Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora

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Miklós Szentkuthy

 

Il lettore di provincia

Maura Del Serra

Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico
della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora

Se il compito di ogni scrittore degno di questo nome è quello, costante e inesauribile, di restituire la voce intima delle potenze della natura, dell’arte e del pensiero al mondo e al profano «tempo della privazione stigmatizzato da Hölderlin nel celebre interrogativo Warum Dichter im durftiges Zeit?», è certo che il grande scrittore ungherese Miklós Szentkuthy (1908-1988) ha assolto questa missione con un furor enciclopedico e con un estro metodico eccezionalmente «scientifici» e singolari nell’ambito del panorama letterario europeo del secolo scorso, tanto da indurre la critica più attenta alla sua voce, in patria e fuori (soprattutto in area francese, ma anche spagnola, portoghese, rumena e slovacca) a definirlo con topica approssimazione il Proust, il Joyce o il Musil ungherese: paragone trinitario che l’autore, pur prodigo nel riconoscere le sue multivarie fonti, ha sempre schivato con ironica deferenza. Questo principe neobarocco del Modernismo, che ha molto influenzato la generazione letteraria seguente – Krasnahorkai, Nádas, Esterhazy, il Nobel Kertész – è ancora pressoché sconosciuto ai lettori italiani per mancanza di attenzione ad una lingua e a una civiltà letteraria considerate minoritarie da parte di una Weltliteratur appiattita sul «regno della quantità», e per la conseguente assenza di traduzioni da parte dei nostri slavisti (con la logica eccezione della musica ungherese: Bartók, Kodály e Ligeti).
L’opera di Szentkuthy, parzialmente pubblicata dagli anni ’60 agli anni ’80 del Novecento, in traduzioni tedesche, serbo-croate, polacche e slovacche, e negli anni Novanta in versioni francesi è ora in corso di ampia e selettiva edizione (escluso l’oceanico diario intimo di 100.000/200.000 (?) pagine, ancora manoscritto) presso le edizioni superbamente raffinate della Contra Mundum Press (New York/Paris), fondate e dirette dal poliedrico, appassionato saggista e romanziere Rainer J. Hanshe: sono già apparsi, a cura dell’ottimo
traduttore Tim Wilkinson, i premiati Marginalia on Casanova (2011) e Towards the One and Only Metaphor (2013), oggetto semispecifico di questo scritto. [Leggi tutto il saggio aprendo il PDF qui sotto]

 

Maura Del Serra,

Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico
della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora

 

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I libri di Maura Del Serra

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Poesia

 

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

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Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

***

Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

***

Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

***

Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

***

Dietro il sole e la notte

Dietro il sole e la notte

***

Corale

Corale

***

Sostanze

Sostanze

***

senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

***

Meridiana

Meridiana

***

La gloria oscura

La gloria oscura

***

L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

***

La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

***

Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

***

Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

***

Agnodice

Agnodice

***

Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

***

Rosens ande

Rosens ande

***

Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

***

La fenice

La fenice

***

La Minima

La Minima

***

L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

***

Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

***

Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

***

Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

***

Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

***

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

***

Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

***

Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

***

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

***

Orlando n

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

***

tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

***

Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

***

Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

***

Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

***

G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

***

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

***

Filastrocche della nonna

Filastrocche della nonna


Leggi anche:

 

Pagine di Maura Del Serra – Indice – Nuovo Rinascimento

Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano

Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.

Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»

Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”

Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864

Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana

 


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Koinè – Per un pensiero forte

Per un pensiero forte blog copia

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XIX, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2012, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiDiego Fusaro

Hanno contribuito e reso possibile la pubblicazione di questo numero di Koinè:

Olivia Campana, Francisco Canepa, Gianluca Cavallo, Andrea Cavazzini,
Linda Cesana, Stella Maria Congiu, Valentina Cordero, Lorenzo Dorato,
Carmine Fiorillo, Diego Fusaro, Luca Grecchi,
Michele Marolla, Alessandro Monchietto, Giacomo Pezzano,
Giancarlo Paciello, Costanzo Preve, Ilaria Rabatti, Emilia Savi,
Franco Toscani, Daniele Trematore, Francesco Valagussa, Carmelo Vigna.

 

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx

 

Coperta 192

 

Gianluca Cavallo, Andrea Cavazzini, Linda Cesana, Valentina Cordero,
Lorenzo Dorato, Diego Fusaro, Luca Grecchi,  Michele Marolla,
Giacomo Pezzano, Costanzo Preve, Franco Toscani, Daniele Trematore,
Francesco Valagussa, Carmelo Vigna

Per un pensiero forte

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Questo numero di Koinè, in continuità con i precedenti e, più in generale, con lo spirito della rivista, che nel 2013 festeggerà il suo ventesimo anniversario, è dedicato a un’appassionata difesa del pensiero veritativo. Si tratta, in termini generalissimi, di quel pensiero che ritiene tuttora filosoficamente necessario continuare a porre, come riferimenti onto-assiologici primari, la Verità ed il Bene (scritti con la maiuscola proprio per sottolineare il loro carattere universale). Questi riferimenti sono necessari soprattutto in quanto indicano ciò che l’uomo deve pensare, e deve fare, per vivere realmente da uomo, ossia per esprimere nel modo più compiuto le proprie potenzialità ontologiche; essi sono particolarmente necessari anche in quanto ci troviamo oggi a vivere all’interno di un modo di produzione sociale che nega strutturalmente, nei pensieri e nei fatti, questi contenuti di compiuta umanità. Nichilismo, relativismo e scetticismo formano, infatti, una costellazione unitaria che, nell’attuale congiuntura, maschera il fondamentalismo integralistico del capitale, rendendo impossibile, per chi ne accetti l’ideologia, una critica radicale di ciò che siamo.
La filosofia come sapere forte in grado di proporre fondamenti “altri” del vivere sociale e comunitario, e dunque di sottoporre a critica radicale l’esistente, è sempre più spesso oggetto di derisione ad opera delle nuove formazioni ideologiche affini alla riproduzione simbolica del cosmo a morfologia capitalistica: dal pensiero debole alla filosofia analitica, fino ai realismi vecchi e nuovi, la filosofia come pratica veritativa in grado di conoscere ontologicamente l’intero e di valutarlo assiologicamente è puntualmente squalificata, delegittimata, vuoi anche derisa. Di qui, appunto, la necessità di un ritorno al pensiero forte come sola via per reagire alla crisi – non solo economica – che stiamo attraversando a livello globale.
Il titolo, Per un pensiero forte, richiama dunque, volutamente, la critica maggiore che viene rivolta al pensiero filosofico veritativo, ovvero a quello metafisico, umanistico, classico, o comunque lo si voglia definire: questa critica sarebbe, appunto, quella di una presunta “violenza” che lo stesso albergherebbe. In realtà, la tesi secondo cui ogni pensiero che cerca di porsi con verità, ossia in modo argomentato e fondato, sarebbe per ciò stesso “dogmatico” e “prevaricatore”, è già stata ampiamente mostrata come infondata, per non dire risibile.
È semmai, al contrario, ogni pensiero che afferma di non porsi con verità, e che dunque non fonda in modo argomentato le proprie affermazioni, ad essere pericoloso: esso lascia essere le cose come sono, e dunque scoraggia preventivamente ogni critica e ogni prassi diretta contro il regno animale dello spirito di cui siamo oggi abitatori. Un simile pensiero è tanto più pericoloso, quanto più le sue affermazioni sono basate sulla effettualità, ossia su ciò che costoro ritengono essere “i fatti”, e che sovente altro non sono se non il semplice “senso comune”, oggi appunto antimetafisico ed antiumanistico proprio in quanto la metafisica e l’umanesimo costituiscono i due maggiori supporti teorici di ogni progettualità alternativa sulla totalità sociale. La “forza” di un pensiero filosofico “forte”, sta dunque solo nel carattere fondatamente veritativo ed umanistico di tale pensiero. Tanto più che solo un pensiero forte, nel senso appena delineato, può permettere una critica radicale del mondo storico in cui siamo proiettati, mostrandone le contraddizioni e la falsità.
Come è consuetudine della rivista negli ultimi anni, accanto a una serie di saggi (sostanzialmente i primi, presenti in numero maggiore) in cui questa tesi è in vario modo sostenuta, vi è un’altra serie di saggi (sostanzialmente i secondi, presenti in numero minore) in cui questa tesi, se non propriamente contestata, è comunque problematizzata; questo a riprova della “non chiusura” praticata anche da chi ritiene necessario un “pensiero forte”, il quale appunto si rivela “forte” proprio resistendo dialetticamente alle argomentazioni avversarie. Il pensiero forte, anima della filosofia, è tale perché mira alla verità e, insieme, si regge sull’idea che la sola via per raggiungerla sia quella del dialogo, del confronto socratico delle posizioni più diverse.
La resistenza maggiore da porre in campo, oggi, è quella contro l’attuale totalità sociale, che nega sempre più nella vita, alle persone, la possibilità di realizzare la propria umanità, costringendole ad abitare uno spazio sociale ridotto alla sola dimensione alienata della produzione e dello scambio delle merci. L’odierna congiuntura segna, di conseguenza, il massimo allontanamento dalla realizzazione delle potenzialità ontologiche del genere umano: essa è, pertanto, l’apice dell’alienazione, e come tale dev’essere connotata, criticata e trasformata a partire da un pensiero che non abbia paura a riconoscersi come “forte”.
Questa “resistenza”, sul piano culturale, è ciò che caratterizza da sempre lo spirito di fondo della rivista Koinè.

Carmine Fiorillo, Diego Fusaro, Luca Grecchi, Giancarlo Paciello

 

 

I testi

 

Lorenzo Dorato,
Verità, ontologia umana e capitalismo

Costanzo Preve,
Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità

Luca Grecchi,
Ancora sul pensiero di Emanuele Severino

Diego Fusaro,
Il realismo, fase suprema del postmodernismo?
Note su «New Realism», postmodernità e idealismo

Giacomo Pezzano,
Per un’antropologia del «metron». Brevi considerazioni preliminari

Gianluca Cavallo,
Potere e natura umana. Paradigmi a confronto

Linda Cesana,
Karel Kosík- Praxis e verità. «L’uomo si realizza, cioè si umanizza nella storia»

Michele Marolla,
Ratzinger- fasi e natura del relativismo contemporaneo

Franco Toscani,
L’anima e la morte nel Fedone di Platone. Sugli inizi della metafisica occidentale

Daniele Trematore,
Un parricidio postmoderno

Valentina Cordero,
La metafisica è ancora viva

Francesco Valagussa,
Nietzsche. Il Senso come “poiesi” del Pensiero. «Sostenersi senza appoggio»

Giacomo Pezzano,
Note critiche intorno a Gianluigi Pasquale, La ragione della storia. Per una filosofia della storia come scienza

Andrea Cavazzini,
Note critiche intorno a Cristian Lo Iacono, Althusser in Italia. Saggio bibliografico (1959-2009)

Michele Marolla,
Note critiche intorno a Calogero Caltagirone, La misura dell’uomo. La questione veritativa dell’antropologia

Giacomo Pezzano,
Note critiche intorno a Claudio Lucchini,
Il bene come processo possibile concreto. Natura umana e ontologia sociale

Costanzo Preve,
Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi

Carmelo Vigna,
Sull’Europa

***

 

 

 


Immagine in evidenza:
V. Kandinsky, Accento in rosa, 1926. Parigi, Musée national d’Art moderne.



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Maura Del Serra – I LIBRI ed altro

I LIbri di M. Del Serra

Poesia

 

***   Preludio in voce   ***

Al popolo della pace, testo e voce di Maura del Serra

Logo You Tube

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Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

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Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

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Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

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Corale

Corale

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Sostanze

Sostanze

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senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

***

Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

***

Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

***

Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

Agnodice

***

Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

***

La fenice

La fenice

***

La Minima

La Minima

***

L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

***

Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

***

Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

***

Dino Campana

Campana

***

L'immagine aperta

L’immagine aperta

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Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

***

Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

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Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

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K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

***

Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

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Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

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Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

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F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

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Orlando n

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

***

K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

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Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

***

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

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Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

***

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

***

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

***

M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

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Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

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Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

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G. Boine, La città

G. Boine, La città

***

Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

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P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

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Filastrocche della nonna

Filastrocche della nonna


Leggi anche:

 

Pagine di Maura Del Serra – Indice – Nuovo Rinascimento

Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano

Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.

Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»

Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”

Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864

Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana

 


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Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta

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OJ40_71-GudrunWEWIR320WeltEthos – WE – WIR

La storia del mondo sta attraversando un periodo denso di violenza, terrorismo, guerre e venti di guerra, conflittualità e veleni d’ogni tipo, disorientamento, confusione, diffidenza. Una delle questioni che sempre di nuovo si ripropone è quella del male, della sua ostinazione e persistenza, banalità e stupidità, crudeltà e tragicità.
Da molti secoli la filosofia e la teologia si sono interrogate e continuano a interrogarsi sulla questione del male, senza poter giungere a conclusioni certe e definitive. Il male resta per noi un grande enigma, possiamo esser certi soltanto della sua tenace presenza nella storia e nel mondo umano, delle sue varie forme, della sua diffusione e delle continue, incessanti difficoltà che incontra la necessaria, sacrosanta, sempre rinnovata lotta contro di esso.
Ha perciò ragione Liliana Segre (deportata quattordicenne nel 1944 e tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini di età inferiore ai 14 anni deportati nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau) quando, in una recente intervista sugli attentati terroristici parigini del 13 novembre (“Corriere della Sera”, 16 novembre 2015, a cura di Paolo Conti), invita gli adulti, in particolare i genitori e gli insegnanti ad avere il coraggio di “non girare la faccia dall’altra parte”, di dire la verità ai nostri ragazzi, di spiegare che cosa è realmente accaduto a Parigi, cercando di non “ripararli” troppo dal dolore, dal pericolo e raccomandando pure di non odiare mai, perché l’odio genera sempre altro odio.
Le nuove generazioni, infatti, sono state sin troppo “protette” da quel male e quel dolore che invece fanno sempre parte della vita reale di ciascuno di noi e che, se vengono ignorati, sottovalutati e non riconosciuti in tutto il loro spessore, rischiano di annichilire e distruggere le personalità più fragili o comunque di renderci incapaci di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti e dimensioni. L’eccesso di protezione e le troppo facili “caramelle di consolazione” non aiutano a vivere, a crescere e ad assumersi responsabilità. Occorre cercare sempre di fare i conti – anche se non è facile come dirlo – col male e col dolore che sono presenti non solo negli altri e nel mondo, ma anche in noi, in ciascuno di noi.
Solo così, con lucidità e coscienza, possiamo andare avanti, affrontare la vita con coraggio e responsabilità, partendo sempre da noi stessi, dalle situazioni concrete, cominciando quindi a vivere quotidianamente nelle nostre aule scolastiche e universitarie, in tutti i luoghi di lavoro e di vita rapporti umani caratterizzati dal rispetto, dall’attenzione, dall’ascolto reciproco, dal dialogo, dall’ospitalità culturale fra diversi. Solo così, trovando la vera forza in noi e negli altri, nel meglio di noi stessi, possiamo uscire dal tunnel della paura e del terrore, dall’isolamento nelle nostre case, tornare ad aprirci al mondo e vivere più pienamente il mondo.
Per vivere meglio, occorre fra l’altro che riscopriamo e rimeditiamo gli insegnamenti dell’antropologia culturale, che si studia o, dati i tempi che corrono, si dovrebbe studiare nelle nostre scuole. Per Bronislaw Malinowski, in virtù dell’attenzione posta sulle differenze culturali e sulla comparazione tra culture, l’antropologia ci ispira il senso delle prospettive e delle proporzioni, un più fine umorismo e consente una conoscenza globale dell’umanità.
Dopo aver studiato le altre culture e civiltà, l’antropologo ritorna alla propria con una nuova prospettiva, più ampia e lucida. La presa di coscienza dei diversi modi di vivere dell’umanità, dell’irriducibile ricchezza delle civiltà e culture umane getta una nuova luce anche sulla nostra civiltà e cultura. Diveniamo capaci di spirito critico e autocritico, di distanza critica dalla nostra stessa cultura, contribuendo così a rifondarla e a rinnovarla efficacemente.
I Nambikwara del Mato Grosso, in Brasile, su cui riflette Claude Lévi-Strauss in Tristes Tropiques (Tristi Tropici, 1955) sono molto poveri e indifesi, ma la loro gentilezza e tenerezza risultano per noi commoventi, oltre che evidente la ricchezza della loro umanità. L’antropologia culturale ci libera dai pregiudizi dell’etnocentrismo, consistente nella tendenza a considerare superiori le regole e i valori del proprio gruppo di appartenenza rispetto a tutti gli altri gruppi; l’etnocentrismo è un vero e proprio cancro, che in tutti i tempi e in tutte le latitudini ha seminato violenza, odio, disprezzo, guerre, paura.
Secondo Lévi-Strauss, i veri barbari sono coloro che credono nella barbarie e l’attribuiscono agli altri. Per questa mentalità, mentre “noi” siamo i soli veri esseri umani, gli “altri” sono sottouomini, barbari, selvaggi, primitivi, esseri inferiori.
Già Michel de Montaigne (si veda il saggio Des Cannibales, negli Essais) aveva compreso nel XVI secolo, con straordinaria lucidità e preveggenza, che “ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo”.
La cultura occidentale ha cominciato da tempo a fare i conti con il colonialismo, l’eurocentrismo e l’imperialismo che l’hanno a lungo caratterizzata. Questi conti non sono ancora terminati, ma abbiamo iniziato a capire che l’uomo occidentale può comprendere meglio sé stesso soltanto se dismette l’attitudine e lo sguardo del dominio, se l’altro non viene più considerato e ridotto a oggetto, se lo sfruttamento, l’asservimento e l’oppressione non sono più il suo orizzonte.
Da questo punto di vista l’antropologia può davvero essere intesa come figlia del rimorso dell’uomo bianco, europeo, occidentale e come una via di riscatto e di espiazione dalle colpe del colonialismo e dell’imperialismo.
Vi è un universalismo falso, che nasconde e ricopre i propri interessi particolaristici col richiamo ai valori universali dell’uomo. Lo studio dell’antropologia culturale può consentirci la riconciliazione dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, c’insegna che l’umanità intera è composta da tutti i suoi esempi particolari e non può prescindere da essi, che davvero nulla di umano può essere estraneo all’uomo. E’ il senso di una universalità umana concreta, non astratta, spiritualistica o retorica, ma frutto del riconoscimento, della valorizzazione e della ricchezza delle differenze.
Sostenere ciò non significa certo abbandonarsi, solo per il gusto della diversità, ad una esaltazione acritica di tutto ciò che proviene dalle varie culture e civiltà umane né accogliere e accettare con rassegnazione o indifferenza ciò che è inaccettabile, oggettivamente lesivo della dignità umana.
Si pensi, ad esempio, alla pratica dell’infibulazione, consistente nella cucitura delle grandi labbra della vagina, lasciando un’apertura ridotta per i flussi fisiologici. Adottata per motivi religiosi e soprattutto culturali, essa è ancora in uso in vari paesi africani, può essere accompagnata dalla mutilazione totale o parziale della clitoride, rende dolorosi i rapporti sessuali e il parto, limita fortemente la libertà delle donne africane, le fa anzi permanere nella subalternità e nell’asservimento al dominio maschile. In buona sostanza, a mio avviso, la pratica dell’infibulazione, in quanto oggettivamente lesiva della dignità e della libertà delle donne, va apertamente contestata e rifiutata in qualsiasi luogo. L’antropologia culturale non c’insegna un relativismo etico indifferente ai valori e, soprattutto, al rispetto delle persone.
L’universalità concreta a cui ci richiamiamo non è un’utopia astratta, non è un’illusione tranquillizzante, non è un facile obiettivo, ma cerca di salvaguardare insieme i valori della diversità, della pluralità e dell’eguaglianza, dell’equità, della dignità di tutti gli esseri umani. Essa consente di muoverci nella direzione di una nuova civiltà planetaria, di una nuova cultura, etica e politica dell’uomo planetario, secondo la felice intuizione di Ernesto Balducci.
E’ anche il “sogno di una cosa” di cui parla il giovane Karl Marx in una lettera ad Arnold Ruge del settembre 1843: ” Il nostro motto dev’essere: riforma della coscienza non mediante dogmi […]. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensí di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro”.
Ora, però, proprio questa possibile universalità umana concreta – sottolineiamo possibile, perché non si dà nella forma odierna della cosiddetta globalizzazione, anzi appare ancora soltanto come un bel sogno a occhi aperti – viene seriamente minacciata e compromessa nella difficile e delicata situazione mondiale del presente.
Per noi si tratta non solo di reagire e di lottare contro il terrorismo, ma anche di contrastare qualsivoglia tipo di fondamentalismo, integralismo, fanatismo politico, ideologico e religioso. Qui le risposte in termini meramente militari o di repressione non bastano. Occorre sì lottare in termini netti e duri contro il terrorismo islamico e il “Califfato del terrore”, ma bisogna prestare pure molta attenzione a non criminalizzare l’intero Islam, come invece tendono a fare i fondamentalisti dell’occidentalismo, gli intolleranti e razzisti di casa nostra. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che le sūre del Corano si aprono con l’invocazione al Dio clemente e compassionevole oppure quanto leggiamo nel Corano (sūra 5, 28): “se stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò la mano su di te per ucciderti, perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi”.
Sappiamo bene che del Corano, come di tutti i testi sacri, si possono fare diverse letture e che vi è pure l’interpretazione dei fanatici, degli intolleranti, dei violenti. Pure noi occidentali ne sappiamo qualcosa, perché anche in nome del Dio cristiano e della Croce si sono compiuti nel corso dei secoli innumerevoli e ben noti misfatti, le Crociate, guerre spaventose, si sono arsi vivi gli “eretici” e le “streghe”, si è sparso a piene mani sangue innocente, etc. . Molti sono anche i nostri peccati e scheletri nell’armadio.
Nel proporre la propria identità, tutte le religioni – nessuna esclusa – sono poste davanti a un bivio, a un aut-aut: o alimentare una cultura (e un’etica) della pace, della convivenza, della solidarietà, dell’amore e del dialogo oppure rafforzare lo spirito settario, erigere muri dottrinali, inseguire i propri fantasmi idolatrici, contrastare qualunque forma di contaminazione e di cooperazione.
Non possiamo più permetterci questa seconda strada, peraltro già ampiamente percorsa in modo fallimentare. Senza ciò che Hans Küng ha chiamato Weltethos, ossia senza un’etica mondiale fondata sulla condivisione a livello planetario di un minimo comune denominatore di tipo etico, non vi sarà un futuro per il pianeta. Tutte le religioni possono dare un grande contributo in questa direzione, se e soltanto se torneranno a riconoscere come essenziale la legge dell’amore e della fratellanza umana, che mi sembra il vero fondamento del dialogo interreligioso autentico.
Noi oggi dobbiamo favorire in tutti i modi possibili coloro che, all’interno del mondo islamico, mirano alla convivenza, vogliono vivere nella pace, puntano a un’integrazione fruttuosa, non vogliono innalzare muri di odio e di disprezzo.
So che non è facile, ma è necessario provarci, se non vogliamo lasciare l’ultima parola agli intolleranti e ai violenti di tutte le risme.
So anche che nelle riviste di propaganda di Daesh, del “Califfato del terrore”, di questi ignobili tagliagole che non si vergognano di richiamarsi al nome di Allāh, tutto ciò che proviene dai “miscredenti”, dal mondo occidentale è soltanto fonte di peccato, corruzione e male; persino le nostre scuole sono soltanto, ai loro occhi, “scuole della perdizione”, caratterizzate dalla tolleranza e dalla secolarizzazione, dall’ateismo e dal pluralismo religioso. Lo stato islamico insiste molto sulla carenza valoriale dell’Occidente, vuole conquistare anche le menti e i cuori delle persone che vivono tra i “miscredenti”, propone un’alternativa complessiva di sistema.
A questo proposito è bene essere molto chiari sull’ambivalenza della cultura occidentale, che ritrova in sé stessa da un lato il consumismo, il neoliberismo, il trionfo del Dio-mercato, del capitale, della tecnica e delle merci, profonde diseguaglianze economico-sociali, la desertificazione di senso, il nichilismo dell’ultracapitalismo vincente e dall’altro i valori essenziali della democrazia e dei diritti umani, del dialogo e della libertà di espressione in tutte le sue forme, della dignità umana, del pluralismo.
Noi dovremmo ovviamente far leva su questi ultimi aspetti, ma vanno rimessi in questione un sistema che, in nome del primato del profitto economico, produce ingiustizia all’interno degli stessi paesi ricchi e la violenza di un mondo che si regge sullo squilibrio abissale di ricchezza e di potere fra Nord e Sud del pianeta. Questo è oggi il brodo di coltura del terrorismo, soprattutto per i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro, riconoscimenti e opportunità, spesso stigmatizzati e privati della loro dignità.
Se non avvertiremo dolorosamente sulla pelle la mancanza di un’etica e di una cultura dell’uomo planetario, se non mediteremo sulla desertificazione di senso che riguarda anche noi occidentali, sulle molteplici, inedite forme dell’odierno nichilismo e della barbarie, sulla mancanza di progetti di futuro e di nuovi assetti di civiltà che ci assilla, la decadenza e il tramonto dell’Occidente saranno inevitabili.

Franco Toscani

Piacenza, 2 dicembre 2015

Le farfalle volano

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Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

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Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente Il Manifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.

Costanzo Preve

Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.

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Henri Poincaré (1854-1912) – La matematica e la logica.

 

Poincare,Jules-Henri

Qualche anno fa ho avuto occasione di esporre alcune idee sulla logica dell’infinito, sull’impiego dell’infinito in Matematica, sull’uso che se ne fa da Cantor in poi; ho spiegato perché non ritenevo legittime certe modalità di ragionamento di cui avevano creduto potersi servire alcuni matematici eminenti. Mi tirai ovviamente addosso delle repliche violente; questi matematici erano convinti di non essersi sbagliati, credevano di avere avuto il diritto di fare quello che avevano fatto. La discussione andava per le lunghe, non che si vedessero continuamente comparire argomenti nuovi, ma per il fatto che si girava sempre nello stesso cerchio, ciascuno ripetendo quello che aveva appena detto senza far mostra di aver inteso quello che l’avversario aveva detto. Mi veniva in ogni momento spedita una nuova dimostrazione del principio contestato, per mettersi, così si diceva, al riparo da ogni obiezione; ma questa dimostrazione era sempre la stessa, con il trucco appena rifatto. Non si è quindi giunti a nessuna conclusione; se dicessi di esserne rimasto sorpreso darei un’idea triste della mia capacità di penetrazione psicologica.
In queste condizioni conviene ripetere una volta di più gli stessi argomenti, ai quali potrei forse dare una forma nuova, ma della sostanza dei quali non potrei cambiare niente, dal momento che mi pare non si sia neanche cercato di confutarli. Mi sembra preferibile cercare quale possa essere l’origine di una differenza di mentalità tale da generare queste divergenze nei punti di vista. Ho appena detto che queste divergenze irriducibili non mi avevano sorpreso, che le avevo previste fin dal primo momento, ma questo non ci dispensa dal cercarne una spiegazione; possiamo prevedere un fatto in seguito ad esperienze ripetute e trovarci tuttavia in forte imbarazzo a spiegarlo.
Cerchiamo dunque di studiare la psicologia delle due scuole rivali, da un punto di vista puramente oggettivo, come se noi stessi fossimo collocati al di fuori di queste scuole, come se descrivessimo una guerra tra due formicai; constateremo in prima battuta l’esistenza tra i matematici di due tendenze opposte nella maniera di considerare l’infinito. Per gli uni, l’infinito deriva dal finito, c’è un infinito in quanto c’è un’infinità di cose finite possibili; per gli altri l’infinito preesiste al finito, il finito si ottiene staccando un pezzettino nell’infinito.
Un teorema deve poter essere verificato ma, visto che noi stessi siamo finiti, non possiamo operare che su oggetti finiti; anche ammettendo quindi che la nozione di infinito abbia un ruolo nell’enunciato del teorema, occorre che nella verifica non se ne faccia più menzione; altrimenti la verifica sarebbe impossibile.
Porterò come esempi teoremi di questo genere: la successione dei numeri interi è illimitata, la serie

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è convergente, ecc.; ciascuno di essi può tradursi in uguaglianze o disuguaglianze in cui non figurino che numeri finiti. Questi teoremi partecipano dell’infinito, non in quanto una delle verifiche possibili ne partecipi essa stessa, ma in quanto le verifiche possibili sono in numero infinito.
Enunciando il teorema affermo che tutte queste verifiche avranno successo; ben inteso, non le si fanno tutte; ce ne sono di quelle che chiamo possibili perché non esigerebbero che un tempo finito, ma che sarebbero impossibili in pratica perché richiederebbero anni di lavoro. Mi basta che si possa concepire qualcuno abbastanza ricco ed abbastanza pazzo da tentare l’impresa pagando un numero sufficiente di aiutanti. La dimostrazione del teorema ha come scopo esattamente quello di rendere inutile questa follia.
Ha senso un teorema che non comporti alcuna conclusione verificabile? o, più in generale, un teorema qualsiasi ha senso al di fuori delle verifiche che comporta? È su questo punto che i matematici si dividono. Quelli della prima scuola, quelli che chiamerò Pragmatisti (dato che bisogna pur dare loro un nome) rispondono di no, e quando viene presentato loro un teorema senza fornire un mezzo per verificarlo non ci vedono che acqua fresca. Costoro non vogliono prendere in considerazione che oggetti che possano essere definiti in un numero finito di parole; quando nel corso di un ragionamento parliamo loro di un oggetto A che soddisfa a certe condizioni, essi sottintendono un oggetto che soddisfa a queste condizioni quali che siano le parole di cui ci si servirà per definirlo, purché queste parole siano in numero finito.
Quelli dell’altra scuola, che chiamerò per brevità Cantoriani, non sono disposti ad ammettere tutto ciò; un uomo, per quanto sia chiacchierone, non pronuncerà mai nella sua vita più di un miliardo di parole; vogliamo dunque escludere dalla Scienza gli oggetti la cui definizione richieda un miliardo di parole più una? e se non li escludiamo, perché dovremmo escludere quelli che non possono essere definiti che con un’infinità di parole, dal momento che la costruzione degli uni come quella degli altri è al di fuori della portata dell’umanità?
Quest’argomento lascia ovviamente freddi i Pragmatisti; per quanto chiacchierone sia un uomo, l’umanità sarà ancora più chiacchierona e, visto che non sappiamo quanto tempo durerà, non possiamo limitare in anticipo il dominio delle sue investigazioni; sappiamo soltanto che questo dominio resterà sempre limitato; ed anche se potessimo fissare la data della sua scomparsa ci sarebbero altri che potrebbero riprendere l’opera lasciata incompiuta sulla Terra; i Pragmatisti non avrebbero d’altronde alcuna remora ad immaginare un’umanità molto più chiacchierona della nostra, ma che conservi ancora qualcosa di umano; essi si rifiutano di ragionare sull’ipotesi di non so quale divinità infinitamente chiacchierona e capace di pensare un’infinità di parole in un tempo finito. E gli altri pensano al contrario che gli oggetti esistano, in una sorta di grande negozio, indipendentemente da qualsiasi umanità o divinità che potesse parlarne o pensarci; che in questo negozio possiamo fare la nostra scelta, che molto probabilmente non abbiamo abbastanza appetito o abbastanza denaro per comprare tutto; ma che l’inventario del negozio sia indipendente dalle risorse degli acquirenti. E da questo malinteso iniziale discende ogni genere di divergenza sulle questioni di dettaglio.
Prendiamo ad esempio il teorema di Zermelo, secondo il quale lo spazio può essere trasformato in un insieme ben ordinato; i Cantoriani saranno sedotti dal rigore, reale o apparente, della dimostrazione; i Pragmatisti gli risponderanno: Dite di essere in grado di trasformare lo spazio in un insieme ben ordinato; ebbene! trasformatelo. – Sarebbe troppo lungo. – Allora mostrateci almeno che qualcuno che avesse abbastanza tempo e pazienza potrebbe compiere la trasformazione. – No, non lo possiamo perché il numero di operazioni da fare è infinito, è addirittura più grande di Aleph-con-zero. – Potete mostrare come si potrebbe esprimere in un numero finito di parole la legge che permetterebbe di ordinare lo spazio? – No. – Ed i Pragmatisti concludono che il teorema è privo di senso, o falso, o per lo meno non dimostrato.
I Pragmatisti si pongono dal punto di vista dell’estensione ed i Cantoriani dal punto di vista della comprensione. Quando si tratta di una collezione finita, questa distinzione non può interessare che i teorici della logica formale; ma essa ci appare molto più profonda nel caso delle collezioni infinite. Se ci si pone dal punto di vista dell’estensione una collezione si costituisce per aggiunta successiva di nuovi membri; possiamo, combinando i vecchi oggetti, costruire oggetti nuovi, con questi ultimi oggetti ancora più nuovi, e se la collezione è infinita è perché non c’è ragione di fermarsi.
Dal punto di vista della comprensione, al contrario, partiamo dalla collezione in cui si trovano oggetti preesistenti, che ci appaiono in un primo momento come indistinti, ma finiamo per riconoscere qualcuno di essi perché attacchiamo loro delle etichette e li sistemiamo in cassetti; ma gli oggetti sono anteriori alle etichette, e la collezione esisterebbe anche se non esistesse nessun catalogatore che la classificasse.
Per i Cantoriani la nozione di numero cardinale non comporta alcun mistero. Due collezioni hanno lo stesso numero cardinale quando le si può sistemare negli stessi cassetti; niente di più facile dal momento che le due collezioni preesistono, e che possiamo allo stesso modo considerare come preesistente una collezione di cassetti indipendente dai catalogatori incaricati di sistemarvi gli oggetti. Per i Pragmatisti le cose non vanno in questo modo; la collezione non è preesistente, ma s’arricchisce ogni giorno: si aggiungono continuamente nuovi oggetti, che non avremmo potuto definire senza appoggiarci alla nozione degli oggetti già classificati in precedenza ed alla maniera in cui sono stati classificati. Ad ogni nuova acquisizione il catalogatore può essere costretto a rivoluzionare i cassetti per trovare il modo di incasellarla: non sapremo mai se due collezioni possano sistemarsi negli stessi cassetti, dal momento che possiamo sempre temere che sia necessario rimetterli in ordine. Per esempio, i Pragmatisti non ammettono che oggetti che possano essere definiti in un numero finito di parole; le definizioni possibili, essendo esprimibili per mezzo di frasi, possono sempre essere numerate con numeri ordinari da uno fino all’infinito. In questo rispetto non ci sarebbe che un solo numero cardinale infinito possibile, il numero Aleph-con-zero; perché diciamo allora che la potenza del continuo non è quella dei numeri interi? Sì, dati tutti i punti dello spazio che sappiamo definire con un numero finito di parole, sappiamo immaginare una legge, esprimibile essa stessa con un numero finito di parole, che li faccia corrispondere alla successione dei numeri interi; ma consideriamo ora delle frasi in cui figuri la nozione di questa legge di corrispondenza; fino ad un attimo fa esse non avevano alcun senso, in quanto questa legge non era stata ancora inventata, e non potevano servire a definire punti dello spazio; ora hanno acquistato un senso, e ci permetteranno di definire nuovi punti dello spazio; ma questi nuovi punti non troveranno più posto nella classificazione adottata, il che ci costringerà a rivoluzionarla. Ed è questo quello che vogliamo dire quando diciamo, seguendo i Pragmatisti, che la potenza del continuo non è quella dei numeri interi. Vogliamo dire che è impossibile stabilire tra questi due insiemi una legge di corrispondenza che sia al riparo da questo genere di rivoluzione; mentre lo si può fare per esempio quando si tratta di una retta o di un piano. Quindi i Pragmatisti non sono certi che un insieme qualunque abbia, parlando in termini propri, un numero cardinale; oppure che dati due insiemi si possa sempre sapere se hanno la stessa potenza, o se uno ha una potenza più grande dell’altro. Arrivano così a dubitare dell’esistenza di Aleph-con-uno.
Un’altra fonte di divergenza viene dal modo di concepire la definizione. Ci sono più generi di definizione; le definizione diretta che può farsi sia per genus proximum et differentiam specificam sia per costruzione. Osserviamo di sfuggita che si danno definizioni incomplete, nel senso che definiscono non un individuo, ma un intero genere; esse sono legittime e sono anche quelle di cui si fa uso con maggiore frequenza; ma secondo i Pragmatisti occorre sottintendere l’insieme degli individui che soddisfano alla definizione e che potremmo definire completamente in un numero finito di parole; per i Cantoriani questa restrizione è artificiale e priva di significato.
Se non ci fossero che definizioni dirette l’impotenza della logica pura non potrebbe essere contestata; potremmo allora rimpiazzare ciascun termine di una qualunque proposizione con la sua definizione; portata a termine questa sostituzione la proposizione o non si ridurrebbe ad un’identità e non sarebbe quindi suscettibile di una dimostrazione puramente logica; oppure si ridurrebbe ad un’identità ed allora non sarebbe che una tautologia più o meno abilmente camuffata.
Ma abbiamo ancora un altro genere di definizioni, le definizioni per mezzo di postulati; in generale sapremo che l’oggetto da definire appartiene ad un genere, ma quando si tratterà di enunciare le differenze specifiche queste non verranno enunciate direttamente, ma con l’aiuto di un “postulato” cui l’oggetto definito dovrà soddisfare. È così che i matematici possono definire una quantità x per mezzo di un’equazione esplicita y = f(x) oppure per mezzo di un’equazione implicita F(x, y) = 0.
La definizione per mezzo di un postulato non ha valore se non quando si sia dimostrata l’esistenza dell’oggetto definito; in linguaggio matematico ciò vuoI dire che il postulato non implica contraddizione; non si ha il diritto di trascurare questa condizione; occorre o ammettere l’assenza di contraddizione come una verità intuitiva, come un assioma, per una sorta di atto di fede; ma allora occorre rendersi conto di quello che si fa e sapere che abbiamo allungato l’elenco degli assiomi indimostrabili; oppure occorre costruire una dimostrazione in piena regola, sia per mezzo dell’esempio, sia con l’impiego del ragionamento per ricorrenza. Non è che questa dimostrazione sia meno necessaria quando si tratta di una definizione diretta, ma è in generale più facile.
Certi Pragmatisti saranno più esigenti: per considerare legittima una definizione non basterà loro che non conduca a contraddizioni nei termini, pretenderanno anche che abbia un senso, secondo il loro punto di vista particolare che ho cercato di definire prima.
Sia come sia, la logica resterà sterile, dopo l’introduzione delle definizioni per mezzo di postulati? Non possiamo più, data una proposizione, rimpiazzare in essa un termine con la sua definizione; tutto quello che possiamo fare è eliminare questo termine tra la proposizione ed il postulato che gli serve di definizione. Se questa operazione, fatta secondo quelle che potremmo chiamare le regole dell’eliminazione logica, non ci conduce ad un’identità, la proposizione non è dimostrabile per mezzo della logica pura; se conduce ad un’identità, la proposizione non è che una tautologia. Non dovremo cambiare niente nelle nostre conclusioni di poco fa.
Ma esiste un terzo genere di definizioni, il che dà origine ad un nuovo malinteso tra Pragmatisti e Cantoriani. Sono ancora definizioni per mezzo di un postulato, ma il postulato è qui una relazione tra l’oggetto da definire e tutti gli individui di un genere cui lo stesso oggetto da definire è supposto fare parte (oppure di cui sono supposti fare parte enti che non possono essi stessi essere definiti che per mezzo dell’ oggetto da definire).

È quello che accade se poniamo i due postulati seguenti:

X (oggetto da definire) ha una certa relazione con tutti gli individui del genere G;
X fa parte del genere G;

oppure i tre postulati seguenti:

X ha una certa relazione con tutti gli individui del genere G;
Y ha una certa relazione con X;
Y fa parte di G.

Per i Pragmatisti, una definizione siffatta implica un circolo vizioso. Non si può definire X senza conoscere tutti gli individui del genere G, e di conseguenza senza conoscere X che è uno di questi individui. I Cantoriani non ammettono tutto ciò: il genere G ci è dato, di conseguenza ne conosciamo tutti gli individui, la definizione ha come scopo solo quello di discriminare tra questi individui quello che ha con tutti i suoi compagni la relazione enunciata. No, rispondono i loro avversari, la conoscenza del genere non vi fa conoscere tutti i suoi individui, vi dà solo la possibilità di costruirli tutti, o piuttosto di costruirne quanti ne vorrete. Non esisteranno che dopo che siano stati costruiti, cioè dopo che siano stati definiti; X non esiste che per mezzo della sua definizione, che non ha senso se non conosciamo in anticipo tutti gli individui di G ed in particolare X. Non servirebbe a niente dire, essi aggiungono, che definire X per mezzo della sua relazione con X non è un circolo vizioso, che questa relazione è in fin dei conti un postulato che può servire a definire X; perché occorrerebbe stabilire preliminarmente che questo postulato non implica contraddizione, ma non è questo che viene fatto di solito in questo genere di definizioni. Si dimostra in primo luogo che, quale che sia il genere G, di cui tutti gli individui sono supposti conosciuti, esiste un ente X che ha con questo genere la relazione in questione; cioè che l’esistenza di questo ente non implica contraddizione; resterebbe da far vedere che non c’è contraddizione tra l’esistenza di questo ente e l’ipotesi che questo stesso ente faccia parte del genere.
Il dibattito potrebbe andare per le lunghe; ma il punto che vorrei mettere in evidenza è che, se ammettessimo questo genere di definizioni, la logica non sarebbe più sterile, e prova ne è che è stata messa in piedi una pletora di ragionamenti destinati a dimostrare proposizioni che non erano assolutamente tautologie, dato che ci sono persone che si chiedono se non siano false. Non possiamo allora che ammirare il potere che può avere una parola. Ecco un oggetto da cui non si sarebbe potuto ricavare nulla, quando non era ancora stato battezzato; è stato sufficiente dargli un nome perché facesse meraviglie. Come è stato possibile tutto ciò? Il fatto è che dandogli un nome abbiamo affermato implicitamente che l’oggetto esisteva (era cioè scevro da ogni contraddizione) e che era completamente determinato. Ora, secondo i Pragmatisti di ciò non sappiamo niente. Qual è dunque il meccanismo che rende feconda la dimostrazione? Ma è proprio semplice, si nega la proposizione da dimostrare e si mostra che ci si trova in contraddizione con l’esistenza dell’oggetto X; e ciò è legittimo solo a condizione di essere certi di questa esistenza, e, d’altra parte, se sappiamo che l’oggetto è interamente determinato. Ed in effetti se X è dedotto dal genere G per mezzo della definizione, e se in seguito completiamo il genere G aggiungendogli l’oggetto X e gli altri individui dello stesso genere che possono derivarne; e chiamiamo G’ il genere così completato e X’ ciò che verrebbe dedotto da G’ per mezzo della definizione allo stesso modo in cui X è stato dedotto da G, occorre essere sicuri che X’ sia identico ad X. Se non fosse questo il caso e se, negando la proposizione da dimostrare, si fosse condotti a due enunciati contraddittori

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come potremmo sapere che è proprio lo stesso X che figura nell’uno e nell’altro? Se X figurasse nell’uno ed X’ nell’altro le due proposizioni si scriverebbero

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ed in generale non sarebbero più contraddittorie.

Perché dunque i Pragmatisti sollevano quest’obiezione? Perché il genere G non appare loro che come una collezione suscettibile di accrescimento indefinito, man mano che saranno costruiti nuovi individui che possiedono i caratteri giusti; è così che G non può mai essere posto ne varietur, come fanno i Cantoriani, e che non si è sicuri che, per mezzo di nuove annessioni, non diventerà G’.
Mi sono sforzato di spiegare quanto più chiaramente ed imparzialmente possibile in cosa consistano le divergenze tra le due scuole di matematici; e mi sembra che se ne possa già scorgere la causa effettiva; gli studiosi delle due scuole hanno delle attitudini mentali opposte; quelli che ho chiamato Pragmatisti sono idealisti, i Cantoriani sono realisti.
C’è una cosa che ci confermerà in questo modo di vedere. Vediamo che i Cantoriani (che mi si passi questo vocabolo comodo, sebbene non voglia parlare qui dei matematici che seguono la via aperta da Cantor, e forse neanche dei filosofi che a lui si rifanno, ma di quelli che hanno le stesse attitudini in una maniera indipendente), che i Cantoriani, dicevo, parlano costantemente di epistemologia, cioè della scienza delle scienze; ed è ben inteso che tale epistemologia è del tutto indipendente dalla psicologia; essa ci deve cioè insegnare che cosa sarebbero le scienze se non ci fossero scienziati; che dobbiamo studiare le scienze, probabilmente non supponendo che non ci siano scienziati, ma per lo meno senza supporre che ce ne siano. Così, non solo la natura è una realtà indipendente dal fisico che potrebbe essere tentato di studiarla, ma la fisica stessa è inoltre una realtà che sussisterebbe se non ci fossero fisici. Si tratta proprio di realismo.
E perché i Pragmatisti si rifiutano di ammettere oggetti che non potrebbero essere definiti in un numero finito di parole? Perché essi considerano che un oggetto esiste solo quando viene pensato, e che non sapremmo concepire un oggetto pensato indipendentemente da un soggetto pensante. Si tratta proprio di idealismo. E dato che un soggetto pensante è un uomo o qualcosa che assomiglia ad un uomo, e di conseguenza un essere finito, l’infinito non può avere altro senso che la possibilità di creare tanti oggetti finiti quanti vogliamo.
Possiamo allora fare un’osservazione piuttosto curiosa. I realisti si collocano di solito da un punto di vista fisico; sono gli oggetti matematici, o le anime individuali, o ciò che essi chiamano le sostanze, ciò di cui affermano l’esistenza indipendente. Il mondo esisteva per loro prima della creazione dell’uomo, prima ancora di quella degli esseri viventi; ed esisterebbe anche se non ci fosse alcun Dio né alcun soggetto pensante. Questo è il punto di vista del senso comune, ed è solo con la riflessione che si potrà essere indotti ad abbandonarlo. I partigiani del realismo fisico sono in generale finitisti; riguardo al problema delle antinomie kantiane stanno dalla parte della tesi; credono che il mondo sia limitato. Questa è ad esempio la posizione di Evellin. Al contrario gli idealisti non hanno le stesse remore e sono pronti a sottoscrivere le antitesi.
Ma i Cantoriani sono realisti anche per quanto riguarda le entità matematiche; queste entità sembrano loro avere un’esistenza indipendente; il geometra non le crea, le scopre. Questi oggetti esistono quindi, per così dire, senza esistere, dato che si riducono a pure essenze; ma dato che, per natura, questi oggetti sono in numero infinito, i partigiani del realismo matematico sono molto più infinitisti degli idealisti; il loro infinito non è più un divenire, poiché preesiste alla mente che lo scopre; che lo ammettano o che lo neghino, sono dunque costretti a credere nell’infinito attuale.
Riconosciamo la teoria delle idee di Platone; e può sembrare strano vedere Platone classificato tra i realisti; niente è però più antitetico all’idealismo contemporaneo del platonismo, sebbene questa dottrina sia parimenti molto lontana dal realismo fisico. Non ho mai conosciuto un matematico più realista, in senso platonico, di Hermite, e tuttavia devo confessare di non avere mai incontrato nessuno più refrattario al Cantorismo. Si tratta di una contraddizione apparente, tanto più che egli ripeteva volentieri: Sono anticantoriano perché sono realista. Egli rimproverava a Cantor di creare oggetti invece di accontentarsi di scoprirli. Probabilmente a causa delle sue convinzioni religiose considerava come una sorta di empietà voler penetrare direttamente in un dominio che Dio solo poteva abbracciare, senza aspettare che Egli ci rivelasse i misteri uno ad uno. Paragonava le scienze matematiche alle scienze naturali. Un naturalista che avesse tentato di indovinare il segreto di Dio invece di consultare l’esperienza gli sarebbe parso non solo presuntuoso ma anche senza rispetto per la maestà divina; i Cantoriani gli parevano voler agire nella stessa maniera in matematica. Ed è per questo che, realista in teoria, era idealista in pratica. C’è una realtà da conoscere ed essa è esterna a noi ed indipendente da noi; ma tutto quello che ne possiamo conoscere dipende da noi, e non è altro che un divenire, una sorta di stratificazione di conquiste successive. Il resto è reale ma eternamente inconoscibile.
Il caso di Hermite è del resto isolato e non mi dilungherò ancora su di esso. In ogni epoca ci sono state in filosofia tendenze opposte, e non pare che queste tendenze siano sul punto di conciliarsi. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che esistono animi differenti e che non si può cambiare niente in questi animi. Non c’è quindi alcuna speranza di vedersi stabilire l’accordo tra Pragmatisti e Cantoriani. Gli uomini non si capiscono perché non parlano la stessa lingua e perché ci sono lingue che non si imparano.
E tuttavia in matematica sono soliti capirsi; ma è proprio grazie a quello che ho chiamato le verifiche; esse costituiscono l’ultimo grado di giudizio, e davanti ad esse tutti si inchinano. