


“Violoncelles, vibrez!” di Giovanni Sollima


Giovanni Sollima, Dal canto popolare alla musica colta

Giovanni Sollima è un vero virtuoso del violoncello. Suonare  per lui non è un fine, ma un mezzo per comunicare con il mondo. È un compositore fuori dal comune, che grazie all’empatia che instaura con lo strumento e con le sue emozioni e sensazioni,  comunica attraverso una musica unica nel suo genere, dai ritmi mediterranei, con una vena melodica tipicamente italiana, ma che nel contempo riesce a raccogliere tutte le epoche, dal barocco al “metal”. Scrive soprattutto per il violoncello e contribuisce in modo determinante alla creazione continua di nuovo repertorio per il suo strumento. Il suo è un pubblico variegato e trasversale: dagli estimatori di musica colta ai giovani “metallari” e appassionati di rock, Giovanni Sollima conquista tutti.
Nasce a Palermo  da una famiglia di musicisti. Studia violoncello con Giovanni Perriera e Antonio Janigro e composizione con il padre Eliodoro Sollima e Milko Kelemen. Fin da giovanissimo collabora con musicisti quali Claudio Abbado, Giuseppe Sinopoli, Jörg Demus, Martha Argerich, Riccardo Muti, Yuri Bashmet, Katia e Marielle Labèque, Ruggero Raimondi, Bruno Canino, DJ Scanner, Victoria Mullova, Patti Smith, Philip Glass e Yo-Yo Ma.
La sua attività, in veste di solista con orchestra e con diversi ensemble (tra i quali la Giovanni Sollima Band, da lui fondata a New York nel 1997), si dispiega fra sedi ufficiali ed ambiti alternativi: Brooklyn Academy of Music, Alice Tully Hall, Knitting Factory e Carnegie Hall (New York), Wigmore Hall e Queen Elizabeth Hall (Londra), Salle Gaveau (Parigi), Accademia di Santa Cecilia a Roma , Teatro San Carlo (Napoli), Kunstfest (Weimar), Teatro Massimo di Palermo, Teatro alla Scala (Milano), International Music Festival di Istanbul, Cello Biennale (Amsterdam), Summer Festival di Tokyo, Biennale di Venezia, Ravenna Festival, “I Suoni delle Dolomiti”, Ravello Festival, Expo 2010 (Shanghai), Concertgebouw ad Amsterdam.

Per la danza  collabora, tra gli altri, con Karole Armitage e Carolyn Carlson,  per il teatro  con Bob Wilson, Alessandro Baricco e Peter Stein e per il cinema con Marco Tullio Giordana, Peter Greenaway, John Turturro e Lasse Gjertsen (DayDream, 2007).
Insieme al compositore-violoncellista Enrico Melozzi, ha dato vita al progetto dei 100 violoncelli, nato nel 2012 all’interno del Teatro Valle Occupato. Tra i CD di Giovanni per SONY  i CD “Works”, “We Were Trees”, per la Glossa “Neapolitain Concertos” in collaborazione con I Turchini di Antonio Florio, disco che raccoglie 3 concerti barocchi inediti del ‘700 napoletano e un nuovo brano di Giovanni “Fecit Neap” e “Caravaggio” per l’Egea.
Giovanni Sollima insegna presso l’Accademia di Santa Cecilia a Roma dove è anche accademico effettivo e alla Fondazione Romanini di Brescia. Suona un violoncello Francesco Ruggeri fatto a Cremona nel 1679.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Parmenide-Platone-Franco Toscani
Franco Toscani

L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Che cos’è la filosofia se non l’amore tenace e ostinato per il “vero come intero” e per la vita buona?
La ratio strumentale-calcolante oggi dominante considera però la filosofia un sapere inutile e tende sistematicamente a sostituirla con la mera “metodologia della ragione” e col sapere frammentario delle varie scienze umano-sociali o socio-psico-pedagogiche. Non c’è spazio per la genuina tensione veritativa della filosofia, perché questo mondo rovesciato e a testa in giù non ne ha bisogno, anzi è infastidito da essa.
Attraverso un lavoro lungo e faticoso, un’indagine libera e aperta, la filosofia è però ciò che consente di incamminarci – con un «immenso oceano di pensieri» (τοσοῦτον πέλαγος λόγων, come dice Platone nel Parmenide, 137 a)[1] – lungo i sentieri della verità, senza poterla possedere, ma avvertendone in noi la grandezza, il respiro, la nobiltà. In qualche modo, con tutti i nostri limiti e contraddizioni, possiamo sperimentare, vivere – non solo con le idee, ma anche con le azioni, i gesti, i sentimenti, gli affetti, i rapporti, le situazioni e gli eventi della vita quotidiana – un po’ del profumo, dell’aria fresca della verità.
Averne almeno il sentore, sentirla vicina e intima, amarla, custodirla, nella misura assegnata ai mortali.


[1] Platone, Parmenide, 137 a, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2004, pp. 240-241. La traduzione di quest’espressione platonica proposta da Ferrari è per la verità la seguente, altrettanto valida: “un così vasto mare di ragionamenti”. Noi le preferiamo però quella proposta da Enzo Paci nel suo saggio Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone, Principato, Messina-Milano 1938, p.110; libro ristampato (con una Introduzione di C. Sini) presso Bompiani, Milano 1988 (cfr. p. 79). Il saggio paciano del 1938 tentò davvero l’avventura di attraversare l’ “immenso oceano di pensieri” non soltanto del Parmenide, ma dell’intera opera platonica.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-
Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».
Franco Toscani – Umanità e società nel tempo della pandemia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Edoarda Masi (1927-2011) – Lu Xun, classico solitario. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica.

Edoarda Masi, Lu Xun

La sfortuna di uno scrittore non è tanto essere attaccato o ignorato mentre è in vita. Ciò che è veramente tragico è se, una volta morto, le sue parole e azioni sono dimenticate e buffoni pretendono di essere suoi amici e dicono questo e quello per diventare famosi o arricchirsi, servendosi di un cadavere come strumento per ottenere notorietà e profitto.

Lu Xun, 1934

***

Il consenso massmediatico ai successi della Cina nella competizione economica internazionale e nella velocissima e superficiale imitazione di usi e costumi europei-americani-giapponesi ignora la realtà autentica di quel paese, la sua civiltà, la sua storia lontana e recente. Trascura le strade maestre della conoscenza, come la lettura dei grandi saggisti, primo fra tutti Lu Xun. Personaggio a un tempo centrale e solitario. Lu Xun oggi è un classico, incontestabilmente il più grande scrittore cinese del Novecento e fra i maggiori della saggistica mondiale. Eppure fu attaccato per anni da ogni parte, in vita, fino a quando la sua figura si impose al pubblico in misura tale da rendere sconsigliabili gli attacchi, come pure la persecuzione politica aperta. Ma rimane profonda l’ostilità in molti settori intellettuali, e periodicamente riemerge.

Il suo primo racconto, Il diario di un pazzo, fu accolto come una svolta storica nelle lettere cinesi. La novità non consisteva nel fatto che fosse scritto in volgare: gran parte della narrativa, inclusi alcuni dei massimi capolavori, era stata scritta in lingua parlata. E non sarebbe stato una novità neppure il carattere eterodosso, la sua opposizione alla morale e ai principi tradizionali e ufficiali: le più grandi opere della letteratura cinese sono opere di opposizione più o meno velata. Ma qui non si trattava di eterodossia all’interno di un contesto ma di rovesciamento: l’intera civiltà cinese era messa sotto accusa: «quattromila anni di cannibalismo». L’espressione «mangiatori d’uomini» (cannibali) sarebbe divenuta in breve proverbiale, ed è impiegata ancora oggi. Quanto alla «via dei re» – il buon governo – non è cosa diversa dalla «via dei tiranni». Se lo scandalo non fu poi così grande, tranne che presso i conservatori, è perché le condizioni di una rivoluzione formidabile erano già mature e Lu Xun dava voce a quello che molti già sentivano e pensavano. La gerarchia è il dato sociale fondamentale.

«In cielo ci sono dieci soli, fra gli uomini ci sono dieci classi. Gli inferiori servono i superiori, i superiori obbediscono agli spiriti immortali. Così i principi hanno sottoposti i duchi, i duchi i grandi dignitari, i grandi dignitari i gentiluomini, i gentiluomini i funzionari medi, i funzionari medi i funzionari di grado più basso, i funzionari di grado più basso gli impiegati, gli impiegati i servi, i servi i servi di infimo grado […]. Però per i servi di infimo grado non è assai penoso non aver sottoposti? Non c’è da preoccuparsi: ci sono, ancor più in basso, le mogli, ancor più deboli, i figli. E anche per i figli c’è speranza, cresceranno […]. A ciascuno tocca il suo […]. Questa civiltà non solo inebria gli stranieri ma ha già inebriato tutti quanti i cinesi, fino a farli sorridere».

Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, che rivendicano vuote glorie e peculiarità nazionali e superiorità morale. Con strazio senza perdono si denuda nell’alienazione estrema di personaggi come Ah Q o Kong Yiji. Attacca i funzionari delle classi dirigenti vecchie e nuove e in formazione, «rinviando il fair play» e guardando in faccia senza rimuoverla la condizione propria di abitante della periferia. Svestito l’abito della civiltà centrale offesa, è realmente cosmopolita perché colonizzato, nella miseria, fra i colonizzati del mondo. Anche i letterati occidentalizzanti e i sostenitori della «letteratura rivoluzionaria» furono oggetto della polemica e dell’ironia di Lu Xun. «Figli ribelli di famiglie

decadute»: i membri della Ozuangzao she (la «Società creazione») in particolare, dove decadentismo e lotta politica, romanticismo e rivoluzione, Nietzsche e surrealismo si mescolavano in un unico zibaldone, nutrimento del ribellismo di un ceto medio nascente. Erano gli stessi che attaccavano Lu Xun per i vizi di piccolo borghese, per la debolezza sentimentale e l’atteggiamento di spettatore alla finestra (anzi, con lo sguardo un po’ annebbiato, da una finestra d’osteria).

È compito degli intellettuali evitare la demagogia e aiutare il popolo a liberarsi dall’ignoranza e dai pregiudizi, che gli vengono dalla inferiorità anche culturale imposta dalle classi dominanti. «Gli studiosi […] spesso credono che espressioni relativamente nuove e difficili possano capirle loro ma non le masse e che quindi per il bene di queste sia necessario sbarazzarsene: per essi, più si è rozzi nel parlare e nello scrivere, meglio è. Se questa opinione si sviluppa, senza accorgersene finiranno per diventare una nuova corrente sostenitrice delle peculiarità nazionali. […] E arrivano, per “adeguarsi” alle masse, a deliberatamente impiegare espressioni volgari per guadagnarne il consenso […]».

Perfino la possibilità di comunicare per mezzo di una lingua comune resterà sterile privilegio del letterato, finché non si estenderà a tutti: è necessaria, per questo, la rivoluzione politica. Ma a cominciare dagli anni successivi alla fondazione della Repubblica Lu Xun è consapevole anche dell’insufficienza della politica. Prima che la liberazione maturi, il rinnovamento ancora in embrione tornerà a imputridire, riemergeranno le strutture del vecchio ordine, si riaffermerà la morale di colpevolizzazione degli individui e di invito al sacrificio, a garantire lo stato di oppressione del popolo. Alla necessità dell’azione politica e alla sua inadeguatezza fanno riscontro il significato peculiare e, ad un tempo, l’insufficienza della letteratura come strumento di rivoluzione. E l’insufficienza anche dei “lumi” che il letterato può trasmettere; più e più volte la realtà delude le speranze di mutamento. Lu Xun è fra gli scrittori che fin dall’inizio hanno avuto chiaro questo aspetto tragico del XX secolo, e per esso hanno visto cancellato o irriso il senso delle proprie parole.

Dal 1927 fino alla morte vive a Shanghai del lavoro di scrittore. Come decano partecipa alla fondazione della Lega degli scrittori di sinistra. Sembra che in questa fosse rispettato di più e contasse di fatto meno dei più giovani attivisti e organizzatori. Nell’indirizzo ad essi rivolto nel 1930 individua con una chiarezza precorritrice i fenomeni di integrazione della sinistra nel sistema dominante. In realtà – come risulta anche dall’epistolario nei primi anni Trenta – egli ha una coscienza lucida sia della propria condizione contraddittoria nel rapporto con la politica, sia della incompatibilità fra rivoluzione e attività auto-conservatrice degli apparati. Ormai è in corso la rivoluzione, la guerra civile nelle campagne e la lotta clandestina nella città. Lu Xun sa che il discorso letterario è un’allegoria. Allegorie sono perfino la professione di scrittore e le organizzazioni di scrittori. I giovani “scrittori di sinistra” sono in realtà militanti comunisti che svolgono attività politica clandestina più che attività letteraria. Vengono uccisi prima di raggiungere l’età in cui generalmente si è abbastanza maturi per diventare veri scrittori – qualche loro poesia ha la bellezza di un grido o di un lamento. La Lega è uno strumento del partito comunista per organizzare non tanto gli scrittori quanto la lotta politica. Se ne occupa, clandestinamente, Qu Qiubai, che è stato segretario del Pcc. Lu Xun collabora con lui, lo ospita nella sua casa. Durante le repressioni del Guomindang nel 1930-31 è ricercato dalla polizia ed è costretto a fuggire con la famiglia e a nascondersi. Sono vicende che rientrano nella “normalità”, coperte dalla normalità della vita quotidiana e dell’attività di scrittore. No c’è più bisogno né possibilità di confondere e surrogare la rivoluzione con la letteratura rivoluzionaria. Con l’invasione giapponese e la guerra di resistenza, la guerra civile è formalmente sospesa, il partito nazionalista e il partito comunista promuovono nel 1936 il fronte unito – in obbedienza, in Cina come in Europa, alle direttive dell’Internazionale comunista.

Nel periodo iniziale il mondo della cultura ebbe un ruolo rilevante nella sua formazione. Nella contingenza di un’apparente uscita dal settarismo da parte dei comunisti, di una liberalizzazione e apertura a tutte le correnti, si accentuava la pretesa delle dirigenze politiche di imporre le proprie direttive alla letteratura, in particolare definendone le tematiche. Da queste infatti la lotta di classe doveva essere esclusa, o dovevano esserne smussati i termini, per porre al centro l’antifascismo e la difesa nazionale. In Cina, come in Europa, la protesta contro la svolta in questi termini venne da grandi scrittori comunisti di spirito non servile (in Europa, in primo luogo da Bertolt Brecht al Primo congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, a Parigi nel 1935).

Nel medesimo periodo Lu Xun, già quasi dal letto di morte, interviene in quella che fu chiamata «la battaglia degli slogan». Affinché l’alleanza sia la più larga e aperta – egli sostiene – ciascuna sua componente deve conservare la propria identità; così per i comunisti, i fini e i contenuti propri non possono essere sostituiti dal solo tema della «difesa nazionale». La «letteratura di difesa nazionale» è la porta aperta al patriottismo-nazionalismo, la mistificazione per anni presa di mira dalla sua satira. Egli accetta un fronte di lotta fondato sull’alleanza di classi diverse e di gente con opinioni diverse, per interessi temporaneamente e parzialmente comuni contro un comune nemico. «Non è che i letterati rivoluzionari debbano metter da parte il compito di guida della classe; anzi questo compito si deve fare ancor più pesante ed esteso.» La «letteratura di difesa nazionale», cioè il fronte unito indiscriminato e non qualificato, equivarrebbe alla proposta di battersi per gli interessi del nemico di classe (non opposti ma in competizione con quelli dell’aggressore imperialista). Ma Lu Xun va più in là, quando afferma che ciascuno scrittore può partecipare alla comune resistenza contro il nemico adottando qualsiasi forma, e trattando di qualsiasi argomento. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica. «La politica mira a bloccare le condizioni presenti realizzando l’unità […]. La letteratura provoca la scissione della società […]», aveva scritto nel 1927. Nel momento in cui la scelta rivoluzionaria è contro «la politica» che «mira a

realizzare l’unità», gli interessi del popolo e quelli dello scrittore tornano a coincidere.

 

Edoarda Masi, Lu Xun classico solitario, pubblicato su il manifesto del 9 gennaio 2005, p. 12


Edoarda Masi (1927-2011) – Una «rivoluzione culturale»: utopia necessaria nella società di oggi, che assume il profitto a valore dominante e universale, così come predicano gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Franco Toscani – Umanità e società nel tempo della pandemia.

coronavirus 2020

Franco Toscani

Umanità e società nel tempo della pandemia

Nel tempo della pandemia (che, come ha sancito ufficialmente all’inizio di marzo l’Organizzazione mondiale della sanità, è l’epidemia di coronavirus o Covid-19 estesasi a livello planetario) siamo tutti riportati alla nudità della nostra esistenza, dell’essenza umana e la sofferenza è universale. In questi frangenti ci sono rivelate nel modo più brutale, spietato e collettivo la fragilità, la finitezza e la mortalità costitutive degli esseri umani, l’assurdità della dismisura, di ogni mito e culto dell’onnipotenza; si può fingere di meno a noi stessi e agli altri sulla nostra condizione, i nodi vengono maggiormente al pettine. Pensiamo, specialmente nelle fasi più gravi e drammatiche della pandemia, alla presenza massiccia della morte attorno a noi e sempre più vicina a noi, alla sua strapotenza, alla minaccia costante dell’annientamento che rappresenta. Ricorrendo al linguaggio della teologia, Claudio Magris ha parlato della prolixitas mortis (prolissità della morte), della sua incombenza e incontinenza, della sua ininterrotta narrazione.

Nei giorni della pandemia ci tocca sperimentare in modo particolarmente amaro e rivelatore la verità tragica della filosofia dell’esistenza circa la prossimità estrema della morte, la vicinanza del nulla, il forte senso della fragilità umana e del destino. Avvertiamo con maggiore nettezza la nostra totale appartenenza alla natura, la nostra dipendenza da essa, l’ineludibilità della nostra interdipendenza ecologica e globale, il fatto che non possiamo esistere fuori della natura e cavarcela senza un nuovo rapporto con l’ambiente naturale e sociale.

Tutti in qualche modo soffriamo, però in modi e forme anche notevolmente diversi. La sofferenza e il peso maggiori – non va mai dimenticato – riguardano i malati e gli emarginati, tutto il personale sanitario costretto a turni di lavoro massacranti e a prodigarsi in condizioni difficilissime, tutti quei lavoratori della produzione e dei servizi che sono in prima linea per aiutare in vari modi la società. Un’immensa gratitudine, non del tutto esprimibile a parole, va a tutti coloro che operano continuamente per gli altri, per risanare, provvedere ai bisogni essenziali della popolazione, alleviare le pene, limitare i danni, evitare il peggio. Va soprattutto agli umili e agli ultimi che sgobbano senza posa, ai tanti senza-nome e senza-storia che svolgono il loro prezioso lavoro quotidiano lontani dalle luci della società sirenico-spettacolare e senza alcuna ribalta mediatica.

Ci sono poi una sofferenza psichica e interiore, un disagio e un malessere, una paura e un’angoscia che ci concernono tutti indistintamente, in varia misura, coi quali dovremo imparare a convivere e che già cerchiamo faticosamente di gestire e controllare, in nome dell’amore per la vita e per la convivenza. Ci proviamo, almeno dobbiamo assolutamente provarci, perché la mera disperazione non conduce da nessuna parte, anzi ci paralizza e impedisce l’azione.

