Andrea Rovere – Cade in questi giorni il quinto anniversario della morte del filosofo Costanzo Preve. Scriveva: «L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere».

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Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

 

 

Andrea Rovere

Cade in questi giorni

il quinto anniversario della morte

del filosofo Costanzo Preve, nato a Valenza,

he ha vissuto molte mattinate alessandrine

 

  

 

costanzo-preve_mr copia    «Siamo nell’epoca in cui un signore [l’artista Piero Manzoni] ha potuto inscatolare la sua merda e venderla col nome di Merda d’Artista. Ora: una società che quota in borsa la merda d’artista, pagandola migliaia di Euro, anziché prendere a calci nel sedere questo signore per uno scalone, è una società chiaramente malata».

 

Sono parole di Costanzo Preve, filosofo e politologo di origini valenzane di cui pochi giorni fa, esattamente il 23 novembre, ricorreva il quinto anniversario della morte.
E già da qui, da queste poche righe, s’intuisce il genuino spirito anticonformista di Preve, di un uomo che ha vissuto praticando con coerenza la lezione dei filosofi greci dell’antichità, il loro richiamo a farci interpreti di una critica feconda e quotidiana dell’esistente per giungere alla verità, e che di tale coerenza ha pagato il prezzo.

Se infatti di questo grande pensatore, umile come tutti i veri grandi, si parla ancora troppo poco – e magari con un po’ di sufficienza –, è perché la sua voce è stata sistematicamente silenziata per decenni. Lui, autore di tanti saggi importanti che le maggiori case editrici si rifiutavano di pubblicare, e che le riviste specializzate evitavano accuratamente di recensire, nei salotti buoni dell’intellighenzia del Belpaese non ci è mai entrato, poiché scomodo, indisponibile al compromesso, e di un’onestà intellettuale che mal si combina al conformismo culturale di un’Italia che, da questo punto di vista, non è mai stata tanto “italietta” quanto negli ultimi quindici anni.
“Rossobruno”, gli gridavano da sinistra; “comunista”, facevano eco a destra. Ma la realtà è che Preve non era uomo da potersi tirare in ballo nello squallido gioco delle etichette oggi tanto in voga, ed è proprio questa sua libertà, questa sua indifferenza alle mode intellettuali e ai diktat del politicamente corretto, che proprio non poteva essere tollerata là dove si decide chi debba assurgere al rango d’intellettuale e chi no. Ovviamente a prescindere dai meriti.

 

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E così Preve è rimasto in disparte. Uno dei più attenti studiosi ed originali interpreti di Marx e del marxismo a livello internazionale, nonché analista politico raffinato e autore di saggi di carattere filosofico profondamente ispirati come Lettera sull’umanesimo e Una nuova storia alternativa della filosofia, ai quali il tempo renderà giusto merito, ha patito l’emarginazione e l’ostracismo di coloro i quali, una volta egemonizzati i circoli intellettuali più influenti, hanno sterilizzato quasi completamente il dibattito culturale italiano producendo mediocrità a tonnellate.

196G

Una nuova storia alternativa della filosofia.
Il cammino oltologico-sociale della filosofia

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Costanzo Preve, invece, era tutto tranne che un mediocre. E se oggi ci si comincia finalmente ad accorgere di lui, se si discutono tesi di laurea sulla sua opera, e se in generale è cominciata una riscoperta del pensiero previano quantomeno all’interno degli ambienti più sensibili alla voce di chi ha sempre cantato fuori dal coro, è soprattutto grazie all’attività divulgativa di chi, allievo e amico, ha beneficiato in prima persona dell’opportunità di un confronto di idee con un uomo che ha fatto del logos socratico il proprio stile di vita.

Ed era proprio qui, in uno dei bar del centro di Alessandria, che Preve trascorreva talvolta i suoi sabati mattina da quando, insieme all’amico ed ex allievo Alessandro Monchietto (oggi coordinatore didattico all’Università degli Studi di Torino), aveva preso a frequentare quello che sarebbe diventato uno dei confidenti più cari del filosofo, oltre che un collaboratore stimato la cui opinione era presa in attenta considerazione nonostante il grosso divario di età fra i due. Mi riferisco a Luca Grecchi, docente all’Università di Milano Bicocca (ecco perché Alessandria, città a metà strada fra Torino, dove abitava Preve, e Milano), saggista, nonché direttore della rivista filosofica Koinè e coautore con Preve d’una pubblicazione del 2005 dal titolo Marx e gli antichi Greci.

 

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È lui che abbiamo voluto raggiungere telefonicamente per avere viva testimonianza di quelle mattinate alessandrine spese a “praticare la filosofia”, oltre al breve ritratto inedito di un maestro che ha lasciato un vuoto pesante nel cuore di coloro che come Grecchi, Monchietto e Diego Fusaro, oggi noto ai più grazie alla ribalta mediatica di cui è oggetto da alcuni anni a questa parte, hanno saputo apprezzarlo tanto come studioso quanto per le sue qualità umane.
Il professor Grecchi ci dice di quando lo conobbe nel 2002. Fu lui, allora neodirettore di Koiné, a rivolerlo a tutti i costi come collaboratore della rivista, dalla quale Preve si era allontanato in seguito ai dissidi con il filosofo Massimo Bontempelli; e sempre lui a curarne la pubblicazione dei testi più recenti nella collana di cui è tuttora responsabile, «il Giogo», della casa editrice Petite Plaisance di Pistoia.
Grecchi ci dà poi un’idea del Preve insegnante, dal momento che Costanzo parlava spesso della sua quarantennale esperienza di professore di liceo, restituendoci l’immagine di un uomo profondamente consapevole dell’importanza del ruolo di educatore, pieno di energia, di entusiasmo, e coinvolgente come solo chi ha forte passione per ciò che insegna sa essere.
Del resto, Preve viveva la filosofia come prassi quotidiana, con l’atteggiamento di chi preferisce l’agorà all’accademia, poiché è lì che si fa davvero filosofia.

 

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Su questo, forse anche grazie a quelle mattinate alessandrine spese a fare esperienza filosofica insieme a Costanzo, sarà lo stesso Grecchi a scrivere un libro che già nel titolo – Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia – allude alle difficoltà che si riscontrano oggi a praticare autenticamente la filosofia all’interno delle facoltà universitarie, dove spesso e volentieri è la conoscenza specialistica e non la ricerca della verità e del bene a finire al centro.

Fra l’altro, questo breve saggio uscirà in libreria proprio nel 2013, anno della morte di Preve.

In quegli ultimi mesi, i contatti fra i due filosofi erano soprattutto telefonici a causa delle condizioni di salute di Costanzo, come chiarisce Grecchi già nel bellissimo ricordo pubblicato sul sito di Petite Plaisance, alcuni giorni dopo la morte dell’amico.

 

Luca Grecchi,
Per l’amico Costanzo Preve. Un ricordo personale

 

Alle chiacchierate qui nella nostra città, dove era quasi sempre Preve a tener banco attraverso aneddoti e preziosi spunti di riflessione, si sostituiva così la dimensione del colloquio, lungo i fili che collegano Torino e Milano. Tuttavia, la memoria di quelle ore trascorse insieme è ancora assai viva in chi rimane oggi a testimoniare ciò che Costanzo Preve era nel profondo: uno strenuo e appassionato cercatore della verità, oltre che una persona buona e un caro amico.
Ma qual è l’eredità di Costanzo Preve? Grecchi non ha dubbi circa l’importante lascito di questo pensatore nato proprio qui nella nostra provincia. Un’eredità data dagli spunti disseminati un po’ ovunque nei suoi numerosi libri, ancora tutti da approfondire, e in modo particolare dall’originalissima interpretazione di Marx e di Hegel che il filosofo valenzano (ci piace pensarlo valenzano, anche se crescerà a Torino) ha elaborato nel corso di una vita votata alla filosofia.
Frequentatore e amico di tanti fini intellettuali come Norberto Bobbio, Gianfranco La Grassa e Alain De Benoist, solo per citarne alcuni, questo signore laureato in scienze politiche a Torino, perfezionatosi in filosofia a Parigi – dove studiò con filosofi del calibro di Sartre e Althusser – e in ellenistica ad Atene, che si esprimeva correttamente in sei lingue e che ha scritto più di cinquanta libri, nondimeno possedeva l’umiltà indispensabile a sottoporre a critica severa per primo se stesso e le proprie idee. Non era raro sentirlo ammettere i propri sbagli, come quando si definì un “ragazzo presuntuoso” ricordando il giorno in cui durante un confronto a casa di Jean-Paul Sartre, insieme ad altri studenti della Sorbona, Preve lo contraddisse bruscamente e quasi lo insultò, salvo poi rendersi conto tempo dopo di aver detto delle sciocchezze dettate dall’inesperienza e dalla foga della gioventù. «Non posso ricordare con piacere questo colloquio, poiché mostrai semplicemente la mia arroganza di giovane estremista ventenne». Così il Preve maturo si esprimerà riguardo quella giornata, dandoci una lezione preziosa con l’implicito invito a vivere autenticamente, e quindi a riconoscere i nostri errori per migliorarci e per sgombrare il campo dagli ostacoli sulla via della verità.
Virtù che Grecchi sembra riconoscergli fino in fondo al di là delle parole che utilizza, poiché già dal tono di voce con cui si esprime sull’onda dei ricordi è molto chiaro ciò che prova: gratitudine.
Questa è stata quantomeno la mia impressione. Tanto che solo quando prendiamo a parlare di ciò che sta germogliando dai semi che Preve ha lasciato cadere lungo il suo percorso, Luca – così il professor Grecchi m’invita a rivolgermi a lui fin da subito, considerando anche me in qualche modo un amico di Costanzo – si rabbuia un poco. Ad oggi, di germogli ancora non se ne vedono sbucare. Ma Grecchi è convinto sia solo questione di tempo, poiché le grandi intuizioni necessitano talvolta di molti anni per venir colte ed elaborate.
Il tempo di Costanzo Preve deve dunque ancora venire. Questo il destino di tutti coloro che hanno rappresentato l’avanguardia del pensiero. E questa la convinzione di tutti noi che i suoi libri li abbiamo letti, amati, e anche criticati come lui per primo avrebbe voluto.

 

Andrea Rovere

 

 

 Articolo già pubblicato su:

Alessandria oggiAlessandria oggi

del 29-11-2018


Venturi non immemor aevi

 

Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi

Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].

 


Costanzo Preve

Storia dell’etica

indicepresentazioneautoresintesi

***

Costanzo Preve

Storia della dialettica

indicepresentazioneautoresintesi

***

Costanzo Preve

Storia del materialismo

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

 


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Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

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Javier Heraud

Javier Heraud in una foto del periodo universitario.

 Javier Heraud

 1942 – 1963
Non rido mai della morte.
Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi.
Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra,
in una pioggia di parole silenziose,
in un bosco di palpiti e di speranze,
con il canto dei popoli oppressi,
il nuovo canto dei popoli liberi.
 ***

a cura di Fernanda Mazzoli

 

Scarica e stampa il file PDF di 17 pagine:

Fernanda Mazzoli, Javier Heraud


 

Poesías completas y Cartas

Poesías completas y Cartas

Aveva vent’anni Javier Heraud, una borsa di studio per la cinematografia a Cuba e la consapevolezza «che la poesia è un lavoro difficile / dove si perde o si vince / al ritmo degli anni autunnali»[1]. Gli scaturiva copiosa dalle mani nelle notti passate a scrivere, come un fiore lasciato cadere a terra, ma sapeva che il tempo l’avrebbe costretto ad impastare «parole silenziose» e «fuochi fulminei» in un paziente «lavoro da vasaio». Non gliene lasciarono il tempo: rientrato in patria nel 1963 come componente dell’Esercito di liberazione popolare, fu ucciso dalla polizia mentre cercava di penetrare in territorio peruviano, seguendo il corso del Madre de Dios, un fiume che attraversa la foresta alla frontiera tra Bolivia e Perù.

 

Poèsias completas

Poèsias completas

Ventun’anni, due raccolte poetiche, gli studi letterari e, poi, cinematografia all’Avana, un viaggio a Mosca, invitato al Forum Internazionale della gioventù, e un soggiorno a Parigi, studente all’Alliance française:[2] la breve vita di Javier Heraud sta racchiusa in poche righe che ci consegnano il mistero della sua inaspettata e tragica morte.

Legge una sua poesia a18 anni

Legge una sua poesia a18 anni.

 

All' Alliance française

All’Alliance française.

 

Il padre, accorso incredulo da Lima a Puerto Maldonado, la cittadina di frontiera dove fu portato il corpo del giovane poeta, sapeva che il figlio «era seriamente impegnato nella ricerca di una vita utile e di creazione», ma ignorava che pensasse ad altro che studiare cinematografia.

 

Con il padre, ad una premiazione scolastica

Con il padre, ad una premiazione scolastica

 

Difficile delineare con precisione quei giorni convulsi intorno al 15 maggio 1963: tante le contraddizioni che emergono dai rapporti ufficiali e dalle ricostruzioni giornalistiche. Sembra che Heraud sia rientrato in Perù con un gruppo di altri sette studenti decisi a lottare come guerriglieri dell’Ejercito de Liberacion Nacional contro il governo militare giunto al potere con un colpo di stato. Dopo avere attraversato la foresta del Madre de Dios, gli otto giovani, sfiniti dopo una giornata di marcia, sarebbero stati sorpresi dalla polizia a Puerto Maldonado, capoluogo di questa regione di fitte foreste, grandi laghi e ricchi corsi d’acqua. Alcuni di loro sarebbero riusciti a scappare, Javier e un altro avrebbero cercato scampo nel fiume dove un generoso barcaiolo li avrebbe accolti sulla sua imbarcazione, una canoa di tronco d’albero. Inseguiti dalle lance della polizia e coinvolti in una sparatoria, i tre finirono crivellati di colpi, dopo avere alzato bandiera bianca in segno di resa.

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco.

Il padre, in una lettera inviata una decina di giorni dopo l’accaduto a un giornale della capitale, dichiarò, in base ad alcune testimonianze orali raccolte sul posto, che poliziotti e civili, aizzati contro i due giovani, avevano sparato dall’alto del fiume per un’ora e mezzo con pallottole da caccia grossa, anche dopo che il compagno di Javier aveva sventolato uno straccio bianco. Sul corpo del poeta, in effetti, furono trovati trenta colpi di pallottola, fra cui alcuni di un proiettile esplosivo usato in zona per la caccia grossa.

El viaje

El viaje

Ancora più difficile ricostruire l’itinerario politico e morale che condusse, in una manciata di anni, il geniale studente, promesso ad un brillante avvenire, primo al concorso di ammissione alla facoltà di lettere della Pontificia Universidad Catolica del Perù nel 1958, vincitore nel 1960 del concorso “Giovane poeta del Perù” con la raccolta poetica El viaje, giovanissimo professore di inglese e castigliano presso l’Istituto Industriale di Lima (il più giovane insegnante che il suo Paese abbia conosciuto), a morire in un angolo sperduto della foresta equatoriale, «impotente, su una canoa di tronco d’albero, nudo e senza armi nel mezzo del fiume Madre de Dios, alla deriva, senza remi», come scrisse il padre nella sua circostanziata lettera di denuncia a La prensa di Lima.

Dovettero prendervi parte le sue naturali disposizioni, quella bontà, gentilezza e purezza d’animo, quella generosità e quel candore che familiari ed amici, fra cui Mario Varga Llosa,[3] gli riconobbero in una serie di testimonianze pubblicate dopo i tragici fatti che lo videro protagonista e che sembrano dettate tanto dall’intento di consegnarne il ricordo a quanti non ebbero il tempo di conoscerlo, quanto alla necessità tutta personale di fare i conti con quella morte assurda e imprevista. Al di là di questo tributo dell’amicizia, non restandoci di lui che qualche centinaio di versi, è lì che lo cerchiamo.

 

Ha avuto però inizio molto prima:
accadde in aprile (crudele e morbido aprile)
quando una mattina ci trovammo d’accordo.
Come finirà tutti potranno saperlo.
(Sono stufo e non finisco questa poesia).
Ma vado a combattere ed in battaglia
per amore del mio paese, dei miei paesaggi,
per amore dei poveri della mia terra,
per amore di mia madre, del suo affetto,
per amore di mio padre, della sua durezza,
per amore dei fratelli e degli amici,
per amore della vita e della morte,
per amore delle cose di tutti i giorni,
per amore dei giorni dell’autunno,
per amore dei freddi dell’inverno.

 

Il Poema especial, di cui è qui proposto solo un frammento, trova perfetta corrispondenza in una lettera scritta per la madre e lasciata all’Avana, alla moglie di un compagno, la quale avrebbe dovuto consegnargliela in caso di morte del poeta. «Voy a la guerra por la alegría, por mi patria, por el amor que te tengo, por todo en fin» («Vado in guerra per la gioia, per la mia patria, per l’amore che ho per te, per tutto, insomma»), spiega Javier alla madre, comunicandole la sua intenzione di tornare in Perù per aprirvi un fronte di guerriglia. Le scrive perché conosca tutto l’amore che nutre per la sua famiglia e per testimoniarle la sua riconoscenza per averlo cresciuto «onesto e giusto, amante della verità e della giustizia», le scrive perchè lei non soccomba al grande dolore della sua morte, ma riempia il vuoto con la gioia e la speranza di un paese cambiato, anche grazie al sacrificio del figlio. Sono le parole di un giovane uomo consapevole di avere potuto attingere alla ricchezza degli affetti familiari, alla sollecitudine di un’educazione attenta e che vuole rendersene degno, dedicando la sua vita a «servire la mia gente e il mio paese». Sono parole in cui sembra di ritrovare il tono, raramente eroico e quasi sempre intimo e dimesso, dei giovani partigiani della Resistenza italiana che si congedano dalla vita, scrivendo a casa qualche parola di conforto, di spiegazione, di rivendicazione pacata della dignità della loro scelta. Per troppo amore Javier Heraud prese le armi , un amore che lo premeva da tutte le parti e gli chiedeva un’enorme assunzione di responsabilità per rispondere alla sua vocazione universale. È una concezione religiosa della vita che il frammento ci restituisce e non tanto per la formazione cattolica del giovane poeta folgorato a Cuba da «nuovi soli di salvezza», ma per il legame viscerale, fisico con il mondo nelle sue diverse manifestazioni dove paesaggi, uomini e cose si incontrano e fondono in un sentimento unitario che chiede un impegno totale ed una risposta urgente. È sin troppo facile trasformare un ragazzo caduto da guerrigliero in un angolo remoto della foresta amazzonica in un eroe, congelato per sempre nella sua impossibile avventura.

Il Poema especial dovrebbe giustamente evitarci questa tentazione: niente di più prosaico dell’«amore delle cose di tutti i giorni», niente di più comune dell’affetto per una madre, niente di più tradizionale dell’amore per il proprio paese. È nell’intima rispondenza agli affetti radicati sin dall’infanzia che l’amore di Heraud diventa sentimento universale.

Prima della partenza per Avana.

Prima della partenza per L’Avana.

 

Si era iscritto due anni prima al Movimiento Social Progressista, di orientamento socialdemocratico, aveva preso parte alle manifestazioni contro Nixon, ma l’anno successivo se ne era andato, perché «non è sufficiente chiamarsi rivoluzionari per esserlo». Certo, l’incontro con Castro[4] a Cuba, dove aveva ottenuto una borsa di studio, poté affrettare la sua decisione, poté alimentare la sua speranza che fosse possibile rivivere sul suolo peruviano l’impresa rivoluzionaria che nell’isola caraibica aveva messo in scacco il corrotto regime di Batista e i suoi padrini statunitensi. Contingenze che giocarono sicuramente un ruolo, fornendo il momento e la forma ad un’esigenza preesistente, descritta dal padre come impegno per «una vita utile e di creazione», che traeva la propria linfa prima ancora che da una teoria rivoluzionaria da un preciso sentimento dell’esistenza, da una profonda adesione dell’io individuale alle leggi eterne della natura – le stagioni, le albe e i tramonti, l’impeto dei fiumi, il cielo solcato dai condor, la terra seminata di grano – e alle ragioni di quelli che «todo losufre», di tutto soffrono.

 

La mia casa

1

La mia stanza è una
mela,
con i suoi
libri,
con la sua
buccia,
con il suo letto
morbido per
la notte dura.
La mia è
la stanza di tutti,
vale a dire,
con il suo
lumetto che
mi permette di ridere
di fianco a Vallejo,
che mi permette di vedere
la luce eterna di
Neruda.
La mia stanza, alla
fine,
è una
mela,
con i suoi libri,
le sue carte,
con me,
con il suo
cuore.

 

2

Dalla mia finestra nasce
il sole quasi ogni
mattina.
Sulla mia faccia,
sulle mie mani,
nel dolce
clamore della pura luce,
la schiudo gli occhi alla
notte morta,
alla tenera
speranza di
un continuare a vivere
ancora un giorno,
per
aprire gli
occhi davanti alla
luce eterna.

 

La sua terra, «mi triste patria», i diseredati, Lenin, addormentato sulla Piazza Rossa, che «sorveglia la marcia del suo popolo» (Plaza Roja, 1961), ma anche i suoi libri, le sue carte riempite di versi notturni e i suoi poeti, primo tra tutti Cesar Vallejo, la cui tomba Javier Heraud visitò nel corso del suo soggiorno parigino nel 1961 e sui cui passi percorse la capitale francese, come lui attento alla vita segreta delle vie, delle statue, degli alberi .

 

 

Poesia

 

 

Ho attraversato i giardini del Lussemburgo ogni giorno.
Dovevo andare a lezione a Raspail
(ed era la strada più breve).
E in pieno autunno.
Le foglie ingiallivano a terra
e i bambini giocavano con l’acqua,
straordinarie gare con le barche.
E in pieno autunno mi sedevo
su una panchina ad aspettare Dégale,
davanti al busto di Verlaine
e qualche volta sgranocchiavo una pesca.
Le foglie cadevano e io come se niente fosse,
nei giardini del Lussemburgo, a Parigi, in autunno,
nell’ottobre del 1961.

 

Javier Heraud possedeva la facoltà eminentemente poetica di trasformare un luogo determinato in un luogo dell’anima, una circostanza contingente in un evento denso di significati che rimbalzano sul lettore, innalzandolo alla stessa esperienza. Questa trasmutazione, che realizza la magia alchemica della poesia, si avvale di una lingua nitida, luminosa, di parole semplici, quotidiane che vivono al ritmo delle «cose di tutti i giorni», alle quali sanno dare un respiro grande quanto il cuore dell’uomo, quando sa ascoltare il respiro del mondo e guardare alla vita intorno a lui con sguardo fraterno.

Una lingua precisa, fatta di nomi e di pochi, scarni aggettivi che si stagliano anche graficamente nel verso, quasi a volere abbracciare ed afferrare l’essenza delle cose .

 

 

Poesia

 

 

La valle di
Tarma è grande.
Ma più grande
è il mio cuore
quando lo guardo,
ma più vasto
è il mio petto quando
ispiro aria, e aria,
cielo e condor,
martedì e giovedì,
più grande del
fiume è l’uomo,
più grandi della
valle sono gli occhi
di tanti viandanti
intorno.

 

Quanto al suo cuore – l’unico regno cui aspirasse, il suo cuore che cantava, parlava e piangeva[5] sigillava un giuramento di fedeltà al proprio mondo interiore che si traduceva in pietà vivissima, capace di cogliere la vita – e il suo dolore – ovunque, anche nelle cose.

 

La mia casa morta

 

1

 

 

Non buttate giù la mia casa
vecchia, avevo detto.
Non buttate giù la mia casa.

 

2

Avevamo una pergola
e due porte sulla strada,
un giardino all’entrata
piccolo ma grande,
un melo che è seccato
ora per le urla
e il cemento.
Il pesco e l’arancio
erano morti da prima,
ma avevamo ancora
(come non ricordarlo!)
un albero di melagrane.
Melagrane che sbucavano
dal suo tronco,
rosse,
verdi,
l’albero si confondeva
con il muro,
e di fianco
sulla strada,
un tronco che
ogni anno
dava le more,
che in autunno riempiva
di foglie le porte
della casa.

 

3

Non buttate giù la mia vecchia casa,
avevo detto,
lasciatemi almeno
le melagrane
e le more,
le mie mele e le mie

grate.

 

5

È vero, non lo nego,
le pareti cadevano a pezzi
e le porte non chiudevano
bene.
Ma hanno ucciso la mia casa,
la mia camera da letto con la
lunga finestra mattiniera.
E non è restato niente
del melograno,
le more non
imbrattano più le mie scarpe,
del melo vedo soltanto
oggi,
un triste tronco che
piange i suoi frutti
e i suoi bambini.

 

6

Il mio cuore è rimasto
con la mia casa morta.
[…]

 

Il lungo componimento, strutturato in sei parti, registra un tono apparentemente narrativo che si fa, in realtà, malinconica e tenera evocazione di un personale paradiso perduto (per la speculazione edilizia, per l’ingresso nell’età adulta, per l’incontro di entrambi gli elementi, forse), la cui modestia è misura umanissima della sua luminosa e fuggente bellezza. Questo ragazzo che scommise tutto su un futuro radicalmente nuovo, coltivava singolarmente l’arte del ricordo, amava Proust e, durante il soggiorno in Francia, si recò in pellegrinaggio a Combray e al luogo simbolo della Recherche dedicò una poesia.

Eppure, anche fra le more e i melograni della vecchia casa , il poeta sapeva che la morte gli era compagna. E conclude:

 

[…]
è anche chiamare
un po’ più vicino la morte
(che era con me
tutti i pomeriggi
nella mia casa vecchia,
nella mia casa morta).

 

Presagio di una fine prematura o tributo di maniera a uno dei topoi più frequentati dalla letteratura? A vent’anni è lecito giocare con suggestioni romantiche e gli esempi, anche fra gli autori da lui amati, non gli mancavano certo. Eppure, il personale rapporto di questo ragazzo con la morte è segnato da una maturità che rinvia, ancora una volta, al suo sentimento della vita come piena assunzione di responsabilità e meditata accettazione di un destino voluto.

 

Elegia

 

 

Tu hai voluto riposare
in una terra morta e nell’oblio.
Credevi di poter vivere solo
nel mare e sulle montagne.
Poi hai scoperto che la vita
è solitudine fra gli uomini
e solitudine fra le valli.
I giorni che scorrevano
nel tuo petto erano soltanto indizi
di dolore tra le tue lacrime. Povero
amico. Non sapevi nulla e non piangevi nulla.

 

Non rido mai
della morte.
Semplicemente
succede che
non ho
paura
di
morire
tra
uccelli e alberi.

 

Non rido mai della morte.
Ma qualche volta ho sete
e chiedo un po’ di vita,
a volte ho sete e ogni
giorno faccio domande e, come sempre
accade, non ottengo risposte
ma una sghignazzata profonda
e nera. L’ho già detto, non ho
mai riso della morte,
ma ne conosco il bianco
volto, la tetra veste.

Non rido mai della morte.
Eppure, conosco la sua
casa bianca, conosco la sua
bianca veste, conosco
il suo umido silenzio.
È ovvio, la morte ancora
non mi ha fatto visita,
e vi domanderete: cosa
conosci, allora? Non conosco niente.
Anche questo è sicuro.
So, però, che quando
arriverà io sarò ad aspettarla,
sarò ad aspettarla in piedi
oppure seduto a colazione.
La guarderò dolcemente
(perché non si spaventi)
e siccome non ho mai riso
della sua tunica, l’accompagnerò,
solitario e solitario.

 

poesia completas

Javier, non ancora ventenne, aveva già scritto la pagina della propria morte, una morte conosciuta, accettata come una costola della propria vita. Se in filigrana si intravede un discreto gioco di rimandi con il Vallejo di Pedra negra sobre una pedra blanca («Me moriré en París con aguacero / un día del qual tengo ya el recuerdo». [Morirò a Parigi in un giorno di pioggia / un giorno che già mi ricordo]), qui il rapporto con questa morte conosciuta, invece di essere ripetizione obbligata di qualcosa che è già avvenuto è disponibilità a una presenza tanto riservata, quanto inevitabile, è amore di un destino scelto in piena consapevolezza. Vida y muerte sono un’endiadi costante del mondo poetico di Heraud («las puertas incansables de la vida, las puertas inagotables de la muerte» [le porte instancabili della vita, le porte inesauribili della morte])[6], l’una tracima nell’altra in un fluire ininterrotto che, riconoscendo la seconda come parte integrante della prima, finisce per superarne la negatività. «No deseo la victoria ni la muerte / no deseo la derrota ni la vida, / sólo deseo el árbol y su sombra, / la vida con su muerte» (non desidero la vittoria, né la morte / non desidero la sconfitta né la vita, / solamente desidero l’albero con la sua ombra, / la vita con la sua morte), confessava in una poesia che reca in esergo una breve citazione dalla Bhagavad-Gita.[7]

Il ragazzo che era pronto a morire fra uccelli e alberi (questa starordinaria premonizione ricorre per ben due volte nei suoi versi) e che seppe aspettare la morte in piedi, nel bel mezzo della foresta equatoriale, per amore del Perù e degli oppressi, ma anche di un’infanzia amata e di una casa perduta, il ragazzo che aprì con altri trenta compagni un fronte di guerriglia perché tutti potessero guardare dalle loro finestre la luce eterna e le foglie d’autunno e i cespugli di more ed esserne lieti, quel ragazzo che si buttò risolutamente nel fiume della vita e poi nel Madre de Dios, quel ragazzo sapeva che «la vita / è solitudine fra gli uomini». Recita l’epilogo della raccolta El viaje:

 

Sono soltanto
un uomo triste
che esaurisce le sue parole.

 

Finite le parole, gli restava la vita: così l’amico Sebastián Salazar Bondy provò a spiegare la decisione di Heraud di lasciare Cuba e tornare in patria per accendervi il fuoco della guerriglia. Tuttavia, a differenza del suo coetaneo Rimbaud, non prese congedo dalla poesia per sparire nella solitudine dell’Harar[8] e diventare estraneo a se stesso, continuò a misurarsi con essa, ad accoglierne «un relámpago maravilloso / una lluvia de palabras silenciosas, /un bosque de latidos y esperanzas, /el canto de los pueblos oprimidos, / el nuevo canto de los pueblos liberados» («un lampo meraviglioso, / una pioggia di parole silenziose, / un bosco di palpiti e di speranze, / il canto dei popoli oppressi, / il nuovo canto dei popoli liberi»).[9] Credeva fermamente, con tutta la forza di un animo generoso, puro e retto, che la poesia dovesse essere un’arma di liberazione e la naturale forma di espressione dell’uomo liberato e riteneva che il suo preciso dovere fosse di servire incondizionatamente questa esigenza di emancipazione che si poneva all’incrocio di un breve, ma intenso percorso politico, intellettuale ed esistenziale.

Così, «armados con palabras y fusilos, / armados con ansias nuevas» («armati di parole e fucili, / armati di ansie nuove»),[10] fece la sua scelta, di poeta, di uomo, di militante, che dalla consapevolezza di vago sapore romantico della propria ineliminabile solitudine giunge alla precoce maturità di una scelta di vita estrema che affonda le proprie radici in un sentimento di ritrovata fraternità umana.

Il gruppo di incauti ed inesperti guerriglieri (malgrado un periodo di addestramento a circa 2.000 metri di altitudine sul Monte Turquinio)[11] se ne andò «a la alegría», a portare felicità al popolo peruviano costretto al silenzio, ai «sus tristos niños», alle «sus calles despobladas de alegría»[12] («ai suoi tristi bambini, alle sue strade senza gioia»), partì a rifare il mondo, insomma, più che a lottare contro il governo golpista.

E Javier ritrovò, per il suo ultimo viaggio, uno scenario ben familiare al suo mondo poetico: un ancho río, un gran fiume.

 

 

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

 

 

La sua vivace immaginazione ne aveva già percorso i meandri impetuosi dalla sorgente alla foce in una lunga composizione, El río – recante in epigrafe un verso dell’amato poeta spagnolo Antonio Machado («la vida baja como un ancho río» [«la vita scende come un ampio fiume»]) – che, ancora adolescente, lo aveva consacrato poeta.

Nell’ultima stanza, l’irruente ed imprevedibile fiume giunge alla fine di un viaggio che lo ha portato a scendere per monti e valli, ad attraversare campi, pascoli e città, ora benevolo, ora distruttivo, sempre maestoso e sovranamente indifferente.

 

Verrà il tempo
in cui dovrò
sboccare
sull’oceano,
mescolare le mie
limpide acque con le sue
acque torbide,
che dovrò
zittire il mio canto
luminoso,
che dovrò far tacere
le mie grida furiose,
all’alba di tutti i giorni,
che schiarirò i miei occhi
con il mare.
Verrà il giorno,
e nei mari immensi
non vedrò più i miei campi
fertili,
non vedrò i miei alberi
verdi,
il mio vento intorno
il mio cielo chiaro,
il mio lago scuro,
il mio sole,
le mie nubi,
non vedrò nulla,
nulla,
unicamente il
cielo azzurro,
immenso,
e
tutto si dissolverà in
una pianura d’acqua,
dove non saranno canti o poesie,
solo piccoli fiumi che scendono,
fiumi abbondanti che scendono a unirsi
nelle mie nuove acque luminose,
acque
spente.

 

 

Sul Madre de Dios, il grande fiume amazzonico, la vita e la morte incrociarono i loro passi per l’ultima volta per Javier Heraud, enfant prodige della poesia peruviana, vincitore di svariati concorsi scolastici, insegnante più giovane del Perù, figlio amatissimo di una famiglia della borghesia di Lima, guerrigliero per amore della pienezza della vita. Tacitato il suo canto, messo fuori uso il suo povero fucile con cui sperava di «abrir nuevos soles salvadores» («aprire la strada a nuovi soli di salvezza»)[13] ai più diseredati, attorno a lui si confusero l’azzurro del cielo e l’azzurro delle acque e gli alberi e gli uccelli.

… alla fine morirò
in una sera qualsiasi
fra uccelli
e alberi.

(da Recuento del año, 1961)

 

suo manoscritto

Suo manoscritto.

 

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontirta con la Bolivia

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontiera con la Bolivia


Le traduzioni sono a cura di Julia Maciel, salvo quella di El río.

 

Bibliografia:

 

  1. Dalton, J. Heraud, F. Urondo, Tre poeti assassinati, 1978, Vallecchi, Firenze, a cura di Julia Maciel; a quanto mi risulta, sola traccia lasciata nell’editoria italiana da Heraud, del quale si propongono e traducono solo alcune poesie.
tre poeti assassinati

Tre poeti assassinati.

El río (di cui ho presentato solo la parte finale, perché è piuttosto lungo) è nella traduzione di Franco Sotgiu (ambientalista e micologo), che ho leggermente rimaneggiato: francosotgiu.1.blogspot.com/2012/10/javier-heraud-il-poeta-guerrigliero.html

Tutte le altre citazioni provengono da sue poesie /lettere non tradotte in italiano e trovate su: https: //www.marxists.org/espanol/heraud//poemarios/index.htm,

  1. Heraud, Poesías completas y Cartes, Biblioteca peruana, 1976, consultabile in rete.

 

 

Cecilia Heraud Pérez, Entre los rios01a

Cecilia Heraud Pérez [sorella del poeta], Entre los rios.


 

[1] Javier Heraud così scrive nella poesia Arte poética, 1962; in Id., Poesía completa, Lima, Peisa, 1989:

En verdad, en verdad hablando,
la poesía es un trabajo difícil
que se pierde o se gana
al compás de los años otoñales.

(Cuando uno es joven
y las flores que caen no se recogen
uno escribe y escribe entre las noches,
y a veces se llenan cientos y cientos
de cuartillas inservibles.
Uno puede alardear y decir
“yo escribo y no corrijo,
los poemas salen de mi mano
como la primavera que derrumbaron
los viejos cipreses de mi calle”)
Pero conforme pasa el tiempo
y los años se filtran entre las sienes,
la poesía se va haciendo
trabajo de alfarero,
arcilla que se cuece entre las manos,
arcilla que moldean fuegos rápidos.

Y la poesía es
un relámpago maravilloso,
una lluvia de palabras silenciosas,
un bosque de latidos y esperanzas,
el canto de los pueblos oprimidos,
el nuevo canto de los pueblos liberados.

Y la poesía es entonces,
el amor, la muerte,
la redención del hombre.

Madrid, 1961 – La Habana, 1962

[2] L’Alliance française è un ente privato che ha uno statuto simile a quello di un’associazione. La sua missione è di promuovere la lingua francese e le culture francofone all’estero, attraverso una fitta rete di sedi.

[3] Cfr., Mario Vargas Llosa entrevista a Javier Heraud. Fuente: Entrevista realizada en Radiodifussion-Télévision Française. París, 1 de setiembre de 1961. http://copypasteilustrado.com/2014/03/22/mario-vargas-llosa-javier-heraud-entrevista-poesia-paris-radio/ [http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000002323/Mario-Vargas-Llosa-entrevista-a-Javier-Heraud].

[4] Dopo l’incontro con Fidel Castro, «l’uomo della rivoluzione, semplice, normale e cordiale», scrive: «vi a Fidel de piedra movediza escuché su voz de furia / incontenible hacia los enemigos. Y recordé mi triste patria, mi pueblo / amordazado, sus tristes niños, sus calles despobladas de alegría [«Ho visto Fidel, dalle sabbie mobili, ho sentito la sua voce di rabbia incontenibile verso i nemici. E ho ricordato la mia triste patria, il mio popolo imbavagliato, i tristi bambini, le loro strade spopolate di gioia]».

[5] «mi unico reino es mi corazón cantando, / …es mi corazón hablando, / mi corazón llorado» (Khrisna o los deseos).

[6] Las llaves de la muerte (Le chiavi della morte).

[7] Khrisna o los deseos (Khrisna o i desideri).

[8] Harar, l’ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare «con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente» e da cui invece ripartì in fin di vita su «una barella coperta da una tenda», è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i deserti dell’Ogaden e della Dancalia.

[9] Arte poética.

[10] Poema especial.

[11] Il Pico Turquino, 1.974 metri, è il punto più alto di Cuba, nel cuore della Sierra Maestra.

[12] Explicacion.

[13] Poema especial.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanda Mazzoli, César Vallejo (1892-1938) – Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla.


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César Vallejo (1892-1938) – Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla.

César Vallejo01 copia
César Vallejo, in un disegno di Pablo Picasso

César Vallejo, in un disegno di Pablo Picasso

César Vallejo

1892 – 1938

Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo,

fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire

orizzontalmente, non verticalmente,
cioè spalla contro spalla

 

A cura di Fernanda Mazzoli

 


Scarica e stampa il file PDF di 17 pagine:

Fernanda Mazzoli, César Vallejo

Vallejo,+César[1]

César Vallejo nasce nel 1892 in un villaggio andino, ultimo di undici fratelli, figlio di un alcalde e nipote di due nonne indiane. Era un albino, un cholo (meticcio) – come si definì lui stesso – e che farà del paesaggio della sua infanzia, silenzioso, aspro e duro, un paesaggio dell’anima tormentata da una ferita incurabile.
Studente brillante, nel 1910 si iscrive alla Facoltà di Lettere della città di Trujillo, ma, per sopravvivere, deve lavorare come impiegato nelle miniere di Quiruvilca e poi nell’amministrazione di una piantagione di canna da zucchero, dove scopre la dura condizione dei peones e si avvicina all’APRA (Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana), un movimento che inscriveva la specificità ibero-americana nelle radici indio.

Rubén_Darío

Rubén Darío.

Attivo negli ambienti intellettuali e artistici di Trujillo, inizia molto presto a pubblicare i suoi versi in diverse riviste. Sensibile alle influenze del modernismo del nicaraguense Rubén Darío, così come alla grande poesia spagnola del Siglo de oro e alle nuove tendenze poetiche venute d’Europa, la sua poesia si nutrì tuttavia quasi visceralmente, anche negli anni di un esilio senza ritorno, delle reminiscenze della terra natale, gli scoscesi altopiani delle Ande.

 

Frequenta il "Grupo Norte" in Perù.

Frequenta il “Grupo Norte” in Perù.

Dove conosce altri intellettuali della sua epoca

Dove conosce altri intellettuali.

 

 Il giovane Vallejo.

Il giovane Vallejo.

 

Era domenica

Era domenica nelle chiare orecchie del mio asino,
del mio asino peruviano in Perù (scusate la tristezza).
Ma oggi sono già le undici alla mia esperienza personale,
esperienza di un solo occhio, inchiodato in pieno petto,
di una sola asineria, inchiodata in pieno petto,
di una sola ecatombe, inchiodata in pieno petto.

È così che rivedo le colline ritratte della mia terra,
ricche in asini, figli di asini, genitori a venire,
che ritornano già dipinte di credenze,
colline orizzontali dei miei dolori.

Sulla sua statua, di spada,
Voltaire incrocia la sua cappa e guarda il piedistallo,
però il sole mi penetra e caccia dai miei incisivi
un numero crescente di corpi inorganici.

E sogno allora di una pietra
verdastra, diciassette,
roccia numerale che ho dimenticato,
suono di anni nel rumore di ago del mio braccio,
pioggia e sole in Europa, e come tossisco! come vivo!
come mi fanno male i capelli a presagire i secoli settimanali
e anche, per contraccolpo, il mio ciclo microbico,
voglio dire la mia tremante, patriottica pettinatura!

 

 

Prima edizione di Los heraldos negros, 1919

Prima edizione di Los heraldos negros, 1919.

Los Eraldos

Los eraldos2

 

Gli araldi neri

Ci sono colpi nella vita, così forti … io non so!
Colpi come l’odio di Dio; come se di fronte ad essi,
la risacca di tutto il sofferto
ristagnasse nell’anima … Io non so!

Sono pochi; però sono … Aprono solchi scuri
nel volto più fiero e nel lombo più forte.
Saranno forse i puledri di barbari Attila;
o gli araldi neri che ci invia la Morte.

Son le cadute profonde dei Cristi dell’anima,
di qualche fede da adorare che il Destino bestemmia.
Questi colpi sanguinosi sono i crepitii
di qualche pane che sulla porta del forno ci si brucia.

E l’uomo … Povero … povero! Gira lo sguardo, come
quando una pacca sulla spalle ci chiama;
Gira gli occhi pazzi, e tutto il vissuto
ristagna, come una pozzanghera di colpa, nello sguardo.

Ci sono colpi nella vita, così forti … Io non so!

(traduzione di Federico Guerrini)

Si innamora di Maria Sandoval che muore inferma

Si innamora di Maria Sandoval (che muore inferma),
ed è la sua musa tragica in Los Heraldos Negros.

Ed è la sua musa tragica in "Los Heraldos Negros"

Nel 1920 si verifica l’avvenimento che segnerà Vallejo per la vita: in occasione di disordini scoppiati nel bel mezzo di una festa religiosa nel suo borgo natale in seguito al provocatorio comportamento dei gendarmi, s’intromette per sedare la rissa, ma viene arrestato dalle autorità locali come istigatore dei disordini.
Dopo quattro mesi di prigione durante i quali continua a scrivere le poesie che comporranno poi la sua nuova raccolta Trilce (Oh, le quattro pareti della cella / Ah le quattro pareti albicanti / che senza rimedio danno sul medesimo numero), ottiene la libertà provvisoria, grazie a diverse petizioni in suo favore, ma resta sotto la minaccia di un processo che incomberà su di lui come un incubo negli anni successivi.

 

La prima edizione di Trilce

La prima edizione di Trilce

 

Non tollerando più l’ambiente di Lima (A Lima … A Lima sta piovendo / l’acqua sudicia di un dolore / così mortale. Sta piovendo dalla crepa del tuo amore), dove alterna la collaborazione a riviste a una saltuaria attività di insegnante e dove sperimenta una condizione di crescente oppressione ed estraneità («Volevo partirmene, scappare da tutto, non sfiorare nulla, né essere sfiorato da nulla, non essere in alcun luogo, non essere con nulla»), decide di partire per l’Europa. Sempre attento ai presagi che gli araldi neri erano soliti inviargli dal futuro, presagisce che lo attende un viaggio senza ritorno, perché così nella prosa poetica di El buen sentido (Il buon senso), saluta l’amata madre: «C’è, madre, un posto nel mondo, che si chiama Parigi. Un luogo molto grande e molto lontano, e ancora molto grande. La donna di mio padre, ascoltandomi, mangia, e i suoi occhi mortali scendono dolcemente lungo le mie braccia».
Arriva a Parigi il 13 luglio 1923, senza soldi, senza lavoro e con nessuna conoscenza della lingua. Seguono anni di miseria e di ripetuti soggiorni in ospedale in seguito ad un’emorragia sopravvenuta dopo un intervento. Collabora a diverse riviste sudamericane e comincia a legarsi agli artisti di Montparnasse, diventando amico di Juan Gris, di Marcel Aymé, di Tristan Tzara, di Antonin Artaud, di Jean Cassou, di Juan Larrea con il quale fonda una rivista a cui collaborerà anche Neruda.

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Pubblica Poemas en prosas e Contra el secreto profesional, un intenso manifesto in cui definisce la sua concezione dell’arte poetica, prendendo le distanze dagli scrittori «latino-americani» della sua generazione, cultori di una poesia presa in prestito dalle avanguardie europee (ispirate a l’esprit nouveau, da lui ritenuto «un movimento distruttore di incurabile nullità storica») cui Vallejo oppone la specificità «ibero-americana» che scaturisce dall’autenticità dei popoli del continente e si nutre di uno spirito «fatto di verità, di vita, infine di sana ed autentica ispirazione umana» e di un’emozione «secca, naturale, pura».

 

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Gli anni fra il 1927 e il 1928 sono anche quelli in cui il suo “male di vivere” poetico e la sua crisi morale maturano alla luce della consapevolezza del legame del suo destino con quello degli altri uomini.

 

Georgette Marie Philippart Travers

Georgette Marie Philippart Travers.

 

Con Georgette a Parigi

Con Georgette a Parigi.

Georgette Philippart – che diventerà sua moglie nel 1932 e sua inseparabile compagna al di là della morte per la devozione che voterà all’opera del poeta di cui raccoglierà e farà pubblicare tutti i componimenti sparsi – ricorda così quel periodo che fu anche quello del loro incontro: «Sarebbe difficile ammettere che a quest’epoca Vallejo, che ha trentacinque anni, si cercasse e si cercasse per sé solo. […] Si interroga sulla partecipazione che sente di dover apportare agli uomini. […] Crisi morale, crisi di coscienza, e non d’intellettuale ma di uomo e di poeta, poiché vi scopre la causa del suo smarrimento: la sua lontananza dai problemi sociali ed economici dell’umanità asservita».
Da questa nuova consapevolezza alla sua adesione al comunismo, il passo è breve e matura nel corso di un viaggio in Russia, dal quale ritorna con la convinzione, riportata da Georgette, che «un sistema interamente nuovo, unanimemente rifiutato dagli sfruttatori e dai dominatori, deve inevitabilmente implicare un miglioramento certo e fondamentale per le masse proletarie». Sul finire del dicembre del 1928 si iscrive al Partido Socialista del Perù (divenuto più tardi il Partito comunista peruviano) fondato ad José Carlos Mariátegui, il pensatore rivoluzionario peruviano che, dopo essersi distaccato dall’APRA, segnerà in modo indelebile il marxismo latino-americano. A lui dobbiamo una delle interpretazioni più profonde della poesia di César Vallejo.

José Carlos Mariátegui La Chira

José Carlos Mariátegui.

Scrive Mariátegui, a proposito di Heraldos negros e di Trilce, che il suo pessimismo è quello dell’Indiano, non è un concetto, non è un atteggiamento letterario e nemmeno una nevrosi: è, piuttosto, un sentimento, ricco di tenerezza e carità. Non genera il narcisismo disincantato ed esacerbato dei romantici, perché non nasce da una pena personale. «Vallejo sente tutto il dolore umano. […] La sua anima è triste da morirne della tristezza di tutti gli uomini. E della tristezza di Dio». È quel sentimento per il quale il poeta, amaramente conscio del limite della parola («E se dopo tante parole / la parola non sopravvive»), conierà un neologismo, capace di dire tutto il dolore del mondo: tristumbre che contiene in sé pesadumbre (dolore) e tumba (tomba). E a proposito del suo stile, Mariátegui sottolinea la purezza e l’innocenza, l’austerità, l’umiltà e la semplicità orgogliosa della forma, fino a definirlo «un mistico della povertà che cammina scalzo affinché i suoi piedi conoscano nudi la durezza e la crudeltà del cammino».

 

VA CORRENDO, ERRANDO, FUGGENDO…

Va correndo, errando, fuggendo
i suoi piedi …
Va con due nubi nella sua nube,
immobile apocrifo, serrando nella mano
i suoi tristi per, i suoi funerei allora.

Corre lontano da tutto, errando
fra proteste incolori; fugge
salendo, fugge
scendendo, fugge
a passo di sottana, fugge
sollevando il male sulle braccia,
fugge
diritto a piangere solo.

Ovunque vada,
lontano dai suoi rumorosi, caustici talloni,
lontano dall’aria, lontano dal suo viaggio,
per fuggire, fuggire, e fuggire e fuggire
i suoi piedi – uomo su due piedi, fermo
di tanto fuggire – avrà sete di correre.
E nemmeno l’albero, se indossa ferro di oro!
E nemmeno il ferro, se copre il suo fogliame!
Nulla, se non i suoi piedi,
nulla se non il suo breve brivido,
i suoi viventi per, i suoi viventi allora …

 

Al ritorno da un secondo viaggio in Russia, milita in una cellula operaia del partito comunista dove tiene un corso di marxismo; la sua militanza attira l’attenzione della polizia francese che l’arresta ripetutamente per brevi periodi. Alla fine del 1930 è espulso dalla Francia per “attività sovversive”. Risiede in Spagna, dove vive di traduzioni dal francese e dove frequenta poeti come Juan Bergamín, Rafael Alberti, Garcia Lorca. Si iscrive al partito comunista spagnolo e pubblica un romanzo, El tungstène, in cui rielabora la sua esperienza nelle miniere peruviane. Scrive per il teatro, ma le sue opere, “troppo tristi”, sono rifiutate. Si reca una terza volta in Russia, invitato al Congresso internazionale degli scrittori.

 

El Tungsteno

El Tungsteno04

 

È un periodo di intensa militanza e di piena assunzione della coscienza che l’artista «è inevitabilmente un soggetto politico». Tuttavia, sono altrettanto forti in lui la consapevolezza che «l’arte non è un mezzo di propaganda politica, è l’impulso supremo di ogni creazione politica» e l’esigenza della necessaria libertà della creazione artistica: «Posso simpatizzare con la rivoluzione e lavorare per essa, ma come artista non è nelle mie mani, né in quelle di nessuno, di controllare la portata politica che possono celare le mie poesie».
Nel 1932 riesce finalmente ad ottenere un permesso di soggiorno provvisorio per la Francia (regolarizzato l’anno successivo), a condizione di rinunciare a qualsiasi attività politica. Si sposa con Georgette, vive con lei in Hôtel o case ammobiliate del quartiere di Montparnasse, scrive instancabilmente e dà lezioni di spagnolo. Le sue condizioni di salute peggiorano.

 

Pubblica "Escalas" e "Fabla Salvaje" in Peù

Pubblica Escalas e Fabla Salvaje in Peù

 

Parigi, ottobre 1936

Di tutto ciò sono il solo che parte.
Me ne vado da questo banco, dai miei pantaloni,
dalla mia grande situazione, dalle mie azioni,
dal mio numero sezionato da parte a parte,
da tutto ciò sono il solo che parte.

Dagli Champs-Elysées o girando
nella strana Rue de la Lune,
la mia morte se ne va, se ne parte la mia nascita,
e circondata da gente, sola, in fuga
la mia immagine umana si gira
e congeda una a una le sue ombre.

E mi allontano da tutto,perché tutto
là resta a far da copertura:
la mia scarpa, il suo occhiello, anche il suo fango,
fino alla piega del gomito
della mia propria camicia abbottonata.

 

Sfidando l’interdizione di partecipare alla vita pubblica, è presente a tutte le iniziative antifasciste. Nel giugno del 1935 assiste a Parigi al primo Congresso degli scrittori antifascisti per la difesa della cultura, al quale presenziano anche degli scrittori sovietici, venuti ad esporre le basi del “realismo socialista”, decisamente lontane dall’essenza della poesia di Vallejo. Resta traccia della sua lacerazione fra fede rivoluzionaria e senso profondo nella forza della poesia in una nota del suo taccuino alla data del 7 novembre 1937. «È meglio dire “io”? O è meglio dire “l’uomo”, come soggetto dell’emozione lirica ed epica? In verità, è più profondo e più poetico dire “io” – preso naturalmente come simbolo di “tutti”».
Non appena scoppia la guerra di Spagna, malgrado il suo scetticismo nei riguardi dei Fronti popolari, si dedica interamente alla difesa della causa repubblicana, scrivendo articoli e partecipando a numerosi incontri pubblici a sostegno del popolo spagnolo. Si reca più volte in Spagna, dove nel luglio del 1937 interviene al secondo congresso degli scrittori antifascisti in qualità di delegato del Perù, affrontando il tema della responsabilità dello scrittore di fronte ai momenti più gravi della storia e proclamando la necessità di spezzare «la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia», e che ciò avvenga «orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla».
Riferendosi al detto di Gesù che il suo regno non è di questo mondo, Vallejo propone alla coscienza dello scrittore rivoluzionario un’altra formula che sostituisca la precedente, «Il mio regno è di questo mondo, ma è anche dell’altro», che ben corrisponde alla duplice esigenza che ne ispirò la vita e l’opera: impegno civile e ricerca con e per la poesia di una profonda verità umana. Molti anni più tardi ci fu chi lesse in queste parole una premonizione della “teologia della liberazione” che portò tanti preti sudamericani a prendere le armi a fianco del loro popolo, sull’esempio di Camillo Torres.

 

Poemas Humanos

Poemas Humanos

 

Al suo ritorno a Parigi, partecipa alla creazione del comitato ibero-americano per la difesa della repubblica spagnola di cui è nominato segretario, nonché redattore del bollettino Nuestra España che si attirerà, però, la diffidenza di alcuni scrittori comunisti che vi scoveranno simpatie trotskiste, al punto che Pablo Neruda, membro anche lui del comitato di redazione, non pubblicherà gli articoli affidatigli da Vallejo che, ferito, lascia l’incarico.
Negli ultimi tre mesi dell’anno lavora febbrilmente alla composizione di molte delle poesie che saranno, poi, raccolte in Poemas humanos (Poemas del exilio) e España, aparta de mí este cálíz (Spagna, allontana da me questo calice).

Lo raggiunge a Parigi la notizia della fucilazione in Spagna di Julio Gálvez, il ragazzo con cui si era imbarcato per l’Europa una quindicina di anni prima.

 

MASSA

Finita la battaglia,
e morto il combattente, venne a lui un uomo
e gli disse: «Non morire, ti amo tanto!»
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Altri due si avvicinarono e gli ripeterono:
«Non lasciarci! Coraggio! Ritorna in vita!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Accorsero in venti, cento, mille, cinque cento mila,
esclamando: «Tanto amore , e non potere nulla contro la morte!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

In milioni lo circondarono,
con una preghiera comune: «Resta, fratello!».
Però il cadavere, ahi, continuò a morire.

Allora, tutti gli uomini della terra
lo circondarono: li vide il cadavere triste, commosso;
si alzò lentamente,
abbracciò il primo uomo, prese a camminare…

 

L’intenso lavoro aggrava le sue precarie condizioni fisiche: nel marzo del 1938 si ammala gravemente, febbre ed esaurimento fisico gli sono compagne costanti: dalla camera d’albergo in cui viveva con la moglie, Rue Daguerre – XIV arrondissement, viene trasportato il 14 aprile in una clinica del vicino boulevard Arago. L’eminente professore Lemière che lo ha in cura si dichiara vinto da una malattia che non riesce a diagnosticare. («Tutti i suoi organi sono nuovi. Vedo che quest’uomo muore, ma non so di cosa»). Il mattino del 15, venerdì santo, muore: a Parigi, come già sapeva , lui che aveva scritto, pochi mesi prima, che «in fin dei conti, non possiedo per esprimere la mia vita, che la mia morte».

 

PIETRA NERA SU PIETRA BIANCA

Morirò a Parigi nello scroscio
di un giorno che ho già vivo nel ricordo.
Morirò a Parigi – non m’inganno –
come oggi forse un giovedì d’autunno.

Di giovedì sarà. Oggi che proso
questi versi e gli omeri ho malmesso,
è giovedì e mai come oggi giunsi,
con tanta strada a rivedermi solo.

César Vallejo è morto, lo picchiavano
tutti senza che lui facesse nulla;
lo legnavano sodo e duramente

lo cinghiavano: sono testimoni
i giorni giovedì, l’ossa degli omeri,
la vita sola, la pioggia, le strade…

(traduzione di Roberto Paoli)

 

Muore nel 1938

Muore nel 1938.

 

Il 19 aprile è sepolto nel cimitero di Montrouge; lo accompagnano nell’ultimo viaggio amici francesi, sudamericani, spagnoli e le parole di congedo di Louis Aragon. Il 3 aprile 1970, i suoi resti vengono trasportati nel cimitero di Montparnasse dove mani amiche hanno continuato a lungo a portare sulla sua tomba mazzi di fiori con i colori della bandiera repubblicana spagnola. Sembra che le sue ultime parole siano state per chiamare la madre ed evocare la Spagna (España, me voy a España).
Sulla sua pietra tombale Georgette Vallejo ha fatto incidere queste parole:

J’ai tant neigé pour que tu dormes

 

È a lei che si deve la pubblicazione delle opere dell’esilio e della maturità, è lei che ha trovato il titolo Poemas humanos, mentre la prima edizione critica, che ha contribuito a fare riconoscere in Vallejo una delle più grandi voci della letteratura in lingua castigliana di tutti i tempi, è opera dell’amico di sempre, il poeta Juan Larrea. España, aparte de m este cálíz fu inviato in Spagna e pubblicato nel settembre del 1938, nel pieno della controffensiva repubblicana dell’Ebro, a cura di una unità culturale delle milizie repubblicane, ma, visto che le sorti della guerra volgevano in peggio, mancò il tempo per mettere in circolazione la raccolta. Se ne salvò un solo esemplare che fu, poi, ripubblicato in Messico con un ritratto dell’autore disegnato da Picasso.

 

Juan_Larrea_escritor

Juan Larrea.

 

Espana

La pubblicazione riunì quattro figure eminenti della cultura ispanica: un pittore, Pablo Picasso, e tre poeti: César Vallejo, autore del libro di poesie, Juan Larrea, prologo del libro, e Manuel Altolaguirre, responsabile per l’edizione. Il libro è stato stampato nel monastero di Montserrat 10 giorni prima della fine della guerra civile.

 

Vallejo-Guevara

Vallejo-Guevara

Ernesto Che Guevara amò intensamente la poesia di Vallejo
e ne ha recitato Los heraldos negros.
Si veda: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=146620

 

Al di fuori della Francia, dove sin dagli anni del dopoguerra l’attenzione per l’opera del poeta peruviano è stata sempre piuttosto viva, le traduzioni più accurate e complete si devono in lingua tedesca allo scrittore Hanz-Magnus Enzensberger (1966), in inglese a Clayton Eshleman che allo studio di Vallejo ha dedicato cinquant’anni di vita (1968), e in Italia a Roberto Paoli (1964) per le Edizioni Lerici, riproposta nel 2008 per i tipi della Gorée.

 

The Complete Poetry

The Complete Poetry

César Vallejo (Author), The Complete Poetry, A Bilingual Edition, by César Vallejo (Author), Clayton Eshleman (Translator), Clayton Eshleman (Editor), Mario Vargas Llosa (Foreword), Efrain Kristal (Introduction), December 2009.

 

Pesie Lerici

Nella traduzione di Roberto Paoli.i

 

In Perù nel 2102, in occasione delle celebrazioni per il 120° anniversario della sua nascita, qualcuno è riuscito finalmente a fargli quel processo che pendeva su di lui da un secolo circa e che lo aveva spinto all’esilio, naturalmente riconoscendo la sua colpevolezza: in un articolo apparso su un quotidiano, un giornalista lo ha accusato di essere in parte responsabile, con la sua poesia triste, dell’inconscio nazionale e della presunta tendenza dei Peruviani al disfattismo. Per timore di non essere stato ben capito, l’autore dell’articolo è passato poi a sostenere le teorie liberali che, sole, fornirebbero quegli elementi utili allo sviluppo di cittadini con una mentalità vincente e senza complessi…
Non sono mancate le indignate reazioni che hanno volto in ridicolo questa postuma condanna, attribuendo ironicamente al grande poeta la responsabilità di tutti i mali che hanno colpito il Perù nell’ultimo secolo. Nello stesso anno sulla facciata della casa che César Vallejo abitò a Trujillo spiccava un gran cartello che ne annunciava la vendita.
Ma dal fondo degli anni e di tanto oblio e di una speranza che continua a cercare se stessa è Vallejo che ci tende una mano fraterna:

«Nessuno vive più nella casa, mi dici; tutti se ne sono andati.
La sala, la camera, il patio, giacciono spopolati.
Non resta nessuno, perché tutti sono partiti.
E io ti dico:
Quando qualcuno se ne va, qualcuno resta.
Il punto da cui è passato un uomo non è più solo.
Non è solo, di solitudine umana,
che il luogo dove nessun uomo è passato.

Le case nuove sono più morte delle antiche,
perché i loro muri sono fatti di pietra o di acciaio, ma non di uomini.

[…] Tutti sono partiti dalla casa,
n realtà,
ma in verità sono tutti restati.

(No vive ya nadie en la casa)».

Ed ecco che è sorta a Santiago de Chuco, Perú, la Casa Museo César Vallejo.

 

Casa museo

Santiago de Chuco, Perú, la Casa Museo César Vallejo

 

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Questo monumento al poeta peruviano César Vallejo Mendoza si trova nella Piazza del Teatro, nel centro di Lima. Autore è lo scultore Lambayecan Miguel Baca Rossi, che lo realizza nel 1983.

***

Alcuni riferimenti bibliografici
César Vallejo, Poesías completas, Edición de Ricardo Silva – Santistenban, Colección Visor de Poesía, Madrid.
César Vallejo, Poèmes humains. Espagne, écarte de moi ce calice, ed. Seuil, Paris, 2011 (traduzione di François Maspéro).
César Vallejo, Poesie, Lerici, Milano, 1964.

 



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Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.

Isaak Babel’

Fernanda Mazzoli

Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’

Fondare la rivoluzione sull’anima umana,
sulla sua aspirazione al bene, alla verità,
al pieno dispiegarsi delle sue facoltà.

 

 

La rivoluzione non può negare il sabato – la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali – a costo di non sapersi più distinguere dai suoi nemici e finire per distruggere, come aveva colto Camus nel suo L’homme révolté, nello stesso tempo uomini e principi.

 


Leggere l’impaginato di  otto pagine in PDF cliccando qui:

Fernanda Mazzoli, Isaak Emmanuilovič Babel’


 

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Isaak Babel’

 

Precoce fu la passione per i libri di Isaak Babel’ (13 luglio 1894, Odessa, Ucraina / 27 gennaio 1940, Prigione di Butyrka, Mosca, Russia). Gli accesero l’immaginazione e gli regalarono una fertile inventiva con la quale alterare «tutte le cose del mondo», fino a non sapere più distinguere fra realtà e fantasia e ingannare se stesso e chi voleva ascoltarlo con le sue avvincenti storie. Leggeva sempre, ricorda in un suo racconto (Nel sottoscala, 1930), «durante le lezioni, nelle ricreazioni,lungo la strada di casa,di notte, a tavola», e per un libro rinunciava a tutti i divertimenti condivisi dai compagni, dalle fughe da scuola per bighellonare al porto, alle partite di bigliardo nei caffé, alle nuotate nel fiume che attraversava Odessa. A causa dei libri, e della bizzarria che a loro e all’ambiente familiare doveva, non aveva amici: «E chi poteva aver voglia di frequentare un tipo simile?». La solitudine lo seguirà come un’ombra discreta nascosta nelle pieghe di una vita avventurosa, compagna muta tra i compagni dell’armata a cavallo, fino al silenzio degli ultimi anni, quando l’assalto al cielo tentato dai bolscevichi era precipitato nelle secche della normalizzazione stalinista.

Isaak Ėmmanuilovič Babel'

Isaak Babel’

Che non gliene sarebbe venuto niente di buono dalla sua passione per i libri, la madre, con una sensibilità tutta ebraica per le sventure, lo aveva presagito e proprio nel momento in cui una brillante carriera sembrava attendere il figlio. Il giovane Isaak era stato ammesso alla classe preparatoria del ginnasio, superando la bassissima soglia del cinque per cento riservata agli Ebrei. Mentre il padre, come impazzito dalla gioia, chiusa la bottega, si era precipitato a comperargli un berretto da ginnasiale, la madre «intuiva il destino nei miei occhi e mi guardava con amara pietà, perché lei sola sapeva quanto fosse sfortunata la nostra famiglia» (La storia della mia colombaia, 1925).

Correva l’anno 1905, anno di moti rivoluzionari che portarono alla creazione della Duma, anno di disordini che non di rado sfociavano in pogrom contro la comunità ebraica ed il decenne Isaak si trovò nel bel mezzo di uno di questi e vi perse il nonno, massacrato dai russi, e la «colomba color ciliegia», regalatagli dal padre come premio per l’ammissione e schiacciata dal venditore ambulante Makarenko che colpisce il bambino, scagliandolo a terra, e gli uccelli appena presi al mercato. «Da ragazzo ho desiderato ardentemente di possedere una colombaia: in tutta la vita non ho avuto desiderio più forte. Avevo dieci anni quando mio padre promise di darmi il denaro per l’acquisto di un’assicella e di tre coppie di colombi». Costruita la colombaia e avuto il denaro promesso, il mattino del 20 ottobre Isaak, malgrado le fucilate che echeggiavano in città, corse al mercato venatorio e comperò finalmente gli agognati colombi, ma «in qualche luogo lontano cavalcava la sfortuna su un gran cavallo» e il ragazzo si ritrovò a terra, insanguinato dalle viscere dell’uccello schiacciato. «Il tenero intestino del colombo strisciava sulla mia fronte, ed io chiusi l’occhio che m’era rimasto ancora aperto perché non vedesse il mondo che mi si stendeva davanti. Quel mondo era piccolo e orribile».

Distrutto il negozio del padre, nascosto con i genitori in casa di amici russi per tutta la durata del pogrom, il bambino contrsse una malattia nervosa che richiese il suo allontanamento dalla cittadina di Nikolaev per luoghi più salubri. Così, si imbarcò con la madre per Odessa, dove era nato dieci anni prima, nella Moldavanka – il ghetto ebraico – e si stabilì in casa del nonno paterno, rabbino cacciato dalla sua città per contraffazione di cambiali, stravagante inventore, erudito straccione e pazzo agli occhi dei concittadini.

A Odessa studiò all’Istituto commerciale dove ebbe la fortuna di incontrare uno straordinario insegnante di francese, un bretone, che gli insegnò la lingua e l’amore per la letteratura del suo paese, al punto che scrisse i suoi primi racconti, che poi butterà via, giudicandoli incolori, in quella lingua. Fino al sedicesimo anno, su insistenza del padre, studiò anche l’ebraico, la Bibbia, il Talmud e il violino, ma agli esercizi musicali preferiva la lettura di Turgenev e di Dumas e, strimpellando per ingannare il padre che si era messo in testa di fare di lui un violinista di successo, divorava le pagine dei romanzi posti sul leggio. Intanto, scriveva di notte le storie che raccontava di giorno ai ragazzi dei vicini.

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Antonina Pirozhkova e Isaac Babel’.

Isaak Babel con Antonina e la figlia

Isaak Babel’ con Antonina e la figlia.

 

Più tardi, la Moldavanka, con la sua vita rumorosa, i suoi tuguri abitati da un’umanità dedita a bizzarri traffici, i suoi banditi generosi e trucidi, diventerà il teatro di molti suoi racconti che – ricostruendo con vivacità e un tocco d’umorismo l’ambiente della prima giovinezza – ripercorrono, in realtà, il maturare della sua vocazione letteraria, a cui attribuisce un’origine familiare, nella somiglianza che avverte con il nonno mezzo pazzo, autore di un’autobiografia in ebraico dal significativo titolo L’uomo senza testa.

 

Racconti di Odessa

Racconti di Odessa

Altro mentore di quegli anni fu un singolare abitante della Moldavanka, correttore di bozze di un giornale di Odessa, nonché «filosofo della scuola naturalistica» che gli consigliò, dopo avere letto una tragedia che il quattordicenne Babel’ gli aveva sottoposto a giudizio, di immergersi nella natura, come una pietra o come un animale, se davvero aveva l’intenzione di scrivere qualcosa che valesse la pena.

Racconti proibiti e lettere intime, Feltrinelli, 1961

Racconti proibiti e lettere intime, Feltrinelli, 1961

 

Cronache dell'anno 1918

Cronache dell’anno 1918

 

Qualche anno più tardi, sarà Gorkij – che pubblicherà nel 1916 i suoi primi racconti, rifiutati da molti giornali –, a dargli un consiglio decisivo: di andare fra la gente, come ricordò lo scrittore in una breve ed intensa Autobiografia, pubblicata per una rivista nel 1924. E per sette anni – anni che sconvolsero il mondo – Isaak Babel’ andò fra la gente, si immerse nel turbine della Rivoluzione, lasciò che il suo universo poetico maturasse lentamente nel fragore, nel caos, nella stanchezza e nel fervore della guerra rivoluzionaria, fra un attacco e un ripiegamento e si facesse strada al passo dei cavalli dell’Armata cosacca di Budënnyj che, agli ordini del nuovo potere sovietico, respinse fin quasi a Varsavia i Polacchi che avevano conquistato Kiev.

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L’Armata a cavallo. Titolo originale: Конармия.

 

L'armata a cavallo

L’armata a cavallo

 

Anni turbinosi per la Russia e per il giovane Babel’: soldato sul fronte rumeno nel 1917, prestò servizio nell’anno seguente nella Ceka e al commissariato del Popolo per l’istruzione, combattè nell’armata del Nord e poi nella Prima armata di Cavalleria, strano soldato dall’aria poco marziale, piccolo, occhialuto, con la sacca piena di manoscritti e giornali. Lavorò come tipografo ad Odessa e fu cronista a Pietroburgo e nell’anno 1923 riprese a scrivere, dopo avere imparato ad esprimere i suoi pensieri «con chiarezza e in forma sintetica», come se «i sogni impossibili» e le «canzoni dissonanti» che covava in sé dall’ infanzia si fossero asciugati nelle notti all’addiaccio, dilaniate «dal latte della luna» o nella polvere e nel fumo delle battaglie che avevano incendiato la pianura polacca «levigata come un asse». La guerra rivoluzionaria, il contatto diretto con gli eventi e gli uomini avevano finito per mettere le briglie alle «tempeste» della sua immaginazione , affinatasi e sublimatasi in un tirocinio linguistico – che si affiancò all’esistenziale – all’insegna della concisione.

L’asciuttezza del cronista si compenetra senza sforzo con il lirismo del poeta che ha saputo trovare «il senso della natura», raccontata per squarci improvvisi, di grande efficacia pittorica, capaci di fondere il movimento dell’Armata a cavallo con il dispiegarsi dei campi di papaveri e il gioco del «vento di mezzogiorno tra la segale gialligna». Dilaga l’armata cosacca nella steppa, tutt’attorno cadaveri e villaggi distrutti, e intanto «il sole arancione rotola nel cielo, come una testa recisa, una tenera luce s’accende nelle fenditure delle nubi, svettano sulle nostre teste gli stendardi del tramonto. Il lezzo del sangue di ieri e dei cavalli uccisi geme nel fresco della sera». Come un fiume in piena, l’armata continua la sua marcia verso Novograd e al sole succede la luna che si adagia sulle onde del nero Zbruč che i cosacchi sono costretti a guadare, non essendoci più ponti.

L'Armata a cavallo

L’Armata a cavallo

 

È così che si apre il primo dei racconti che compongono l’opera più nota di Isaak Babel’ e che introduce il lettore in un mondo sconvolto dalla guerra e dalla rivoluzione, eroico e crudele, capace di grande coraggio e smisurate speranze, così come di spietate azioni e meschini sentimenti. Le «orde pezzenti» che si rovesciano sulle antiche città polacche portano con sé il vento impetuoso del nuovo mondo che i bolscevichi stanno cercando faticosamente di costruire, ma anche la violenza cieca e la sete di vendetta e la brama di saccheggio di ogni esercito. Per quanto sia arrivato l’ordine di Trotskij di non scannare i prigionieri, ma di sottoporli a regolare processo, sul fronte le passioni degli uomini esacerbati dalle lunghe privazioni, dalle perdite subite, dai traditori annidati in ogni villaggio, hanno spesso la meglio sui richiami alla nuova legalità rivoluzionaria e, semplicemente, all’umana pietà. Il nostro narratore, assegnato allo stato maggiore della divisione come corispondente, si vede più di una volta costretto a compilare rapporti di denuncia di azioni banditesche, che porteranno i colpevoli davanti al tribunale di guerra.

L'armata a cavallo

L’armata a cavallo

 

È la lucida consapevolezza di stare vivendo una storia grande e terribile a fare de L’Armata a cavallo un’opera epica, nel senso più alto: scevra da ogni retorica, da ogni compiacimento, da ogni intento agiografico. Il giovane Isaak, andato fra la gente e buttatosi a capofitto nel tumulto della guerra e della rivoluzione, sia per intima adesione alle ragioni di questa, sia per trovare se stesso in quanto scrittore, mette a segno quell’immissione di «realismo quotidiano nella sublimità tragica» che, secondo Auerbach, caratterizza la grande epica omerica. E così, mentre combatte con la cavalleria cosacca, condividendo con i suoi compagni fatiche, stenti, pericoli, «la cronaca dei misfatti quotidiani» lo opprime «senza posa come un vizio di cuore». È lo sterminio delle api, di cui sono stati profanati gli alveari intossicati dallo zolfo, ma anche gli stupri di gruppo, i saccheggi delle chiese, le esecuzioni sommarie per un sospetto di tradimento. Il cronista-combattente di Odessa tiene un diario minuzioso, da cui poi svilupperà i suoi racconti, in cui compare sotto il nome di Ljutov, e non nasconde nulla, né a sé stesso, né al lettore. I compagni dell’armata a cavallo non sono eroi esemplari, sono uomini capaci di eroismo e di ferocia, una massa in movimento sui «binari precipitosi» che il partito bolscevico ha aperto «nella pasta acida delle storie russe», sospinti dalla marcia frenetica di una storia che corre più veloce di loro, ancora incrostati dalla scorie di un passato che sa di servitù, sopraffazione, pregiudizi, «ansimante crudeltà contadina». Dunque, Babel’-Ljutov decide di assumere pienamente, senza infingimenti e romantiche illusioni, «la curva misteriosa della retta di Lenin», che ha scagliato in prima fila la comunità cosacca e che da quelle scorie saprà liberarla, come osserva sentenziosamente Galin che lavora con lui al giornale del fronte.

 

Sëmen Budënnyj, il popolare e combattivo comandante dell'Armata a cavallo.

Semen Budennyj, il popolare e combattivo comandante dell’Armata a cavallo.

Non piacquero questi racconti al generale Budënnyj che accusò l’autore di avere denigrato l’Armata che aveva comandato, dando prova di sraordinario coraggio e capacità decisionale che lo scrittore non mancò di riconoscere, cogliendo nel suo «sorriso abbagliante» e nelle sue scarne parole la grandezza del personaggio, nuovo tipo di condottiero popolare. Mentre nomina un comandante di brigata, il generale, che deve l’incarico alla sua non comune audacia, si limita a dirgli, sorridendo: «Il serpente ci attanaglia. Si vince o si crepa! Non c’è altra via, hai capito?», e lo minaccia, sempre sorridendo, di fucilarlo, se scappa. Budënnyj, naturalmente, ha ragione: è con uomini come lui che si vincono le rivoluzioni e Babel’ è il primo a riconoscerlo, ma sa altrettanto bene distinguere tra propaganda e letteratura e non sarà mai disposto a sottomettere l’una all’altra, fino a preferire il silenzio negli anni dello stalinismo trionfante.

È nel racconto forse più struggente di tutta la raccolta, Gedali, fantastico, diafano e malinconico come un dipinto di Chagall, che «la sublimità tragica» vissuta dal narratore e da milioni di uomini con lui, si staglia con icastica evidenza. A Gedali, padrone di una botteguccia nel ghetto ebraico della cittadina polacca di Žitomir, studioso del Talmud e di Maimonide, nonché fondatore di una impossibile Internazionale, soddisfatto che la rivoluzione le abbia suonate ai cani malvagi degli antisemiti, ma tuttavia preoccupato perché i fucili continuano a sparare, il narratore risponde che la rivoluzione «non può fare a meno di sparare». È un’Internazionale impossibile, quella di Gedali e il combattente dell’Armata a cavallo, spinto verso di lui alla vigilia del sabato dalla «densa malinconia dei ricordi», non si fa illusioni in merito e non ne offre al suo bizzarro interlocutore. Tuttavia, ne è affascinato e non solamente per un richiamo della tradizione in cui è stato cresciuto: sono la sua intelligenza e la sua sensibilità di rivoluzionario a confrontarsi con le parole dello strambo vecchio. Lui accoglie la rivoluzione, ma accoglie anche il sabato ed è deluso che la rivoluzione mandi avanti solo i fucili. Sparavano i polacchi e sparano i rivoluzionari e questo lui non lo capisce, perché «la rivoluzione è gioia. E alla gioia non piace avere orfani in casa». Gedali non sa più dove è la rivoluzione e dove la controrivoluzione. Lui vuole «un’Internazionale di brava gente» e che «sia tesserata ogni anima e le assegnino una razione di prima categoria. Prendi, anima, mangia e ricevi dalla vita il tuo godimento!». E invece, rincara Gedali, loro ignorano completamente con quale companatico si mangi l’Internazionale

Il redattore del Krasnyj Kavalerist – il giornale del fronte – ha bello offrirgli con spavalderia il suo companatico: «polvere da sparo» da innaffiare «con il sangue migliore», perché la sua pronta e un po’ scontata risposta si deve far da parte per lasciare avanzare il sabato, «un sabato fanciullo» che «dall’azzurra oscurità saliva in cattedra».

Pagina straordinaria, e per la qualità della scrittura – incisiva, sognante e densa, intimamente aderente a luoghi e personaggi – e per la sconvolgente lucidità che si annida nelle parole di Gedali sotto l’incalzare delle immagini. Parole profetiche, ad un secolo dall’Ottobre la cui demiurgica ambizione è ripiegata nella costruzione di quel «socialismo reale» che, nonostante indubbi meriti, non ha certo realizzato le promesse di emancipazione che mobilitarono milioni di uomini in Russia e nel mondo intero. Non è certo questa la sede per anche solamente accennare ad un bilancio dell’esperienza della rivoluzione bolscevica che ha segnato una svolta epocale, ineludibile. Ritengo, però, che l’esaurirsi della sua spinta ideale e il crollo miserevole dell’Unione sovietica, le cui macerie hanno finito per trascinare con sé – almeno per i più – l’idea stessa della possibilità di una società non fondata sui rapporti di produzione capitalistici, rinserrando più che mai gli uomini nella gabbia d’acciaio dell’attuale sistema sociale, possano essere lette (e corrette in un futuro che abbiamo il dovere di immaginare diverso dall’attuale presente “senza storia”) anche alla luce delle considerazioni del bizzarro rigattiere di Žitomir che vuole fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare il sabato – la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali – a costo di non sapersi più distinguere dai suoi nemici e finire per distruggere, come aveva colto Camus nel suo L’homme révolté, nello stesso tempo uomini e principi. Ma nella steppa nel 1920 la rivoluzione è ancora giovane, muove i suoi primi passi, impetuosi, sgraziati, commoventi e pieni di promesse e Afonka Bida, capoplotone di Babel’-Ljutov, può ancora ritenere di stare combattendo anche per le api «sterminate dagli eserciti in lotta».

Pochi rapidi tratti, battute essenziali ed incisive, capaci di restituire in un’istantanea un uomo e uno sprazzo della sua verità, il coraggio sfrontato con cui si presenta al mondo, o la sua disperazione, o la sua tenace convinzione: si susseguono pagina dopo pagina i compagni di lotta, gesti e parole scorrono in un grande ritratto corale che è quello dell’armata in perpetuo nomadismo, scandito dal «lamento dei convogli», dagli spari, dai gemiti dei feriti, dai nitriti dei cavalli.

Sfilano davanti al lettore il giovane comandante di brigata Kolesnikov, dalla cui andatura Babel-Ljutov riconosce «l’indifferenza imperiosa del chan tartaro», il caposquadra Chlebnikov che guarda il mondo «come un prato di maggio», appassionato di cavalli e che per un cavallo che gli è stato preso abbandona il partito, Ilija, figlio ribelle del rabbino di Žitomar, agitatore e poeta che nella sacca da soldato tiene i ritratti di Lenin e Maimonide e muore di tifo «tra i versi, il filatterio e le pezze da piedi». E il mite pastore Saška, cantore dello squadrone, che con le sue canzoni «lastricava di suoni e lacrime le nostre strade estenuanti», Sidorov, inetto al combattimento dopo una ferita, che cerca scampo dalla «zampa pelosa della sua angoscia», sognando l’Italia che gli è entrata nel cuore come un’ossessione e dove sta covando un fuoco che lui potrebbe attizzare, il capoplotone Surokov con il suo curioso paragone fra Lenin e la gallina, entrambi capaci di tirare fuori dal mucchio e prendere al primo colpo, il primo la verità, l’altra i chicchi di grano. E il fabbro Baulin, «forte, laconico, ostinato» caposquadrone poco più che ventenne, che non ha mai conosciuto la frivolezza, incrollabile sulla strada che ha intrapreso, incurante delle privazioni, al punto da potere dormire seduto: uno di quegli uomini – sottolinea lo scrittore – decisivi per il trionfo della Rivoluzione.

Uomini semplici, non di rado rozzi, ma consapevoli, e fieri di essere al centro di un esperimento senza precedenti nella storia dell’umanità: il governo operaio-contadino, il primo nel mondo, per il quale vale la pena battersi e resistere alla fame, al freddo, alla nostalgia di casa, al dolore per i compagni uccisi e per i cavalli cui i Cosacchi sono legati da un vincolo di fraterna amicizia. Con questi uomini Isaak Babel’ attraversa gli anni della guerra rivoluzionaria, con loro condivide le costanti privazioni e gli improvvisi entusiasmi, per un attacco riuscito, per un discorso di Lenin o un volantino di Trotskij, con loro scopre la fraternità, intorno ad un misero pasto messo in comune, ad un giaciglio sotto un fienile, alle note pensose di una canzone e a un gesto di compassione per il cadavere di un nemico. Bagliori che si accendono nell’ombra vischiosa di una solitudine che non smette di accompagnare Babel’-Ljutov: difficoltà di farsi accettare – lui, intellettuale ebreo dal portamento poco marziale dai bellicosi e rustici Cosacchi – certamente, eredità del ghetto, forse, oppure conseguenza di un’inguaribile propensione alla malinconia e alla fantasticheria, contratta nell’infanzia; comunque sia, la solitudine gli aleggia intorno, «nel deserto polveroso e arroventato dei campi», «sotto l’instancabile pioggia galiziana», nella notte pronta a volargli incontro «su cavalli focosi».

È proprio il riuscito e mai banale intreccio tra ispirazione lirica ed epopea collettiva a fare de L’Armata a cavallo un’opera singolare ed autentica, in cui senso della storia e sentimento dell’umana condizione si fondono in una soluzione linguistica originale, capace di abbracciare con naturalezza registri molto diversi in un fluire incessante che sposa il ritmo incalzante della neonata rivoluzione.

 

Copertina della rivista del Fronte di Sinistra delle Arti (LEF), 1923, litografia

Copertina della rivista del Fronte di Sinistra delle Arti (LEF), 1923, litografia

Diversi racconti, poi inclusi nel libro, vennero pubblicati nel 1924 sulla prestigiosa rivista Lef, diretta da Majakovskij; ad essi ne seguiranno altri, dedicati alla città di Odessa, ed alcune commedie. Dieci anni dopo, al primo congresso degli scrittori sovietici, Babel’ si definì ironicamente maestro del genere letterario del silenzio.

 

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Qualcuno, nel frattempo, non aveva mancato di incolparlo di formalismo e scarsa produttività. Intervenne ancora l’anno successivo al Congresso internazionale antifascista degli scrittori, tenutosi a Parigi; poi, sempre più estraneo al clima politico e culturale imposto dallo stalinismo, finì per ritirarsi dalla vita pubblica e chiudersi in un definitivo silenzio, di fronte agli esiti di una rivoluzione che non aveva saputo – o potuto – conciliare Budënnyj e Gedali e si stava arenando nell’impasse di una nuova autocrazia. Come altri comunisti della prima ora, sarà accusato di spionaggio e arrestato e come loro confesserà crimini inesistenti: cedimento di fronte alle pressioni poliziesche, forse, disperazione, impotenza, senso del fallimento – sicuramente e, nel più profondo, un’oscura, tenace e tragica fedeltà, fino all’autoannientamento, a quel governo primo nel mondo che l’Armata a cavallo aveva contribuito a fare trionfare.

La foto di Babel' eseguita dal NKVD dopo il suo arresto

La foto di Babel’ eseguita dal NKVD dopo il suo arresto

Processato e condannato, sarà fucilato sul finire del gennaio 1940. I suoi archivi e manoscritti, confiscati, sono andati perduti. Sarà pubblicamente riabilitato nel 1954 dalle accuse che gli costarono la vita.

Fernanda Mazzoli

Le citazioni sono prese da Isaac Babel’, L’armata a cavallo e altri racconti, Feltrinelli, Milano, 1976, trad. dal russo di Ignazio Ambrogio, Filippo Frassati e Maria Olsoufieva.

 



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Margherita Pieracci Harwell – I tentativi di certezza di Maura Del Serra

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Margherita Pieracci Harwell

I tentativi di certezza di Maura Del Serra

 


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Margherita Pieracci Harwell, I tentativi di certezza di Maura Del Serra


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Dei Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (Venezia, Marsilio, 2010) di Maura Del Serra, che raccolgono il miele distillato in un decennio di estate matura, troviamo una prima chiave nelle exergues – da Wislawa Szymborska: “il savoir vivre cosmico / […] esige […] da noi […] / una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote”; e da Derek Walcott: “Il destino della poesia è innamorarsi del mondo / nonostante la storia”. Partecipazione stupita – dunque – , e stupita vuol dire già ammirativa, quindi innamorata, innamorata del mondo, di quel gioco “con regole ignote” che è nel nostro cosmo la vita, a cui è tuttavia d’obbligo partecipare, così come la poesia non può non innamorarsi del mondo, malgrado la storia. Meraviglia (stupore ‘religioso’, awe), innamoramento, che è già necessariamente partecipazione: questa la legge ineludibile della poesia, che l’artista crea nel dolore poiché non ha palpebre per risparmiarsi la visione costante del “nonostante” la storia, inconoscibilità delle regole.
Così, queste poesie, come tutte le poesie di Maura Del Serra che l’hanno condotta fin qui, si tessono di estasi e di orrore, ma, miracolosamente, salvando la lievità, delle immagini – e forse anche del cuore – come annuncia, con le scene figurate del suo ventaglio, il  preludio Trovarsi. Già il preludio, però, ha due antine, e la seconda (Canzonetta per il ventunesimo secolo) molto meno lieve, che pure accenna una promessa di bene, cioè di “significato”- perché la Del Serra ha una profonda vena di ragione, alla quale non sorride un bene che non sia intellegibile. Del resto si sa, dalla sua produzione precedente ed anche da quanto traspare della sua vita, che questa poetessa si muove con passo sapiente tra mondi opposti: l’assoluta vulnerabilità del segnato da Dio (il poeta), e il saggio governo di una casa, una famiglia, squisitamente “normali” pur nella loro rara armonia.
Coerente, questo libro composto di otto parti – perciò si può cominciare dal parlarne in generale, ma poi, da vicino, è chiaro che la coerenza nasce dall’equilibrio di opposti, costituiti più che dai singoli componimenti dalle sezioni, fondate non sulla cronologia ma sulla mood che ad una ad una diversamente le governa.
La prima sezione si muove, come il libro intero, sui due fili dell’orrore del vuoto (l’eterno vuoto dell’ “ignoto” su cui si libra l’uomo, ma anche, in particolare quel vuoto che si esprime oggi attraverso la tecnologia, presuntuoso e pungente nei suoi aghi metallici), e della speranza; ma se il primo filo non trionfa, certo è forte qui l’ombra del travaglio. Il titolo, Forza maggiore, si chiarisce nella poesia eponima, collocata quasi al centro della raccolta. Da identificare forse con la “necessità” weiliana (attenuata in savoir vivre cosmico dalla Szymborska del primo exergue), questa forza “prima” è anch’essa insieme bene e male: ci schiaccia, ma in ciò ci modella, scolpisce attraverso le lacrime le linee uniche di un volto, ancora indecifrato ma già redento in tal modo dal suo peso. Il “noi” di questi versi suggerisce l’universale destino umano, ma a plasmare i singoli volti (destini), la “forza” si vale di colui che si cela appena nell’“io” della prima e della seconda composizione. Partecipe e redentore insieme del male di vivere, l’io non può essere che il poeta-madre, che “partorisce” dal noto l’ignoto – così si comprende che l’“ignoto”, parola tante volte, pur dolorosamente, ritornante, è anche un nome del bene – “il nuovo” -, come lo è la “figura” dei “giardini di sapienza”, pur restando “sapienza” un opposto di “ignoto”, in questo salvifico labirinto di oximora. Il poeta è, del resto, protagonista assoluto di questi versi, “inerme tedoforo esiliato nel suo lume sottile”, lui che solo ricuce le “lacrime brucianti dei violini” alle “risa dei flauti cristallini”, che solo esplora “il mare rotondo della storia”, in bruciante “passione di memoria”: passione di eternità in chi è pure “destinato a sparire” – “in breve vivo in breve morto”-, eppure incarna la promessa che nulla in realtà si perde, “poiché ogni cosa dura / nella memoria dell’essere”. Fino a parere che trapassi, il poeta, proprio nella memoria “luce della parola”, “ombra di Dio”, che “fa guerra / fiorita di coscienza a ogni eclissi della terra / nel bruto male, nell’informe oblio”.

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Ma non ci e dato dimenticare che la dignità del poeta è proprio nel non potere sciogliersi in una sola figura – Prometeo incatenato al punto di passaggio da questa realtà a un’altra, fattosi “porta”, come recita con assoluta pertinenza il titolo della breve poesia che segue a Forza maggiore: “Di là la musica d’oro leggero, / le nozze mute di tempo e eterno, / le creature versate in essenze, / l’estate sfolgorante nel cristallo d’inverno. / Di qua stridori d’ansia, millenarie cadute / e dolore di esistere dentro la propria fine”. Sulla stessa lunghezza d’onda – dopo gli stridori della Tecnodivinazione e della Pubblicità, che ci conducono alla tenerezza per le vecchie artigianali chiromanti (“quella fragile mano peritura / che crea il destino e in lui si trasfigura”) – si avvera infine la compresenza in Voce di voci. Nell’acqua “dolce di sale” i due mondi opposti dell’acqua dolce e dell’acqua salata sono, come attraverso la “porta”, immersi l’uno nell’altro: “Acqua dolce, la voce spande “Sarà per sempre”, / […] Acqua salata, “Tutto passerà” […] / Acqua dolce di sale, la voce solitaria / del poeta è la sete della nube nell’aria, / le ossa del pianeta avvolte alla sua stella”. E ancora si ripete che solo la voce del poeta saprà in lingua non umana “forgiare Parole per tacere “ solo il poeta saprà, “in ogni anonimo, festivo sguardo” tessere e alzare lo stendardo “che spalanca in creazione l’imperiosa prigione”. Solo questa poetessa che noi ora leggiamo, “eterna bambina senza attese”, che nuotò come Alice nelle sue lacrime, in quell’ Acquario memoriale sa vincere la lacerazione del tempo : “fa dei passi presenti un nido d’echi, ripiega / in croce d’anni le braccia protese”. “L’arte può far[le] vivere ogni vita / […] ma di una sola vita [lei può] testimoniare, / sentirla eterna”, quella per lei e attraverso di lei “è la storia, e niente la cancella”.
Ho presentato fin dalla prima sezione questa lunga rete di citazioni, perché ne balzi l’evidenza di una poesia che sgorga da una vita vera, semplice e irripetibile, costellata di lacrime e risa (di violini e di flauti), ma decantate in uno svariare di immagini e di musiche che si fermano in un unicum tra tutti riconoscibile. Vita paradigmatica, iscritta nel suo “presepe marino pistoiese”, dove qui appena si adombra la perenne-precaria vicenda umana degli affetti basilari e già si proietta nei miti eterni – perché questa è poesia colta, tutta tessuta di antica sapienza, come di meditatissimi pensieri, nella lievità di note e figure.

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Le sezioni successive non si scartano da queste premesse e si continua a infilare perle di citazioni, ma occorre anche cogliere il “cuore” di ognuna. Il polittico per la via ignota, che forma la sezione II, propone immediatamente, nel titolo, quella parola, “ignoto”, che costella Forza maggiore. Si apre “spiegando” il contrasto sotteso a tutta la raccolta, tra “familiare” e “straniero”, dolcezza dell’“eden domestico” e “crepa” fulmineamente aperta sul “tormento della mortalità” – contrasto solo a metà sanato in “catene rifatte grazia e rima”. Il poeta è ora, nella notte, nell’interregno, come abbandonato dal suo dio, “l’oro del senso alato / è piombo nel crogiolo rovesciato”. “Alzavo lieve la mia sfera d’aria / nella sfera d’inchiostro […] / ora discendo a balzi, racchiusa in quella sfera / d’aria, la scala che l’inchiostro annera / con parole perdute / di vite non vissute…”
Nel medio abisso “la grazia è un’acqua carsica che fugge le labbra” – mito di Tantalo passato attraverso l’immagine del fiume carsico, benedetta nell’Inno alla gioia da Margherita Guidacci. Già era venuto alle labbra il nome della poetessa di cui Maura Del Serra ci ha ridato l’Opera dopo decenni d’ombra. La Guidacci delle rime baciate, la Guidacci, ahimé, in questa sezione, di Neurosuite, del ricordo felice nella desolata miseria: Nella caverna: “Era profonda e chiara / la sussistenza, / oggi vuoto una coppa / di malata innocenza – / annegano nel Lete / tutti i vergini uccelli della sete- / […] l’eternità del sale alto sul fondo del mare / mi pungeva la mente a parte a parte – / ora nell’aria turbinano a lutto le buie fitte carte / del Karma presagito, / terribile infinito”, fino alla Canzonetta dell’impersonalità: “io fui mutata in mare / senza pesci, abissale / insondabile riva / che mi pronuncia viva / senza dirmi” e a Specchio d’aria: “Volano immobilmente le betulle / nella finestra intrecciate. Si stacca / l’ora dal qui, l’osso ruota sul cardine”. Siamo travolti dal fiorire delle immagini, dallo sgorgare del ritmo, eppure permane il rotto gemito: “Sono il grano che già patì la falce / e trascolora fruttuoso, o le stoppie /disdegnate dai carri, gli aghi ciechi di sete? / Non lo saprò…” (Incoscienza). La Guidacci, anticipavo, ed ecco Maura del Serra chiamarla: Variazione su un tema di Margherita Guidacci: “La vittoria è una vetta, ma la sconfitta è un continente / un continente dove in cerchio vano m’aggiro, / sete negata ad ogni conoscenza, / a vero vuoto che irraggi presenza, / a ombra densa che partorisca luce”. Così, senza capovolgimenti, Cattura: “dentro / il mio ghiaccio improvvisa si acumina la luce / di un amo teso vero la gola” o Commiato: “Qui, perduta nel mio cuore bambino, / mi disciolgo da te come dal labbro preghiera, / circumnavigo il pozzo del mio niente, / vuoto coppe di lacrime posate sulla ghiera…”, fino al respiro di Terrestre: “dentro il cieco destino / sbendato dalla fata libertà, / lottiamo nella selva a partorire l’umano…”, che al capovolgimento prelude: – Sotto-sopra: “lavo il contuso pensiero / dai colpi di teatro della sorte – / con volo millimetrico, con danza solitaria, / io disegno la stella della Sera”.

 

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“Tutto è il prezzo di tutto”, sono le Parole del valitudinario; pur sanguinosa, si disegna la vittoria: “Le mie dita future al buio toccano / gli indicibili fiori nascosti dalle spine”; e in (Enigma) “Coronata di cenere rovente / io tra i sopravvissuti dell’Amore / vedo il loto a otto petali”, e in (Qui) , anche se è solo un augurio: “In me torni a formarsi goccia a goccia la luce”. Ne sgorga la Canzone per rinascere: “mia bocca buio-muta, fatti barca, / porta le ceneri delle parole, / che tanto amasti, fino al Grande Fiume”; quindi: “brucia il grido d’assenza, / alza il tuo dio maggiore / sul pulviscolo cieco dell’inappartenenza, apri la solitudine del plurimo Vero: / è fede il Nome d’arte di ogni scienza”. “Ero la danzatrice che diviene la danza” – canta Maura nelle Tre età – sarò “il diadema postumo d’altra costellazione /…/ Sono il poeta, il dolceamaroamore, / la musica del giorno che finisce e comincia”  “Noi scriviamo col sangue su uno specchio, / come Pitagora la nostra vita, / e gli angeli la leggono riflessa nella luna” (Un padre antico). Maestro, Pitagora; maestro, come per la sua Margherita, anche l’albero: “Imita le radici, l’immobile filiale fedeltà al ventre della zolla, al pane / imita il tronco […] anellare nebulosa / […]; il ramo, che vola da fermo / nel vento […] su tastiere di luce, / […] la foglia, ciclica navicella /delle stagioni […] / imita il riso prezioso del fiore, / il suo calice fragile che scolpisce la stella”. Rifiata nel grembo delle parole – ghirlande di pietre, luce all’occhio, ali al cuore, scintille, colonne, mappe del labirinto, tavole della legge; sfiora le Voci dalla strada, poi “scend[e] / nel silenzio dove altre voci intend[e]”; “senza tempo […] viv[e] nel [suo] tempo, spremendo / un latte lucido di redenzione / dalle opache mammelle della forza – / goccia a goccia, pagandolo in monete d’addio” in un trafiggente presagio che è speranza: “cadrà in scaglie il sonno / policromo dei giorni dolceamari” finché “l’esilio scuro [le] si schiari”: “…alla temperatura della fede / si forma il cuore, inviolato e solo, / il petalo precipite risale / mulinelli di gravità mortale”. Il cuore, inviolato e solo, della poetessa “ospite lenta, buffa / sulla sua antica zattera con ruote / che per un uomo e una bimba divenne / una barca, ed imbarcò grano, erbe e frutti / e vesti di parole per l’anima di tutti, / infine si ancorò all’arcobaleno / e nel suo ponte celeste fu seno”.
Si conclude con i colori dell’arcobaleno la lunga storia frammentata del poeta che colse fiori tra le spine. È durata in tante metamorfosi per due intere sezioni. Ora il travaglio dello scavo si allenta, il canto si stende, sereno, nel dono. È la terza sezione – Dediche – dove a tratti brilla la gioia semplice, fiorita sotto l’arco-in-cielo sull’Arca. Ma per questa lieta navigazione il poeta si impone una disciplina di umiltà – A se stessa, di notte: “non voltarti: sii fede / che sa, perché non vede”. Sono doni ai familiari e agli amici, ricordi e celebrazione di eventi. Il primo dono è per la madre giovane, da cui aveva, come ogni figlia, tentato di fuggire “su praterie d’arazzi aperti a corse abbaglianti,” per tornare, tardi, a raccogliere lo sguardo sul cartoncino di una foto anni Quaranta, dove si staccano le trecce attorte e la trina bianca del collettino. Poi quella stessa madre, “indulgente e terribile come sorella morte”, si trasfigura in Demetra: “Adesso che sei fiore della memoria, io posso / intatta riconoscerti senza angoscia e sventura: / la catena di sangue ricongiunta / darà limpido fuoco stellare d’altra vita…” Si riconosce nel padre, che “nel sonno intonav[a] / romanze d’opera […] / e nella veglia ergev[a] sapienti cattedrali / di legno, in sfida al tempo, col [suo] orgoglio bambino”. Si specchia in lui per quell’“orgoglio bambino” – che echeggia il “cuore bambino del poeta”, “eterna bambina senza attese”-; canta la somiglianza, senza veli: “il tuo amore testardo, malnoto, ora è vicino / alla tua figlia estrema che distilla / minime cattedrali di parole in un miele / amaro d’ansia, dolce di preghiera”. Accanto ai genitori torna l’infanzia, col ricordo della “rondine impazzita / di terrore e fuliggine nel tubo della stufa”, profetica “anima espiante“ che cerca “metafisiche finestre per svolare” e le si posa leggera in petto mentre Maura trapassa in sua madre “quella sera, ogni sera”. Ecco un’altra, tutta lieta, visione di sè: “Come quando minuscola intrecciavi i tuoi nidi / segreti di parole, tutta implicita ai piedi / dell’angelo romanico affrescato da tuo fratello” – nel tempo rivelato: immagine che svaria nel primo incanto di giovinezza “come quel primo bacio tra l’odore innocente / di quel viso incantato nella frusta piazzetta”, da cui nascono le poesie per Moreno: “Argento respirabile del diletto passato / e quello della folgore che la quiete ha trovato” ; “Un cerchio di profilo si tramuta in segmento. / Il pensiero al suo culmine è follia o sentimento. / La quiete è l’angelo del movimento./ Io e te, doppio cristallo che racchiude ogni vento” (Nuclei); fino a quel Tutto che sigilla la sezione con una vittoria del bene:  “Cuori indivisi nei corpi disciolti, / ripetiamo a chi viene “Tra lutti e batticuore, / tra spine e cecità, qui tutto, tutto è il migliore”.

 

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Balza alla memoria l’antica zattera “che per un uomo e una bimba divenne un’arca”, e ritroviamo intrecciato all’uomo e alla poetessa quello che Cristina Campo chiamava “il filo d’oro del figlio”: la bimba nata mentre il temporale “in oscuro tripudio di profezie batteva”, la figlia che offre a padre e madre uno specchio alzato nelle mani fidenti. Ora la ritroviamo, Irene, la figlia donna e già quasi madre che ha spiccato il suo volo, nell’ostinata memoria del suo primo grido gentile che a Maura echeggia sempre nelle vene (come non si allontana la misteriosa immagine di Congedo che trascende la perdita: “Vidi l’arcobaleno / sul tuo piccolo seno / per secoli dormire / e mai da me partire – / finché fu notte in pieno mezzogiorno / e non ci fu ritorno per le nostre due vite / nei secoli murate, nei millenni smarrite. / Pure, remota quell’iride ancora / dell’attimo all’origine di te m’innamora”). Lo sbocciare di Irene in un fiore compiuto in sé oltre la pianta che lo nutrì, è visione radiosa per la madre che vi contempla lo sbocciare perennemente nuovo della vita: “Noi, d’improvviso figli di voi figli, gettiamo / tutti i nostri tesori rugginosi / per il vostro sorriso di maestà innocente” (Eros, ai giovani amanti). Ma la vita vittoriosa va oltre; nasce il piccolo Zeno: “Si riaccende col tuo germoglio oscuro / il nostro anno dell’anima, e fa tenera estate / di latte i sensi, ancora dall’etere nutriti / nel sangue di mia figlia in tropicale rigoglio.  Il linguaggio dell’Eden suonerà senza orgoglio / nel tuo vagito…”.
Il lettore fedele sapeva che Maura Del Serra aveva cantato la gioia piena, la vita trionfante, accanto allo smarrimento dell’ignoto che conduce i poeti, nati sotto Saturno, a sanguinare nella contemplazione senza veli del baratro. Ma mai così limpidamente accostati erano stati i due mondi, mai così inequivocabilmente la dolce vita normale aveva vinto, offrendo a quel lettore la certezza salvifica che il poeta paga sì la insonne lucidità dello sguardo, ma solo a volte ne è bruciato fino al fondo del cuore quaggiù. Ci sono meravigliose eccezioni: una era stata quella che mi è sempre apparsa come la sorella-madre di Maura: Margherita Guidacci, che trascende la Neurosuite nell’Inno alla gioia, ed infine nel Primo Natale di Francesca: “Nel tuo riso radioso risuona / tutta la musica degli Angeli, / tutto l’annunzio di speranza, mentre / sulla tua vita sorgiva la cometa / passa la prima volta come nel cielo di Betlemme”.
Ora non ci stupisce che ai domestici lari chiamati a vigilare su questo piccolo eden – il gatto Rumi e la gatta Lilla – siano date fattezze più che umane: “feto di terra e cielo: le tue fusa / sono il trionfale “sesamo” che scioglie le porte / umane doloranti in serafica delizia…” “Con le orecchie che vibrano al ritmo del susino / e del ciliegio in fiore accesi al vento, / […] guarda il paradiso-giardino /come l’ape la rosa: da signora, da sposa”. Tutto attorno, in questo cosmo ben ordinato, il cerchio degli amici – lo svedese con cui fissare il mare “con gli occhi non più ebbri ma persuasi / dalla luce di questo mondo, forse dell’altro”; il cavaliere che da sempre ebbe in cuore amorosa giustizia, seppe “gettarsi ridente e solitario / nella fiamma perenne di rovi sulla vetta”; L’amico battagliero: “La tua è l’allegra guerra / del fedele d’amore e cortesia / che mulina la spada nel torneo, dove il prezzo / è la rosa colore del suo sangue”. Poi le donne: Daniela, “tulipano orgoglioso e gentile / con le spine di seta, che semina a nutrire / la cerchia delle sue mura lucchesi”; la piccola ape industriosa Cristina, che “crea il fiore, fila il nettare[…] / tesse sull’alveare / guglie gotiche rare”; la perla campestre Margherita.
Quindi, i grandi amici morti: Oscar Wilde, “il [suo] proscritto amore lacerato coi veli / di Salomè sulle sbarre di Reading”, che cessa di essere personaggio solo tragico per l’evocazione finale “del goffo nom de plume della madre,” Speranza, l’estrema virtù nel fiabesco vaso / che ora ci porge, lucida e segreta, la [sua] mano”. Sereno Kavafis, “gli occhi persiani” levati al cielo, tra le scartoffie, “fissando una sua Itaca d’alabastro”; limpido lo sguardo di Kafka, nell’ “…elezione a un’ isola abissale / patria di una materna imprendibile sirena […] / (“il lampo dei tuoi occhi strugge il male, Milena”). / Per lei, con il coltello nel respiro / si aprì come conchiglia, […] lanciandole la perla.” Neppure il ricordo di Giordano Bruno è tutto tragico: a 400 anni dal rogo, trasmigrato “in altri corpi, nel soffio profondo, / innumere dell’anima del mondo”, trasformato oggi forse nel pane che si vende al forno di Campo dei Fiori. Così si chiude, in pace, questa sezione offerta ai cari affetti, con le parole dell’ortolano al monaco buddista: “tutto è il migliore qui”.
Altrettanto luminosi i Tre ricordi seguenti, che formano la brevissima IV sezione: il bellissimo In memoria di Sandro Penna, nel centenario della sua nascita: “Implume tra le rotaie roventi / saltella un passero, e subito, alato / vola nel treno assordante e affollato, / volgendo in su tutti quei visi assenti”. E La barca, in memoria di Mario Luzi, “vasello snelletto e leggiero / col [suo] angelo gotico al timone”, che trasporta nel suo seno con amore il poeta, attraverso una rotta faticata e illuminata, a ricongiungersi, “al culmine del monte, all’“umile [sua] madre cristiana. L’ultimo congedo è l’Epitaffio per Ingmar Bergman, ancora un vascello e un mare, che sono qui l’ultimo legno di Ulisse e il mare della sua Itaca “dove immobile visse / con [lui] il dio muto, il giudice di disegni sottili /come la luce dietro le [sue] palpebre chiuse”.

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Anche Grida è una breve sezione (la V), ma la calma delle sezioni III-IV, si è di nuovo mutata in pianto, anzi in Grida, più che di protesta di orrore, che si accompagnano alle “urla della guerra fratricida”: nello sfondo le uova pasquali snaturate in bombe, dell’aprile (Eliot: “aprile è il mese più crudele”) della guerra nel Kossovo (1999) . Accanto, in straziata seppur fidente invocazione: “Allacciate le braccia nell’intaglio del fiore / danzano al vento carico di miele sud-croato / sette meli nel seno del tuo prato”, mentre il poeta leva “al cielo fragile di guerra un[suo] cuore / d’amicizia tra i busti glauchi dei suoi poeti”, e una audace proclamazione di certezza: “Mio fu il seme caduto sulla roccia, / svettato in ponte di bambù oscillante / su fragorosi turbini […] / Mio sarà il seme di terra profonda / altorisorto in tiglio centenario, / candelabro al suo lago, ponte ai regali uccelli / di un’azzurra stagione” (Posterità. Laghi di Plitvice). Dietro questi nomi par di udire la voce della Margherita Guidacci del Taccuino slavo, assieme allo spessore di sanguinante “impegno” da cui erano sgorgati L’orologio di Bologna e La via Crucis dell’Umanità. Perché, ben oltre le cadenze, le assonanze, oltre l’eco delle interne lacerazioni di Neurosuite, la Guidacci è stata per Maura Del Serra maestra d’ impegno, di quella sua particolare maniera di impegno, fatto più di lacrime e sangue, appunto, più di compassione identificata senza riserva che di parole, in una maestra delle parole. Anche in Maura compassione “senza confini”, anche lei cassa di risonanza offerta a tutti i dolori, lontani e vicini. Ecco la Genova ferita del 2001, dove rimase ucciso il ragazzo Giuliani; e l’Amore e morte cui fanno da sfondo le Twin Towers di Manhattan sbriciolate nel 2001; ecco l‘Irlanda di Howth ove ritrova l’anima di Joyce, e, appunto, quella della Guidacci; e l’Apocalisse incarnata dallo Tzumani del 26 dicembre 2004, che cancellò “paradisi turistici e limbi del Terzo Mondo”; ecco Hina, – la ragazza pakistana sgozzata dai maschi della famiglia a Brescia – “ farfalla imprigionata nella gabbia ancestrale / di una fede accecata / […] principessa fatata, / contro l’aguzza cupola murata, sognando / un calice nuziale con il suo calabrone, / lo straniero-non più-straniero, re di [lei] stessa”; e Pechino, “la spietata fortezza mediatica d’Oriente” che ci si offre per le Olimpiadi come “specchio in trionfo mercantile / sul muto sangue sparso dell’utopia civile / […] più che mai ignota, mai così vicina”. Ed infine Gea la nostra patria, non più così grande, e l’altra, così piccola ormai, a cui si dedica, in chiusura, l’Epigrafe italica.
Gli Assoli (VI) hanno inizio con un altro confronto, sereno, del poeta con le stagioni della sua vita : “Fu la mia infanzia fulgida di bocci roventi, / la giovinezza un’alta grigia nube stellata. / Ora rotolo docile coi venti, / solitaria, in ignote lingue amata” . Ma l’aggettivo “solitaria” dell’ultimo verso si dipana, in Spersonalizzazione, in “grigie” immagini di confinamento – ritorna quel sommesso colore di tortora che fu della nube stellata di giovinezza, venato di malinconia sia pure nel morbido lusso del velluto, o nella protezione della cameretta petrarchesca. Venato di malinconia, perché la solitudine è separazione da un “tu” che fu prima “oceano di latte”, “pergolato di sussurri segreti”, “zirlare di uccelli nel fuoco”. E, di nuovo, il confronto delle stagioni, di Passato e presente:  prima “nell’attimo eterno / vibrare celeste “ del suo “inferno d’immaginazione”, ora il giardino “terrestre, simmetrico e muto”, ove “la spada, disciolta in fontana, / oscilla con nota sovrana / scrivendo nel cielo la sete comune.” La solitudine è il prezzo da pagare per dar voce alla sete comune, o per essere improvvisamente colmati da un “fuoco di senso”, nelle splendide geometrie della Stoccolma dei suicidi. La poetessa, dalla “luce d’acqua velina” dei lontani paesi ove è “in ignote lingue amata”, riemergerà nel seno della città che il tempo fece sua – con l’ Ospedale fregiato dalla robbiana narrazione dell’ “eterna vicenda di soccorso e malattia”, guardato da un leone camuso le cui fauci esprimono “vivo ruscellare / che colma una conchiglia materna“: quella città, quel meraviglioso ospedale, felicemente policromo, “Lete dove affondarono d’improvviso i [suoi] cari, / Eunoè da cui emerse la [sua] bimba raggiante,” e che le darà “oltre l’abbraccio nudo della [sua] scalinata / nuova veste bianco-infante / e una zattera bianca per infiniti mari.” Passato-presente, dunque, partenze e ritorni in questi dolce-tristi Assoli, come avvolti in grigio sipario di velluto. Canta una partenza o un ritorno la Canzone per le isole Cicladi? “Sul mare color vino / di Omero, qui approdata / a cercare un destino / d’arte e amicizia alata” — o Radici: “Il dolce fiore greco – oro e viola – / colto nel sole acuto della spiaggia d’Atene , / ora nel mio giardino dà il suo miele / immemorabile, radica la sua dorica gloria / tra i miei cipressi”. Partenza e ritorno coincidono nel Bacio della fata: “Nascosta dentro il bosco circolare del sole / la tua casa ci accoglie, fata Luce, / quando la mente si spoglia ed il corpo / nerospinoso di tempo si stacca /al tuo tocco che a semi roventi ci riduce”.
Come tutto il libro, ma in sommo grado, questa sezione è rutilante di sapientissime immagini, immagini eterne e ardite, classiche o surreali – “Al centro del mandala, Pazienza dell’istante, sei il sangue dell’aereo tessuto di certezza, / il mozzo della ruota cosmica turbinante”; “Non avrò peso, sarò la sostanza / che in su cadendo s’avvita al pensiero / non umano, e vi suscita in mistero / l’ombra che danza” (e l’esempio valga anche per le escursioni di sapienza metrica). Come è densa, questa poesia, di sapientissimi giochi di rime e assonanze e di arditi neologismi – spesso, ma non solo, inaspettate combinazioni di più parole in una, così lo è di “concetti”, che nei versi finali a rime baciate scoccano in sorprendenti imprevisti, come in certi sonetti petrarcheschi che anticipano il barocco: “sei […] / la piuma intima all’aria che la luce accarezza / e pulsi in vena d’oro che riempie la miniera / dove tutta mi sbriciolo per rinascere intera”; “l’omofonia di bellezza e di forza / ci possiede con la necessità / che il pozzo ha della ghiera […] / il cristallo di neve del gelo che attanaglia / boschi e città. / Indecifrabilmente / quel gemellaggio svela / la rima identica della pietà”. Sorprese anche nella sequenza delle composizioni: al centro l’oximoro di Assolo in coro, dove si condensa un motivo ricorrente in tutto il libro, anzi un doppio motivo: il poeta che si fa porta e il poeta che paga con la vita il dono della visione, quest’ultimo articolato nelle immagini molteplici di Sacrificio – immagini tutte del male di vivere, ma un male di vivere (“sacrificio”) che è redenzione, che ci salva. Ci salva anche, come è ripetuto in Teatro, dall’ossessione umana della perdita, poiché ”nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”. Nulla si perde di quel che chiamiamo passato (“Gemmati tabernacoli del tempo, / chiudono in calici aerei il vino / del quotidiano stillato in destino – I ricordi); ma anche il futuro è reale e ci appartiene, cioè ci è dato riconoscerlo come nostro, non fosse che in una scritta sul muro, cioè mascherato nei mezzi d’espressione dei giovanissimi – “Provochiamo tempeste, ma preferiamo il sole” -, scritta in cui il poeta capta, goffa e bruciante, la “nostalgia dell’apollinea ragione”. Il transfert per cui “nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”, il poeta riesce ad operarlo sempre con quel suo metodo dell’illimitata condivisione: la “mente bambina” giocando con ingenua letizia con le parole in fitte rime e assonanze anche interne, dona il suo “eden di eterna mattina / alle vite trafitte, irredente, non vissute”. Oltre l’eden della mente bambina la dimensione del poeta accoglie il calvario della ruota in cui “mille volte” il calice andò in frantumi; mille volte sfociati i fiumi hanno sete; mille volte “già fatta cosmo in cuore / la mente torna grumo uterino di dolore”. Perché l’arte della condivisione si radica nella perseveranza ostinatamente sofferta.
Eden e calvario, ché doppia è ogni cosa per lei – “doppio [le] pulsa il cuore coi due moti”. Il destino è scandito nitidamente in L’altro: “Chi sanguina parole, chi non vede / senza lacrime, chi solo cammina / su lame di cristallo, chi non crede ma sa / nelle scolpite viscere ciò che non muta, fa / delle pietre d’inciampo pietre di fondamento…” . Ma il due – che fu passato-presente, ombra-luce, noto-ignoto, estasi e sanguinante dolore – si riassorbe nell’uno: “L’allodola con un’ala sola / che da ferma trasvola / dove l’ordine sposa l’avventura, / dove l’estasi bacia la paura – un’ape vorticosa / fissa a un’unica rosa – /…/ questo vissi nascendo / e ora, alta sullo scoglio della sera, comprendo: / si sprigiona dal piombo di catene / il tuffo nell’oceano empireo del bene”. Tutto è limpido, specchiato come il mare nel bicchiere dell’ “età certa”, dell’età che non dà ombra, come Maura aveva capito già da dieci primavere. Il guru Dolore ridusse la poetessa a “tronco che vive e sente”, per trasportarla “fra i tuoni / verso l’ignota cima benedetta / dove, vivendo, a se stessi si muore: / e apers[e] – [ancora una ‘petrarchesca’ sorpresa finale] – a un jet policromo la traccia”. Gli Assoli – certo “un”, se non addirittura “il”, cuore del libro – si compendiano una volta ancora nel ciclo: “Adesso mi risvegliai, / poi mi risveglio, molto tempo orsono / mi sveglierò dove la terra versa / una tenera pioggia dal profondo, / e l’Anima del Mondo alza ridendo / il mio feto rugoso tra le braccia”. Perché ancora una volta tutto si sciolga (si cancelli), “cesella il mondo l’arte del pensiero, / ma lo salvano i Pescatori d’acqua, / gli umili e lievi guerrieri del vero / vestiti di pietà, materni come mammella, / cuori di cuori: in loro / la fredda storia è nido, e la sete del pianeta / immemorabilmente sanguina e si cancella”.

 

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La VII parte – Senso unico – è l’ultima nuova. Poiché Brevi, l’VIII, è composta di Scintille, uscita nel 2008 in una splendida edizione numerata, e Specchi (microcellula drammatica) aveva anch’essa già visto la luce nella stessa edizione. A differenza di quanto accadeva per Forza maggiore, dove la poesia che spiega il titolo si incontra a metà della sezione, qui la nostra perplessità su come il titolo sia da interpretare, e in specie se abbia significato positivo o negativo, è subito sciolta dalla prima composizione, eponima: “Il senso unico, indescrivibile / in nomi ed esseri, indecifrabile / a riti e formule, splende istantaneo / nella radice dell’invisibile / […] ed è giorno chiaro”. Dunque il segno è inequivocabilmente positivo. E se il nome non può descrivere l’essere (cioè la realtà che è custodita nella cosa – come per Proust, ma anche per Gertrud Stein), ne è pur sempre la bandiera. Colpisce come il potere rivelatore del nome sia legato alla luce (sulle orme di Goethe citato, ma, ancora, come nel Proust di Jean Santeuil). Ma il mondo nuovo (il moderno opposto dell’antico, capace di guardare in faccia gli dei affacciati a fonti o cespugli) ha bisogno di schermi per sopportare il sole, e il primo, pur candido, schermo è lo humour, “sorriso della saggezza umana / prossimo a liquefarsi in buddhità / e a scolpirsi in un verso d’animale / che rende semplice l’eternità”. Le due quartine che chiedono Risposta ripropongono gli opposti “dogli” da cui cola bene e male, ma l’accento in qualche modo sembra cadere sul bene (che vien dopo, quasi avviato a concludere, pur restando domanda): “Da quale cupo canto degli dei nasce il mondo / alle stragi. […] / Da quale chiaro canto degli dei sgorga il cielo, / patria di forme erranti più vera d’ogni vero, / arca di supplici e casa d’amanti, / sempre violato e sempre verginale sentiero?” La risposta è serena: “Non lo sapremo. Ma, tessuti nel loro manto, / diverremo il silenzio che feconda quel canto.” Se non maschera la presenza del male, Senso unico guarda al bene. Un bene tanto più consolante quando è frutto di un male superato, come la Libertà che decanta in “luce del poeta [adulto], / [in] chicco di coscienza agli ultimi del pianeta” la “torbida” lettura adolescenziale del motto di Agostino “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Così si decanta la morte, negli sdruccioli di India da polso, bracciale di metallo povero con incise barche e luna, che convoglia il pensiero del poeta a scivolare verso “il Gange immenso, dove le ceneri / delle tue [= dell’India remota sognata] pire in corpi risorgono / tuoi, nostri, dove la Storia brulica / maternamente in cicli spiralici, / dove la perla nel loto sfolgora”. Così si alza in canto la voce dei pacifici “lieti del sole quieto / che [li] scolpisce e in grembo a [loro] riposa”, dopo che hanno sofferto “la [loro] pace inerme, / operosa e sprezzata “ “qui nel mondo creato, dove il dio non fiorisce / se non s’apre la rosa”. Così canta Penelope che per Ulisse fu “la lingua d’acqua dolce della ragione, dopo / la sua fiammea lingua d’avventura e di guerra / […], l’isola, il senso / lucido dello scoglio al di là della marea.” Così, infine, canta Shakti, la sposa di Shiva, “madre Eterna, alta profusa sostanza”, che ovunque nasce e forma il suo dono – “dove il capo di Orfeo reciso canta sull’acqua / […], dove il grano germoglia dai cadaveri azzurri”, trasmutando morte e vita nella perenne danza che agita noi, suoi veli. Stupende immagini carezzano la Musa pensosa della memoria – ai cui piedi sciabordano il mare greco salato e il fiume cristiano d’acqua dolce – , la musa che “protegg[e] nel fiore unico della mano” “ciò che sfida ogni lingua”, “chiud[e] l’umano nel bozzolo fatato e lo genera alla storia”. Memoria viva, seme di storia, è la Coppia neolitica “forma scolpita del [suo] nodo muto / […], gemma fossile emersa dalla deriva / d’ere e di continenti […], memoria viva / della brama che lieta / fa divino il pianeta.” Se è l’amore a far divino il pianeta, già divina è la perenne ruota delle metamorfosi, l’onda sempre uguale, mai uguale, del destino che “ci fa ignudi bruciare / di sostanza stellare” (Nudità); nell’armonia del Tutto si conciliano le nostre lacerazioni (Politeismo): “Cento milioni di galassie fanno / felice il cosmo”. Alle mille trasformazioni cui ci assoggetta il Tempo nostro distruggendo e ricostruendo – “apprendistato e rito [per noi] / di vita-morte, mandala scolpito / in legge di natura”- , si contrappone la chiara vita e visione di “chi abita a braccia aperte il diamante / invisibile dell’eternità” (Chi vivrà vedrà), Eternità che il poeta “guard[a] versare l’universo stellato / nella coppa del tempo di cui [è] la sovrana”. Eternità e amore svariano coi loro miracoli l’una  nell’altro: “Soltanto nell’amore uno più uno fa mille / […] ombra e luce scolpiscono la conchiglia segreta / del tempo innumerabile” (Far di conto). “Il pianto delle cose e il riso dell’universo (Weltscmerz, weltfreude) […] il fulmine più fragile ci inghiotte, / ma la luce separa la notte dalla notte”. Così tutto si unifica nell’uno, in un’armonia dei contrari di cui già ci assicura l’armonia geometrica di macro e microcosmo “in ragnatele e rosoni / di cattedrali, in gotici e orientali / fiocchi di neve, / nella conchiglia e nel versetto breve, / […] geometrica la musica del coro / […] geometrica la culla della morte / che genera la vita, e la fa forte”. Tutto si unifica attraversando il poeta – l’ardente coraggioso “piccolo” io del poeta che è insieme l’Uomo compiuto e l’anima del mondo, e che diventa un “noi” senza confini “atomo nel cosmo, – atomo di rugiada che nutre il prato, / […] atomo d’armonia che tutti i cosmi ha formato: / l’indivisibile infinitamente / divisibile”, che ha sorelle le parole “che dividono il fuoco con la spada” (Le affinità creative): “Per morire di gioia come gli illuminati, (Yoga) /come il cane di Ulisse, in letame d’abbandono /[…] per morire nel dono estremo repentino / dell’amata presenza […] / noi combattiamo in tenebre polari od africane, / liberi, per servire la luce del destino”. “Non sta in cielo né in terra / l’anima nostra, ma oscilla in un nido / che arde e geme […]. Ma se, crollata agli inferi, stracciata ogni speranza / si perde, cieli e terra la raccolgono”. L’ “anima nostra” non può significare solo l’anima umana, perché “la catena dell’essere si salda in somiglianza”: “L’arcangelo caduto imita l’uomo / e l’uomo in caccia imita l’animale /…” e “tutto è albero in noi: le dita foglie / che raggrinza di macule la stagione finale, / la chioma eretta o fluente o ricciuta / come in cipresso o in salice o in vitigno” (Arboreità). Intanto il mondo cambia: spariranno i libri, “ambra deliziosa/ di parole su carta” : “presto rari, / [li] porterà la Storia come gioielli o fari”. Ma la perdita non è mai assoluta – come la distanza degli amanti “divisi dalle fiamme dei deserti assordanti” è trasfigurata negli “anelli d’oro su piatti d’oro” rubati dalla gazza, così è trasfigurata la città irretita nelle regole dall’ occhio dei falchi fuori-legge che si son fatti il nido sulla cupola del Brunelleschi. Più radicale Trasfigurazione quella dell’ “agnello macellato, guardato dal bambino” nell’ “oro denso di nube nel tramonto disciolto. / Un perché senza dove / è ogni scomparso prediletto volto, / un ippogrifo carico di luna.” Pochi – gli happy few, i Giusti, i poeti: i “pochi’ che bastano per salvare il mondo-”   guardano la luna farsi / piena ed innamorare cieli ignoti: / nel suo viso di perla si bruciano la faccia / e sprofondano per incoronarsi”. Si incoronano di un inno alla parola, le cui magiche associazioni ci si rivelano in una lingua insieme vicina e straniera (Palabras), come il sangue incorrotto, gettato “nei vicoli, sulla grandine repentina d’aprile,” si spande “nei mandorli rosati / delle calles majores, / [sgorga] nel barocco eterno delle fontane / di Madrid, nostra nuova madre di nuovi fari / gentili di ragione”. Solo il poeta vede, non con gli occhi di carne, “i fantasmi di Goya nel livido dolore / della storia a quel sangue abbeverarsi, rinati”.
Cosa vuole ancora dirci, dopo questi canti a senso unico del dolore redento, la Maura delle Brevi (VIII)? In ogni “sentenza” conferma, col pensiero e l’immagine, l’esistenza del dolore e la sua redenzione. (Redenzione diciamo, con parola cristiana, ma il mondo di Maura non è meno greco e orientale che cristiano). Come già i suoi Aforismi (1995), le 47 Scintille contengono densissimi lampi di saggezza nel guscio di noce dei 2-4 versi (cinque sole ne hanno più di quattro). Qui non è possibile compendiare. Ci si limita a cogliere qualche fiore dove ai nostri occhi riluce più vivido un pensiero, o più splende in immagine. Giacché Scintille distilla le immagini /chiave, le immagini/simbolo:
Domina l’immagine del fuoco che affina: 8. “Il Maestro è nell’anima” – […] / Lava la gola col fuoco, incorona / di spine la ridente perfezione”. 33. “Nel mondo di catene e crudeltà / ha corona segreta la Pietà: / spontanea balza nel cerchio di fuoco, / vi si strugge, è sorgente quando giunge al di là”. 41. “Come il cieco il cui vero / bastone è il canto, / noi nutriamo la fiamma che ci affina / con lievi ali di pianto.” 45. “Gioca con noi bendato a mosca cieca / liberamente il Fato: / se l’afferriamo è un fulmine che fonde / il futuro al passato – / salva i sommersi, sommerge i salvati, / ci strappa bende e fiato.”
Il vento, l’ala: 17. “In vetta al pioppo trema / l’ultima foglia, come banderuola: / il vento la trafigge,  / la luce la consola”. 43. “Nell’amore riposo come il vento / nell’ala chiusa, / in ogni forma che scioglie il tormento / vivo diffusa.”
Il ponte (a cui si assimilano sia l’arcobaleno che la scala): 3. “Se abiti sul ponte, non puoi scendere a bere: / paziente attendi che / l’acqua ti veda e salga fino a te”. 16. “Fulmineo ci traghetta all’infinito / l’amore, arcobaleno di granito”. 25. “Ponte di perle acuminate, becco / d’oro, il dolore mi prese per figlia, mi rese madre di parole alate”. 47. “In cielo non si sale / – dicono – senza scale. / Ma chi vi è prigioniero / – i semplici, i trafitti – vi chiude il volo intero”.
Come si vede, le immagini trapassano l’una nell’altra. Scegliamo i principali temi che quelle immagini esprimono, o a cui conducono:
L’unità-armonia del cosmo 14. “Non è un concetto l’anima, e tutti gli animali / lo sanno, e ne risplendono, semplici e universali”. 18. “Come fumo che sale / verso il cielo immortale / le nostre varie vite / effimere e infinite, / in ogni forma avvolte, / nel senza-forma accolte”. 23. “Costruttori di buio e costruttori di stelle / in estasi e paura / colluttanti s’annidano in ogni creatura / forgiando lingue a vette e a voragini sorelle”. 31. “Alfabeti stellati, fluviali continenti – / creature abbracciate ad elementi – peccati in razze angeliche rifatti trasparenti 39.”
L’infanzia innocente tutto sa, come le creature della natura: 11. “‘Mamma è guarito un morto!’ esultò nel cimitero / davanti ad una fossa sventrata la vocetta. / E la resurrezione fu presente, perfetta”. Ma gli uomini devono riconquistare la certezza attraverso il crogiolo del dolore:
Il dolore, che affina come il fuoco: 32. “Con lo Zodiaco avvolto alla cintura / mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 30. “Giace nudaridente, sul più sordido prato / la Verità dal seno delicato / e allatta il dio rifiutato, innocente”.
Il silenzio e l’attesa: 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce – / tacqui finché il silenzio mi dipinse la voce.” 38. “Nella mia danza mutila io vivo, e non so come: / attendo quel silenzio che mi chiami per nome.”
La memoria, cioè la redenzione del tempo, ponte tra futuro e passato: 28. “Leggiadro come scheletro di foglia / l’amore lascia il corpo al tempo ladro.” 39. “Nostalgia del futuro, nostalgia del passato – / tra le due palme giunte, tutta la vita umana; / intorno – pietre e simboli – la verde cattedrale; / sopra, a trafiggerci, la stella arcana.” 42. “fra i ricurvi cancelli / della Memoria / abitando mi faccio trasparente / come tra mani in preghiera la mente.”
La poesia in cui sfocia la memoria, madre delle muse – bellezza ignota quanto certa – il poeta la raggiunge attraverso l’Illuminazione, e questa a sua volta giunge per la trasformazione, di cui lo strumento è il dolore: 32. “mi inginocchiai nel sangue, piansi fango, / gelo, tortura. Ora le sfere ascolto / molare il fondo della mia natura.” 34. “Fissai il buio finché venne a fissarmi la luce.” 35. “La poesia sfocia nella sorgente / dove si forma al canto la bocca della mente.” 44. “Per otto mesi larva, per tre giorni farfalla; / la formula dell’Illuminazione, / della bellezza ignota quanto certa.”
Immagini, temi, tutto converge nel poeta – nell’artista -, che in sè brucia morte e vita, agonia ed estasi, buio non sapere e illuminazione, in un movimento a senso unico che offre molto più del tentativo di certezza che prometteva il titolo.
La vera chiusa è la “microcellula drammatica” Specchi – e non sorprende, in un poeta che annovera tra le sue opere più belle testi drammatici quali La Fenice  La fonte ardente e Andrej Rubljov. In queste due ultime pagine si distilla ogni motivo del canto dell’artista, sigillato nella solitudine e tuttavia all’infinito moltiplicato lungo l’orizzontale degli specchi-ritratto e la verticale delle involontarie filiazioni: artista-“opera d’arte totale che brucia e rinasce nel grembo di fuoco.”

Margherita Pieracci Harwell

Questo articolo è già stato pubblicatoil 30-09-2017 in Saggi da Corso Italia 7

Corso Italia 7

Rivista Internazionale di Letteratura – International Journal of Literature


Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.

Margherita Pieracci Harwell – In lode della lettura: si legge per veder meglio in sé, riflessi in un altro.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Pieracci Harwell – Si apriva il balcone sull’amata Parigi. Lettere e memoria dalla madre di Simone Weil.

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Henry Giroux – La gioventù nell’epoca dell’autoritarismo: per un’opposizione alle politiche neoliberali della dispensabilità

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Henry Giroux

La gioventù nell’epoca dell’autoritarismo:
per un’opposizione alle politiche neoliberali
della dispensabilità

Traduzione a cura di Steven Cenci

«Dobbiamo fare e pensare l’impossibile. Se è solo il possibile a dover accadere, non accadrebbe più niente. Se mi limito a fare solo ciò che so già fare, non farei più niente». Jacques Derrida

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«La speranza è la volontà di mantenere, anche nel tempo del pessimismo, la possibilità della sorpresa». Howard Zinn


Indice

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L’assenza di riflessione occupa il posto privilegiato
delle strutture culturali dominanti

Il cittadino è spinto a divenire un consumatore
I politici sono i portavoce del denaro e del potere
Gli intellettuali del dominio mediatico, sono i nemici intransigenti
della compassione, del bene comune e della democrazia stessa

Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro

”Individui problematici“

La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente

La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti

La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva

La ”guerra morbida“ alla gioventù

La “guerra forte“ alla gioventù

Infanzie rubate

La via d’uscita


L’assenza di riflessione occupa il posto privilegiato delle strutture culturali dominanti

Seguendo il discorso di Hannah Arendt, una grande pensatrice politica del totalitarismo del ventesimo secolo, la nuvola oscura dell’ignoranza politica ed etica si è abbattuta sugli Stati Uniti. L’assenza di riflessione, una delle condizioni necessarie per le politiche autoritarie, occupa in questo momento un posto privilegiato, se non celebrato, nell’orizzonte politico e all’interno delle strutture culturali dominanti. Un nuovo tipo di infantilismo regola la vita odierna, con gli adulti che si comportano sempre più da bambini sconsiderati, e i bambini che sono spinti a comportarsi da adulti, derubati della loro innocenza e sottoposti ad un insieme di pressioni disciplinari che li sommerge nei debiti e riduce la loro capacità immaginaria. In queste condizioni, l’agire si riduce ad un anti-intellettualismo acefalo, evidenziato dalle banalità prodotte nell’info-spettacolo di Fox News, dalla cultura delle celebrità, e dalla furia cieca emanata da politici populisti che sostengono il creazionismo, si battono contro il cambiamento climatico e inveiscono contro l’immigrazione, i diritti delle donne, i lavoratori dei settori pubblici, gli omosessuali e molti altri. Qui si va ben oltre la forma letale di un infantilismo intellettuale, politico ed emotivo. Si scorge innanzitutto una catastrofica indifferenza e noncuranza che generano pericolosi rapporti con l’irrazionale, alimentano lo spettacolo della violenza, creano un’incapacità incarnata nella gente e promuovono la disintegrazione della vita pubblica.

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Il cittadino è spinto a divenire un consumatore
I politici sono i portavoce del denaro e del potere
Gli intellettuali del dominio mediatico, sono i nemici intransigenti della compassione, del bene comune e della democrazia stessa

Il cittadino è spinto a divenire un consumatore, i politici sono i portavoce del denaro e del potere e il crescente esercito di intellettuali del dominio mediatico, contrari alla sfera pubblica, si presentano come i nemici intransigenti della compassione, del bene comune e della democrazia stessa. Il sistema educativo non è più concepito come un bene comune ma come un diritto privato, e il pensiero critico non è più considerato come una necessità fondamentale per la creazione di cittadini partecipi e socialmente responsabili. Il disprezzo che il neoliberalismo prova nei confronti della sfera sociale si rispecchia nell’odio totale per il bene comune. Le istituzioni pubbliche che un tempo ispiravano lo sviluppo di idee progressive, politiche sociali aperte, valori democratici, un dialogo e un confronto critico, sono state sostituite da entità aziendali la quale fedeltà finale risiede nell’aumentare i profitti e nel promuovere un’ampia cultura commerciale, che tende a cancellare tutto quello che è essenziale. Uno dei risultati di questi intrecci di forze è che abitiamo in un’epoca dove le istituzioni che si promettevano di limitare la sofferenza umana in difesa della sua dignità e di proteggere la sfera pubblica dai cicli di espansioni e frenate tipiche dei mercati capitalisti, sono andati indebolendosi o sono stati aboliti. Le politiche, i valori e le pratiche del mercato libero, con la loro incessante predica sull’importanza della privatizzazione della ricchezza pubblica, tramite la minimizzazione della protezione sociale e la deregolamentazione dell’attività economica, influenzano a livello pratico ogni istituzione di controllo politico ed economico dell’America del Nord. Il capitalismo finanziario manovra la politica e la governance come mai prima d’ora ed è prontamente disposto a sacrificare il futuro dei giovani in cambio di guadagni politici ed economici di breve durata.

Questa condizione ha permesso l’affiorare di un fecondo elenco di prove dimostrando che gli Stati-Nazione organizzati da programmi neoliberali hanno implicitamente dichiarato guerra ai propri giovani, offrendo il quadro preoccupante di società che si trovano nel pieno di una profonda catastrofe morale e politica. Troppi giovani oggigiorno vivono in un’epoca di speranze precarizzate, dove è difficile immaginarsi una vita al di là delle regole imposte dal mercato, o superare il terrore che provandoci si possa finire in una situazione ancora peggiore. Come disse Jennifer Silva, questa generazione, soprattutto di «giovani uomini e donne di classe lavoratrice … tentano di capire cosa voglia dire essere adulti in un mondo dove il lavoro sta sparendo, i costi dell’istruzione salgono e i gruppi sociali di sostegno stanno diminuendo… Vivono con i propri genitori più a lungo, si prendono più tempo per laurearsi, cambiano lavoro più spesso e aspettano prima di crearsi una famiglia».

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Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro

I giovani oggi non sono solo tormentati dalla fragilità e incertezza del presente, ma sono anche la «prima generazione del dopo-guerra a confrontarsi con una mobilità sociale in discesa, dove la disperazione dell’emarginato arriva ad abbracciare una generazione intera». Non è coincidenza che «a questi giovani venga assegnato il nome di Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro», e zero aspettative. Oppure, usando la formula di Guy Standing, «il precariato», che definisce come «la parte crescente della nostra società nel suo insieme» costretta ad «accettare il lavoro instabile e una vita instabile». Troppi giovani e altri gruppi sociali vulnerabili abitano quella che potremmo definire come una geografia dell’esclusione definitiva, uno spazio di dispensabilità che si estende per comprendere un maggior numero di individui e gruppi sociali.

Il volto umano degli abitanti di questa geografia dell’esclusione viene immortalato in una storia raccontata da Chip Ward, ex-bibliotecario di Salt Lake City, che descrive in modo commovente la storia di una donna senza-tetto da lui chiamata con il nome di Ophelia che, come molti altri senza-tetto, si rifugia in biblioteca perché non sa dove andare se deve usare la toilette, per ripararsi dal maltempo, o semplicemente per riposarsi. Esclusa dal sogno americano e trattata sia come sacrificabile che come una minaccia, Ophelia, a scapito della sua evidente infermità mentale, definisce la propria esistenza con un linguaggio che offre una metafora agghiacciante riguardo alla sua sofferenza e a quella di molti altri:

«Ophelia sta seduta vicino al camino e borbotta con voce sommessa, sorridendo e gesticolando a nessuno di specifico. Fissa fuori dalla grande finestra da dietro due paia di occhiali che porta, un paio dalle dimensioni di un parabrezza, posti sopra un paio più piccolo che tiene appoggiato in modo instabile sul suo piccolo naso. Forse le quattro lenti le sono d’aiuto per vedere meglio la persona invisibile con la quale sta parlando. Quando la sua conversazione ‘al nessuno che ha di fronte’ infastidisce la lettrice che le siede a fianco, Ophelia si gira, sogghigna dell’imbarazzo della donna, e le spiega, ‘Non faccia caso a me, io sono morta. Non si preoccupi. Sono morta da un pezzo.’ Fa una pausa, poi aggiunge in modo rassicurante, ‘Non è poi così male. Ci si abitua.’ Per niente rassicurata, la donna raccoglie le sue cose e si defila velocemente. Ophelia alza le spalle. La comunicazione a voce alta è impegnativa. Preferisce far ricorso alla telepatia, ma questo è difficile, visto che noi tutti, si appresta a informarmi, ‘non conosciamo le regole».

Ophelia rappresenta solo una delle 3.5 milioni di persone che si ritroveranno senza tetto negli Stati Uniti nel corso dell’anno, molte delle quali faranno uso di biblioteche pubbliche e di qualsiasi altro spazio pubblico accessibile da utilizzare come rifugio. Molti di questi sono donne e bambini; sono spesso malati, disorientati e soffrono di dipendenza da sostanze stupefacenti o di malattie mentali, e molti non sanno affrontare lo stress, l’insicurezza e i pericoli di tutti i giorni. E mentre le parole di Ophelia potrebbero passare come il discorso farneticante di una donna malata di mente, risaltano qualcosa di più profondo che riguarda la situazione presente della società statunitense, e del suo abbandono di interi gruppi sociali che vengono considerati come i rifiuti umani di un sistema economico neoliberale.

Gli individui che un tempo venivano considerati vulnerabili e in bisogno di protezione sociale, oggi sono trattati come un problema che minaccia la società. Questo appare evidente quando la battaglia a favore dei poveri si trasforma in una battaglia contro i poveri, quando la disperazione dei senza-tetto viene definita non come un problema politico ed economico richiedente una riforma di tipo sociale, ma come un problema di criminalità e di ordine pubblico; oppure quando i fondi per l’edificazione di nuove prigioni superano di gran lunga quelli per l’istruzione.

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”Individui problematici“

La trasformazione dello stato sociale in uno stato d’impresa punitivo si percepisce chiaramente da come i giovani, citando W.E.B. Du Bois, vengono trattati come individui problematici invece che come individui che risentono di problemi. I giovani, e in particolare quelli delle fasce più basse e i poveri di colore, vengono trattati come se fossero il problema piuttosto che come persone che risentono di problemi. Di conseguenza, questi si ritrovano ad essere maggiormente sottoposti alle leggi del sistema penale invece di ricevere un’assistenza da parte dei programmi sociali che potrebbero soddisfare i loro bisogni più basilari.

Oltre che a dimostrare la corruzione morale di una società che ha fallito nel tentativo di sostenere la propria gioventù, la violenza simbolica e reale praticata contro molti giovani rappresenta niente di meno che un desiderio di morte collettivo – che si vede benissimo quando i giovani protestano per le condizioni in cui si trovano. Come dice Alain Badiou, viviamo in un’epoca nella quale non vi è quasi più tolleranza per la resistenza democratica, mentre vi è una «tolleranza infinita per i crimini commessi dai banchieri e dai politici corrotti che rovinano la vita di milioni di persone». Come si spiegherebbe altrimenti la scelta dell’FBI di definire come «minaccia terroristica» i giovani attivisti che si oppongono alle malefatte delle grandi imprese e dei governi, mentre allo stesso tempo si rifiuta di perseguire il gigante bancario HSBC per il riciclaggio di miliardi di dollari provenienti dai cartelli di droga messicani e da gruppi terroristici affiliati ad al-Qaeda? Altrettanto preoccupante è la constatazione che il Dipartimento della Sicurezza Interna, che fu «creata principalmente per combattere il terrorismo», ha posto sotto sorveglianza i membri del movimento Black Lives Matter [Le Vite dei Neri Contano; ndt] che hanno manifestato contro il razzismo promotore della violenza esercitata dalla polizia sui neri negli Stati Uniti.

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La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente

Se la gioventù una volta rappresentava l’incarnazione dei sogni della società, ora non è più così. I giovani sono maggiormente visti come la causa di disordine pubblico, come sogno divenuto incubo. Parecchi giovani sono costretti ad accettare un’ordinanza sociale tipica delle tattiche post-11/settembre e che li identifica come i bersagli principali del modello ”governing through crime“ (“governare nella criminalità”, ndt). Si pensi alle politiche a tolleranza zero che riducono i giovani a dei criminali, mentre allo stesso tempo vengono privati di un servizio sanitario adeguato, di un’istruzione e di servizi sociali. La punizione e il terrore hanno sostituito la compassione e la responsibilità sociale come mediatori dei rapporti tra i giovani e il resto della società, come ben evidenziato dall’aumento di leggi a tolleranza zero praticate nelle scuole e dall’ampliamento del sistema punitivo negli Stati Uniti.

Quando la criminalizzazione dei problemi sociali si trasforma in un metodo di amministrazione, e la guerra diviene la sua strategia principale, i giovani vengono ridotti a dei soldati o utilizzati come bersagli – non come una risorsa sociale. Come suggerisce l’antropologo Alain Bertho, «La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente».

Oggi l’unico discorso politico accessibile ai giovani proviene dai regimi privatizzati dell’autodisciplina e dall’autogestione emotiva. La gioventù è stata rimossa da ogni registro di rilevanza democratica. La loro assenza è sintomo di una società che si è rivolta contro se stessa, che punisce i suoi figli al costo di far crollare l’intero apparato politico. Ció che definisco come la guerra ai giovani emerse nella sua forma contemporanea quando il contratto sociale, per quanto esso fosse compromesso e fragile, si frantumó proprio mentre Margaret Thatcher ”sposó“ Ronald Reagan. Entrambi erano accaniti sostenitori di un fondamentalismo di mercato, annunciando rispettivamente, che la vera società non esiste e che il governo non è la soluzione alle crisi ma è il problema. Nel giro di un decennio, la democrazia e il processo politico sono stati presi d’assalto dalle grandi imprese e la richiesta di effettuare manovre di austerità divenne una scusa per indebolire lo stato sociale, i valori e il commercio pubblico. Gli effetti del nascente regime neoliberale furono la crescita della divisione fra i ricchi e poveri, la promozione di una cultura della crudeltà, e lo smantellamento delle strutture sociali. Uno dei risultati fu che la promessa di un futuro di giovani fu sostituito da un’epoca di angosce indotte dal mercato, da una concezione della gioventù come fascia sprecata su cui è rischioso investire e che costituisce una minaccia all’interesse personale e al profitto illimitato.

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La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti

La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti. Come si spiegherebbe altrimenti la trasformazione delle scuole statunitensi in istituti di formazione, modellati sui centri per ex-detenuti, oppure il promuovere di pedagogie di repressione che utilizzano metodi d’insegnamento standardizzati e test a forte impatto (high-stake), tutto nel nome di una riforma della scuola? Che parte puó svolgerel’istruzione all’interno di una democrazia, quando la società fa gravare il peso di tasse e prestiti di studio sempre più elevati sulle spalle di un’intera generazione? Penso che David Graeber abbia ragione quando dice «I prestiti di studio stanno distruggendo l’immaginazione della gioventù. Se esistesse il modo per una società di suicidarsi in massa, cosa ci sarebbe di meglio che prendere i membri più giovani della società, quelli con più energie, i più creativi e felici, e affibbiarli con un debito di circa $50.000 rendendoli schiavi? La musica è finita. La cultura è finita… Facciamo parte di una società divenuta incapace di includere i soggetti interessanti, creativi ed eccentrici». Ciò che non dice è che, inoltre, gran parte dei giovani sono depoliticizzati perché la loro sopravvivenza è in crisi, non solo materialmente, ma anche a livello esistenziale. In queste circostanze, ci si potrebbe rassegnare riguardo al futuro della democrazia. Ciò che viene tralasciato dalla presente congettura storica è l’idea di responsabilità intersoggettiva, l’impegno verso il bene comune, la concezione democratica di popolo, l’idea di collegare l’istruzione allo sviluppo sociale, e la promessa di una salda democrazia che possa dedicarsi al perseguimento di diritti civili, politici ed economici. In questa condizione di spietato darwinismo economico, stiamo assistendo allo sgretolarsi dei rapporti sociali e al trionfo dei desideri individuali sui diritti sociali, come ben evidenziato dalla crescita dell’analfabetismo civico, dalle menti ingabbiate in comunità ingabbiate, dall’intolleranza semplicistica, dalle capacità relazionali atrofizzate, da culture della crudeltà e da una spirale verso i meandri oscuri di un ordine sociale oligarchico. In tutto questo i bambini pagano il prezzo più alto. Si pensi che gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo ad essersi rifiutato di ratificare la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, la quale «si esprime per promuovere e rispettare i diritti umani dei bambini, compreso il diritto alla vita, alla salute, all’istruzione e al gioco, e inoltre il diritto alla vita familiare, di essere protetti dalla violenza e da ogni forma di discriminazione».

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La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva

La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva altamente diffusa che reca il messaggio secondo il quale se si vuole sopravvivere nella società è necessario ridurre i rapporti sociali a forme di guerriglia sociale. Sono troppi i giovani oggi che imparano troppo presto che il loro destino dipende da una responsabilità individuale, indipendentemente da relazioni strutturali più ampie. In questo senso la politica è divenuta un’estensione della guerra, proprio quando «l’insicurezza economica e l’ansia sistemica» e la violenza promossa dallo Stato trovano maggiore legittimità nei discorsi dell’austerità, delle privatizzazioni e demonizzazioni, che a loro volta provocano ansia, panico e paura, minimizzando qualsiasi senso di responsibilità comune per il benessere altrui. La maledizione della privatizzazione nella società guidata dal consumismo viene peggiorata dal presupposto, ispirato dal mercato, che annuncia che l’unico obbligo di cittadinanza da parte dei giovani è quello di consumare. Qui peró, oltre ai meccanismi di depoliticizzazione, vi è qualcos’altro; c’è anche una fuga dalla responsabilità sociale, se non dalla politica stessa. Ciò che è andata persa è anche l’importanza di quei rapporti sociali, dei metodi di ragione collettiva, delle sfere pubbliche e apparati culturali essenziali per la creazione di una società democratica sostenibile.

Come sostiene un importante sociologo [Zygmunt Bauman], «oggi le aspettative sono scese in basso e ci sentiamo compiaciuti di ciò che dovrebbe imbarazzarci». I politici, come ad esempio l’ex vicepresidente Dick Cheney, non solo si rifiutano di scusarsi per l’immensa miseria, lo spostamento e la sofferenza arrecati al popolo iracheno – principalmente ai bambini iracheni – ma addirittura si auto compiacciono nel difendere queste misure. La Doppialingua prende nuove forme con il presidente Obama che annuncia il discorso sulla sicurezza nazionale per giustificare lo stato di sorveglianza, una lista di assassinii mirati e il continuo massacro di bambini e famiglie da parte dei droni. Questo dilagante orizzonte di menzogne ha prodotto non solo una guerra al terrorismo illegale e globale, e torture approvate dal governo anche a danno di bambini; ma ha anche fornito la giustificazione per la discesa degli Stati Uniti ad una condizione di barbarismo a fronte degli eventi tragici del 11 Settembre. Eppure, questi atti di violenza da parte dello Stato sembrano non far provare nessun tipo di vergogna agli apostoli di questa guerra eterna.

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La ”guerra morbida“ alla gioventù

Ora vorrei affrontare il tema dell’intensificante presa d’assalto ai giovani che avviene tramite la ”guerra morbida“ e la “guerra forte“, due concetti che sono connessi tra di loro. L’idea di guerra morbida comprende le condizioni mutevoli della gioventù all’interno della sfrenata espansione di una società di mercato globale. Affiancata da una potente macchina pubblicitaria, la guerra morbida prende di mira tutti i bambini e i giovani, li svaluta trattandoli come un altro ”mercato“ da mercificare e sfruttare, sottoscrivendoli al sistema tramite l’inarrestabile volontà di creare una nuova generazione di superconsumatori.

Questa guerra a bassa-intensità viene condotta da varie istituzioni collegate alle grandi imprese, utilizzando la spinta educativa di una cultura che commercializza ogni aspetto della vita dei bambini, e che oggi sfrutta la rete ed altre tecnologie mediatiche, quali gli smartphone, per far sì che i giovani si immergano in un mondo di consumo di massa, utilizzando metodi molto più diretti e costosi di quanto lo fossero prima d’ora. Bombardato commercialmente da un’industria pubblicitaria che negli Stati Uniti nel 2012 ha investito 189 miliardi di dollari, il bambino viene esposto in media a circa 40.000 spot pubblicitari all’anno, e già all’età di 10 anni i bambini avranno memorizzato il nome di 300 o 400 marche di prodotti.

Un’intera generazione viene attirata in un mondo consumistico nel quale le merci e la devozione alle marche diventano i segni più importanti di identificazione personale e le strutture principali per regolare il rapporto dell’individuo con il mondo. In modo sempre più crescente, molti giovani, ripensati come merce, possono solo riconoscersi nei termini stabiliti dal mercato. Come fa notare il sociologo Zygmunt Bauman, i giovani sono allo stesso tempo “i promotori delle merci e le merci stesse che promuovono“ – cioè definiti contemporaneamente sia come merci che come agenti di mercato.

Quali sono gli effetti della guerra morbida? Gli spazi pubblici sono divenuti aree di disimmaginazione neoliberale che rendeno sempre più difficoltoso per i giovani trovare sfere pubbliche nelle quali possono identificarsi per poter tradurre le metafore della speranza in azioni sensate. I paesaggi immaginari edificati sulla promessa del consumo di massa vengono abilmente riprodotti come spot pubblicitari, promuovendo incessantemente e naturalizzando un ordine neoliberale nel quale i rapporti economici oggi rappresentano il copione sul quale i giovani, le loro relazioni con gli altri e il mondo intero, devono modellarsi.

Il sistema mercatistico dei numeri induce i giovani a credere che essi contino, mentre infatti “tutto quello che desidera è di poter contarli.“ L’ecologia oppressiva consumistica della cultura dominante si sta impegnando per selezionare, cancellare e riordinare i termini del linguaggio politico, sociale e morale a disposizione dei giovani. Le esperienze più intime dei giovani sono sottoposte ad una colonizzazione etica di tipo consumistico che deforma il loro senso d’azione, i loro desideri, i loro valori e speranze. Intrappolati nello spettacolo del mercato, la loro capacità di impegno critico e possibilità di diventare cittadini socialmente responsabili viene così ridotta in modo significativo.

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La “guerra forte“ alla gioventù

La guerra forte si contraddistingue per la serietà e pericolo che comporta per lo sviluppo dei giovani, in particolare per quelli emarginati secondo la loro provenienza etnica, razza, sesso e classe. La guerra forte comprende tutti quei metodi più estremi tipici di un sistema di controllo della criminalità giovanile e che opera in maggior aumento utilizzando una logica punitiva, di sorveglianza e di controllo. I giovani presi di mira da queste misure punitive sono in maggior parte poveri giovani di colore che vengono considerati come dei consumatori falliti e che possono permettersi di vivere solo ai margini di una cultura commerciale che esclude chiunque sia senza denaro, risorse e tempo libero. Sono giovani considerati al di fuori di possibilità di istruzione e di lavoro, e quindi rappresentano un problema, se non una minaccia all’ordine esistente.

Le origini del sistema di controllo della criminalità giovanile risalgono all’uso di pratiche, ora divenute standard, per organizzare la vita nelle scuole attraverso l’uso di metodi disciplinari, che sottopongono gli studenti ad una sorveglianza continua con tecnologie di sicurezza ad alta prestazione, e allo stesso tempo sottoponendoli a demenziali politiche a tolleranza-zero, spesso troppo rigide, che sembrano più le misure adottate dal sistema penale. Sotto questo aspetto, la gioventù povera e di colore diviene l’oggetto di una nuova forma di governance basata sulle tattiche di controllo più rozze. Puniti se non si presentano a scuola e puniti anche se si presentano, molti di questi studenti vengono incanalati in ció che è stato definito il «percorso scuola-prigione» (ndt). Se i ragazzi delle classi medie e più agiate vengono sottoposti alle seduzioni delle pubbliche relazioni manovrate dal mercato, i giovani delle classi inferiori si ritrovano presi di mira persi tra il desiderio di soddisfazione commerciale e la imponente rigidità di misure di sicurezza, sorveglianza e controllo.

Come si spiegherebbe se no il fatto che ogni anno negli Stati Uniti vengono incarcerati 500.000 giovani e ne vengono arrestati 2.5 milioni, e che all’età di 23 anni, “quasi un terzo degli americani sarà già stato arrestato per aver commesso un crimine“? Che tipo di società permette a 1.6 milioni di bambini di rimanere, durante il corso di un anno, senza una dimora? O permette la creazione di una società moralmente e socialmente alienante tramite disuguaglianze di ricchezza e di reddito pazzesche, con il «45% di tutta la popolazione degli Stati Uniti che fa fatica ad arrivare a fine mese“? Le statistiche mostrano una situazione deprimente riguardo ai giovani della nazione più ricca del mondo. Secondo la Bureau of Labor Statistics, “il numero di giovani disoccupati nel luglio del 2015 era di 2.8 milioni»; 12.5 milioni non possono permettersi da mangiare; e al culmine di questa sciagura nazionale si constata che negli Stati Uniti un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà. Quasi la metà di tutti i bambini negli Stati Uniti e il 90% dei giovani di colore dovranno far ricorso ai buoni pasto durante la loro infanzia.

Cosa dovremmo pensare di una società che ha permesso che nel 2001 ci fossero più giovani uccisi per le strade di Chicago che soldati americani uccisi in Afghanistan? Per essere più precisi, 5000 persone furono uccise da armi da fuoco a Chicago, mentre 2000 soldati furono uccisi tra il 2001 e il 2012. Che tipo di società rimane indifferente di fronte al fatto che questo paese “assiste in media a 92 morti per armi da fuoco al giorno – con il numero di bambini…uccisi con armi da fuoco essendo superiore a quello dei poliziotti uccisi durante il servizio“? A parte queste stragi ormai settimanali, ciò che è passato inosservato è il fatto che negli ultimi quattro anni più di 500 bambini sotto i 12 anni sono rimasti vittime di omicidi da arma da fuoco.

Mentre la guerra al terrorismo arriva in casa, gli spazi pubblici sono stati trasformati in vere e proprie zone di guerra con la polizia locale che riveste il ruolo di esercito di occupazione, in particolare nei quartieri dei poveri di colore, tutto questo esaltato dal fatto che oggi la polizia dispone di veicoli di trasporto blindati, fucili con cannocchiali per la visione notturna, Humvee, fucili automatici M-16, lancia-granate e altre armi progettate a fini militari. Agendo come una forza paramilitare, la polizia è divenuta il nuovo simbolo di un terrorismo domestico, perquisendo i giovani di colore e infiltrandosi nelle loro comunità con lo scopo di criminalizzare una moltitudine di comportamenti.

Questo è vero in particolare per le pratiche di stop-and-frisk (fermare-e-perquisire; ndt) così ampiamente utilizzate sotto l’ex sindaco Michael Bloomberg nella città di New York. A Ferguson, nello stato del Missouri, l’intera popolazione fu sottoposta ad una forma di illegalità legale in ciò che potrebbe essere definita come una pratica di estorsione razzista. Invece di essere definiti come una popolazione in bisogno di protezione, i cittadini della città, in gran parte di colore, di Ferguson, furono arrestati e multati per non poter saldare i propri debiti, in violazione di regole banali del tipo far lasciar crescere l’erba troppo in alto, oppure attraversare la strada fuori dalle strisce, rendendoli così i bersagli principali del sistema penale. L’effetto fu che la polizia concepì gli abitanti di colore di Ferguson «come dei potenziali bersagli di una pratica di ricatto per avvalersi dei denaro dei più poveri e vulnerabili, usando ogni mezzo disponibile, con il risultato che la maggior parte dei cittadini di Ferguson divennero i destinatari di un’ordinanza di custodia».

La creazione dello Stato punitivo e la guerra al terrorismo hanno incoraggiato le forze di polizia in tutto il paese, aumentando così l’uso di una violenza razzista contro i giovani di colore, in ciò che è stato definito come una “epidemia di brutalità poliziesca.“ Purtroppo, neanche i bambini sono protetti da questa violenza, come testimonia l’uccisione del 12enne Tamir Rice il 22 Novembre 2014 da parte di un poliziotto bianco. Ciò che rende la storia ancora più tragica è che la polizia di Cleveland tentò di incolpare il ragazzo per la propria morte. Rice stava maneggiando una pistola giocattolo ad aria compressa quando fu ucciso a colpi di pistola da un agente di polizia che solo due anni prima era stato dichiarato inadatto al servizio. L’uccisione di giovani e adulti di colore sembra aver preso le sembianze di uno sport crudele, indicativo di una forza di polizia che sta discendendo vorticosamente verso una specie di autoritarismo che unisce l’illegalità con una forma pericolosa di militarismo.

Contro la retorica idealista di un governo che finge di venerare la gioventù, si nasconde la realtà di una società che concepisce i giovani attraverso l’ottica dell’ordine pubblico, una società che troppo facilmente è disposta a trattare i giovani come dei criminali, e che quando necessario li fa “sparire“ nei luoghi più cupi del sistema penitenziario. Cosa si dovrebbe pensare di una società che permette a degli agenti del dipartimento di polizia di New York di entrare in una scuola e arrestare, ammanettare e trascinare una studentessa 12enne per aver disegnato sul banco? Ed inoltre, di un sistema scolastico che permette ad un bambino di 6 anni nel Georgia e ad una bambina d’asilo di 5 anni nel Florida di essere ammanettati e portati al distretto di polizia per aver fatto dei capricci? Dov’era il dissenso pubblico quando due agenti di polizia chiamati da un centro educativo dell’Indiana per controllare un bambino scalmanato di 10 anni decidono di usare il Taser? Oppure quando un’amministrazione scolastica permette ad un agente di polizia dell’Arkansas di usare una pistola all’elettroshock per disciplinare una bambina di 10 anni che apparentemente era fuori controllo?

Una risposta pubblica a questo caso è arrivata da Steve Tuttle, un portavoce della Taser International Inc., che ha insistito che la «pistola all’elettroshock può essere usata in modo sicuro anche sui bambini». Purtroppo, questi sono solo alcuni esempi del modo in cui i bambini vengono puniti nelle scuole americane invece di essere istruiti, in particolare nelle scuole delle grandi città. Questi casi dimostrano l’insensibilità sociale verso i giovani e la volontà di molti istituti educativi di adottare misure di punizione per reati, ed insieme costituiscono non solo una crisi del sistema educativo, ma anche la creazione di un nuovo modo di fare politica che Jonathan Simon ha definito «governare nella criminalità».

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ManchildInThePromisedLand

Manchild in the Promised Land

Infanzie rubate

Ovviamente abbiamo già assistito a questa visione intollerante della criminalità durante periodi storici precedenti, ma almeno alla criminalità si rispondeva con tentativi di riforma e riabilitazione, non con la vendetta, come avviene nel presente sistema penale. Come esempio storico dell’effetto più ampio di questo sistema punitivo, vorrei soffermarmi su Claude Brown, lo scrittore afro-americano che capii pienamente l’effetto di questa guerra alla gioventù nel suo svolgersi di mezzo secolo. Anche se il suo romanzo, Manchild in the Promised Land (Uomobambino nella Terra Promessa; ndt), si svolge nella Harlem degli anni ’40 e ’50, c’è molto da trarre da questa descrizione autobiografica. Si prenda per esempio il passaggio seguente:

«Se Reno era di pessimo umore – se non aveva denaro e non era su di giri – diceva, ‘Sonny, amico, non ci sono bambini ad Harlem. Non ne ho mai visti. Ho visto della gente molto piccola comportarsi come dei bambini, ma non ci sono bambini ad Harlem, perché non c’è tempo per l’infanzia. Amico, hai qualche ricordo d’esser mai stato un bambino? Io no. Merda, i bambini sono felici, i bambini ridono, i bambini si sentono al sicuro. Non hanno paura di niente. Sei mai stato un bambino Sonny? Maledizione, sei fortunato. Io non sono mai stato un bambino, amico. Non ho nessun ricordo d’esser mai stato felice e senza paura. Non so cosa mi sia successo, amico, ma penso di non aver vissuto quella cosa che chiamano infanzia, perché non ricordo di esser mai stato un bambino».

Nel suo libro, Brown racconta delle vite spacciate dei suoi amici, delle loro famiglie e dei vicini di quartiere. Il libro si figura come un brillante ma anche sconvolgente ritratto di una Harlem sotto assedio – una comunità devastata e distrutta dall’eroina, dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla criminalità e dalla brutalità poliziesca. Ma ciò che Brown ha veramente evidenziato, è che furono la violenza barbarica e un’ esistenza senza uscita che segnarono la rovina di così tanti giovani di Harlem, non solo li derubò del loro futuro ma anche della loro infanzia. Nella condizione di collasso sociale e di esperienze psicologiche traumatiche creati dalla sistematica fusione tra il razzismo e lo sfruttamento di classe, i bambini di Harlem furono assediati da forze che li derubarono dell’innocenza tipica dell’infanzia, forzandoli ad affrontare i rischi e i problemi della sopravvivenza quotidiana dalla quale gli adulti non hanno saputo difenderli.

Al centro della narrativa di Brown, scritta nel pieno della lotta per i diritti civili degli anni ’60, c’è il ”manchild“ (l’uomobambino), una metafora che mette sotto accusa una società che sta dichiarando guerra sui bambini poveri di colore costretti a crescere troppo in fretta. La parola “uomobambino“ segnava un confine tra l’innocenza perduta e un’infanzia rubata, e il punto in cui ogni tipo di azione sensata ed autonoma da parte degli adulti veniva messa a rischio. Harlem rappresentava un contenitore chiuso, una colonia domestica, e la vita di strada creò le condizioni e la necessità per un’insurrezione. Ma le tante forme di ribellione che i giovani poterono esprimere – dall’attività pubblica e progressiva fino a quella interiorizzata e autodistruttiva – avevano un prezzo, che Brown annuncia verso la fine del libro: «Era come se tutti i fratelli con i quali siamo cresciuti non ce l’avessero fatta. Quasi tutti erano morti o finiti in prigione».

Un’infanzia rubata non poteva essere recuperata semplicemente aiutando sé stessi – come voleva l’insensibile e mendace richiesta che finì col definire i tentativi di riforma reazionaria degli anni ’80 e ’90, dall’odio per il governo da parte di Reagan fino all’attacco di Clinton contro la riforma del welfare e al suo «ruolo decisivo nella creazione di uno dei sistemi penitenziari più grandi del mondo». In quel momento, era necessaria una forte richiesta d’intervento contro un ordine sociale che negava ai bambini una possibilità di un presente e un futuro più prosperi. Mentre Brown affrontava la vita quotidiana di Harlem più da poeta che da rivoluzionario politico, la politica era improntata in ogni frase del suo libro – non una politica demagogica, di odio e ortodossa, ma una politica che mostrava il danno creato da un sistema sociale caratterizzato da enormi disuguaglianze e da una divisione razziale inflessibile. Il suo libro creò l’immagine di una società priva di bambini, per fare appello al futuro di un paese che scelse di abbandonare i suoi membri più vulnerabili.

Come per il grande critico teorico C. Wright Mills, il lavoro di Brown seppe ridefinire i confini tra i problemi pubblici e la sofferenza privata. Per Brown, il razzismo aveva a che fare con il potere e l’oppressione – non con l’ignoranza, o con la paura – e non poteva essere separato da contesti più ampi di tipo sociale, economico e politico. Invece di negare le cause sistemiche dell’ingiustizia (come fecero le discussioni sulla patologia individuale e sul cura-te-stesso), Brown insistette nel denunciare che le forze sociali dovevano essere incluse all’interno di ogni tentativo di comprendere sia la sofferenza di gruppo che la disperazione individuale. Brown esploró la sofferenza dei giovani di Harlem, ma lo fece rifiutandosi categoricamente di renderla privata, di drammatizzarla o di porre la vita privata al di sopra dei problemi pubblici, o del porre le speranze dei singoli, i loro desideri ed una possibile attività al di là delle sfere della politica e della vita pubblica.

A cinquant’anni dalla pubblicazione del libro, la metafora dell’uomobambino di Brown è ancora più pertinente di quanto non lo fosse stato in precedenza , e l’immagine de “la Terra Promessa“ più preveggente che mai, mentre la rivelazione della disperazione dei poveri bambini di colore assume un significato ancora più ampio nel tempo della presente crisi economica e delle speranze svanite di un’intera generazione, che viene vista come una generazione senza la speranza di un futuro migliore. I giovani oggi sono costretti a vivere un’esistenza dura deprivati di un’infanzia, schiacciati sotto il carico materiale ed esistenziale di problemi che non riescono più a sopportare.

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La via d’uscita

La disperazione dei poveri giovani di colore si estende anche al di là della gravità delle privazioni materiali e violenza alla quale sono sottoposti quotidianamente. Molti giovani sono stati costretti a concepire il mondo e a ridefinire la propria natura nelle sfera della disperazione e dell’insicurezza. E’ difficile immaginare un futuro migliore quando si è confinati dagli spazi restrittivi della mercificazione. L’austerità contro le spese sociali imposta dal sistema neoliberale significa che un’intera generazione di giovani non avrà le opportunità di un lavoro decente, di comodità materiali, di un livello di educazione e sicurezza che erano disponibili alle generazioni precedenti. Questa è una nuova generazione di giovani che deve pensare, agire e parlare come da adulti. Molti di loro si preoccupano costantemente dell’impossibilità da parte dei loro familiari di trovare lavoro oppure dell’incarcerazione di un genitore.

Negli Stati Uniti, inoltre, i giovani vivono fasi di estrema povertà, mettendo a rischio la garanzia di essere nutriti e di avere accesso ad un’assistenza sanitaria basilare, nelle comunità che sono maggiormente afflitte da malattie e che necessitano di interventi speciali durante condizioni di povertà. Questi giovani vivono in una nuova e preoccupante fase di disperazione, una zona morta dell’immaginazione, che costituisce uno spazio di esclusione finale – che rivela non solo le grandi e destabilizzanti differenze proprie del sistema economico neoliberale, ma inoltre mostra un futuro che non vuole investire sulla speranza tipica di una democrazia dinamica.

Il compito degli insegnanti, individui, artisti, intellettuali e altri movimenti deve essere di svelare i meccanismi del fondamentalismo di mercato “in tutte le sue forme, che esse siano personali, politiche, o economiche… e ricostruire una piattaforma“ e un insieme di strategie per contrastarlo. Evidentemente, ogni formazione politica rilevante deve opporsi ai brutali effetti sociali che il capitalismo d’azzardo ha portato, e lavorare per fermare le forme di violenza sociale, politica ed economica che i giovani stanno subendo quotidianamente. Ciò richiede di più che le dimostrazioni che durano una sola giornata. Ciò di cui si necessita è l’organizzazione di nuove sfere pubbliche nelle quali viene stimolata una memoria pubblica, un alfabetismo e un coraggio civili – cioè, una volontà di «analizzare con efficienza le strutture e i meccanismi del potere capitalistico per formulare soluzioni politiche sofisticate» e la volontà di costruire movimenti d’opposizione permanenti. Alcuni esempi di questi tipi di movimenti stanno già emergendo negli Stati Uniti, sorti dai lavoratori dei Fast Food e dagli studenti che protestano contro debiti soffocanti e la brutalità poliziesca. Queste forme iniziali sono anche presenti nei movimenti sociali di paesi quali la Spagna e la Grecia che si stanno battendo contro le rigide pratiche neoliberali dell’austerità imposte dai banchieri e dalla classe finanziaria globale dominante.

Nell’America del nord, assistiamo ad importanti, anche se inefficienti, prove da parte di giovani che tentano di rompere con l’irresponsabilità del potere governativo e finanziario. Questo si è visto con il movimento Occupy, il movimento studentesco di Quebec, il movimento Idle No More (Mai Più Passivi: ndt) e il movimento Black Lives Matter (Le Vite dei Neri Contano; ndt). Il New York Times ha riportato recentemente che il livello di fiducia mondiale nella democrazia sta diminuendo. Cosa non ci dice è che i giovani non si lamentano della democrazia, ma della sua assenza. Negli Stati Uniti, vi è un nuova opportunità politica di rivendicare una vera democrazia, una che si occupa di garantire a tutti gli americani un salario minimo adeguato o il reddito di cittadinanza; toglie denaro alla politica; rivendica il bene comune contrastando la natura nociva delle privatizzazioni; tiene sotto controllo gli effetti sfrenati del capitalismo d’azzardo; abolisce il concetto demenziale di personificazione dell’azienda; demolisce lo stato di guerra permanente; inverte il riscaldamento globale; ridistribuisce il benessere nell’interesse di una democrazia pulsante; nazionalizza il servizio sanitario; riduce la grandezza delle banche; elimina lo stato punitivo carcerario di massa; sradica lo stato di sorveglianza, ed attua altre riforme ancora.

Questo è un linguaggio che dice che nessuna società deve semplicemente bastare e che occorrono nuove lotte collettive, con la speranza di creare un futuro che si rifiuta di essere definito dalle forze distopiche che oggi deformano la società americana. Queste riforme sono allo stesso tempo profonde e istruttive per il nostro tempo perché rimandano al bisogno di pensare al di là di ciò che è dato, e di pensare oltre la visione distorta basata sul mercato offerta dai sostenitori del capitalismo d’azzardo. Questo modo di pensare radicato nella libertà dell’immaginazione è un obbiettivo centrale dell’educazione civica, che nelle parole del poeta Robert Hass è «di rinfrescare l’idea di giustizia che sta morendo dentro di noi un po’ alla volta».

Oggigiorno, le proteste negli Stati Uniti dimostrano che i giovani devono contare su tutte le fasce generazionali in modo da creare movimenti politici veramente globali con la possibilità di rivendicare gli spazi pubblici, di utilizzo progressivo delle tecnologie digitali, di produrre nuovi metodi educativi e salvaguardare gli spazi dove l’espressione democratica, nuovi valori civici, sfere pubbliche democratiche, nuovi metodi di identificazione e la speranza collettiva possono essere coltivati e sviluppati. E’ necessario adottare una cultura formativa a livello pedagogico e istituzionale in tutte le sfere come le parrocchie, i centri di istruzione pubblica e tutti quegli apparati culturali impegnati nella produzione del sapere, desideri, identità e valori democratici collettivi. Perché ogni lotta collettiva possa avere successo, è necessario concepire il sistema educativo come al centro della politica e come all’origine di una visione embrionale della possibilità di una vita giusta al di là dell’illimitatezza del capitalismo e del libero mercato.

Insegnanti, giovani, artisti ed altri appartenenti ai settori culturali dovranno mettere a frutto un linguaggio critico e di speranza che possa permettere di affrontare le condizioni storiche, strutturali e ideologiche inerenti alla violenza utilizzata dagli Stati-impresa repressivi, e di evidenziare come il governo, sempre più subalterno alla sovranità del mercato globale, non è in grado di soddisfare i bisogni più essenziali dei giovani. Questa lotta sarà maggiormente difficile sul campo educativo, un campo sul quale dovrà essere edificato un lavoro organizzativo permanente per cambiare le coscienze e convincere i giovani che il capitalismo e la democrazia non sono la stessa cosa – ed infatti si trovano in conflitto nel maggiore dei casi – offrendo una nuova visione della democrazia, e creando la spinta ideologica e collettiva necessaria per edificare un’ampio movimento sociale che si muove al di là delle politiche monotematiche.

Il problema di a chi spetterà di ridefinire il futuro, del condividere il benessere della nazione, rimodellare i parametri dello stato sociale, controllare e proteggere le risorse globali, e creare una cultura formativa per produrre membri della società socialmente responsabili e impegnati, non è un problema retorico. Questa sfida offre la formazione di nuove categorie per ridefinire come gli ambiti rappresentativi, educativi, di giustizia economica e politica devono essere costruiti e difesi. Questo compito non è semplice, ma stiamo assistendo a come nelle città quali New York, Atene, Quebec, Parigi, Madrid e altri centri del mondo dove regnano enormi disuguaglianze, sia iniziata una lunga lotta per le istituzioni, i valori e le infrastrutture che sono alla base delle comunità e al centro di una forte democrazia radicale.

Viviamo in un’epoca nella quale è importante immaginare un futuro che non ripeta il presente. Vista l’urgenza dei problemi che stiamo affrontando – l’aumento di disuguaglianze economiche, la graduale sottrazione dei diritti civili, l’edificazione dello stato-penitenziario, il razzismo radicato, l’ampliamento dello Stato-sorveglianza, la minaccia della guerra nucleare, la devastazione ecologica e in particolare negli Stati Uniti, il collasso del governo democratico – penso sia sempre più importante prendere seriamente la sfida posta dalla frase di Jacques Derrida: «Dobbiamo fare e pensare l’impossibile. Se è solo il possibile a dover accadere, non accadrebbe più niente. Se mi limito a fare solo ciò che so già fare, non farei più niente».

Il mio amico Howard Zinn aveva ragione quando insistette che la speranza è la volontà «di mantenere, anche nel tempo del pessimismo, la possibilità della sorpresa». La storia è aperta, e lo spazio del possibile è più grande di quello che ci viene presentato.

Henry Giroux

Traduzione a cura di Steven Cenci.

Il testo inglese è reperibile a questo indirizzo: www.truth-out.org/news/item/33312-youth-in-authoritarian-times-challenging-neoliberalism-s-politics-of-disposability, ed è apparso sul sito TruthOut.


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Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica

Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica


Henry A. Giroux
 La Critical Pedagogy statunitense tra scuola e cultura popolare

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Ugo Mattei, Alessandra Quarta – L’acqua e il suo diritto. La politica economica in materia di acqua deve abbandonare la logica del profitto.

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L’analisi condotta dei processi di privatizzazione dei servizi idrici ha offerto diversi spunti di riflessione, in virtù della delicatezza della questione affrontata. È indubbio che, tra tutti i beni comuni, l’acqua sia quello che viene più facilmente percepito come insostituibile e primario. Pertanto, è agevole comprendere le ragioni di una sua gestione pubblica, la quale è perfettamente in grado di garantire i principi di equità e di universalità del servizio, a differenza di una gestione privata che, per sua stessa costituzione, è orientata alla realizzazione di profitti. Ragionando in quest’ottica, le proposte per un ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico consentono due ulteriori sviluppi: il primo attiene alla possibilità di tornare a pensare un’economia priva degli schemi del neoliberismo, mentre il secondo consente di recuperare un’idea di democrazia partecipativa.
Le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno seguito i paradigmi della globalizzazione finanziaria: consumo, profitto e mercato sono diventate le parole chiave dell’economia mondiale, nonostante la loro naturale contrapposizione con un concetto che acquista sempre maggiore importanza, ossia quello della sostenibilità ecologica. Gli attuali ritmi di crescita dimostrano come i benefici economici di breve periodo, conseguiti sull’onda delle scelte neoliberiste, vengano di fatto annullati dai loro stessi effetti sugli equilibri ecologici, sulla salute e sull’alimentazione.
Questo impatto è ancora più forte se lo si applica all’acqua: lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa naturale rischia di condurre a un drastico aumento della popolazione mondiale priva di acqua potabile (ad oggi circa un miliardo di persone), con la conseguenza tangibile che possano sorgere nuovi conflitti per l’accesso alle fonti idriche.
L’icona del pensiero neoliberale è rappresentata dal ricorso alla privatizzazione dei beni e dei servizi. […] Quali potrebbero essere gli schemi normativi da seguire per realizzare la presenza strategica dello Stato in determinati settori, tra cui di certo compare la gestione del servizio idrico integrato? In primo luogo, bisogna lavorare per migliorare il settore pubblico, liberandosi dall’idea, diventata ormai una sorta di luogo comune, per cui il privato sia la soluzione delle inefficienze prodotte dall’intervento statale. Il conseguimento di tale scopo passa attraverso la creazione di una gestione pubblica che sappia coinvolgere in modo diretto le comunità di utenti che beneficiano del servizio.
[…] Il recupero del rapporto tra ente pubblico e cittadino consente, inoltre, di riflettere sull’acqua come bene comune. Tale risorsa, infatti, presenta caratteristiche tali per cui risponde pienamente a interessi sociali e a bisogni della collettività, ripudiando, in maniera quasi fisiologica, il ricorso allo strumento della concorrenza e del mercato. Lo Stato deve comportarsi, rispetto a questo bene, come un gestore nell’interesse della collettività, la quale risulta essere l’unica vera proprietaria dei beni comuni.
In virtù della forte dimensione sociale che l’amministrazione del servizio idrico riveste […] si deve ritenere che […] la politica economica in materia di acqua deve abbandonare la logica del profitto. […] In questo senso, il diritto all’acqua e la riflessione sui beni comuni rappresentano la via per rafforzare l’uguaglianza dei cittadini e per contribuire alla costruzione di un futuro solidale e sostenibile.

Ugo Mattei, Alessandra Quarta, L’acqua e il suo diritto, Edisesse, 2014, pp.113-117.

 

Risvolto di copertina

Il testo esplora il tema dell’acqua e del suo diritto, inteso come disciplina giuridica del bene e del servizio idrico integrato, passando in rassegna gli eventi che ne hanno influenzato la definizione, da un punto di vista sia normativo sia culturale. La rico-struzione pone al centro di questi processi la campagna referendaria sull’«Acqua bene comune», che si è svolta nel 2011, e il relativo esito della consultazione popolare, il quale ha aperto una discussione sulla definizione normativa del servizio idrico integrato e sui modelli di gestione ad esso applicabili, oltre a diffondere una nuova sensibilità per i beni comuni. Ampio spazio è riservato all’esperienza parigina e a quella napoletana di ritorno alla gestione pubblica, che dimostrano come sia possibile, per un bene cruciale come l’acqua, immaginare un ruolo forte delle istituzioni locali, valorizzando altresì gli elementi della partecipazione e della conservazione delle risorse anche per le generazioni future.


Ugo Mattei

Insegna Diritto civile presso l’Università degli studi di Torino e Diritto comparato e internazionale presso l’Università della California. È stato vi-cepresidente della Commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici, coredattore dei quesiti referendari sul l’«Acqua bene comune» e ha patrocinato come avvocato la loro ammissibilità innanzi alla Corte costituzionale. È attualmente presidente di Acqua bene comune Napoli. Fra i suoi libri più recenti, si segnalano Beni comuni. Un manifesto (2011); Controriforme (2012); Senza proprietà non c’è libertà. Falso! (2014).


Alessandra Quarta

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Dottrine generali del diritto presso l’Università degli studi di Foggia e, attualmente, è docente a contratto di Diritto civile presso l’Università degli studi del Piemonte orientale e assegnista di ricerca di Diritto privato presso l’Università degli studi di Torino. Ha collaborato alla difesa dell’ammissibilità dei quesiti referendari del 2011 innanzi alla Corte costituzionale e ha concentrato i suoi studi sui temi della proprietà e dei beni comuni, con diversi saggi pubblicati su riviste scientifiche.


 

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Gabriella Putignano (a cura di) – Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile. Contributi di: Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano.

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Editrice Petite Plaisance, 2017, p. 160, euro 12

Gabriella Putignano (a cura di)

Cantautorato & Filosofia.

Un (In)Canto possibile

Contributi di:
Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano.

[Vedi in basso i titoli]


Prefazione

«…la musica […] è un’arte che rivela…»1

Il seguente libro raccoglie gli atti di un ciclo di incontri, a cura della sottoscritta, in cui s’è cercato di far emergere un virtuoso circolo erme­neutico fra il cantautorato italiano, di vecchia e nuova generazione, e il mondo della filosofia.
L’idea era quella di mostrare quanto la musica d’autore, nella quale note sublimi si sposano con l’incanto di parole poetiche, fosse in grado di squarciare domande, veicolare idee, aprire arcobaleni di senso. Un pensiero di Rachel Bespaloff (1895-1949), filosofa-musicista del secolo scorso2, ci ha in particolare guidato su questa via, un pensiero secondo cui la musica può sì degradare in vacuo starnazzamento, in rumore stordente, ma nella sua autentica accezione essa è «arte che rivela»3. Vi sono, infatti, impressi nel suo “cuore” un pathos rivelatorio e una capacità formativa tali da richiamarci a noi stessi, da ricordarci chi siamo o chi vorremmo diventare.
Il thaumazein così provocato permette – a nostro giudizio – non solo di addentrarci dentro sentieri teoretici, ma di comprendere – ça va sans dire – anche l’importanza di filosofare con lo splendore di tutti i linguaggi4 e di non trincerarsi nell’autoreferenzialità di un sapere stantio.
Forti di queste premesse, abbiamo dato avvio al nostro progetto, radi­cato in primis su un’idea ‘omnicratica’5 del pensare, cioè su un bisogno di condivisione corale, simmetrico di riflessioni e di entusiasmi. In secondo luogo, si è pensato di suddividere l’intera iniziativa in due parti: nella prima l’attenzione è stata rivolta a cantautori più legati alla generazione degli anni Settanta; nella seconda a cantanti o a gruppi musicali, più o meno giovani6, del tempo presente.7 L’intenzione era di confutare, in tal modo, una vulgata corrente, che vuole la musica odierna solo e soltanto come qualcosa di insulso e di vuoto.8
Nella prima parte è senza dubbio emerso l’impegno etico della can­zone d’autore, nonché la sua critica corrosiva a taluni meccanismi sociali. Abbiamo dunque preso le mosse dalla Scuola di Bologna: da Guccini e dalla sua visione crepuscolare dell’esistenza, e da Lolli e dalla sua acuta denuncia contro la ‘sclerocardia’ contemporanea. Siam poi passati a con­frontarci con la discografia di De André e di Gaber: l’uno considerato alla luce della sua interpretazione della Buona Novella, l’altro quale cantore dell’odierna “civiltà delle macerie” e di una nuova, “eidetica”, coscienza.
Altrettanto densi i temi affrontati nella seconda parte, ove il punto di partenza è stato il ‘misticismo aperto’ dei Baustelle, la loro tensione morale congiunta ad uno sguardo disincanto sul mondo della vita; ab­biamo proseguito con i Bluvertigo e lo studio del nesso ʻpensare-direʼ e con Il Teatro degli Orrori, tra inquieta ricerca di senso e veemente accusa al lavoro alienato. L’intervento conclusivo ha suggellato il percorso fatto assieme, poiché – a partire dai testi di Federico Fiumani – si è trattato il problema del riconoscimento/riconoscenza.
I papers qui riportati costituiscono, pertanto, la fedele trasposizione dei contributi tenuti oralmente, ma nel contempo sono arricchiti da schede didattiche finali che evidenziano come siffatto lavoro possa benissimo concretizzarsi in classe, nella convinzione – già in precedenza delineata – dell’importanza di un filosofare plurale e di un insegnamento differente rispetto ad una piatta trasmissione di nozioni. Sono, così, da noi (per la maggior parte docenti liceali) offerti una serie di percorsi interdisciplinari da inserire o nella consueta programmazione curricolare o in ricerche di approfondimento.9
Ci sembra, comunque, di poter cogliere un essenziale fil rouge fra tutte le relazioni, un’esortazione comune, da Guccini a Fiumani, ad esprimere la propria unicità di persona e a far risplendere il coraggio della libertà. Ed è esattamente questo l’augurio che ci piace lasciare al nostro lettore: non perdere mai, nonostante i “grandi freddi” contemporanei, il brivido del rendersi inizio10, il fremito della possibilità quale sigillo dell’umano esistere.

Gabriella Putignano

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1 R. Bespaloff, Su Heidegger, trad. it. di L. Sanò, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 25. Corsivo nostro.

2 Rachel Bespaloff è stata una filosofa ebrea di origini ucraine, acuta studiosa di diversi pensatori, fra cui Heidegger, Šestov, Kierkegaard; diplomatasi, nel 1914, in pianoforte al Conservatorio di Ginevra, occuperà la cattedra di musica all’Opéra di Parigi. Nell’estate del 1941 – a causa del contestuale quadro internazionale – si trasferirà negli Usa, ove morirà suicida nel 1949.

3 Ibidem. Corsivo nostro. Vale la pena riportare l’intero passaggio, che peraltro evidenzia quanto la musica sia in stretta correlazione con la nostra vita affettiva: «La buona e la cattiva musica, indifferentemente, fanno entrambe appello alla nostra vita affettiva: ciò che importa è che la prima la utilizza «nel modo della conversione», mentre la seconda «nel modo della diversione». […] La musica è […] un’arte che rivela, oppure un rumore che stordisce.»

4 Altri logoi, oltre a quello musicale, sono l’artistico, il filmico/cinematografico, il poetico, etc.

5 Adoperiamo questa espressione nel senso dato da Aldo Capitini (1899-1968), cioè come ʻpotere di tuttiʼ, lotta contro un pensiero autoritario e catechetico, a favore di uno pro­manante “dal basso”.

6 Cantanti come Capovilla e Fiumani non possono anagraficamente essere considerati giovani, ma la loro musica appartiene senz’altro ad una generazione successiva a quella sessantottina, vicina a quella attuale.

7 Un limite è stato aver considerato cantanti di solo sesso maschile, ma cercheremo di rimediare con un altro ciclo di incontri.

8 Certamente oggigiorno assistiamo ad una decisa diffusione della musica di consumo, caratterizzata da ritornelli fatui e melensi. Si veda su questo M. Bonanno, La musica è finita. Quello che resta della canzone d’autore, Stampa Alternativa, Viterbo 2015. Tuttavia ciò che non condividiamo di siffatta impostazione è l’assolutizzazione compiuta, incapace così di considerare voci interessanti e degne d’ascolto. Per esempio sul piano italiano, oltre ai cantanti da noi analizzati nella seconda parte, si potrebbero annoverare fra gli/le artisti/e, più o meno giovani, meritevoli di attenzione: Niccolò Fabi, Brunori Sas, Ales­sio Lega, i Tiromancino, Pacifico, Elisa, Cristina Donà, Noemi, Samuele Bersani, Vinicio Capossela, i Virginiana Miller, Max Gazzè, Pippo Pollina, i Têtes de Bois, i Non voglio che Clara, etc.

9 Quasi tutti i percorsi didattici presentati sono rivolti ad una quinta classe, ma ciò non esclude affatto che si possa (e si debba) lavorare in questa maniera anche in una terza o in quarta classe. Nel prosieguo della lettura apparirà, inoltre, evidente un’ulteriore differenza fra la prima e la seconda parte: nella prima i collegamenti con la filosofia sono varie volte espliciti, diretti e posti dai cantautori stessi, nella seconda questo non sempre avviene espressamente. Nondimeno tale differenza non ha per noi un’importanza rile­vante, poiché la pretesa maggiore che ci proponevamo con le suddette schede didattiche era mostrare la possibilità di insegnare determinati temi filosofici prendendo spunto dal brano di una canzone.

10 Utilizziamo questa parola nel precipuo senso arendtiano.


I contributi

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Giacomo Pisani,

La verità come possibilità. Guccini e la narrazione dell’immanenza


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lolli

Gabriella Putignano,

Claudio Lolli: “vivere forte” contro “il grande freddo” della sclerocardia


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Gianluca Gatti,

Umana famiglia. La buona novella di Faber


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gaber5

Corrado De Benedittis,

Giorgio Gaber, cantautore di una nuova coscienza


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Federico Limongelli,

Baustelle, i mistici dei nostri giorni?


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Stefano Daniele,

Nulla e Comprensione. Lo Zero dei Bluvertigo attraverso i Presocratici


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Raffaele Pellegrino,

Il Teatro degli Orrori sul palco del mondo contemporaneo: alterità, violenza, solitudine


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Federico Fiumani

Francesco Malizia,

Federico Fiumani, tra esperienza del noi e dinamica del riconoscimento

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Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.

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«Ogni crescita la [la moda] conduce alla morte perché elimina la diversità. La
moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione
illimitata e a una realizzazione perfetta, ma che con il conseguimento di
questa meta assoluta si contraddirebbero distruggendosi da sé» (G. Simmel,
La moda, a cura di L. Perucchi, Milano, SE, 1996, pp. 26-27).

 

 

«Maraviglioso potere è quel della moda: la quale, laddove le nazioni e gli uomini sono tenacissimi delle usanze in ogni altra cosa, e ostinatissimi a giudicare, operare e procedere secondo la consuetudine, eziandio contro ragione e con loro danno; essa sempre che vuole, in un tratto li fa deporre, variare, assumere usi, modi e giudizi, quando pur quello
che abbandonano sia ragionevole, utile, bello e conveniente, e quello che abbracciano, il contrario» (G. Leopardi, Operette 283-84)

 

Fino a Leopardi, la letteratura italiana si è occupata della moda essenzialmente come bersaglio di un discorso satirico. Ma è soltanto con l’autore delle “Operette morali” e dello “Zibaldone” che la letteratura inizia davvero a “pensare” la moda, il suo linguaggio, te sue potenzialità. La riflessione estetica avviata da Leopardi abbonda di soluzioni che torneranno nei massimi teorici della moda del secolo seguente, da Simmel a Flugel, da Benjamin a Baudrillard attraverso Barthes: su tutte, l’intuizione che la moda sì vada costituendo come una “retorica della modernità”, una retorica in cui sarà molto arduo separare le coppie vestizione/restrizione, libertà/vessazione, travestimento/blindatura. Siamo all’interno di una crisi dell’Umanesimo che Leopardi scopre – anche – come disparità insanabile tra moda e filosofia, tra la coesione del costume antico e la minaccia, espressamente moderna, di un’inarrestabile deriva simbolica promossa dalia moda, dal suo parlare essenzialmente per cataloghi: grotteschi, folli, autoreferenziali.

Fabrizio Patriarca, Leopardi e l'invenzione della moda, Gaffi editore, 2008

Fabrizio Patriarca, Leopardi e l’invenzione della moda, Gaffi editore, 2008

Francesco Patriarca nel suo saggio Leopardi e l’invenzione della moda (Roma, Gaffi, 2008) ricorda che il Dialogo in questione fu il primo testo leopardiano tradotto in una lingua straniera nel febbraio del 1830 e fa di Leopardi l’anticipatore delle riflessioni novecentesche sulla moda. Se ne richiamano Walter Benjamin nell’esergo di Passagen-Werk, (I «passages» di Parigi) e Rainer Maria Rilke, nelle Elegie duinesi, dove viene evocata una modista chiamata allusivamente Madame Lamorte che nella capitale della Moda, Parigi, avvolge nastri senza fine e inventa “gale, fiori, coccarde, finti frutti/ sempre in colori falsati- per gli scadenti/ cappellini invernali del destino” (Quinta Elegia, traduz. di A.L. Giavotto Künkler, in Poesie, II, Einaudi-Gallimard, 1995). Se per Rilke la rivelazione della bellezza è l’evento terribile che ci scuote ma ci salva, facendo di noi stessi un mistero e non un individuo spersonalizzato dalla società borghese, Madame Lamorte è il simbolo di quell’assurdo meccanismo che avvolge i nostri destini di bellurie artificiose e banali, costringendoci a una vita inautentica, votata alla fugacità e all’impermanenza.



Il Dialogo della Moda e della Morte

è stato composto da Giacomo Leopardi

a Recanati tra il 15 e 18 febbraio 1824

 

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Il giovane e la morte, 1318, affresco, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi di Como

Il giovane e la morte, 1318, affresco, Pinacoteca Civica Palazzo Volpi di Como

D-COME-DIALOGO-DELLA-MODA-E-DELLA-MORTE

Moda. Madama Morte, madama Morte.

Morte. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami.

Moda. Madama Morte.

Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.

Moda. Come se io non fossi immortale.

Morte. Immortale? Passato è già più che ‘lmillesim’anno che sono finiti i tempi degl’immortali.

Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento?

Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno.

Moda. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.

Morte. Ti guardo.

Moda. Non mi conosci?

Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi.

Moda. Io sono la Moda, tua sorella.

Morte. Mia sorella?

Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.

Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.

Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo, io t’intenderò domani, perché l’udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.

Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.

Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.’ Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l’animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.

Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.

Morte. Sia con buon’ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.

Moda. Io l’ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.

Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!

Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.

Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora.

Moda. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo’ dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl’immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com’è seguito. E per quest’effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.

Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.

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Raul Bruni, Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi

 


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.

 


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Giovanni Antonucci – Il Teatro poetico di Maura Del Serra vive sul palcoscenico e nel corpo dell’interprete

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Maura Del Serra, poetessa di rilievo internazionale, è anche la nostra massima rappresentante di un teatro di poesia di grande qualità lirica e insiema drammaturgica. In questo volume ha raccolto tutta la sua produzione, ventitré testi, frutto di trant’anni di attività per il palcoscenico.
Il regista Antonio Calenda, il più colto della nostra scena, ha scritto nella finissima introduzione che il teatro della Del Serra “è una sorta di lavacro lustrale nei confronti di tanta drammaturgia contemporanea e della pratica del fare teatro”, aggiugendo che “il suo teatro è il sublime tentativo di rappresentare il mistero, incognito e forse inconoscibile, della vita e della morte, grazie anche all’uso di una parola che diviene senso e si fa azione”.
Teatro poetico, quindi, ma teatro teatrale che vive sul palcoscenico e nel corpo dell’interprete. Questa concezione è già tutta ne La fonte ardente. Due atti per Simone weil, scritta nel 1985 e andata in scena per la prima volta a Firenze nel 1992. Un testodi grande respiro che affronta non solo la straordinaria figura della Weil, ma anche un’intera epoca culturale, politica e sociale, i cui protagonisti sono Trotskij, Alain, Simone De Beauvoir, Georges Bataille, René Daumal, ma anche Monsignor Roncalli, poi Papa Giovanni XIII. Personaggi reali, ma, come sottolinea la stessa autrice, “intesi, in primo e ultimo luogo, in senso esemplare, cioè poetico e simbolico”, come è proprio del grande teatro.
Di assoluto rilievo è La Fenice (1990) la cui protagonista è la suora messicana Juana Inés de la Cruz, ritratto interiorizzato di questa straordinaria scrittrice barocca che incarna tutti itemi della sua epoca: la contrastata dignità della donna e anche come ha scritto Mario Luzi, “la tormentosa dialettica di scienza e fede, di sapere e obbedienza”.
Andreij Rublijòv, scritto fra il 1989 e il 1990, capolavoro della nostra drammaturgia, è un affresco del grande artista russo, morto intorno al 1430, “che disegna il rapporto – sottolinea la Del Serra – fra artista e società, cultura egemone e istanze di liberazione, tradizione e rinnovamento”.
Lo Spettro della Rosa (1992) coglie il rapporto fra genialità e follia attraverso la parabola tragica del grande danzatore russo Vaslav Nijnskij.
Agnodice (1995) è l’invenzione di un personaggio femminile semistorico, e “doppio”, donna medico brillante, nell’Atene ellenistica del III secolo a.C., che ha il potere di scoprire i segni nelle cose, con la sete di sapere, di collegare i fenomeni, scontrandosi con il potere costituito.
Guerra di sogni, vincitore del Premio “Ugo Betti” nel 1999, rappresenta in chiave mitico-visionaria il tema della violenza totalitaria nella lotta fra la dittatura supermediatica degli Extra e la ribellione dionisiaca degli Intra.
Isole (2002) è un’ivestigazione poetica, degna di Marguerite Yourcenar, sulle donne di un Ulisse ibernato, la madre Anticlea, la maga Circe, la fanciulla Nausicaa e la moglie Penelope.
Il volume è concluso dalle due opere più recenti di Maura Del Serra, Isadora (2014) e La torre di Iperione (2015). La prima è il ritratto di Isadora Duncan, la grande e innovativa danzatrice che vive per l’arte e la bellezza. La seconda ha per protagonista il grande poeta Hölderlin che dialoga con “spiriti” eterogenei a lui idealmente affini per la caduta nella follia, come Kant, Nietzsche, Dino Campana e Virginia Woolf.
È un teatro, questo di Maura Del Serra, che ogni vero appassionato deve avere nella sua biblioteca.

                                                                                                    Giovanni Antonucci

in,
“Teatro E Cinema Contemporaneo – Rivista Di Teatro E Cinema”.
Editrice “Pagine”, Roma, VIII, 24 giugno 2016

 

Teatro e cinema contemporaneo

 



I libri di Maura Del Serra

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Poesia

 

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

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Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro il sole e la notte

Dietro il sole e la notte

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Corale

Corale

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Sostanze

Sostanze

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senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

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Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

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Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

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Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

Agnodice

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Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

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La fenice

La fenice

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La Minima

La Minima

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L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

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Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

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Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

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Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

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Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

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Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

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Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

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L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

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Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

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Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

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Ungaretti

Ungaretti

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Dino Campana

Campana

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L'immagine aperta

L’immagine aperta

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Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

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Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

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Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

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K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

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D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

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Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

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Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

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F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

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Orlando n

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

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Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

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E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

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Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

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M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

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G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

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E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

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M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

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Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

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Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

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G. Boine, La città

G. Boine, La città

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Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

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P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

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Filastrocche della nonna

Filastrocche della nonna


Leggi anche:

 

Pagine di Maura Del Serra – Indice – Nuovo Rinascimento

Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano

Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.

Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»

Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”

Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864

Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana

 


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