Anche la prospettiva che questa situazione, soprattutto il rischio di contagio, possa durare non pochi mesi o più di un anno, è davvero rattristante e inquietante. Per non parlare della crisi economico-sociale in cui siamo già precipitati, di proporzioni gigantesche, planetarie. I milioni di nuovi poveri e disoccupati reclamano giustamente aiuto, ma nessuno può fare miracoli, neppure il miglior governo del mondo, che del resto non esiste da nessuna parte. E’ impressionante l’impasse in cui la politica si dibatte oggi, oscillante fra demagogia, promesse impossibili da mantenere, irresponsabilità, serietà dell’impegno e pesanti responsabilità di governo, chiamata a dare risposte impossibili o per forza carenti in una situazione senza precedenti, invitata da ogni parte a tamponare faticosamente le ferite del corpo sociale e a dare risposte comunque inadeguate. Naturalmente, anche in questa situazione, c’è chi si dedica senza alcun pudore allo sciacallaggio, alla demagogia sfrenata e alla più vile strumentalizzazione politica, promettendo miracoli e cose del tutto aleatorie. Molti abboccano, ma non se ne può più della politica da bassa cucina elettorale, alla ricerca del consenso immediato, di corto respiro, menzognera. Come ha detto in un’intervista televisiva un medico intelligente, riferendosi a sé stesso e ai medici (ma il discorso andrebbe esteso a tutti), oggi “nessuno può fare lo Zarathustra” e atteggiarsi a facile profeta o a salvatore dalla bacchetta magica. Un pizzico di umorismo e di sana autoironia ci farebbe bene anche in questi frangenti, ma prevalgono di gran lunga in molti la rabbia, la violenza verbale, il disprezzo, il mugugno ininterrotto e l’opposizione inconcludente, il velleitarismo, la mancanza di lucidità e di alternative praticabili.

Fatti per la vita sociale, di gruppo e di relazione, abituati ai riti e ai culti della civiltà di massa, nelle presenti circostanze agli uomini è improvvisamente impedita la normalità di questa vita, pensiamo soltanto all’obbligo del mantenimento delle distanze tra le persone, all’impedimento degli abbracci, delle strette di mano, dei gesti affettuosi, dei contatti ravvicinati, etc. . Ognuno è in qualche modo paradossalmente invitato e per certi aspetti obbligato – proprio per amarci e rispettarci più profondamente – a diffidare dell’altro, a non aprirsi all’altro, a sospettare il contagio ovunque, a mantenere le distanze, appunto.

E’ amarissima – ancorché indispensabile e necessaria, beninteso – questa riduzione drastica e pesante, questa perdita secca dei livelli normali della qualità della vita, delle relazioni e della socialità nelle nostre città spettrali e desertificate, in cui le sirene delle ambulanze rompono sovente il silenzio delle vite sospese con suoni terribili, opprimenti l’animo ancor più del solito, di sventura e di morte.

Questa normalità degli affetti, dei sentimenti, dei rapporti umani schietti, delle relazioni fruttuose ci è assolutamente cara e indispensabile; non è così, invece, per la normalità alienata, per la normalità del conformismo e del consumismo, dell’inquinamento e del rumore, del traffico e della fretta, della società dell’individualismo e della competizione, del capitalismo edonistico e della cultura dello spreco, del totalitarismo del mercato, del mondo mercificato e del feticismo economico, dell’impero del capitale, delle merci, della tecnica e del Dio-denaro, in cui gli uomini sono ridotti essenzialmente a produttori/consumatori, valgono solo come tali, non sono più considerati innanzitutto come abitanti del pianeta, come esseri umani nella loro complessità e pienezza. Questa “normalità” va rimessa in discussione, perché sta inaridendo la convivenza sociale, sta distruggendo e forse distruggerà la vita sul pianeta.

Nei giorni della pandemia colpiscono molti volti, sguardi, movimenti, atteggiamenti, gesti, spesso muti, mesti, discreti e quasi impercettibili, ma anche pietosi, solidali, gentili, cortesi, partecipi, più che mai coscienti e rispettosi. E’ la ricchezza della nostra umanità colpita e ferita, che non può esprimersi pienamente, ma che scopre e vive la condizione comune di sofferenza, disagio e impedimento. Ci sono pure meravigliosi volontari che prestano aiuto come possono, veri e propri piccoli, grandi eroi della nostra vita quotidiana tribolata, testimonianze luminose della nostra umanità.

Molti, per fortuna, capiscono che siamo tutti “sulla stessa barca”, che nessuno – nemmeno Trump, Johnson e Bolsonaro – può permettersi di fare troppo a lungo il gradasso o lo sbruffone in questa situazione così tragica e dolorosa. Nessuno di quelli che, giovani o vecchi, sono ancora sani o non contagiati dovrebbe dimenticare che ci sono quelli che hanno bisogno, stanno male o, comunque, stanno peggio di loro.

Nell’isolamento, nell’apprensione e nella desolazione universale, io, ad esempio, riesco ancora, almeno per il momento, a lavorare e a scrivere queste note: ne sono pienamente cosciente e quasi me ne vergogno, ma è pur vero che devo, voglio, posso farlo e che ciascuno è chiamato anche al dovere sacrosanto di non cadere vittima di una depressione paralizzante e pericolosa (specialmente in queste condizioni di vita sociale), alle esigenze della convivenza, di proteggersi e di proteggere gli altri, come e per quanto possibile, almeno cercando di non ammalarsi e di non contagiare.

Non possiamo però dimenticare che, nemmeno in queste circostanze così aspre per tutti, continua ad agire l’umanità meschina, peggiore degli sciacalli e degli avvoltoi, degli approfittatori e degli opportunisti, del “familismo amorale”, di coloro per cui vale il motto “tanto peggio per gli altri” e che pensano soltanto a sé stessi, al proprio “particulare”: mi riferisco, ad esempio, a quegli sciagurati che cercano di truffare gli anziani introducendosi nelle abitazioni e spacciandosi per personale sanitario, a quelli che hanno consapevolmente contagiato altri andandosene tranquillamente in giro o speculato sul prezzo delle mascherine, a coloro che corrono all’accaparramento di beni alimentari nei supermercati o di prodotti sanitari nelle farmacie, a coloro che chiedono aiuti economici senza averne davvero bisogno. Occorre fare attenzione anche a questa umanità irresponsabile e incosciente o comunque scarsamente responsabile in servizio permanente effettivo.

Sperimentiamo infatti più che mai l’ambivalenza dell’umano e quella che Robert Musil chiamò, nel suo capolavoro incompiuto Der Mann ohne Eigenschaften (L’uomo senza qualità, 1930-1942), “la profonda duplicità del mondo” (die tiefe Zweideutigkeit der Welt), che ora ci abbassa e ora ci innalza, una volta ci deprime e una volta ci esalta.

Da un lato, troviamo tra l’altro l’opportunismo, l’arroganza e la presunzione, la malvagità, lo sciacallaggio economico e politico, la stupidità, insomma tutto il male di cui gli uomini sono capaci anche nelle situazioni che dovrebbero richiedere il massimo di aiuto, solidarietà e collaborazione; dall’altro le meravigliose qualità, caratteristiche ed energie di tutti coloro che danno il meglio di sé, impegnati ad arginare il peggio e a salvaguardare l’umano. Assistiamo a veri e propri prodigi quotidiani in termini di abnegazione, generosità, cura, attenzione, lavoro costante e scrupoloso, prodigalità e rispetto, quasi sempre senza alcuna grancassa mediatica.

Sarebbe auspicabile che da questa tragedia potesse spuntare un “nuovo inizio”, una ri-nascita, affacciarsi un “cuore nuovo” o “di carne” (grande tema della sapienza e profezia biblica. Cfr. Ez 11, 19-20; Ez 36, 26-27; Ger 31, 31-34; 1Re 3, 9-12) in alternativa al “cuore di pietra”, avviarsi una conversione (non solo etica, ma pure una conversione ecologica dell’economia), un processo di umanizzazione reale, in nome di quella globalizzazione della fraternità e della cooperazione, della solidarietà e della condivisione indicata pure, profeticamente, da papa Francesco. Un’altra forma della globalizzazione, più ecologica e solidale, più giusta e fraterna, è drammaticamente urgente.

“Svegliati, o Signore!”, ha esclamato papa Francesco in un giorno di fine marzo, in una piazza san Pietro vuota e scura, sotto la pioggia, durante l’Urbi et orbi, invocando Dio perché intervenga e ci liberi dalla pandemia. “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”: queste e altre parole del papa sono nel contempo pietose, lucide e profondamente umane, ma rivelano pure una drammatica impotenza.

Su “Avvenire” il sociologo cattolico Mauro Magatti ha espresso apertamente nei giorni più duri di questa tragedia il proprio smarrimento e la propria inquietudine di credente circa la difficoltà di cogliere i segni e le tracce del divino nella situazione odierna. Comunque la si pensi, credenti o non credenti, non c’è alcun “Dio tappabuchi” (Dietrich Bonhoeffer), Dio non risponde, non può risponderci. Siamo affidati a noi stessi, alle nostre scelte e responsabilità, alle nostre azioni e pratiche di vita.

Il silenzio e l’assenza di Dio – nel tempo presente che sparge paura, sofferenza e morte a piene mani fra gli uomini – ci lasciano particolarmente sgomenti e ci rivelano l’abisso della condizione umana, ma ci richiamano pure all’esigenza pressante dell’azione e della assunzione di responsabilità.

Le attuali tribolazioni e angustie richiedono una radicale conversione dei cuori e delle coscienze, una tensione alla giustizia, a contrastare le enormi diseguaglianze economico-sociali, i vergognosi squilibri di ricchezza e di potere esistenti nel mondo. Va riscoperta e praticata la compassione, che non è un atteggiamento di compatimento che va dall’alto al basso, ma la capacità di partecipare e di comprendere le sofferenze altrui, cercando di contrastarle e alleviarle. Il filosofo Mauro Ceruti ha osservato lucidamente che oggi la fraternità non è più soltanto un’aspirazione etica, ma comincia a diventare una necessità inscritta nella nuova condizione umana. Saremo capaci di riscoprire e praticare compassione e fraternità?

Nel momento attuale è ancora prevalente la ratio strumentale-calcolante rivolta agli interessi particolari, minoritaria è invece la ragione rivolta al bene comune, alla giustizia, alla verità.

Ci troviamo e ci troveremo sempre più in una situazione in cui sono e saranno richieste molte risorse economiche, in cui occorre e occorrerà applicare il sano e semplice principio secondo cui chi ha di più deve dare di più. Una maggiore giustizia sociale diventa un imperativo morale, se non vogliamo fare delle vane chiacchiere e della retorica insulsa, insopportabile.

E’ in gioco pure il destino dell’Europa, che è in crisi perché non è ancora la nostra vera casa comune, la nostra patria (Heimat). Soprattutto, essa non è ancora unita davvero, politicamente e culturalmente. L’immenso patrimonio e i tesori della grande cultura europea sono sotto i nostri occhi e nella nostra storia (per la verità, insieme a tante altre cose vergognose, come il colonialismo, l’imperialismo, la cultura della guerra, il razzismo, l’eurocentrismo, etc.), ma vanno riscoperti e fatti vivere. Ora vediamo lucidamente che l’Europa è posta davanti ad un aut-aut: senza spirito di solidarietà e fraternità, senza aiuto e collaborazione reali, senza vera unità – non solo economica, ma politica e culturale -, essa soccomberà, fallirà e lascerà rovinosamente il campo libero agli egoismi nazionali, alle rinnovate spinte sovraniste e nazionaliste.

Una delle verità principali che questa pandemia ci consente di riscoprire è quella che il buddhismo chiama la “co-produzione condizionata” o “genesi interdipendente” di tutti i fenomeni, ossia il fatto che l’interrelazione o interdipendenza universale concerne tutti gli esseri e le cose; nessuno o nessuna cosa può sognarsi uno “splendido isolamento”, può fare l’ “anima bella”. L’uomo non è un dio né una bestia, diceva già Aristotele, ma un animale razionale, sociale e politico.

In questa stessa direzione della “vita buona”, anche il grande pensiero filosofico europeo e italiano ha parlato sovente di intersoggettività, di relazionismo e di “ontologia chiasmatica”: penso qui soprattutto a Edmund Husserl, Enzo Paci e Maurice Merleau-Ponty.

Più che mai attuale è pure il messaggio della poesia La ginestra (1836) di Giacomo Leopardi, che richiama gli uomini – a partire dalla condizione umana e dalla sventura comune – a riscoprire le ragioni della fratellanza e dell’amore reciproco, della solidarietà e della cooperazione.

Molti potranno riconsiderare e rivalutare tutto ciò, ma non è scontato. Per il momento, siamo ancora nella bufera, ci occorrono molta pazienza e molto coraggio (o forza del cuore, come dice ottimamente Vito Mancuso), molta coscienza, responsabilità, azione solidale e concreta.

Questa pandemia che ha messo in scacco il pianeta è un segno inquietante dei tempi, da interpretare, crediamo, come un avviso estremo ai naviganti. Per chi suona la campana? Suona per te, per ciascuno di noi, per l’umanità e la civiltà planetaria. Se non ascolteremo questo suono – e tutto va purtroppo nella direzione del non-ascolto o di un ascolto scarso, solo parziale, della ripresa della normalità alienata, della continuazione della devastazione della Terra e dell’inaridimento dell’umano -, nuove sciagure si profileranno inevitabilmente all’orizzonte.

Franco Toscani
(Piacenza, 14 marzo-30 aprile 2020)

Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-
Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Maura Del Serra – Ma come ricambiare alla stella la sua luce danzante, all’albero il suo slancio fra due mondi, … alle stagioni i loro ritmici doni …? … Distruggiamo fuori o dentro di noi solamente per scrollare questo debito immenso da portare come Atlante il suo globo terrestre …

Maura Del Serra, Debito
Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889,

Debito

Ma come ricambiare
alla stella la sua luce danzante,
all’albero il suo slancio fra due mondi,
all’uccello il suo frullio d’angelo minimale,
alle stagioni i loro ritmici doni, al mare
il suo canto d’oscura conoscenza,
ai venti lievi o indocili il sapore del moto?
Quale nastro legarci in croce al cuore
per farne dono inedito a un creato
di senso traboccante? Distruggiamo
fuori o dentro di noi solamente per scrollare
questo debito immenso da portare
come Atlante il suo globo terrestre sulle spalle:
quel globo che ne faceva un gigante.

Maura Del Serra, Debito, da L’opera del vento, Venezia, Marsilio 2006.

Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo fiorito, 1890

Maura Del Serra

LETTERA AGLI AMICI

  

ἀποκάλυψις, «rivelazione»:

 

La situazione per più versi estrema in cui ci troviamo, e che ho evocato nella mia ultima poesia, Limbo virale, è stata favorita da un’apocalissi – anche nel senso etimologico di “rivelazione” – di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica, e perciò intimamente infelice, assetata di significato ultimo ed ontologico.
La natura, sangue e veste di bellezza del nostro pianeta violentato, ha “rinviato” alla specie umana, come un boomerang (forse con la complicità di una scienza non illuminata) un inquinamento subdolo, in apparenza più invisibile del nostro nelle sue cause quanto quasi ugualmente devastante nei suoi effetti globali, che colpisce la radice stessa della vita umana (gli organi del respiro) così come noi abbiamo da secoli colpito, fin dalla rivoluzione industriale e poi in progressione geometrica, il respiro della Terra e i suoi doni cosmici e materni.
Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta, una presa di coscienza, un “conosci te stesso” personale e collettivo che dia appunto un senso, una direzione catartica a questo tempo oscuro e malato che è, dantescamente, come un Limbo chiuso e sospeso (non popolato da “spiriti magni”, ma certo da generosi soccorritori e da “pianto” più che da “sospiri”); un tempo che dovrà apparirci, oltre l’emergenza, come un Purgatorio interreligioso e metareligioso, teso a rivedere e ad orientarci verso le “stelle” polari di una sacralità micro e macroscopica, la cui consapevolezza è oggi oscurata dalla nostra sete “specista” e da quello che Pasolini definiva “sviluppo senza progresso”: progresso interiore e quindi sociale, armoniosamente comunitario, equilibrato in giustizia.

In questo lungo momento, che ci ha trasformati in ossimorici “monaci di gregge” reclusi nelle nostre celle domestiche, spesso tragicamente bisognose e solitarie, dobbiamo, come diceva Walter Benjamin sulla scorta profetica di Kafka, “aprire la porta che non abbiamo visto”, affinché l’Angelo della Storia immortalato da Klee non ci condanni ed abbia il viso rivolto ad un futuro possibile perché illuminato da un passato autoconsapevole.

In questo cammino intimo e corale sono molte le figure creative che, con le loro opere, possono costituire un sostegno etico-spirituale ed intellettuale autentico ed orientante: dai Presocratici ad Eschilo e Sofocle a Platone, da Dante a Shakespeare ai poeti elisabettiani, da Lao Tse a Bruno, dal Sapienziale Hölderlin alla Dickinson, e tra i moderni Pasternak, l’Eliot della Weste land e dei Four Quartets, la Woolf di The Waves, a Proust, Katherine Masfield, Tagore e, last but not least, i films di Andrej Tarkowskij (specialmente l’ultimo, Sacrificio), gli alti scritti di Simone Weil ed i versi dell’ironica e sapiente Wislawa Szymborska. Li ho citati in questo ordine sparso, secondo la mia “mente del cuore”: la vostra, amici, saprà variare e completare queste voci in un’aurea catena ideale, ora più che mai concreta.

Maura Del Serra

31 marzo 2020      

 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

Maura Del Serra


Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

Vedi pagine di Maura del Serra

Vedi i suoi libri ed altro

Vedi Maura Del Serra in Wikipedia

Vedi pubblicazioni di Maura Del Serra


 

Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
Maura Del Serra

Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

***

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

***

Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

***

Voce di voci

Voce di voci

***

Canti e pietre

Canti e pietre

***

Scintille

Scintille

***

Infinito presente

Infinito presente

***

Infinite Present

Infinite Present

***

L'opera del vento

L’opera del vento

***

Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

***

Congiunzioni

Congiunzioni

***

L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

***

Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

***

Aforismi

Aforismi

***

Elementi

Elementi

***

 

Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

***

Corale

Corale

***

Sostanze

Sostanze

***

senza niente

senza niente

***

Concordanze

Concordanze

***

Meridiana

Meridiana

***

La gloria oscura

La gloria oscura

***

L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

***

La vita accanto

La vita accanto

***

Guerra di sogni

Guerra di sogni

***

La fonte ardente

La fonte ardente

***

Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

***

Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

***

Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

***

Agnodice

Agnodice

***

Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

***

Rosens ande

Rosens ande

***

Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

***

La fenice

La fenice

***

La Minima

La Minima

***

L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

***

Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

***

Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

***

Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

***

Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

***

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

***

Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

***

Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

***

Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

***

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

***

Orlando n

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

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K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

***

Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

***

Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

***

Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

***

Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

***

G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

***

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

***



 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maura Del Serra – «Lettera agli amici». Apocalissi di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica. Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta. Ascoltiamo le voci di chi ci invita ad «aprire la porta che non abbiamo visto».

Maura Del Serra - Apocalisse pandemia
P. Klee, Angelus Novus

Maura Del Serra

LETTERA AGLI AMICI

  

ἀποκάλυψις, «rivelazione»:

 

La situazione per più versi estrema in cui ci troviamo, e che ho evocato nella mia ultima poesia, Limbo virale, è stata favorita da un’apocalissi – anche nel senso etimologico di “rivelazione” – di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica, e perciò intimamente infelice, assetata di significato ultimo ed ontologico.
La natura, sangue e veste di bellezza del nostro pianeta violentato, ha “rinviato” alla specie umana, come un boomerang (forse con la complicità di una scienza non illuminata) un inquinamento subdolo, in apparenza più invisibile del nostro nelle sue cause quanto quasi ugualmente devastante nei suoi effetti globali, che colpisce la radice stessa della vita umana (gli organi del respiro) così come noi abbiamo da secoli colpito, fin dalla rivoluzione industriale e poi in progressione geometrica, il respiro della Terra e i suoi doni cosmici e materni.
Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta, una presa di coscienza, un “conosci te stesso” personale e collettivo che dia appunto un senso, una direzione catartica a questo tempo oscuro e malato che è, dantescamente, come un Limbo chiuso e sospeso (non popolato da “spiriti magni”, ma certo da generosi soccorritori e da “pianto” più che da “sospiri”); un tempo che dovrà apparirci, oltre l’emergenza, come un Purgatorio interreligioso e metareligioso, teso a rivedere e ad orientarci verso le “stelle” polari di una sacralità micro e macroscopica, la cui consapevolezza è oggi oscurata dalla nostra sete “specista” e da quello che Pasolini definiva “sviluppo senza progresso”: progresso interiore e quindi sociale, armoniosamente comunitario, equilibrato in giustizia.

In questo lungo momento, che ci ha trasformati in ossimorici “monaci di gregge” reclusi nelle nostre celle domestiche, spesso tragicamente bisognose e solitarie, dobbiamo, come diceva Walter Benjamin sulla scorta profetica di Kafka, “aprire la porta che non abbiamo visto”, affinché l’Angelo della Storia immortalato da Klee non ci condanni ed abbia il viso rivolto ad un futuro possibile perché illuminato da un passato autoconsapevole.

In questo cammino intimo e corale sono molte le figure creative che, con le loro opere, possono costituire un sostegno etico-spirituale ed intellettuale autentico ed orientante: dai Presocratici ad Eschilo e Sofocle a Platone, da Dante a Shakespeare ai poeti elisabettiani, da Lao Tse a Bruno, dal Sapienziale Hölderlin alla Dickinson, e tra i moderni Pasternak, l’Eliot della Weste land e dei Four Quartets, la Woolf di The Waves, a Proust, Katherine Masfield, Tagore e, last but not least, i films di Andrej Tarkowskij (specialmente l’ultimo, Sacrificio), gli alti scritti di Simone Weil ed i versi dell’ironica e sapiente Wislawa Szymborska. Li ho citati in questo ordine sparso, secondo la mia “mente del cuore”: la vostra, amici, saprà variare e completare queste voci in un’aurea catena ideale, ora più che mai concreta.

Maura Del Serra

31 marzo 2020      

 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

 

Maura Del Serra


 

Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

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In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

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Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
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Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

***

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

***

Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

***

Voce di voci

Voce di voci

***

Canti e pietre

Canti e pietre

***

Scintille

Scintille

***

Infinito presente

Infinito presente

***

Infinite Present

Infinite Present

***

L'opera del vento

L’opera del vento

***

Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

***

Congiunzioni

Congiunzioni

***

L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

***

Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

***

Aforismi

Aforismi

***

Elementi

Elementi

***

 

Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

***

Corale

Corale

***

Sostanze

Sostanze

***

senza niente

senza niente

***

Concordanze

Concordanze

***

Meridiana

Meridiana

***

La gloria oscura

La gloria oscura

***

L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

***

La vita accanto

La vita accanto

***

Guerra di sogni

Guerra di sogni

***

La fonte ardente

La fonte ardente

***

Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

***

Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

***

Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

***

Agnodice

Agnodice

***

Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

***

Rosens ande

Rosens ande

***

Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

***

La fenice

La fenice

***

La Minima

La Minima

***

L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

***

Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

***

Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

***

Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

***

Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

***

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

***

Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

***

Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

***

Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

***

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

***

Orlando n

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

***

Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

***

Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

***

Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

***

Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

***

G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

***

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

***



 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Maura Del Serra – «Limbo virale». Non angelico o ascetico ma livido di sospettoso tremore il silenzio che ha inghiottito in paralisi città e continenti intanando i viventi nella bolla di un limbo assordato soltanto dal tamburo mediatico che bussa incessante alle anime serrate, alle confuse menti …

Maura Del Serra - coronavirus -pandemia
 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

 

 

Maura Del Serra

Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

Vedi pagine di Maura del Serra

Vedi i suoi libri ed altro

Vedi Maura Del Serra in Wikipedia

Vedi pubblicazioni di Maura Del Serra


 

Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
Maura Del Serra

Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

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***

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

***

Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

***

Voce di voci

Voce di voci

***

Canti e pietre

Canti e pietre

***

Scintille

Scintille

***

Infinito presente

Infinito presente

***

Infinite Present

Infinite Present

***

L'opera del vento

L’opera del vento

***

Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

***

Congiunzioni

Congiunzioni

***

L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

***

Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

***

Aforismi

Aforismi

***

Elementi

Elementi

***

 

Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

***

Corale

Corale

***

Sostanze

Sostanze

***

senza niente

senza niente

***

Concordanze

Concordanze

***

Meridiana

Meridiana

***

La gloria oscura

La gloria oscura

***

L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

***

La vita accanto

La vita accanto

***

Guerra di sogni

Guerra di sogni

***

La fonte ardente

La fonte ardente

***

Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

***

Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

***

Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

***

Agnodice

Agnodice

***

Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

***

La fenice

La fenice

***

La Minima

La Minima

***

L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

***

Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

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Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

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Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

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Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

***

Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

***

Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

***

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

***

Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

***

Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

***

Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

***

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

***

Orlando n

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

***

Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

***

Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

***

Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

***

Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

***

G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

***

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

***



 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.

Diego Lanza 83

Il 7 gennaio 2020 Diego Lanza avrebbe compiuto 83 anni. Era nato il 7 gennaio del 1937 (tre giorni dopo del suo amico Mario Vegetti, con il quale condividerà, in una straordinaria amicizia filosofica, fondamentali percorsi di ricerca, fino al 7 marzo 2018 quando Diego ci aveva lasciato: Mario Vegetti ci ha lasciato quattro giorni dopo, l’11 marzo 2018.
Vogliamo ricordare Diego con questo suo scritto, «Pathos», in cui vibra non solo la profonda conoscenza filologica dell’appassionato grecista e la capacità sempre innovativa di lettura antropologica e interdisciplinare dei testi, ma anche la tensione etica e morale, filosofica,  che lo ha animato per tutta la sua vita e che ha consegnato quale suggello alle pagine del suo ultimo libro, pubblicato postumo, «Il gatto di piazza Wagner», assumendo in sé l’eredità paterna («orgoglio tenace,  fedeltà alle proprie decisioni, energia necessaria a una silenziosa coerenza, disprezzo per il mormorio del senso comune») e facendone vivificante e forte dono ai suoi figli.

Associazione culturale Petite Plaisance


Si possono scaricare le 13 pp. in formato PDF.

Logo-Adobe-Acrobat-300x293

A seguire, dopo il testo «Pathos», interventi di:

Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Massimo Stella – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti



Anna Beltrametti

per onorare Lanza e Vegetti

insieme lanzavegetti

Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
Logo Adobe AcrobatAnna Beltrametti, Per onorare la memoria di Diego Lanza e di Mario Vegetti

Leggi e stampa le dieci pagine in PDF

teatro-conflitto

Si formò a Pavia all’epoca
dell’analisi marxista del mondo antico.
Studiò Aristotele, il pensiero scientifico
e la drammaturgia greca
nei rapporti con la politica e la storia della mentalità

«C’era una volta […] il passato rivive nel presente perché chi lo narra gli dà la vivacità di una nuova esistenza, ne suggerisce, sia pur involontariamente, il significato per il presente».

2017 Tempo senza tempo

Così scrive Diego Lanza nella Premessa al suo ultimo bel libro, Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, pubblicato da Carocci alla fine del 2017.

E così era Diego Lanza, un interprete acuto e profondamente colto che dava senso a quello che leggeva e che prediligeva i testi su cui si erano misurati i grandi nomi, e non solo di filologi, delle culture europee moderne. Un lavoro a doppio taglio era sempre stato il suo, nella scrittura e nella comunicazione orale: si accostava agli antichi attraversando le più resistenti letture dei moderni e mettendo alla prova i più forti paradigmi ermeneutici del Novecento. Leggeva i testi greci, con speciale propensione per la filosofia e la drammaturgia, tracciando al contempo la storia della cultura che li aveva posti e continuava a porli al centro o all’origine.

Diego Lanza, Accademico del Lincei e Professore Emerito di Letteratura greca all’Università di Pavia, nella stessa Università aveva studiato, alunno dello storico collegio Ghislieri, e nel 1959 si era laureato con Adelmo Barigazzi. Vi era tornato, dopo la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera nel 1960, e vi aveva cominciato a insegnare, prima come assistente incaricato e poi come professore ordinario, ma mantenendo fino alla fine costanti e fecondi contatti internazionali.

L’edizione dell’Anassagora
Si era affermato con l’edizione critica dell’Anassagora [Anassagora, Testimonianze e Frammenti, La Nuova Italia, 1966], una prova di tecnica filologica, ma anche di quell’attenzione al configurarsi del pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto ad Aristotele: a tradurre e a commentare, nel 1971, le opere biologiche, e quindi a riflettere sistematicamente sui testi politici, Politica e Costituzione degli Ateniesi.

1977 L'ideologia della città1977 Aristotele e la crisi della politicaEra il tempo in cui Lanza, insieme con l’amico Mario Vegetti che a Pavia ricopriva la cattedra di Storia della Filosofia antica, aveva guidato i seminari che sarebbero approdati alla pubblicazione nel 1977 presso Liguori dei due piccoli volumi sull’Ideologia della città, ricerche in quegli anni innovative e fondative, che scoprivano potenzialità e limiti dell’analisi marxista sul mondo antico.

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

Lanza non aveva tuttavia mai abbandonato il teatro attico, tragico e comico e nel 1987, dunque nella piena maturità, aveva coniugato il filone filosofico e quello teatrale delle sue ricerche nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo che resta ancora un riferimento per gli studi sul teatro attico e che segna un punto di svolta importante nell’organizzazione accademica. In quell’ultimo scorcio degli anni ottanta, l’interesse per la drammaturgia che gli apparteneva fin dall’infanzia – Diego era figlio del critico e autore teatrale Giuseppe Lanza, che lo portava con sé agli spettacoli nelle nebbiose serate milanesi dell’immediato dopoguerra – lo aveva orientato negli studi, ma anche a istituire, precorrendo i tempi, il corso di Storia del Teatro e della Drammaturgia antica.
Lanza aveva così promosso l’analisi iuxta propria principia dei testi teatrali, uno dei campi più caratterizzati della letteratura greca antica, e successivamente, nel 2000, aveva sostenuto la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità.

1997 La Disciplina dell'emozione

Ad attestare l’impegno prevalente di questa stagione sono i saggi compresi in La disciplina dell’emozione del 1997, ma anche i magistrali contributi – da segnalare in particolare «La tragedia e il tragico», in Noi e i Greci, Einaudi, a cura di Salvatore Settis – pubblicati nelle grandi opere collettive che aveva condiretto o di cui era stato consulente: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, Lanza era stato condirettore dell’opera collettiva Lo Spazio letterario della Grecia antica (Salerno editrice, 1991-1996) e aveva collaborato con Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Einaudi, 1996-2002).

Lo spazio letterario della Grecia antica

Laboratorio della memoria
Nel teatro, Lanza aveva riconosciuto il laboratorio più rivelatore della memoria e della mentalità greche, la ribalta di quelle figure antropologiche che i drammaturghi avevano ripreso dai miti e non avevano mai cessato di ripensare e di ricollocare al centro dei loro intrecci e dei conflitti politici cui alludevano. Il teatro e i dialoghi platonici sono i luoghi per eccellenza del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità d’oro occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.

1977 Il tiranno e il suo pubblico1997, Lo stoltoEntrambi danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e sono la cifra del magistero del Lanza professore e dell’uomo Diego Lanza. Un uomo dal temperamento non facile, sempre in tensione tra meravigliose aperture culturali e severi imperativi morali; attratto dall’eccentrico e fermo cultore delle regole; attento alle emozioni e ancora di più rivolto a controllarle nei comportamenti propri e degli allievi. Una personalità unica, nei suoi contrasti, di cui gli scritti rivelano molto, segnati come sono dalle sue impronte, riconoscibili come sulla tazza quelle del vasaio, per dirlo con Walter Benjamin a proposito del narrare di Nicolaj Leskov.

Articolo già pubblicato su Alias, il manifesto, 15-04-2018.


Anna Beltrametti

per onorare Lanza e Vegetti

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Tre incontri lungo un sentiero mai interrotto.

Diego Lanza

e il teatro (non solo) antico

«Una fredda serata di nebbia decembrina a Milano, piazza Missori anno 1948 […] nell’aula magna dell’allora Liceo Beccaria la rinata Università Popolare organizzava il corso “Il teatro nella storia” […] Quella sera si leggevano le Eumenidi. Fu la prima volta che, seduto su quei banchi affollati, vidi mio padre in abito scuro parlare in pubblico. Non ricordo nulla di quello che egli disse […] nella testa mi rimasero alcune parole che il Coro aveva più volte lamentosamente scandito: “Io dea di antica saggezza, dei giovani dèi odio e abominio” […]. Fu questo anche il mio primo incontro con i Greci».

«Una dozzina d’anni dopo partii per la Grecia, a Nauplion acciuffai l’ultimo autobus per Epidauro e riuscii a trovare un posto in cima alle gradinate stipate del teatro […]. Greci erano quasi tutti gli spettatori di quell’Elettra sofoclea. Il ricordo più vivo della serata è rimasto nella mia mente l’applauso esploso quando Oreste ed Elettra cadono l’uno nelle braccia dell’altra. La gente tutt’intorno a me non batteva le mani alla bravura degli attori, ma molto ingenuamente, ai personaggi e al loro poeta […]. Troppo ingenuamente eppure… […]. Ancora vent’anni e mi trovo a insegnare storia del teatro antico […]. La tragedia greca esercita il suo prepotente fascino […]. L’interesse è vivo, le domande molte […] a cui è possibile dare due tipi di risposte. O spiccare il volo slanciandosi nel metadiscorso della semiotica dello spettacolo, oppure, più cautamente, indagare sull’insieme di documenti e testimonianze che offrano la possibilità di delineare le regole del gioco cui i tragediografi attici dovettero conformarsi […] non curiosità antiquarie, ma norme espressive, convenzioni al pari di quelle che sorreggono un sistema linguistico, una langue».

«Wiesbaden, maggio 1983: a conclusione di una luminosa giornata sui rilievi del Taunus sulle tracce del limes romano in compagnia di giovani amici filologi italiani e tedeschi, l’Antigone al Kleines Haus. La versione era quella tradizionale di Hölderlin, la regia, espressionisticamente allusiva, di Carsten Bodinus […]. Il coro era affidato all’unica voce dolente di una donna provata, spaurita, infagottata in un brutto cappotto militare. A metà della tragedia, immediatamente prima dell’ingresso di Emone, Creonte le si accosta e brutalmente le tira giù cappotto e camicia, scoprendole le spalle […]. I giovani amici, già a disagio, rimangono disgustati dalla scena; l’immagine che avevano di Sofocle doveva essere assai meno inquietante, classicamente sublimata in figure ieratiche, se non addirittura filosofiche. Eppure quel gesto di grande sgradevolezza, che nulla poteva avere in comune con la messinscena antica, illuminava qualcosa di essenziale nella tragedia: chi era per i Greci un tiranno, se non uno stupratore, lo stupratore di un’intera città?»

Diego Lanza ha lasciato un’eredità difficile da ricordare e da descrivere in cui ambiti e interessi si incrociano lungo percorsi inconsueti, intrapresi di volta in volta per spinte intellettuali e personali che intersecavano e complicavano il mestiere del filologo sia per gli oggetti della ricerca sia per i metodi. In questa rete il filo teatrale si mantiene continuo, più o meno esplicito, quasi fosse il filo conduttore da cui ogni esplorazione di Lanza partiva e a cui sempre tornava.

 

1997 La Disciplina dell'emozioneHo voluto aprire questo ricordo con i tre incontri, tre tappe biografiche, che Lanza aveva raccontato introducendo La disciplina dell’emozione, il volume di riflessioni generali sulla tragedia attica e di saggi di interpretazione, pubblicato nel 1997, nella piena maturità, e dedicato a suo padre. L’interesse o, meglio, la passione per il teatro gli veniva da lontano, dall’infanzia, dalla famiglia, dal padre, Giuseppe Lanza, di cui aveva potuto osservare e ascoltare, ancora prima dell’adolescenza, il lavoro di drammaturgo e di critico. E rimase il tratto distintivo e costante della sua figura di intellettuale contemporaneo.

Lanza si era formato a Pavia, alla scuola di Adelmo Barigazzi, che era stato chiamato sulla cattedra pavese di Letteratura greca nel 1951 e l’aveva tenuta fino al 1968, quando il giovane allievo la ricoprì, prima da assistente incaricato e poi da ordinario.

Barigazzi aveva rappresentato una svolta importante negli studi pavesi di grecistica che all’inizio del secolo erano stati segnati dal magistero dei più polemici e agguerriti “antitedescanti” – Giuseppe Fraccaroli aveva tenuto la cattedra pavese di Letteratura greca dal 1915 al 1918 e dopo la sua morte, per continuità, era stato chiamato Ettore Romagnoli che la tenne dal 1918 al 1935 – e poi, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, affidati a professori incaricati di supplenze temporanee. Nei suoi corsi, Barigazzi aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina e aveva promosso l’interesse per i testi filosofici e retorici anche frammentari, orientando i primi studi di Lanza che infatti si affermò con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966, per La Nuova Italia.

Ma non fu Anassagora l’autore d’esordio di Lanza. I primi articoli del giovane studioso, pubblicati agli inizi degli anni Sessanta, al ritorno da Monaco di Baviera, dove aveva conseguito la specializzazione al Maximilianeum, sono dedicati alle forme e ai contenuti del teatro euripideo, all’Oreste, al frammentario Alessandro, alle nozioni di nomos e ison.

insieme lanzavegettiE ancora negli anni Settanta, un decennio dominato dallo studio sistematico di Platone e Aristotele – del 1971 è la traduzione delle Opere biologiche di Aristotele in collaborazione con Mario Vegetti e, ancora in stretta collaborazione con Mario Vegetti, tra il 1972 e il 1977, si avviano i seminari di riflessione sul pensiero politico greco, sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele in rapporto alla Repubblica platonica, che approderanno alla pubblicazione presso Liguori dei due volumi, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica, innovativi per quegli anni e determinanti per il profilo della scuola pavese di Scienze dell’Antichità.1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 L'ideologia della città

1976 BelfagorLanza non perde di vista il teatro: del 1976 è il saggio Alla ricerca del tragico, pubblicato in «Belfagor» e del 1977 il volume einaudiano Il tiranno e il suo pubblico, letto prevalentemente per il tema della tirannide, ma scritto dall’autore con attenzione allo spettacolo del tiranno nelle sue rappresentazioni tragiche.

1977 Il tiranno e il suo pubblicoNell’Anno Accademico 1983-1984, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica, quasi una novità nell’Università italiana di quegli anni, soprattutto perché destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza diede visibilità e peso istituzionale al filone di ricerca che aveva da sempre coltivato e alimentato anche con la costante frequentazione dei teatri e della drammaturgia moderna e contemporanea. Il corso conquistò immediatamente una partecipazione larga e interessata al di là di ogni previsione. E otteneva effetti rilevanti e sul piano teorico e su quello accademico: da una parte ritagliava un ambito fortemente caratterizzato nell’insieme eterogeneo dei testi che formano la cosiddetta letteratura greca e lo riconosceva come campo di indagine (quasi) autonoma; dall’altra e al contempo faceva emergere la specificità del teatro antico rispetto ad altre forme teatrali, geograficamente e storicamente determinate, sottraendo la drammaturgia antica alle discipline più generali.
Gli studi teatrali di Lanza divennero da questo momento anche più frequenti e focalizzati non solo sui testi, ma sulle tecniche dello spettacolo e sulla recitazione, sugli spazi scenici e sull’attore, sul sistema di mezzi e di linguaggi che insieme con la scrittura dei testi definivano la specificità della comunicazione teatrale greca e la sua particolare efficacia. Testimonianze e documenti antichi, pochi, sugli spettacoli incominciavano così a incrociarsi con le informazioni, più numerose sebbene non numerosissime, desumibili dai testi, le cosiddette didascalie interne più o meno trasparenti, e a illuminare alcuni aspetti performativi non meno significativi delle parole.
Su questa base, nella ferma convinzione che i testi drammaturgici debbano essere fruiti diversamente dalla letteratura, intesa stricto sensu come testi scritti per essere letti, nel 2000 Lanza approvò e favorì l’istituzione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Incominciò così a Pavia la raccolta, la classificazione e l’archiviazione di registrazioni audiovisive a documentazione delle recenti messe in scena del teatro antico e delle interpretazioni ad esse sottese.

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987A segnare un importante punto d’arrivo di questa doppia e interattiva padronanza di Lanza del linguaggio filosofico e dei linguaggi teatrali è l’edizione della Poetica di Aristotele, del 1987. Il maggiore trattato antico sulla tragedia era riletto e interpretato con esiti nuovi, non più solo in chiave filosofica dall’interno di Aristotele, ma alla luce della drammaturgia attica conservata che, con i propri dati intrinseci opportunamente richiamati, rimetteva in gioco e in discussione l’analisi aristotelica. Che consentiva di cogliere le selezioni e le intenzioni di Aristotele, gli aspetti valorizzati e quelli sottaciuti nella sua in apparenza neutrale descrizione, quasi un’anatomia, della tragedia come forma e struttura. Della traduzione e del commento di Lanza si possono ancora discutere alcune scelte particolari, ma l’impianto complessivo resta, credo, una tappa saliente nella storia degli studi e si mantiene un riferimento obbligato per alcuni temi e alcune posizioni. Penso soprattutto al lucido ridimensionamento della catarsi, sopravvalutata dai commentatori e nella vulgata, e alla separazione del testo di Aristotele dalle resistenti sovraimpressioni degli aristotelici che ne hanno condizionato la lettura e la comprensione.

1997 La Disciplina dell'emozioneDieci anni dopo, nel 1997, con La disciplina dell’emozione da cui questo ricordo ha preso le mosse, Lanza sembra ripensare se stesso sul filo del teatro, la chiave forse della sua ricerca e anche un bandolo della sua vita. Offre una sintesi delle sue letture del teatro tragico a cui premette una mappa dei principi che hanno guidato le interpretazioni. Per leggere una drammaturgia tragica -scriveva e insegnava Lanza-è necessario fare i conti su più piani: con “le regole del gioco scenico” che prevedono il tempo marcato della festa a interrompere la vita quotidiana, lo spazio del teatro ben delimitato e quasi spazio franco all’interno della polis, una scrittura che non basta a se stessa e deve prevedere la recitazione; con la necessità di mettere in scena personaggi che non vengono dalla vita vissuta, ma dalla tradizione e dalla plastica materia narrabile che chiamiamo mito o miti, dunque con la necessità di “rappresentare dèi e rappresentare eroi” e di dislocare le tensioni contemporanee negli altrove del “tempo senza tempo”; [Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi è il titolo dell’ultimo libro di Lanza, pubblicato da Carocci nel 2017] con l’aspettativa da parte del pubblico di un messaggio o di una provocazione sui temi capitali del presente, i Greci e i barbari, la pace e la guerra, i rapporti di genere; con un “ritmo tragico” fondato principalmente sull’uso sapiente delle strutture drammatiche, della parola e della musica, e mirato alla capacità di emozionare e di pacificare gli spettatori. Un ritmo che sembra mutare radicalmente dalla tragedia greca a quella senecana, come emerge dall’ultimo percorso di lettura, Finis tragoediae.
Personalmente, più mi confronto con i pochi testi conservati della triade tragica eccellente, più resto convinta che, nella curva dell’emozione individuata e descritta da Lanza, la fase del turbamento prevalga oltre la fine dello spettacolo sui linguaggi della ricomposizione e che l’arte di contenere e di disciplinare l’emozione sia subordinata all’arte di sconvolgere il senso comune e di scatenare con l’emozione il pensiero. Ma non è questo dissenso che conta. A contare nella lezione di Lanza è l’aver individuato l’emozione come fattore primario della comunicazione teatrale antica e l’aver acutamente riconosciuto nella relazione emozionale, diversamente giocata di epoca in epoca tra attore e spettatore, l’essenza del teatro di tutti i tempi.

2001 Dimenticare i GreciE il tema dell’emozione è centrale nei saggi magistrali di Lanza La tragedia e il tragico (Noi e i Greci, 1996, pp. 469-505) e De l’émotion tragique aujourd’hui («Europe», Janvier-février 1999, pp. 70­81), il primo dedicato alla separazione del senso tragico dalla forma tragedia, a cominciare dall’estetica hegeliana per arrivare allo smarrimento dell’artista e dell’intellettuale del Novecento, il secondo alla relazione che si può tentare di immaginare tra l’orrore assoluto del genocidio nazista e la tragedia antica. Avrebbe potuto la tragedia antica nella sua forma codificata rappresentare lo sterminio collettivo?

1997, Lo stoltoNon c’è buon teatro che non emozioni, che non disturbi, che non morda le certezze del pubblico. Anche il teatro epico deve emozionare, le riflessioni che passano per il brivido sono meno effimere e si incidono nei corpi oltre che nella mente. E anche la risata dei comici deve emozionare, se ne può misurare l’efficacia sulla capacità degli attori, specialmente del primo attore su cui si regge la commedia antica, e dei Cori di trascinare il pubblico a ridere di ciò che teme, delle istituzioni e dei potenti ridotti, con le parole e con i gesti, al livello del basso materiale corporeo. Ai dispositivi dell’emozione comica, alla gestualità e al plurilinguismo, Lanza ha dedicato alcune sorprendenti pagine di Lo stolto (Einaudi 1997) e le riflessioni ultime sintetizzate nel saggio introduttivo e nelle note di commento alla sua traduzione degli Acarnesi (Carocci, Roma 2012), una lezione sul comico antico e non solo che va molto al di là di questa specifica commedia.

2012 Aristofane, Acarnesi

Questo saggio è già stato pubblicato su «Dionysus ex machina», IX (2018).


Anna Beltrametti

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Vite parallele di due uomini,

più complementari

di quanto non fossero simili tra loro,

che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani

a confrontarsi, a dialogare,

a mettersi reciprocamente in discussione

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Il 7 marzo scorso Diego Lanza, Professore Emerito dell’Ateneo Pavese e Socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, si è spento nella sua Milano. A Milano Lanza era nato il 7 gennaio 1937 e lì aveva vissuto, dividendosi tra la città dell’origine e della famiglia e Pavia, città della sua Università, della sua formazione, da alunno del Collegio Ghislieri e scolaro di Adelmo Barigazzi, e del suo magistero lungo oltre quarant’anni. Non è facile scegliere che cosa ricordare di Lanza da parte mia che sono cresciuta nella sua scuola, apprezzandone fin dal primo momento gli stimoli e avvertendo, ora, con piena consapevolezza l’onore e il peso di insegnare da quella cattedra.

Non posso che incominciare ricordando, insieme con Diego Lanza, Mario Vegetti, l’altro nome di quella scuola pavese, l’altra anima di una stagione indimenticabile per chi l’ha vissuta, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e di una ricerca allora molto coraggiosa, innovativa e fondativa. Nato a Milano il 4 gennaio del 1937, pochi giorni prima di Diego Lanza, Mario Vegetti se ne è andato l’11 marzo del 2018, pochi giorni dopo l’amico e il collega che aveva salutato platonicamente – eu prattomen, Diego – sulle pagine del Corriere della Sera. Le vite parallele dei due uomini, più complementari di quanto fossero simili tra loro, che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani a confrontarsi, a dialogare, a mettersi reciprocamente in discussione per arrivare a discutere i temi e i metodi della ricerca da una prospettiva più ampia e non sempre condivisa fin dal primo momento, sorprendono ancora di più se le ripensiamo ora, dopo la loro morte ravvicinata, nella mancanza che continua ad accomunarli e obbliga a parlare di entrambi.

1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 L'ideologia della cittàIncomincio dunque ricordando un momento saliente e decisivo della collaborazione di Lanza e Vegetti, che ricopriva la cattedra di Storia della filosofia antica, e i seminari che approdarono alla pubblicazione della prima e più estesa versione dell’Ideologia della Città, in «Quaderni di Storia» 2 (1975) e successivamente, nel 1977, ai due piccoli volumi collettivi editi da Liguori, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica.

Quei contributi e il lavoro da cui erano scaturiti cambiarono il modo di guardare la polis e di leggere le fonti: la città greca passava da oggetto di ammirazione classicistica a oggetto storiografico, si imponeva come realtà inquieta e metamorfica; le fonti erano indagate come rappresentazioni più o meno tendenziose e talvolta concorrenti invece che come resoconti o descrizioni neutrali dei fatti e delle istituzioni. Anche i paradigmi interpretativi venivano posti in causa: in anni di marxismo ortodosso e meccanicamente, anche anacronisticamente, applicato alle testimonianze antiche, Lanza e Vegetti praticavano un marxismo critico e uno strutturalismo moderato, fortemente temperato dall’attenzione per la storia.
Così l’interesse e l’amicizia per i maggiori esponenti della scuola di Parigi – J.P. Vernant, P. Vidal-Naquet, M. Detienne, N. Loraux – che sulla scia di I. Meyerson avevano ricostruito le linee portanti della mentalità condivisa dei Greci antichi, erano stati il punto di partenza per discutere la nozione di mentalità attraverso quella più dinamica e conflittuale di ideologia.
Dopo la laurea con Adelmo Barigazzi nel 1959 e la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera, Diego Lanza era tornato a Pavia da assistente e poi da assistente incaricato. Dal 1968, inseguito al trasferimento di Barigazzi a Firenze, Lanza aveva insegnato prima Letteratura greca, quindi, in seguito alla chiamata sulla cattedra pavese di Giovanni Tarditi, negli anni 1970-1974, Storia della lingua greca, e di nuovo Letteratura. Portava nella sua ricerca e nel suo insegnamento tracce chiare del maestro Barigazzi che nel 1951 aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina, praticandola e insegnandola per ben diciassette anni. Per comprendere la svolta segnata da Barigazzi, non si deve dimenticare che la cattedra di Letteratura greca di Pavia era stata per almeno un ventennio il più combattivo centro italiano degli “antitedescanti”, negli anni 1915-1918 del magistero di Giuseppe Fraccaroli e quindi negli anni 1918-1935 di Ettore Romagnoli, né che era stata poi, per circa un quindicennio, vacante, affidata per incarichi pro tempore e quindi coperta con la chiamata dell’insigne latinista, latinista non grecista, Enrica Malcovati. Sotto la guida di Barigazzi, Lanza aveva pubblicato i primi saggi sulla tragedia euripidea e si era affermato, con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966.

insieme lanzavegettiUna prova, questa, di tecnica filologica e, al contempo, il segno di una profonda attenzione per il pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto, nel 1971, ad Aristotele, ai primi studi sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi, quindi alla traduzione e al commento delle Opere biologiche in collaborazione con Mario Vegetti.

Nei primi anni Ottanta, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza tornò sistematicamente al teatro, tragico e comico, con la passione che gli veniva non solo dalla filologia, ma anche dalla famiglia: suo padre, Giuseppe Lanza, era stato drammaturgo e critico teatrale e nel primo dopoguerra aveva preso a portare con sé il figlio ancora bambino agli spettacoli e ai dibattiti milanesi.

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987In seguito e in conseguenza di questa ripresa, nel 1987, dunque nella piena maturità, Lanza arrivò a far convergere gli interessi filosofici e quelli teatrali nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo di cui si possono discutere alcune scelte particolari, ma che nell’impianto complessivo segna la storia degli studi, con il ridimensionamento della catarsi e la separazione di Aristotele dall’aristotelismo, di maniera che ne è seguita un’edizione che resta un riferimento per gli studiosi.

1997 La Disciplina dell'emozioneDieci anni dopo, nel 1997, con la raccolta di saggi in La disciplina dell’emozione, Lanza manteneva viva l’attenzione per la drammaturgia e, nel 2000, sosteneva la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Nel teatro attico e nei dialoghi platonici, Lanza aveva riconosciuto i luoghi privilegiati del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità aurea occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.

1997, Lo stolto1977 Il tiranno e il suo pubblicoLe due figure danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e possono essere considerate chiavi di volta del suo lavoro sempre a doppio taglio, di studioso delle culture antiche, di quella greca in particolare, e degli interpreti più illustri di quelle culture, dunque di storia della filologia.

2001 Dimenticare i GreciLo spazio letterario della Grecia anticaE in qualità di filologo e di storico della filologia, Lanza condiresse o fu consulente delle maggiori opere collettive tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, fu condirettore di Lo Spazio letterario della Grecia antica (Roma, Salerno Editore 1991-1996) e collaborò con Salvatore Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Torino, Einaudi 1996-2002).

2017 Tempo senza tempoUomo difficile, ma intellettuale appassionato, Lanza ha coltivato i temi in cui credeva fino alla fine. Lo testimoniano gli ultimi libri, La filologia dopo la guerra. Nuove prospettive, curato insieme con Gherardo Ugolini e pubblicato presso Carocci nel 2016 e Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, ancora edito da Carocci alla fine del 2017, un testo molto personale, in cui si possono intraleggere i lasciti più significativi della sua scrittura e del suo insegnamento, la testimonianza di un mestiere che deve necessariamente avvalersi di tecniche filologiche precise, ma che deve altrettanto necessariamente motivarsi di curiosità filosofica e di impegno politico per restituire correttamente il pensiero degli antichi e rimetterlo, senza forzature né imposture, nel circolo vivo del pensiero contemporaneo.

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Intervento letto il 16 giugno 2018 all’Assemblea
della Consulta Universitaria del Greco


 

Massimo Stella

per onorare Lanza e Vegetti

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Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
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di Diego Lanza e di Mario Vegetti
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Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996

Aristotele, Opere biologiche, Utet,1996

Aristotele, La vita

Aristotele, La vita

La riedizione, apparsa per Bompiani nel novembre scorso, delle Opere biologiche di Aristotele tradotte, commentate, introdotte da Diego Lanza e Mario Vegetti e pubblicate da UTET nel 1971 (2° ed. nel 1996), per la collana “I classici della scienza” allora diretta da Ludovico Geymonat, offre l’occasione di ricordare alla comunità dei lettori italiani (che già conoscono l’opera, che ancora non la conoscono, studiosi o cultori del mondo antico) l’importanza di questo imponente lavoro nel panorama bibliografico internazionale dell’antichistica e, più in generale, della storia del pensiero occidentale. Lavoro “imponente” si diceva, lavoro fondamentale nella storia degli studi filologici, epistemologici, filosofici, quanto di rottura: è lo snodo cruciale tra anni Sessanta e anni Settanta, e per un certo tipo di intellettuale marxista, autenticamente radicale e libertario, come lo furono convintamente durante tutta la loro attività Diego Lanza e Mario Vegetti, la tradizione umanistica, insieme al suo storicismo di matrice idealistica e al suo culto delle belles lettres rimodellato wilamowitzianamente da edificio scientifico dei realia, non poteva più convivere (per molti classicisti continuava e continua, invece, a farlo) con quella Kulturkritik che deriva la sua origine specifica dall’economia politica (prima ancora che dalla filosofia politica) di Marx.

 

Lanza e Vegetti non erano certo figure disponibili al compromesso tra conformismo accademico e esercizio del pensiero. Ora come allora, dunque, non si può capire assolutamente nulla della ricerca di Lanza e di Vegetti intorno alle opere biologiche di Aristotele se non si parte da tale premessa, soprattutto perché proprio essa è la ragione strutturale e immediata dell’innovatività scientifica unanimamente riconosciuta dagli aristotelisti all’opera dei due studiosi. Ed è un’innovatività ancora oggi fiammante giustamente per quella sua impostazione marxista, della quale vorrei ricordare qui di seguito i punti essenziali. Innanzitutto, Lanza e Vegetti guardano ad Aristotele (come sempre, in generale, guardavano all’Antico) a partire dalla Modernità: non si tratta di un posizionamento storico (o tantomeno attualizzante) bensì analitico, nel tentativo di tracciare i limiti linguistici e discorsivi (entrambi condividevano l’archeologia foucaultiana) dell’osservazione e della riflessione di Aristotele sull’animale, sul funzionamento delle sue parti e della sua struttura – fermo restando il fatto che, sia chiaro, l’unico tratto di discontinuità tra l’animale e l’uomo è la sophia.

uccello

Il costante riferimento alla biologia, alla fisiologia e alla zoologia moderne, tra Harvey e Linneo, tra Cuvier, Lamark e Darwin, è dunque essenziale ai due curatori per definire lo stile di razionalità (non dunque il “razionalismo”) aristotelico nelle sue caratteristiche intrinseche insieme al linguaggio che gli corrisponde. Ne risulta che la biologia di Aristotele è un sapere antropologico, calato nella memoria collettiva, e tuttavia dislocato dalla teoria e dal teorico sull’ulteriore livello dell’argomentazione. Ciò significa riconoscere alla biologia di Aristotele lo statuto di pensiero scientifico, nel quadro, però, di una prospettiva completamente differente da quella positivista ed evoluzionista, sostenuta, ad esempio, da Jaeger. Piuttosto e alternativamente, la biologia aristotelica, nella lettura di Lanza e di Vegetti, ci restituisce il lato fenomenologico della scienza, cioè il movimento teoretico-linguistico interno ad un sapere dell’esperienza che, tutt’al contrario e in modo decisamente retrogrado, l’umanesimo storicista considera risolto nella verifica. A questo proposito, Lanza e Vegetti sottolineano che la linea di demarcazione spesso tracciata tra scienza moderna e scienza artistotelica dagli odierni epistemologi sul filo della speculazione finalistica è una forzatura dovuta al peso della tradizione medievale, perché la dottrina biologica di Aristotele non si fonda tanto sulla causalità finale, quanto piuttosto sulle modalità causali.

Tavola tratta dal De Formato Foetu di Hieronymus Fabricius ab Aquapendente, 1604

Tavola tratta dal De Formato Foetu di Hieronymus Fabricius ab Aquapendente, 1604.

La vita stessa, secondo Aristotele, non è altro se non una particolare forma o struttura assunta dalla materia. E si tratta di un elemento particolarmente importante da sottolinare, in questa sede, soprattutto per spirito di servizio ai lettori, perché il titolo editoriale della riedizione Bompiani è: “Aristotele. La vita” (formula che scarta dal denotativo titolo UTET della 1° e della 2° edizione: “Opere biologiche”). Lanza e Vegetti sono molto chiari nel merito: la scienza biologica di Aristotele non si pone, infatti, il problema della “vita”, nell’accezione “vitalistica” del termine, l’anima stessa essendo semplicemente la struttura funzionale del corpo. E d’altra parte, per Lanza e per Vegetti, la conciliazione tra l’Aristotele biologo e l’Aristotele metafisico è un atto di pura falsificazione. Piuttosto, c’è uno psichismo tutto biofisiologico del corpo animale legato alle funzioni della percezione e della memoria: ed è Lanza in particolare a studiare da vicino, nelle sue note di commento e nelle introduzioni alle opere psicologiche, i processi di acquisizione conoscitiva (dall’esterno verso l’interno del corpo) e quelli che, invece, si originano in un impulso (dall’interno del corpo verso la realtà esterna), veri e propri dinamismi psicomotori in cui è possibile riconoscere un interessante anticipazione del concetto ben più recente di “stimolo nervoso”. C’è poi l’altra importante intuizione aristotelica intorno al legame tra l’attività psicomotoria e l’immaginazione: vista dalla parte della macchina corporea, l’immaginazione non è il gioco del “fantasticare”, bensì il prodotto dell’incontro e dell’intreccio tra esperienza somatica e rielaborazione emotiva di quella stessa esperienza. Ne è un chiaro esempio il funzionamento del ricordo, descritto da Aristotele nel De memoria come il vorticare di una forma in un fluido, posto che l’equilibrio dei fluidi (e soprattutto del sangue) è il perno della fisiologia aristotelica. Possiamo davvero dire, dunque, che, nell’intero panorama del mondo antico, è proprio Aristotele a scopire il corpo nella sua natura strutturalmente mista di biologico e di pulsionale, aprendo, di fatto, problemi che soltanto, per un verso, le ricerche di Piaget (la sua psicogenesi della conoscenza, i suoi studi sulla costruzione dell’intelligenza e sulla capacità mimetica umana), e, per l’altro, la psicoanalisi pre-freudiana e freudiana avrebbero esplorato fecondamente a cavallo tra XIX e XX secolo (sia detto incidentalmente: se l’attuale trend neuroscientifico degli studi letterari ritornasse all’Aristotele “psicologo” ci guadagnerebbe in apertura).

Aristotele, La vitaQuesta riedizione Bompiani (ARISTOTELE. LA VITA. Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, La locomozione degli animali, La riproduzione degli animali, Parva naturalia, Il moto degli animali, con un aggiornamento bibliografico a cura di Giuseppe Girgenti e una bibliografia degli scritti di Diego Lanza e Mario Vegetti, pp. 2363, 60 euro), ha il merito di rendere nuovamente e materialmente disponibile in libreria per il grande pubblico le Opere biologiche apparse per UTET nel 1971, tenendo così viva la testimonianza di un lavoro che rappresenta, al di là del suo altissimo apporto specifico agli studi aristotelici, un esemplare saggio di metodologia marxista senza obbedienze diplomatiche o fideistiche a nessun accademismo culturale e politico.

 

Credo che oggi – in questi nostri tempi di “caduta delle ideologie” e, per fatale conseguenza, di studi “alla moda” i cui i risultati sono sempre più spesso oggettistica di mercato e poco più che rassegne bibliografiche aggiornate all’ultima segnalazione google – sia importante ribadirlo: un’opera scientifica che resti fondamentale e duratura non è mai costruita primariamente sull’informazione e sul rispecchiamento delle tendenze en vogue, e nemmeno sulla pur nobilissima erudizione, ma su esatte scelte di pensiero che posizionino lucidamente lo sguardo critico a distanza strategica dalla struttura dei fatti e dei fenomeni analizzati.

[Saggio già pubblicato su Alias, il manifesto, 3-2-2019, p. 7].



Massimo Stella

Senza titolo-1

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2017 Tempo senza tempo

Tempo senza tempo: così si intitola il libro di Diego Lanza dedicato all’indagine teorica sul mito dal Settecento ad oggi (Carocci, settembre 2017). E’ un titolo che va in profondità: perché il “tempo senza tempo” è quello non di ciò che è accaduto, e nemmeno di ciò che immaginiamo, ma di ciò che abbiamo appreso.

Zakhòr, “Ricorda!”: ecco la dimensione del mito.

Questo libro, che in ordine di tempo è il suo ultimo, dice molto del modo di studiare di Diego Lanza e del suo modo di comunicare con il lettore o, per chi ricorda le sue lezioni e le sue conferenze, con l’ascoltatore: chi lo apre vi ritroverà il mestiere di filologo classico vissuto in senso convintamente antistoricistico e in opposizione all’umanesimo letterario e letterato, proprio perché svolto, quel mestiere, come esercizio di coscienza e di critica storico-materiali; vi ritroverà l’attenzione parallela per il mondo moderno e per il mondo antico, per la poesia e la scrittura dell’uno e dell’altro, come per le credenze e le pratiche religiose degli Antichi, depositate nell’epica, nel teatro, nelle opere dei filosofi e degli storici, e per l’esegesi vetero e neotestamentaria, vista dalla parte del Cristianesimo riformato, con spirito strutturalmente antidottrinario; ritroverà la conoscenza e l’interesse per le letterature e la filosofia europee, e l’interesse peculiare per quelle tedesca e francese, non solo e non tanto per professione intellettuale, ma per fiducia in quell’Internazionalismo politico e culturale che ha costruito l’identità dell’Intellettuale comunista nella nostra Europa, dal Manifesto del Quarantotto al Dopoguerra; e infine l’uso di uno stile e di una prosa sorvegliati, misurati, costituzionalmente antiretorici, che incidono con la precisione concettuale, mai con l’erudizione accademica, emozionando con gli strumenti, e l’intrinseca ironia, del pensatore, mai con l’effetto di parola: gli stimoli d’inquietudine che dalla scrittura delle sue opere provengono sino a noi, risalgono sempre dal sottofondo e dalla consistenza dei problemi affrontati.

1997 La Disciplina dell'emozione

Libri di problemi, appunto, sono quelli di Lanza, per lettori che vogliono incontrare domande decisive sul mondo antico nei suoi rapporti e legami con la Modernità. La disciplina dell’emozione (il Saggiatore, 1997) [una nuova edizione è in corso di stampa presso Petite Plaisance, Pistoia] ci mette di fronte a un interrogativo fondamentale: che posizione prendere, come spettatori, di fronte a una tragedia? e dunque: qual è il gioco cui una drammaturgia tragica espone il suo pubblico?

 

«La paziente ricostruzione delle condizioni operative ed espressive del teatro di venticinque secoli fa non vuol dunque assolutamente rivendicare uno sterile diritto dei filologi sulla tragedia greca, di fronte al necessario, fecondo riappropriamento della gente di teatro. […]Penso che proprio tentare di indicare i tratti espressivi e simbolici operanti sul pubblico di allora può permettere di interrogarsi più chiaramente su quali siano oggi le forme di espressione e di simbolicità più idonee a ricreare l’antica emozione, a interrogare il testo come uomini d’oggi (p.11)».

Il teatro tragico degli antichi acquista senso per Lanza quando lo si consideri nella sua specifica natura di oggetto drammaturgico, cioè, in altre parole, come dato d’esperienza: ma, allora, in che modo recuperare quell’esperienza? in che modo riattivarla (soprattutto se si tratta di venticinque secoli fa)? e come e quanto importa questo lungo lasso di tempo?

La filologia e l’antropologia sono senza dubbio uno strumento irrinunciabile a tal fine, ma non bastano: è fondamentale conoscere anche il mestiere del teatro (oltre che la sua storia) fino ad oggi… Ecco in che senso la filologia e l’antropologia di Lanza sono una filologia e un’antropologia di problemi. Stesso approccio strutturale alla commedia, di Aristofane, innanzitutto. Ma con un’apertura ulteriore, nel caso della commedia aristofanea: la questione, cioè, della critica intellettuale alla Ragione, dove, per “Ragione” non si intende solo la Raison, ma le molte e frastagliate forme della ragione discorsiva, filosofica, storico-politica, economica, da Aristotele al razionalismo classico francese (fino almeno) a Kant.

1997, Lo stolto

Quando, infatti, decide di scrivere un libro sul comico antico, Lanza non pubblica un’opera su Aristofane e sulla commedia greca, ma Lo stolto. Si Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune (Einaudi, 1997), un lavoro complesso, di prospettive culturali e storiche assai vaste, densamente intessuto di citazioni testuali e altrettanto annotato, soprattutto insolito – “trasgressivo”, appunto, come già annuncia la parola “trasgressori” del sottotitolo. E la trasgressione fondamentale che si compie in questo libro è la transizione dalla lingua dello stolto (il buffone) protagonista della scena aristofanea, e dai suoi mondi paradossali, assurdi, stralunati, al Socrate di Platone, proprio quel Socrate comunemente considerato “padre della filosofia” o più sottilmente, ma altrettanto generalmente, preso come maschera del filosofo platonico (se non di Platone stesso).

Ciò che interessa, invece, a Lanza è, nel segno dello Stolto e di Socrate, il legame tra il riso e il pensiero, nel momento in cui il pensiero si trova nudo di fronte al ridicolo, al lazzo, all’assurdo, all’insensato, al pazzesco, e allora si scopre che quella stoltezza pensa Noi, in modo imprevedibilmente diverso da come noi penseremmo, secondo ragione, noi stessi. C’è qui una sovversione senza compromessi, perché capace di intaccare i dispositivi immunitari del sapere e dei saperi, del potere e dei poteri, sovversione messa a fuoco per illuminare una trasformazione che riguarda da vicino la nostra società postdemocratica e postmoderna: una società di sudditi dominati e omologati dal dispositivo retorico della flessibilità e del pluralismo, «segnata dall’irrevocabile scomparsa di ogni efficace stultitia (p. 244)» e condannata a un’idiozia comune (la cosiddetta “fine delle ideologie”).

Aristotele, La vita

Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996E non è certo una posa, questa, di Lanza: viene, e non contraddittoriamente, ma conseguentemente, da uno dei maggiori esperti e studiosi, nazionali e internazionali, della razionalità aristotelica, per un verso, e della razionalità politica classica, per l’altro: viene da un editore della Poetica (Rizzoli, 1987) e delle Opere biologiche (con Mario Vegetti, Utet, 1971), da un profondo conoscitore di quei libri che oggi impropriamente continuamo a chiamare Retorica, Fisica, Metafisica; e viene, poi, dall’autore dell’Ideologia della città (1975, con Mario Vegetti).



Alcuni libri

di

Diego Lanza

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1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996

1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet. Con Mario Vegetti.

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1976 Belfagor

1976 Belfagor

Contiene il saggio: Alla ricerca del tragico.

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1977 Il tiranno e il suo pubblico

1977 Il tiranno e il suo pubblico.

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1977 Aristotele, La ricerca psicologica

1977 Aristotele, La ricerca psicologica

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1977 L'ideologia della città

1977 L’ideologia della città

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1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 Aristotele e la crisi della politica.

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1979 Lingua e discorso nell'Atene delle Professioni

1979 Lingua e discorso nell’Atene delle professioni.

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1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

1987 Aristotele, Poetica.

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1993 Aristotele, Poetica

1993 Aristotele, Poetica.

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1997 La Disciplina dell'emozione

1997 La disciplina dell’emozione.

Clitennestra si presenta al pubblico con la spada levata, ancora sporca del sangue di Agamennone; Edipo mostra agli spettatori le orbite vuote dopo essersi accecato; Agave agita trionfalmente la testa mozzata del figlio. Per tutta la durata del quinto secolo i tragediografi non risparmiarono al loro pubblico le emozioni più intense. Ma perché oggi, dopo 2500 anni, queste emozioni puntualmente si rinnovano, perché ne avvertiamo ancora la necessità? Che senso possono avere per noi quelle antiche storie di dèi ed eroi? Questo libro ricostruisce con vivacità le circostanze storiche e le regole istituzionali della tragedia greca, conducendoci a considerarne la funzione sociale e a penetrare nel suo ricco patrimonio simbolico. È uno strumento soprattutto per intendere la polifonia del dettato tragico, il susseguirsi dei diversi ritmi drammatici, l’uso degli attori e del coro, in una parola il complesso funzionamento della macchina teatrale di cui i tragici greci furono maestri a tutto il teatro europeo.

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1997, Lo stolto

1997, Lo stolto.

Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, 1997

Lanza sviluppa la sua ricerca delle diverse figurazioni della “stultitia” recuperandole in Aristofane e in Platone, in Andersen e Collodi, Cervantes e Woody Allen e sottolineando come sia lo stolto che la stoltezza non costituiscono né un elemento chiaramente definibile una volta per tutte, né una figura semplicemente ripetitiva. La “stultitia” è infatti un’incognita a cui di volta in volta viene attribuito ciò che disturba il senso comune, ciò che in quel momento è considerato ridicolo, ripugnante o riprovevole. Così la figura dello stolto è mutevole, essa cambia infatti con il trasformarsi dello stesso senso comune e della razionalità che la definiscono: Socrate, Pinocchio, Till Eulenspiegel, Calandrino, Zelig, sono esempi in questo senso.

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2001 Dimenticare i Greci

2001 Dimenticare i Greci.

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2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

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2007 La Poetica e la sua storia

2007 La Poetica e la sua storia.

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2009 Aristotele, Poetica

2009 Aristotele, Poetica.

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2012 Aristofane, Acarnesi

2012 Aristofane, Acarnesi

Aristofane, Acarnesi, Introd. traduz. e commento di Diego Lanza, Carocci, Roma 2012.

Acarnesi, la prima commedia del giovane Aristofane giunta fino a noi, vede Atene impegnata nel quinto anno di guerra contro Sparta. Dal miraggio della pace, che appare ancora remota, muove la vicenda rappresentata: la tregua che il protagonista riesce a concludere privatamente con il nemico e i benefici che ne conseguono. La commedia mostra già tutta la maestria compositiva e linguistica del grande comico. La traduzione che accompagna il testo rispecchia efficacemente la vivacità della scrittura aristofanea, con il variare dei ritmi, i continui scarti stilistici, i giochi allusivi e manipolatori della lingua. L’introduzione e un agile commento accompagnano il lettore alla scoperta della complessa partitura drammaturgica che si rivela a un’attenta considerazione del testo.

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2013 Interrogare il passaro

2013 Interrogare il passato.

Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, 2013.

I maggiori studiosi del mondo classico degli ultimi due secoli hanno sempre avuto occhi e orecchi attenti al rapporto tra la loro disciplina e la società in cui vivevano. Il libro ripercorre le esperienze di alcuni grandi maestri dell’antichistica: Friedrich August Wolf tra Goethe e Schelling, Wilamowitz e Nietzsche di fronte all’affermarsi dell’impero prussiano, Werner Jaeger e Bruno Snell nell’Europa lacerata dall’avvento del nazismo, Jean-Pierre Vernant tra marxismo e strutturalismo, fino al filologo immaginato da Thomas Mann come suo alter ego nel Doctor Faustus, nella ricorrente memoria dell’intransigenza di Lutero e della compiacente tolleranza di Erasmo da Rotterdam. Il lettore è così condotto, fuori di ogni tecnicismo ma sempre nel merito della disciplina, fino al più recente classicismo invocato come fulcro di una pretesa identità occidentale.

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2016 Storia della filologia classica

2016 Storia della filologia classica.

Con G. Ugolini, Carocci, 2016.

Il volume traccia un profilo storico della filologia classica negli ultimi due secoli e mezzo, da quando cioè si è venuta definendo come disciplina autonoma, focalizzando l’attenzione sugli snodi teorici e metodologici attraverso cui si è sviluppata, sulle figure degli studiosi più significativi, sulle discussioni e le polemiche che ne hanno segnato il procedere, sui nessi con lo sfondo istituzionale e il contesto storico in cui ha operato. Il percorso diacronico è scandito in tre parti. Nella prima si parte dal modello della filologia anglosassone di Richard Bentley per arrivare all’istituzionalizzazione della disciplina nel mondo accademico tedesco (Heyne e soprattutto Wolf) e nella realtà scolastica (Wilhelm von Humboldt). Nella seconda si analizzano i contributi teorici e le principali dispute metodologiche che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Lachmann, Hermann, Boeckh, Nietzsche e Wilamowitz. La terza e ultima parte è dedicata alla ridefinizione degli studi classici in Germania (Jaeger) e in Italia (Pasquali), all’apporto della papirologia, alle nuove immagini dell’antichità venute a delinearsi nelle opere di scrittori, narratori, registi e traduttori del nostro tempo, e infine ai personaggi più significativi degli ultimi decenni: Snell, Dodds, Vernant, Gentili, Loraux.

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2017 Tempo senza tempo

2017 Tempo senza tempo

Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, Carocci, 2017.

Che cos’è un mito? La sua definizione dipende dal contenuto, dalla struttura narrativa o dalla funzione sociale che assolve? Con questo tema si sono confrontate eminenti figure di studiosi di diversa origine e differenti interessi: Heyne, Nietzsche, Propp, Mann, Lévi-Strauss, Pavese, solo per citarne alcuni. Le loro riflessioni hanno mostrato che i racconti che definiamo miti hanno costituito o continuano a costituire un’espressione particolarmente significativa dell’immaginario di una società, di cui compendiano fedi religiose, credenze comuni, paradigmi di comportamento. Rievocando i termini essenziali di questo bisecolare dibattito, l’autore ne evidenzia i rapporti con il più vasto processo di trasformazione intellettuale della società europea.

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2018 Aristotele, La vita

2018 Aristotele, La vita

Con Mario Vegetti.

Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. – Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D’altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l’assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le “Ricerche sugli animali”, che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle “Parti degli animali” con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l’attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La “Riproduzione degli animali” descrive la riproduzione sessuale, intesa come l’infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

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Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. - Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D'altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l'assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le "Ricerche sugli animali", che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle "Parti degli animali" con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l'attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La "Riproduzione degli animali" descrive la riproduzione sessuale, intesa come l'infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

«aut aut» n. 184. Nuove antichità (Vernant, Lanza, Sircana, Casagrande, Vecchio, Ferrari).

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Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

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Lo spazio letterario della Grecia antica

Lo spazio letterario della Grecia antica

Lo spazio letterario della Grecia antica01

Lo spazio letterario della Grecia antica

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Senofonte, Economico

Senofonte, Economico.

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Storia del mondo antico

Storia del mondo antico.


Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau, Diego Lanza, lecteur des œuvres de l'Antiquité

Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau,
Diego Lanza, lecteur des œuvres de l’Antiquité, OpenEdition Books

Bibliographie de Diego Lanza


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

Günter Anders 06

«E, con stupore, un mattino scoprirà di essere davvero complive dell’infame, di passare per suo amico e di non poter più tornare indietro; in questo modo anche lui si rende odioso e sarà giustamente odiato».

L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro».

G. Anders

Günter Anders, L’odio è antiquato, Bollati Boringhieri, Rorino 2006.

In questo saggio Günter Anders prosegue nella sua riflessione sull’obsolescenza delle emozioni e dei sentimenti, inutili fardelli in un mondo dominato dallo strapotere delle macchine. La tecnica ha reso l’uomo antiquato, obbligandolo nello stretto binario della coppia produzione-consumo, e antiquata è divenuta anche la sua attitudine immaginativa, ormai incapace di cogliere gli smisurati effetti di gesti che rischiano di avere nel paradosso atomico, nell’evento ultimo la loro epifania.

Lello Demichelis

La tecnica trionfa, l’odio è superfluo

Odiarsi. Nemici veri e soprattutto immaginari o artificiali vengono incessantemente venduti nel grande supermercato dell’odio, dove si possono acquistare con facilità nemici di ogni genere. L’Occidente, nemico per un certo mondo islamico; l’Islam, nemico per un certo Occidente che evoca scontri di civiltà (ovvero, induce a sua volta all’odio). Oggi l’Islam, ieri il comunismo; ma anche i tifosi della squadra avversaria, i nemici politici, il vicino di casa. L’odio come regola sociale? Tutti contro tutti?
Odio, dunque sono – principio che sembra più vero di quello cartesiano. Odio, dunque «io sono io»; di più: «dunque, io sono qualcuno». Se non odiassi, sarei nessuno: solo odiando l’altro, il nemico, il diverso, lo straniero, l’immigrato posso affermare la mia identità.
Devo dunque costruirmi – o lasciare che qualcuno produca per me – un nemico contro cui scaricare il mio odio, solo uccidendolo (fisicamente o simbolicamente) posso credere di esistere. Perché l’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro»: lo scriveva il filosofo Günther Anders (1902-1992, allievo di Heidegger e di Husserl, pensatore e disincantato, dallo stile graffiante e coinvolgente) in questo testo del 1985 – L’odio è antiquato – ora splendidamente tradotto e curato da Sergio Fabian per Bollati Boringhieri nella nuova collana «incipit», piccoli ma splendidi libri da leggere e da meditare.
Per odiare davvero, l’odio non deve essere effimero e veloce, ma deve durare e crescere nel tempo.
«Modello del torturatore è il gioco del gatto con il topo, giacché in esso egli non solo gode del topo come cibo, ma in più trae ulteriore piacere dal suo braccare il topo che, essendo bramosia, è per metà amore e per metà odio e, differendolo, amplifica il desiderio»: già, perché nell’odiare c’è anche, o soprattutto, il piacere di odiare, di giocare con l’altro, più si odia più si produce piacere in chi odia. E gli individui, «tanto meno amano o tanto più odiano amare, tanto più essi amano odiare» – e non è un gioco di parole. Questo odio nei confronti dei nemici non nasce «per autocombustione» – scriveva Anders in una sorta di dialogo surreale e paranoico insieme tra il «filosofo Pirrone» e il «Presidente Traufe» – ma perché qualcuno o qualcosa rifornisce le persone dell’odio di volta in volta necessario a concentrare l’attenzione su qualcosa (o a distogliere l’attenzione da qualcosa d’altro).
«Rifornire» di odio, appunto: come il gas o l’acqua o la televisione, casa per casa. Dove poi ciascuno consuma la sua dose di odio, facendo crescere incessantemente la domanda di nuovo odio. Nemici reali o «nemici succedanei». E parole-chiave e immagini-chiave per emozionare, per creare un legame tra il prodotto-odio e il consumatore-di-odio, come in una normale azione dimanipolazione pubblicitaria (o ideologica).
Ma questo era vero ieri. Oggi – e Anders riprende i temi della sua «filosofia della tecnica» sviluppata nei due volumi de L’uomo è antiquato (sempre Bollati Boringhieri), con gli uomini divenuti servitori delle macchine, incapaci ormai di controllarle e dominarle, essendone invece dominati e controllati – oggi anche la guerra è un «lavoro» e «gli eserciti sono formati da lavoratori e da impiegati», che per mezzo di strumenti tecnici fanno il lavoro della guerra, un lavoro alienato come il lavoro di produzione, senza più il «senso» di ciò che si fa, indifferenti a ciò che si fa, «il loro agire è nichilismo in azione». Non si vedono i nemici, se non sullo schermo di qualche arma supertecnologica, quasi fosse un videogioco – dunque la «distanza» tra realtà e rappresentazione.
E forse neanche più «lavoro», ma «semplice attivazione, senza sforzi, di processi che sono espletati da strumenti e che poi, senza che gli operatori siano minimamente coinvolti, sfociano in effetti», lontani ma comunque annichilenti. I campi di battaglia sono divenuti «antiquati».
In questo trionfo della tecnica, anche l’odio diventa superfluo, antiquato. Nessun computer «è capace di odiare». Perché, a differenza degli uomini – che dopo essersi odiati magari tornano ad amarsi – non può smettere di combattere, perché in lui non c’è odio, «per non parlare di amore».
Questo significa che l’odio è scomparso?
No, e Anders ne era consapevole. Ci sarà infatti sempre qualcuno pronto a produrre e a vendere odio; e molti, troppi pronti a comprarlo.
Ma questo odio sembra ormai un accessorio, un sovrappiù, in un mondo sempre più tecnico.

Lello Demichelis, La tecnica trinofa, l’odio è superfluo, in La Stampa, «tuttolibri», 19-08-2006, p. 6.


 

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.

Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo

ISBN 978-88-7588-132-0, 2014, pp. 400, Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

Günter Anders.
Filosofo e scrittore tedesco.
Figlio dello psicologo di chiara fama Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica.
Assimilato come ebreo tedesco, studiò sotto Martin Heidegger e Edmund Husserl, completando con quest’ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923.
Nel 1929 cercò di ottenere l’abilitazione alla docenza presso l’Università di Francoforte sul Meno, ma non ebbe successo, anche per via delle pressioni esercitate sul suo relatore da parte di Adorno.
Questi non aveva gradito le tesi di Anders sulle cosiddette “situazioni musicali”.
Lo pseudonimo Anders fu inventato su invito del suo editore di Berlino, il quale gli suggerì di cambiare il suo cognome (Stern) in quanto troppo comune tra gli scrittori in Germania. L’idea fu dunque di tentare “qualcosa di diverso” (etwas Anders in tedesco).
Anders volle prendere alla lettera quella proposta, e scelse di chiamarsi “diverso”.
Sposò nel 1929 Hannah Arendt, grande filosofa dalla quale avrebbe divorziato nel 1937 (a causa del di lui pessimismo, a dire della Arendt “difficile da sopportare”).
L’avvento del nazionalsocialismo in Germania, nei primi anni Trenta, lo costrinse all’esilio. In principio scelse Parigi, poi fu a New York e a Los Angeles, dove si sarebbe dedicato a molti, umili lavori manuali per mantenersi.
La profondissima crisi in Europa la osservò quindi da lontano, e assistette sgomento alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, così come alla militarizzazione che fu retaggio della successiva guerra fredda.
Scrisse il suo primo libro di riflessioni filosofiche, Die Schrift an der Wand: Tagebücher 1941-1966 (Scritti sul muro: Diari 1941-1966), e iniziò la sua riflessione svolgendo nel contempo un lavoro come operaio in un magazzino di costumi storici a Hollywood.
Rientrò in Europa nel 1950 e si stabilì a Vienna. Cominciò a lavorare su Die Antiquiertheit des Menschen (L’uomo è antiquato, 1956), nel quale dispiegava una potente riflessione sull’inadeguatezza dei sentimenti umani nell’epoca della tecnica e delle macchine, muovendo nel frattempo un’accusa filosofica contro Heidegger, i cui principi arrivò a definire di “cecità verso l’Apocalisse”.
Coniò il termine Diskrepanzphilosophie (filosofia della discrepanza), per descrivere la crescente divergenza tra ciò che è diventato tecnicamente possibile (ad esempio, la distruzione atomica di tutto il mondo), e ciò che la mente umana è in grado di immaginare.
Indefesso oppositore del potere e particolarmente attivo nel denunciare il riarmo atomico, Anders è oggi riconosciuto come un saggista importante del movimento anti-nucleare e uno fra i maggiori filosofi contemporanei.
È stato uno dei pensatori che – con maggior rigore – hanno ripensato la condizione dell’umanità nell’epoca degli armamenti di distruzione di massa. 

Assieme a Robert Jungk, Anders fu il cofondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima (Der Mann auf der Brücke, 1959) e la sua corrispondenza epistolare con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders, 1961).
Fra i  suoi libri ci sono anche una lettera aperta al figlio di Eichmann e un discorso sulle vittime delle guerre mondiali.
Nel 1967 prese parte come giurato al tribunale Russell per rendere pubbliche le atrocità commesse in Vietnam dall’esercito americano. Dal 1945 al 1955 fu sposato con la scrittrice austriaca Elisabetta Freundlich.
Nel 1957 si sposò con la pianista ebreo-americana Charlotte Lois Zelka. 

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Roberto Signorini – Arte del fotografico. I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi venti anni.

Arte del fotografico in

Roberto Signorini

Arte del fotografico.
I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi venti anni
.

ISBN 88-87296-85-5, 2001, pp. 256, formato 170×240 mm., Euro 20,00 – Collana “Fotografia”. In copertina: Emilio De Tullio, Il corpo, il segno, 1997. L’immagine è stata realizzata fotografando l’impronta prodotta da un corpo su un tessuto elastico, teso e illuminato in modo radente.

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Arte del fotografico

Arte del fotografico


 

La fotografia appare ormai una componente essenziale del sistema delle arti visive. Se a ciò non sono estranei i meccanismi di un mercato sempre più pervasivo, è però anche ad altre dinamiche che bisogna guardare. Fra queste, un crescente interesse culturale non solo per la tecnica e la storia della fotografia, ma soprattutto per il suo presentarsi come oggetto di riflessione teorica e, proprio in quanto tale, come forma di arte contemporanea, in un’epoca che è carica di interrogativi al di sotto del rumore mediatico. Fin dalle sue origini, in realtà, la fotografia solleva questioni filosofiche ed estetiche centrali nella cultura occidentale moderna, in particolare nei momenti di crisi più acuta di questa cultura. Così è stato all’inizio del Novecento, con le avanguardie artistiche. E così avviene in questi ultimi vent’anni, dopo le neoavanguardie e parallelamente al dispiegarsi della lunga crisi di passaggio dalla modernità alla post- o tarda modernità, con l’intensificarsi del dibattito teorico sulla fotografia intorno a due “storiche” questioni: quale rapporto ha con la realtà l’immagine fotografica? Qual è il contributo specifico della fotografia all’insieme delle arti visive? Alcuni dei testi chiave di questo dibattito, prodotti da autori come Rosalind Krauss, Henri Van Lier, Philippe Dubois, Jean-Marie Schaeffer, Jean-Claude Lemagny, in Italia cominciano appena a circolare oppure devono essere ancora tradotti, e comunque attendono una ricostruzione del contesto in cui s’inquadrano e dei rapporti che li legano a quelli di teorici italiani come Vaccari, Marra, Eco. E soprattutto restano da definire e approfondire i problemi filosofici a cui tutto il dibattito allude. A tale ricostruzione vuole contribuire Arte del fotografico, con una sintesi che si sviluppa in quattro momenti:

1. Il fotografico nell’arte contemporanea. Fotografia e critica d’arte. Il fotografico come “logica” profonda della fotografia condivisa (in modo implicito o esplicito) dalle altre arti visive del XX secolo.

2. Ai confini del segno: l’atto fotografico. Fotografia e se­miotica. La logica del fotografico alla luce dell’indice di Peirce; dalla nozione, ambigua e precaria, di “segno fotografico” a quella di “atto fotografico”, dalla fotografia come messaggio alla fotografia come esperienza di produzione e (soprattutto) di ricezione.

3. Ai confini dell’opera: un’arte precaria. Fotografia ed estetica. La fotografia come arte contemporanea, cioè come esperienza este­tica e riflessione dell’arte su se stessa, come “arte precaria” o arte del fotografico.

4. A partire dal fotografico: problemi e prospettive. Fotografia e filosofia. I rapporti, impliciti nel fotografico, tra rappresentazione e realtà, significazione e percezione, moderno e tardomoderno, avanguardia e arte contemporanea, e il loro rinvio alle questioni filosofiche della verità e del soggetto, sullo sfondo del “nichilismo della modernità”.

Il libro comprende numerose citazioni degli autori studiati, due “intermezzi” semiotico-filosofici e un ricco apparato bibliografico e di note, permettendo così di cogliere tutti i riferimenti esterni e interni del dibattito.


Introduzione

I.

La fotografia sembra oggi definitivamente consolidata come parte essenziale del sistema delle arti visive. Se a ciò non sono estranei i meccanismi di un mercato sempre più pervasivo, è però anche ad altre dinamiche che bisogna guardare. Fra queste, un crescente interesse culturale non solo per la tecnica e la storia della fotografia, ma soprattutto per il suo porsi come oggetto di riflessione teorica e, proprio in quanto tale, come forma di arte contemporanea1, in un’epoca carica di interrogativi al di sotto del rumore mediatico.

In questo approccio è centrale la nozione di “fotografico”, termine con cui s’intende una logica di funzionamento dell’immagine e una sua relazione con la realtà, con l’autore e con i fruitori, tipica della fotografia ma comune anche a molte altre espressioni dell’arte contemporanea. Del “fotografico”, dunque, oggi si parla diffusamente per alludere a un vasto e unitario (per quanto sfaccettato) ambito d’esperienza che forse non è fuori luogo chiamare arte del fotografico, in cui i confini tradizionali tra fotografia e arte sembrano venire meno2, o piuttosto costituire essi stessi un nuovo campo di attività e di teoria. Al progressivo configurarsi di questo ambito si è arrivati sia attraverso le pratiche artistiche sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta, sia attraverso la riflessione teorica sulla fotografia che le ha accompagnate e seguite, con un massimo di intensità e ricchezza negli ultimi vent’anni, cioè dalla seconda metà del decennio Settanta. Non a caso, è in questo ventennio che sono state pubblicate quasi tutte le raccolte di testi di riflessione sulla fotografia oggi disponibili3: segno chiaro di un bisogno di ripensamento e sistemazione teorica avvertito dopo la fase più tumultuosa di quelle vicende artistiche. E non è un caso neppure il fatto che in Italia si concentrino negli stessi anni le non numerose traduzioni di testi stranieri sulla fotografia4.

A questo periodo, appunto, appartiene il dibattito teorico di cui qui ci occuperemo. Esso potrebbe anche apparire un tema limitato e d’interesse puramente specialistico, se non si collocasse al centro di quel processo cruciale di definizione di un’arte del fotografico cui si è appena accennato, ricco – come vedremo – di implicazioni critiche, estetiche e filosofiche. È vero piuttosto – e purtroppo – che tale dibattito è da noi ancora poco e solo frammentariamente noto: degli studiosi che ne sono protagonisti, soltanto Rosalind Krauss e Philippe Dubois sono stati recentemente tradotti5; gli altri, Henri Van Lier, Jean-Marie Schaeffer, Jean-Claude Lemagny6, restano ancora inediti in italiano, e inoltre manca uno studio d’insieme sul loro contributo alla teoria della fotografia, sui rapporti che li legano ad altri teorici già noti, sui loro presupposti culturali.

Un tale studio è appunto ciò che tento in questo libro, anche nella (debole) speranza che, grazie a una migliore conoscenza degli autori, altri loro testi trovino editori disposti a renderli accessibili in traduzione italiana.

II.

Ma questo dibattito teorico, a sua volta, non ha alle spalle il vuoto, bensì la vicenda ormai lunga di quella che Wolfgang Kemp chiama la “teoria della fotografia”7 e Alan Trachtenberg la “storia intellettuale del medium”8: una storia che solo attraverso un percorso accidentato e segnato da svolte radicali arriva a prendere coscienza di sé alla fine degli anni Settanta, cioè proprio all’aprirsi del periodo cruciale a cui appartiene il dibattito documentato in questo libro.

Una storia così complessa non può certo essere riassunta qui: basti pensare che l’opera di Kemp ad essa dedicata è giunta al quarto volume9, e che in Italia – dove manca per ora un lavoro di tale mole – alle posizioni teoriche degli anni Sessanta – Claudio Marra ha dedicato un intero testo saggistico-antologico10. Non posso quindi se non richiamare velocemente alcune tappe fondamentali, rinviando i lettori più volonterosi alle ricostruzioni di queste e delle altre raccolte di testi teorici sulla fotografia già citate in nota11.

La fotografia è fin dalle origini oggetto di vivaci discussioni. Esse nascono dalla incertezza del suo statuto teorico (ontologico ed estetico) e, semplificando all’estremo, si possono ricondurre a due domande fondamentali:

– Qual è la “natura”, l’identità, della fotografia, e quale il suo rapporto con la realtà (il suo statuto di medium, diremmo oggi)?

– Quali rapporti essa ha con le altre forme di espressione visiva? È arte anch’essa? E in che consiste la sua artisticità?

Fra le due domande vi è, storicamente, uno stretto legame12: infatti fin dall’inizio la riflessione sulla natura di riproduzione automatica della fotografia porta con sé quella sui suoi rapporti con la concezione tradizionale dell’opera d’arte come creazione soggettiva. La fotografia si rivela quindi un “oggetto teorico”13 – anzi, vedremo, un “oggetto filosofico”14 – altamente problematico, nel quale s’intrecciano questioni centrali della cultura occidentale moderna.

La riflessione ottocentesca sull’ontologia e l’estetica della fotografia si sviluppa gradualmente, emergendo dalla vastissima produzione di manuali pratici che accompagnano il continuo evolversi della tecnica. Di un primo approccio all’ontologia della fotografia sono rappresentativi già nei titoli libri come The Pencil of Nature (La matita della Natura) William Henry Talbot (1844-4615) o saggi come “Sun Painting and Sun Sculpture” (Dipinti e sculture del sole) e “Doings of the Sunbeam” (Creazioni del raggio di sole) di Oliver Wendell Holmes (1861-6316). Ma non è in questa direzione ontologica che si sviluppa il dibattito, bensì in una direzione estetica: se in un primo momento si  parla di art of photography Henry Hunt Snelling, 184917 Francis Frith, 185918), Kunst der Photographie D. G. C. Hermann Halleur, 185319), art de la photographie (Eugène Disdéri, 186220), nel senso di una fotografia comme art et comme industrie (Mayer et Pierson, 186221), e se Baudelaire (1859) vuole una “industria fotografica” che sia “la serva delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima”22 , ben presto invece, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si affermano i concetti di pictorial effect in photography e di picture-making by photography (Henry Peach Robinson, 186923, 188424), di fotografia come pictorial art (Peter Henry Emerson, 188625) e di pictorial photography (Robinson, 189626), nel senso di una fotografia identificata non più come “industria” bensì come creazione di pictures, di immagini-quadro dotate della stessa autonoma dignità di quelle della tradizione pittorica, aprendo così la strada al movimento poi noto come pittorialismo. Ed ecco allora che all’automatismo impersonale del Sun painting teorizzato da Holmes subentra l’intervento creativo e soggettivo del Sun artist di Robinson (1890) e di . Arthur; W. Arthur Boord (1891)27, e si diffonde la nozione di art photography (Cornelius Jabez Hughes, 186128), artistic photography (Bigelow, 187629; Marius De Zayas, 191330), photographie artistique (Pierre Petit, 1883; Constant Puyo, 189631), künstlerische Photographie (Carl Schiendl, 188932; Matthies-Masuren, 190733), photography as a fine art (Charles H. Caffin, 190134), mentre si comincia a tentare esplicitamente una vera e propria æsthetics of photography (William Heighway, 187835) o esthétique de la photographie (Paul Bourgeois, 190036) in risposta alla domanda: la photographie est-elle un art? (Robert de La Sizeranne, 189837), is photography a new art? (Camera Work, 190838).

La risposta, però, non viene dall’interno della pratica fotografica: il pittorialismo che vi domina, infatti, sia nel perseguire gli “effetti” tecnici sia nel legittimarli teoricamente, la cerca nel riferimento al modello della pittura, contraddicendo così proprio l’aspirazione a un’autonoma dignità artistica della fotografia. La risposta giunge invece dall’esterno, dal profondo rivolgimento della pratica e della teoria dell’arte prodotto dalle avanguardie storiche, legato a sua volta alla crisi sociale, politica e culturale che segna l’inizio del Novecento, col primo delinearsi di una società tecnologica e di massa. Nello spazio aperto da questa messa in discussione di tutti gli aspetti tradizionali dell’arte e dalla radicale ridefinizione delle arti visive, viene anche, per così dire, reinventata la fotografia, attraverso l’esplorazione e valorizzazione estetica della sua peculiare ontologia automatico-riproduttiva.

Ciò avviene lungo due direttrici principali: negli Stati Uniti, dove gli apporti dell’avanguardia giungono dal di fuori e s’innestano su una solida tradizione documentaria, viene teorizzata e praticata la straight photography o “fotografia diretta” – cioè “non modificata da interventi manuali, rigorosa nel dettaglio e nella definizione di stampa”39 (Hartmann, 190440; Paul Strand, 1917, 1922, 192341) –, che poi si evolverà o nello “spiritualismo trascendentale […] della fotografia ‘pura’” di Edward Weston o nella “sintesi di documentazione e sperimentazione […], di presentazione oggettiva e di sentimento soggettivo” di Walker Evans42; in Europa invece, dove fra Germania, Unione Sovietica e Francia si trovano i centri di elaborazione e irradiazione delle esperienze costruttiviste e dada-surrealiste, László Moholy-Nagy (192543) afferma la “nuova visione” fotografica come “modo per trasformare completamente la visione convenzionale, forzandola in nuove prospettive e aprendo nuovi canali di esperienza”44; Osip Brik teorizza l’opposizione “fotografia contro quadro” e il passaggio “dal quadro alla fotografia” (1926, 192845); e Siegfried Kracauer (192746) e Walter Benjamin (1931, 193647) riflettono sulla fotografia come nuovo medium della società di massa, il secondo in particolare sottolineando il suo “valore di esposizione” ed “effetto di shock”, e l’aprirsi, con essa, della prospettiva problematica e conflittuale di un’arte ormai priva di “aura” e di carica simbolica, in tensione fra rottura rivoluzionaria e integrazione nella produzione capitalistica. È soprattutto con Benjamin – il primo teorico in cui la riflessione sulla fotografia s’inserisca in una meditazione filosofica complessiva, avente come tema la modernità e il suo costituirsi48 – che l’ontologia automatico-riproduttiva della fotografia viene sviluppata non tanto nella direzione di un’estetica dello “specifico” fotografico quanto, più radicalmente, in quella del ruolo di punta della fotografia nel processo di “disartizzazione” dell’arte e di sviluppo di un estetico non più coincidente con l’artistico. Una radicalità che, non a caso, si collega alla componente dell’avanguardia più caratterizzata come negazione, cioè quella dada-surrealista.

E non è certo un caso se la radicalità teorica di Benjamin è destinata a rimanere per alcuni decenni una punta isolata, fino alla sua “riscoperta” nella società dei consumi e dei media degli anni Sessanta49; non diversamente da quanto avviene per la radicalità di approccio alla fotografia che è presente, ma in modo più sotterraneo, nell’opera di Duchamp, e che a sua volta sarà riconosciuta e resa esplicita solo negli anni Settanta dalla riflessione sul fotografico di cui parleremo a lungo più avanti. Nei decenni Trenta e Quaranta, invece, col “ritorno all’ordine” generalizzato – tra fascismi, stalinismo, rooseveltismo e fronti antifascisti –, dominano piuttosto la pratica e la teoria di una “fotografia sicura di sé”50, che della fase precedente sviluppa non tanto le spinte avanguardistiche “negative” e di rimescolamento tra arti visive, quanto l’affermazione di uno “specifico” della fotografia risolto in purezza formale straight e in documentazione e diffusione di messaggi mobilitanti; e intanto il lavoro teorico si rivolge soprattutto da un lato alla riflessione sulla fotografia come fenomeno socio-culturale (Gisèle Freund, 193651; Robert Taft, 1938) e dall’altro alla ricostruzione storiografica del suo ormai secolare percorso, sulla via – aperta anch’essa da Benjamin53 – di una storia culturale e non solo tecnica (nasce in questi anni, fra numerose altre, la più celebre Storia della fotografia, quella di Beaumont Newhall, poi più volte riveduta e ampliata e tuttora considerata un punto di riferimento54).

Ma quando, al culmine di questa fase, la cultura egemone della fotografia documentaria e “umanista” trova la sua espressione più compiuta in Henri Cartier-Bresson e nella sua teoria del “momento decisivo” – sintesi tra “organizzazione delle forme” e “significato di un evento” (195255) –, è da pochi anni uscito un saggio del critico cinematografico Bazin che attira l’attenzione sulla “Ontologia dell’immagine fotografica” (194556), e stanno per fare la loro apparizione le destabilizzanti immagini di William Klein (195657) e di Robert Frank (195858). Quella che Jean-Claude Lemagny definisce una “fotografia insicura di sé”59, e Paolo Costantini una “fo­to­grafia inquieta, tesa alla ridefinizione dei materiali e delle possibilità storiche del mezzo”60 – dallo spiccato atteggiamento autoriflessivo, presto condiviso con le neoavaguardie degli anni Sessanta –, pone di nuovo in stretto collegamento, come all’epoca delle avanguardie storiche, le due questioni dell’identità e dell’artisticità della fotografia, della sua ontologia e della sua estetica, ancora una volta in rapporto con vivaci movimenti artistici. Ovviamente, però, a partire da premesse diverse. Questo sono: da un lato, il clima di grande attenzione ai linguaggi e ai fatti comunicativi – effetto sia dell’ormai enorme diffusione delle comunicazioni di massa, sia della cultura filosofica dello strutturalismo e degli studi di semiotica, sia dei movimenti di contestazione e comunicazione alternativa del ’68 –; dall’altro lato, il vivo interesse che le neoavanguardie manife­stano per i media, principalmente il video e la fotografia, creando fra quest’ultima e le prati-che arti-stiche un’intensa osmosi, paragonabile solo a quella prodotta dalle avanguardie storiche.

E anche quando tale osmosi verrà poi meno negli anni Ottanta – caratterizzati non solo dall’attenuarsi dell’interesse per lo strutturalismo e la semiotica e dal riflusso dei movimenti del ’68, ma anche dall’affermarsi del Postmodern e del ritorno alla pittura –, tuttavia la pro­duzione teorica non si esaurirà, rimanendo anzi ampia ed analitica. Il risultato, oggi sotto i nostri occhi, del lavoro compiuto negli anni Sessanta e soprattutto Settanta-Ottanta è un patrimonio di studi teorici e storiografici senza precedenti per vastità e ricchezza di temi: la fotografia è oggetto di riflessione socio-antropologica61 e di storia generale62 e sociale63, di approcci semiotico-linguistici64 e psicologico-percettivi65, di analisi dei suoi rapporti con la pittura del passato e (in misura sempre maggiore in anni recenti) con le arti visive contemporanee66, di studio delle sue possibilità di rappresentazione dell’architettura e del paesaggio67 così come, negli ultimi anni, del corpo in tutte le sue manifestazioni68, nonché oggetto di un teso confronto con la nuova immagine digitale69. In questo contesto, la fotografia è ormai solidamente acquisita non solo come arte visiva, ma anche come tema di riflessione teorica ontologico-estetica70, e quindi come vero e proprio “oggetto filosofico”71: l’interesse manifestato per essa dal pensiero strutturalista e semiotico si prolunga – attraversando emblematicamente tutta l’opera di una figura centrale come quella di Roland Barthes (1961-198072) – nell’interesse del pensiero poststrutturalista e postmodernista. E questo trova nell’“atto fotografico” e nell’“immagine precaria”73 che ne è il prodotto, un terreno non secondario di riflessione sulla crisi di quella modernità il cui costituirsi Benjamin aveva studiato, interrogando anch’egli, fra l’altro, la fotografia74.

III.

È su questo sfondo che si colloca il dibattito di cui qui ci occuperemo. Non tutti i suoi aspetti, in realtà, sono sconosciuti, grazie al lavoro teorico e storico di autori già citati; ma altri ne restano da scoprire, in particolare il contributo dei teorici stra-nieri che ho menzionato all’inizio e i cui lavori sono da noi tuttora inediti, o solo negli ultimi anni cominciano ad essere tradotti. È su questi autori, e sui loro rapporti con quelli già noti, che intendo soffermarmi, prendendo in considerazione l’ultimo ventennio; ovviamente senza alcuna pretesa di “coprire” tutta la riflessione del periodo, bensì col proposito di far conoscere posizioni che ho potuto studiare più attentamente, e soprattutto di metterne in evidenza i presupposti culturali. Sarà così possibile – spero – vedere più chiaramente un quadro ricco e complesso, in cui s’intrecciano esperienze artistiche ed estetiche75 e interrogazioni filosofiche.

 La sintesi che qui propongo76 – con tutti i limiti di ogni semplificazione – si articola in quattro momenti, che corrispondono ai capitoli del libro e (approssimativamente) ad altrettante fasi del dibattito teorico che ne è l’oggetto:

1. Il fotografico nell’arte contemporanea. Fotografia e critica d’arte.

Il ciclo di vivaci e intense esperienze artistiche delle neoavanguardie, con la forte presenza della fotografia che le caratterizza, stimola, a partire dagli ultimi anni Settanta, una riflessione a livello di critica d’arte su ciò che in profondità accomuna la fotografia a molte espressioni dell’arte contemporanea.  Questa connessione è individuata nel fotografico, cioè in una “logica” profonda della fotografia fatta propria (in modo implicito o esplicito) anche dalle altre arti visive del XX secolo.

2. Ai confini del segno: l’atto fotografico. Fotografia e semiotica.

Questa logica, nel contesto della cultura filosofica dello strutturalismo e di un diffuso interesse per la semiotica, porta a indagare la fotografia come segno, interpretandola in particolare come quel tipo di segno (o, meglio, come quell’aspetto della relazione segnica) che il filosofo S. Peirce ha chiamato indice, distinguendolo dall’icona e dal simbolo. Ma per questa via si evidenzia tutta l’ambiguità e precarietà del “segno fotografico”, e ciò spinge a dilatare e problematizzare sempre più i confini di tale nozione, e insieme a spostare l’attenzione dal segno all’“atto fotografico”, cioè dalla fotografia come veicolo di un messaggio alla fotografia come esperienza di produzione e, soprattutto, di ricezione.

3. Ai confini dell’opera: un’arte precaria. Fotografia ed estetica.

Ciò orienta di nuovo il discorso verso l’arte, ma questa volta in senso estetico, cioè con una riflessione non tanto sul ruolo che la fotografia ha nell’arte contemporanea quanto sui suoi caratteri come arte contemporanea: quale forma di esperienza estetica è la fotografia? Quale il suo contributo all’autoriflessione dell’arte contemporanea, sul terreno comune del fotografico? Quali i suoi rapporti con le estetiche postmoderniste? Il risultato è, anche in questo caso, una identità di confine, di “arte precaria”, con lo spostarsi dell’accento dalla fotografia come opera, come fatto artistico, alla fotografia come esperienza, come fatto estetico.

4. A partire dal fotografico: problemi e prospettive. Fotografia e filosofia.

Sia il dibattito semiotico sia quello estetico, poi, si aprono a loro volta su problemi più generali e di fondo, prettamente filosofici. Da un lato, infatti, la riflessione sulla fotografia come indice, ovvero come immagine autonoma dall’intenzione comunicativa di un soggetto, impone di misurarsi con le questioni ontologiche e di teoria della conoscenza che si addensano attorno alla nozione di segno, ripensata alla luce di Peirce e della filosofia poststrutturalista (rapporti rappresentazione-realtà e percezione-realtà); dall’altro, la riflessione sulla fotografia come “arte precaria”, come immagine autonoma dall’intenzione creativa di un soggetto, sollecita a confrontarsi con la concezione postmodernista dell’arte e con la sua visione del rapporto moderno-tardomoderno, del ruolo storico e degli esiti attuali dell’avanguardia. E lungo entrambe le vie, attraverso l’antiumanismo77 del fotografico e i suoi rapporti con la filosofia poststrutturalista e postmodernista, ci si affaccia sulle centrali questioni della Verità e del Soggetto, trovandosi a fare i conti con gli sviluppi nichilistici del “discorso filosofico della modernità” che segnano il nostro incerto presente.

In queste aperture problematiche, che spingono a gettare lo sguardo al di là della “soglia filosofica”, il dibattito teorico sulla fotografia dell’ultimo ventennio acquista un interesse che supera i limiti dell’ambito specialistico, e appare un importante episodio della storia della cultura dei nostri anni.


Avvertenze

Questo libro ha origine da un lavoro di ricerca sugli scritti di Rosalind Krauss, Henri Van Lier, Philippe Dubois, Jean-Marie Schaeffer e Jean-Claude Lemagny, che ho compiuto nel 1994-95 per quanto riguarda la traduzione dei testi, e proseguito negli anni successivi per quanto riguarda il loro inquadramento e approfondimento. Parallelamente, i risultati di tale ricerca venivano da me proposti come temi di riflessione e discussione in due seminari (Immagine e avanguardie, 1995; Sguardi sull’immagine, 1996) condotti insieme con il collega Enrico Aceti presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e nel ciclo di incontri La fotografia riflette, da me tenuto nel 1997-98 presso il Circolo filologico milanese. Questa attività seminariale mi ha fatto entrare in contatto con numerosi studenti e adulti, che sono stati dei preziosi interlocutori. Nello scrivere Arte del fotografico, ho dunque pensato a lettrici e lettori somiglianti ad essi, cioè altrettanto motivati e volonterosi, anche se nuovi a un discorso teorico sulla fotografia. Così il libro, se da un lato non nasconde le difficoltà che il suo approccio alla fotografia può a volte presentare, dall’altro non vuole essere un saggio per soli specialisti. Ne derivano le seguenti caratteristiche:

1. Il testo cerca di non dare per scontato nulla, rendendo espliciti rimandi e connessioni che altrimenti chi legge dovrebbe trovare da sé. Ciò spiega la presenza delle numerose note. Troppe, potrebbe pensare qualcuno. Faccio però osservare che esse sono di due tipi:

a) note bibliografiche – costituite dalle sole indicazioni di autore e data –, che rinviano ai riferimenti bibliografici completi alla fine del libro;

b) note esplicative – di commento e di approfondimento –, che vanno a costituire una sorta di discorso parallelo a quello svolto nel testo, mettendo in evidenza la ricchezza sia di rinvii interni sia di implicazioni e rimandi ad altri ambiti di riflessione che il dibattito sulla fotografia presenta; sono queste le note che occupano più spazio, ma – oltre al fatto ovvio che la loro lettura non è indispensabile – vorrei sottolineare come esse intendano costituire non uno sfoggio di erudizione bensì un invito e un aiuto a cogliere la fitta trama di rimandi del dibattito e le sue numerose e complesse aperture problematiche, cioè il suo spessore culturale.

2. Sempre per ragioni di chiarezza, e anche per evidenziare temi e prospettive comuni agli autori nonostante i loro scarsi rapporti diretti, ho scelto di lasciare molto spazio alle loro stesse parole, istituendo una sorta di dialogo virtuale sulla pagina. Di qui la presenza di molte e talvolta lunghe citazioni; esse, fra l’altro, vogliono anche far percepire le peculiarità stilistiche dei singoli autori, che non sono qualcosa di estraneo e di sovrapposto al discorso teorico.

3. I due “Intermezzi” intendono presentare, in forma organica e concentrata, notizie su alcuni aspetti del pensiero filosofico contemporaneo a cui nei capitoli si fa frequente riferimento. Se queste pagine non vanno a costituire un’appendice finale bensì interrompono la successione dei capitoli dopo il primo, è per suggerire che sarebbe meglio leggerle prima di passare ai capitoli seguenti (ma chi vuole potrà anche saltarle e ritornarvi poi alla fine per un approfondimento).

4. Sia nel testo sia nelle note sono inseriti alcuni schemi che intendono visualizzare concetti o modelli teorici degli autori, e quindi renderne più agevole la comprensione: essi sono stati tutti elaborati da me, e quindi solo a me va attribuita l’eventuale responsabilità degli errori d’interpretazione che possono contenere.

5. Per quanto infine riguarda le immagini, poiché non è possibile corredarne il libro, nei “Riferimenti iconografici” finali sono elencati i più importanti fra i movimenti artistici e gli autori menzionati, indicando – ove possibile, e a titolo puramente orientativo – quei libri di costo contenuto e di facile reperibilità dove se ne possano vedere riprodotte le opere alle quali il testo fa riferimento.


Riconoscimenti

Ho ricordato sopra i seminari e incontri nei quali ho proposto i temi del libro. L’interesse e la discussione che essi hanno suscitato sia negli studenti della facoltà di Architettura di Milano sia nei soci e frequentatori della Sezione culturale fotografica del Circolo filologico milanese, sono stati per me una motivazione essenziale e uno stimolo importante ad approfondire la ricerca, che non ho mai concepito come lavoro puramente individuale ma come esperienza condivisa.

Con alcuni degli autori che sono oggetto di questo studio ho un debito particolare: all’attività teorica e artistica di Franco Vaccari e ai saggi di Philippe Dubois e Claudio Marra devo l’apertura di prospettive e l’entusiasmo che mi hanno spinto a interrogarmi sulla fotografia come oggetto teorico e come forma di arte contemporanea; e da Jean-Claude Lemagny ho ricevuto suggerimenti generosi e appassionati che mi hanno fatto meglio conoscere il lavoro di riflessione svolto in lingua francese.

Questo  libro (come in precedenza le traduzioni di alcuni degli studiosi stranieri di cui tratta) è stato da me proposto a numerosi editori. La maggior parte non l’ha neppure preso in esame. Tre di essi, dichiaratisi propensi alla pubblicazione, non vi si sono mai impegnati  con chiarezza, tenendo il progetto indefinitamente in attesa. All’Editrice C.R.T. di Pistoia, a cui mi sono rivolto dopo averne conosciuto i testi filosofici, ho incontrato in Carmine Fiorillo l’unico editore che abbia creduto veramente in ciò che proponevo.

Emilio De Tullio, animatore della Sezione culturale fotografica del Circolo filologico milanese, ha promosso con entusiasmo gli incontri di discussione che lì ho potuto tenere, e ha messo a disposizione per la copertina del libro una sua opera fotografica.

La mia compagna Maria Luisa Tornesello ha condiviso con me gli interessi e le lunghe discussioni da cui il libro è nato, ne ha seguito momento per momento l’elaborazione e le tormentate vicende editoriali, e conosce perciò anche la terza dimensione affettiva che completa in profondità le altre due di ogni pagina.


 

Nel momento in cui questo libro sta ormai per andare in stampa, vengo a conoscenza dell’opera di François Soulages, Esthétique de la photographie. La perte et le reste, edita a Parigi nel 1998 da Nathan nella stessa collana in cui apparve nel 1983 L’acte photographique di Philippe Dubois.

Ad una prima, purtroppo ancora superficiale lettura, il libro si presenta come un’importante sintesi di quella riflessione teorica che anch’io ho provato a esporre in queste pagine, con un analogo orientamento estetico (anche se le questioni filosofiche su cui si conclude il mio discorso, nell’opera di Soulages occupano invece la prima parte, e sulla questione centrale della verità l’autore aderisce ad un approccio di tipo nietzschiano che io invece presento come oggetto di discussione).

Vedo inoltre che fra i teorici a cui Soulages fa riferimento ve ne sono diversi che anch’io ho posto al centro della mia esposizione. Ma mentre in Francia autori come Krauss, di essi (Van Lier, Schaeffer, Lemagny) sono ancora poco conosciuti e attendono a tutt’oggi editori informati e sensibili che si accorgano dell’importanza dei loro scritti e ne promuovano la pubblicazione in italiano.

Per le esperienze che ho avuto finora (fra l’altro proponendo senza alcun risultato mie traduzioni di quattro fra quegli autori), temo che la già lunga lista dei testi teorici stranieri sulla fotografia che sono importanti ma non accessibili in italiano, dovrà allungarsi ulteriormente per comprendere anche lo stimolante e problematico saggio di François Soulages.  

 


 Note all’Introduzione

1 Si vedano i seguenti testi: Marra 1990d, 1992 e 1999, Vaccari 1994b, Adams 1981, Holmes 1859-63, 1983, 1990, 1997, 1997, 1997b, Costa 1998a, Grazioli 1998, Pieroni 1999 (di quest’ultimo v. soprattutto il primo capitolo e la bibliografia ragionata).

2 La fotografia a cui mi riferisco è, ovviamente, quella che comunemente definiamo “d’autore” o “di ricerca”, e che un neologismo francese chiama photographie plasticienne (da plasticien, artista, ovvero cultore di arts plastiques, di ricerche sull’elaborazione della forma). Per l’appunto sotto il titolo La photographie plasticienne. Un art paradoxal Baqué ha di recente tracciato un quadro complessivo delle esperienze di ricerca artistica che negli ultimi vent’anni hanno fatto ricorso alla fotografia (Baqué 1998): una ricostruzione storico-teorica (con ampio corredo di immagini) che si integra utilmente con altre importanti, come Dubois 1986, Grundberg e McCarthy Gauss 1987, Chevrier e Lingwood (cur.) 1989 e Marra 1999; accanto alle quali si devono ricordare anche 1989 e e Colombo (cur.) 1995, nonché, per la situazione italiana in particolare, Altamira e Guadagnini  (cur.)1993 e Guadagnini  e (cur.)1998.

Sul processo d’inserimento, a partire dagli anni Settanta e dagli Stati Uniti, della fotografia nei circuiti dell’arte contemporanea, v. Russo 1995 e Baqué 1998.

3 Quelle di cui ho notizia sono, in ordine cronologico, le seguenti: Lyons (cur.) 1966, Green (cur.) 1973, Cooper e Hill (cur.) 1976, Mellor (cur.) 1978, Kemp (cur.) 1979-83, Petruck (cur.) 1979, Borhan (cur.) 1980, Newhall (cur.) 1980, Trachtenberg (cur.) 1980, Goldberg (cur.) 1981, Vanon (cur.) 1981, Wiegand (cur.) 1981, AA.VV. 1982, Barrow, Armitage, e Tydeman (cur.) 1982, Burgin (cur.) 1982, Dubois (cur.) 1982, Mormorio e Verdone (cur.) 1984, Zannier e Costantini (cur.) 1985, Frizot e Ducros (cur.) 1987, Mormorio (cur.) 1988, Bolton (cur.) 1989, Phillips 1989, Rouillé (cur.) 1989, Squiers (cur.) 1990, .; Younger (cur.) 1991, Marra (cur.) 1992, Baqué (cur.) 1993, Amelunxen, Iglhaut e Rötzer (cur.) 1996, Boveri (cur.) 1997, Lugon (cur.) 1997, Amelunxen (cur.) 2000. Come si può vedere dalle date, la gran parte di queste raccolte sono state pubblicate dalla seconda metà degli anni Settanta ad oggi, e in particolare negli anni Ottanta.

4 Gli scritti stranieri di riflessione teorica sulla fotografia tradotti in italiano negli ultimi vent’anni sono, per quanto mi risulta, i seguenti: Sontag 1977 (tr. it. 1978), Barthes 1980 (tr. it. 1980), Lindekens 1971 (tr. it. 1980), Arnheim 1974 (tr. it. 1982), Barthes 1961 e Barthes 1964 (tr. it. 1985), Flusser 1983 (tr. it. 1987), Moholy-Nagy 1925 (tr. it. 1987), Lyons 1966 (tr. it. 1990), Adams 1981 (tr. it. 1995), Holmes 1859-63 (tr. it. 1995), Dubois 1983 (tr. it. 1996), Krauss 1990 (tr. it. 1996). Come si vede, le traduzioni attraversano vicende alterne, concentrandosi in tre periodi: 1978-1982, 1987-1990, 1995-1996 (i primi due coincidenti con quelli in cui vengono pubblicate la gran parte delle antologie di testi teorici sulla fotografia; v. nt. prec.). Nel primo pe­riodo escono la metà di tutti i titoli del ventennio e domina la grande editoria. Nel se­condo periodo i titoli si dimezzano, e nel terzo vi è una leggera ripresa. In entrambi i casi passano in primo piano i piccoli editori. Questi danno avvio al recupero di un ritardo che però resta an­cora molto grave: v. nt. seguente.

5 Mi riferisco a Krauss 1990 e a Dubois 1983. Ma quest’ultimo è stato tradotto in italiano solo nel 1996, cioè tredici anni dopo; e l’importante saggio di Krauss “Notes on the Index” (Krauss 1977a), di cui si parlerà nel Cap. 1, non ha mai avuto una traduzione, anche se alcuni suoi temi sono presenti in “Marcel Duchamp o il campo immaginario”, contenuto in Krauss 1990.

6 Mi riferisco principalmente a Van Lier 1983, Schaeffer 1987 e Lemagny 1992. Degli ultimi due autori, però, sono stati tradotti, rispettivamente, un saggio di storia dell’estetica (Schaeffer 1992) e un’importante storia della fotografia (Lemagny e Rouillé [cur.] 1986, purtroppo da anni esaurita).

7 V. Kemp (cur.) 1979-83 e Amelunxen (cur.) 2000.

8 V. Trachtenberg (cur.) 1980, p. VII.

9 Ai tre volumi curati da Kemp – Kemp (cur.) 1979-83 – se n’è di recente aggiunto un quarto affidato a un nuovo editor Amelunxen (cur.) 2000 –, che copre gli anni 1980-1995; l’intera opera non è solo un’antologia della letteratura teorica sulla fotografia, ma nei testi introduttivi di ogni volume tratteggia anche una storia degli sviluppi di questa teoria.

10 V. Marra 1992, impostato anch’esso come antologia preceduta da ampi saggi del curatore.

11 V. sopra nt. 3.

12 Questa stretta relazione ha a che fare anche con una importante questione di metodo, ovvero l’impossibilità di separare l’identità della fotografia da una (storicamente) determinata concezione di ciò che è arte, perché altrimenti si rischia di incorrere in quello che Rosalind Krauss chiama scherzosamente “argomento ontologico” (Krauss 1979, p. 138), e Claudio Marra “essenzialismo” (Marra 1994, 1999, p. 52, 74): rischio evitabile solo a condizione di inquadrare rigorosamente entrambi gli aspetti in uno specifico contesto storico-culturale.

Rosalind Krauss osserva che, di fronte alle difficoltà di far accettare, in generale, un medium come arte, spesso “i critici […] cercano di stabilire ciò che questa cosa è in realtà. Operano questa manovra cercando una categoria logica […] che sia […] la condizione necessaria e sufficiente perché il medium in questione possa essere considerato generatore d’arte […]. Il problema che questa strategia pone, per bene intenzionata che sia, è precisamente di essere indifferente alla storia […]. In altre parole, questa strategia rifiuta il più delle volte di riconoscere che solo gli artisti, o più precisamente solo certe opere d’arte fanno di un medium un veicolo per l’arte. […] Definire una categoria a priori […] è dare l’impressione che tale categoria sia sempre esistita e non aspettava che di essere notata e svolta” (Krauss 1979, p. 129, 138; cors. mio).

A sua volta, Claudio Marra scrive: “In genere, quando si è posto il problema dell’identità della fotografia, si è arrivati a tipi di risposte […] che tendono a recuperare questa identità in una sorta di ‘specifico interno’ […], in una qualche capacità o possibilità tecnica della macchina che a un certo punto si sarebbe rivelata. […] Il pericolo di questa impostazione, secondo me, è proprio nello stabilire l’identità della fotografia in modo dogmatico” (Marra 1994). Ciò non è senza precise ragioni nella storia della cultura di questo secolo, perché “è a partire dal secondo decennio del Novecento, sull’onda dei grandi sviluppi vissuti in quegli anni dagli studi sul linguaggio [da Saussure in poi, nt. d. r.], che si fa strada e s’impone in tutte le arti la questione della ‘specificità’ […]. […] Risulta evidente come [essa] poggi sul presupposto che l’artisticità sia una qualità materiale posseduta dall’opera, qualcosa che riguarda la sua fattura e la sua formalità. Tutto il contrario insomma dell’altro percorso che in quegli anni andava Duchamp con l’esperienza del ready-made, dove l’artisticità non riguarda certo la fisicità dell’opera ma l’investimento concettuale del quale essa viene fatta oggetto” (Marra 1999, p. 110-111; v. anche Cap. 1.5). Dunque, “non sarà una specificità di linguaggio a farci intendere una fotografia come arte, ma solo un’operazione di semantizzazione, che in quanto pratica la istituisce come oggetto artistico. […] Anche la fotografia riceverà il suo statuto di artisticità non da un ‘certo’ uso che viene fatto della camera e che si rende poi leggibile e distinguibile nella struttura dell’immagine, […] ma da atti di cultura che la definiscono e la istituiscono in quanto fatto artistico” (Marra 1979, p. 170-171). “L’eventuale domanda sull’artisticità della fotografia deve ricevere una risposta uguale a quella che in genere si dà sull’artisticità di tutte le altre tecniche o espressioni: è arte perché dal di fuori qualcuno decide che sia arte (per riprendere un’affermazione di Dino Formaggio: ‘L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte’ [Formaggio 1973, p. 9; nt. d. r.]). Se nel Novecento è diventato arte un barat­tolo di Merda d’artista (Piero Manzoni, 1961) o un orinatoio (Marcel Duchamp, Fontana, 1917), […] evidentemente non è un problema interno […]: qualcuno, la cultura, decide di accettare qualcosa come arte” (Marra 1994). Non è quindi a caratteristiche strutturali del mezzo ma a tendenze profonde della cultura del Novecento che per Marra va fatto risalire, in questo secolo, il ricorso alla fotografia come rivelazione piuttosto che come illusione (v. Cap. 1.5). E analogamente – per venire al tema del presente lavoro –, non è un caso se il riconoscimento della fotografia come arte si diffonde e si consolida negli anni Sessanta-Settanta: in quello specifico contesto culturale e artistico, infatti, essa “viene accettata come arte non quando scopre ed afferma un proprio linguaggio specifico, ma quando alcune operazioni artistiche, già qualificate come tali (dalla Pop alla Body Art, al Concettuale ecc.) la usano al proprio interno, la fanno strumento indispensabile delle loro performances” (Marra 1979, p. 175, 177); né vanno dimenticati – ricordando Marshall McLuhan – gli “influssi del piano materiale”, cioè il fatto che negli stessi anni “il medium televisivo avrebbe […] rubato alla fotografia buona parte del campo dell’informazione, del documento, permettendo però, nello stesso tempo, alla fotografia un passaggio di funzione: superata e scalzata dalla sua funzione primitiva, la fotografia si è attestata su altre posizioni, è entrata nel museo, nelle gallerie, ha insomma trovato un suo spazio nell’artistico”  (ivi, p. 177).

Secondo Marra, in conclusione (ma è la posizione anche di Krauss), alla nozione di uno “specifico struttural-naturale” va sostituita quella di uno “specifico culturale”, come “motivo di […] una cultura e non invece, riduttivamente, come l’affermazione essenzialistica delle proprietà vere del mezzo” (Marra 1981, p. 165).

Un punto di vista del tutto diverso è espresso da Batchen 1997, il cui discorso (ispirato al decostruzionismo di Derrida) tende a dimostrare che sia la concezione (modernista) di una specificità naturale della fotografia sia quella (postmodernista) di una sua specificità culturale condividono la stessa assunzione di una identità della fotografia chiaramente individuabile, aut nel campo della natura aut in quello della cultura, mentre secondo lui ciò non è consentito dalla costitutiva e ineludibile complessità di questo medium.

13 Krauss 1990, p. 1.

14 Van Lier 1991, p. 153: “la definiremmo l’oggetto, o piuttosto il processo, più filosofico che esista”. E Franco Vaccari mi ha parlato talvolta della fotografia come di una sorta di “filosofia sperimentale”.

15 V. un brano dell’opera riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 27-36. E si ricordi il titolo della relazione presentata da F. Talbot alla Royal Society di Londra nel 1839: Some Account of the Art of Photogenic Drawing, or, The Process by Which Natural Objects May Be Made to Delineate Themselves without the Aid of the Artist’s Pencil  (Appunti sull’arte del disegno fotogenico, ossia sul procedimento con cui è possibile ottenere che gli oggetti naturali si disegnino da sé senza il sussidio della matita dell’artista; vNewhall [cur.] 1980, p. 23).

16 V. Holmes 1859-63.

17 V. Batchen 1997, p. 230 nt. 49.

18 V. Newhall 1949, p. 159.

19 V. Gilardi 1976, p. 445.

20 V. un brano de L’art de la photographie riprodotto in Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 37-47.

21          V. un brano de La photographie considérée comme art et comme industrie, histoire de sa découverte, ses progrès, ses applications, son avenir riprodotto in Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 49-56.

22 V. Frizot e Ducros (cur.) 1987, p. 31-32; Mormorio (cur.) 1988, p. 23-24.

23 V. Newhall 1949, p. 420.

24 V. Gilardi 1976, p. 445.

25 V. Newhall 1949, p. 232.

26 V. un brano di The Elements of Pictorial Photography riprodotto in (cur.) 1980, p. 91-97.

27 V. Gilardi 1976, p. 445.

28 V. Newhall 1949, p. 119.

29 V. Gilardi 1976, p. 445.

30 V. il saggio “Photography and Artistic-Photography” riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 130-132 e in Vanon (cur.) 1981, p. 100-102.

31 V. Gilardi 1976, p. 445.

32 Ivi.

33 V. Newhall 1949, p. 233.

34 V. ivi, p. 409.

35 V. Gilardi 1976, p. 445.

36 V. ivi.

37 V. Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, p. 277 nt.1 al Cap 5e.

38 V. il saggio di Anonimo “Is Photography a New Art?” riprodotto in Trachtenberg (cur.) 1980, p. 133-140.

39 Ivi, p. XII.

40 V. Newhall 1949, p. 272.

41 V. i saggi “La fotografia” (1917), “La fotografia e il nuovo Dio” (1922) e “Il movente artistico in fotografia” (1923) in Lyons (cur.) 1966, p. 166-188.

42 Trachtenberg (cur.) 1980, p. XII.

43 V. Moholy-Nagy 1925.

44 V. ivi.

45 V. Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, p. 278 nt. 4 e nt. 17 al Cap. 7a.

46 V. Kracauer 1927.

47 V. Benjamin 1931, 1936.

48 V. Benjamin 1927-40, 1936a e Frisby 1985.

49 È del 1955 la pubblicazione degli Scritti di Benjamin in Germania, e del 1962 la prima traduzione di suoi testi in Italia; qui Benjamin 1931 e 1936 vengono tradotti nel 1966, e negli Stati Uniti nel 1969-72.

50 È sotto questo titolo che in Lemagny e Rouillé (cur.) 1986 è ricostruita la fotografia dal 1930 al 1950.

51 V. Lemagny 1992, p. 202.

52 V. Newhall 1949, p. 411.

53 V. Benjamin 1931.

54 V. Newhall 1949. Intanto altri due storici della fotografia, Erich Stenger (1931, v. Galassi 1981, bibliografia) e René Hennéquin (1932, v. Lemagny e Rouillé [cur.] 1986, p. 276 nt. 19 al Cap. 1) iniziano un filone di studi sulle premesse tecnico-culturali della fotografia che avrà ampio sviluppo a partire dagli anni Sessanta, con ricerche sulla “preistoria” e “protostoria” della fotografia nei suoi rapporti con la pittura. V. sotto nt. 66.

55 V. l’Introduzione dell’autore al suo Images à la sauvette/The Decisive Moment, Paris-New York 1952, riprodotta in Lyons 1966, p. 50-62.

56 V. Bazin 1945.

57 V. Klein 1956.

58 V. Frank 1958.

59 È sotto questo titolo che in Lemagny e Rouillé (cur.) 1986 è ricostruita la fotografia dal 1950 al 1980.

60 Costantini 1987, p. 13.

61 V. ad es. McLuhan 1964, Bourdieu 1965, Keim 1971.

62 V. ad es. Pollack 1958, Gernsheim 1969, Keim 1970, Gassan 1972, Tausk 1977, Alinovi e Marra 1981, Zannier 1982, Rosenblum 1984, Lemagny e Rouillé (cur.) 1986, Van Lier 1992, Frizot (cur.) 1994.

63 V. ad es. Braive 1965, Neumann 1966, Freund 1974, Gilardi 1976.

64 V. ad es. Barthes 1961, 1964, 1970, Metz 1968-72, Chini 1968, Lindekens 1971, Sekula 1975, Damisch 1977, Miccini 1984, Calabrese 1985, Termine 1988.

65 V. ad es. Gombrich 1960, Black 1972, Gombrich 1982.

66 V. ad es. Coke 1964, Scharf 1968, Schmoll 1971, Carluccio Palazzoli (cur.) 1973, Billeter (cur.) 1977, Stelzer 1978, Lista 1979, Galassi 1981, Jaguer 1982, Krauss, Livingston e Ades 1985, 1986, Grundberg e McCarthy Gauss 1987, Schwarz 1987, Chevrier e Lingwood 1989, e Guadagnini 1993, Taiuti 1996, Didi-Huberman 1997, Baqué 1998, Guadagnini e  Maggia (cur.) 1998.

67 V. ad es. Basilico, Morpurgo  e Zannier (cur.) 1980, Jussim 1985, AA.VV. 1984, Costantini 1985, 1987, Valtorta, Costantini, Jodice, Basilico e Bertelli, 1989, Quintavalle 1993b, Galbiati, Pozzi e Signorini (cur.) 1996, Valtorta 1997.

68 V. ad es. Rouillé e Marbot 1986, Weiermair 1988, Nead 1992, Pultz e Mondenard 1995, Grazioli 1998.

69 V. ad es. Ritchin 1990, Mitchell 1992, Amelunxen, Iglhaut e Rötzer (cur.) 1996Couchot 1998.

70 V. ad es. – oltre ai testi su cui ci si soffermerà nelle pagine che seguono –Kracauer 1960, Damisch 1963, Arnheim 1974, Berger 1974, Burgin 1975, Kemp 1978, Kozloff 1979, Berger 1980, Crimp 1980, Adams 1981, Müller-Pohle 1981, Andre 1985, Burgin 1986, Grundberg 1986, Berger 1992, Tisseron 1996, Batchen 1997, Gravano 1997, Mormorio 1997. Richiamo inoltre nuovamente l’attenzione sulle antologie di teoria della fotografia pubblicate negli anni Settanta e Ottanta, che sono venute delineando una sorta di “canone” dei testi di riflessione teorica sulla fotografia dalle origini ad oggi (v. sopra nt. 3).

71 V. sopra nt. 13. Sono emblematici, in questo senso, i titoli di due libri che escono quasi contemporaneamente all’inizio degli anni Ottanta: Philosophie de la photographie (Van Lier 1983) e Per una filosofia della fotografia (Flusser 1983).

72 V. Barthes 1961, 1964, 1980.

73 V. Dubois 1983 e Schaeffer 1987.

74 Al quadro storico-culturale qui sommariamente tratteggiato, altre considerazioni si possono aggiungere per spiegare il crescente interesse teorico per la fotografia negli ultimi vent’anni.

Per quanto riguarda in particolare la situazione italiana, va ricordata anzitutto l’attività di teorici come Franco Vaccari e Claudio Marra, che hanno mantenuto aperto e sviluppato un discorso teorico sulla fotografia in stretto rapporto con le esperienze dell’arte contemporanea. In secondo luogo, l’affermarsi negli anni Ottanta di una “scuola italiana del paesaggio”, che nell’interpretazione delle imponenti trasformazioni territoriali in corso non solo si è ricollegata alle contemporanee ricerche sul paesaggio urbanizzato dei fotografi statunitensi e francesi (“Nuovi Topografi”, DATAR), ma si è anche nutrita dell’intensa riflessione sul mezzo fotografico praticata dai molti artisti di area concettuale che negli anni Sessanta-Settanta avevano fatto ricorso alla fotografia (v. Ghirri, Leone e Velati [cur.] 1984, Quintavalle  1984, 1993a, 1993b, Marra [cur.] 1995, Signorini  1996, Valtorta 1996, 1997, 1998). Con tali esperienze artistiche intanto – ed è la terza ipotesi di spiegazione che avanzerei – mantenevano un più diretto contatto altri autori (difficilmente inquadrabili nelle categorie contrapposte di “fotografo” e di “artista”), i quali, proseguendo e approfondendo il lavoro sulla fotografia in quanto ambito di ricerca visiva, contribuivano a legittimarla come una delle forme in cui si esprime normalmente l’arte contemporanea (v. Altamira e Guadagnini [cur.] 1993, Gentili [cur.] 1994, Wolf 1995, Ballo Charmet 1995, 1998, Pinto [cur.] 1997, Gravano [cur.] 1998, Guadagnini e Maggia [cur.] 1998, Valtorta 1998); e ciò non solo ha corrisposto ad una tendenza largamente diffusa all’estero, ma è stato anche – al di là delle ragioni della moda o del mercato – una vera e propria acquisizione culturale, che ha reso ormai obsoleta la distinzione tradizionale tra fotografia e arte, da noi particolarmente radicata.

Da ultimo, e tornando a una visione d’insieme, il diffondersi dell’immagine digitale – che non è più foto­grafia da un punto di vista strettamente tecnico (in quanto registrazione delle intensità luminose non più in forma fisico-chimica, continua, analogica, bensì in forma numerica, discreta, digitale appunto) ma alla cultura fotografica resta profondamente legata – induce a rivedere, in modo più problematico e quasi straniato, un medium come la fotografia, che sembrava familiare, ovvio, quasi logorato dall’abitudine: il risultato è una trasformazione sia del carattere e del va­lore delle im­ma­gini che vediamo, sia del nostro stesso modo di guardarle, e di guardare la realtà (v. Mitchell 1992 e Amelunxen, e Rötzer [cur.] 1996 come primi tentativi di riflessione teorica sui cambiamenti culturali che l’affermarsi dell’immagine digitale esprime e promuove, e Wolf 1997 per alcuni esempi di risposte a questa nuova situazione da parte di artisti che continuano ad operare con tecniche fotografiche tradizionali).

75 Nel senso etimologico (dal greco aisthetikós = “concernente la sensazione, la percezione”) di stimo­lazione e ampliamento dell’esperienza percettiva consapevolmente vissuta, che è un orientamento di fondo dell’arte contemporanea dalle avanguardie in poi.

76 Una sua prima formulazione è in Signorini 1998.

77 Qui e in seguito per “umanismo” intendo una concezione che afferma la centralità del soggetto umano nella realtà. È il senso con cui Heidegger impiega il termine nella Lettera sull’“umanismo” (1947), dove esso indica una ricerca dell’essere nell’uomo anziché nell’essere stesso. Si cercherà di indagare, almeno sommariamente, nel Cap. 4.4 le possibili ragioni filosofiche dell’antiumanismo che impronta il dibattito sulla fotografia oggetto di questo libro.


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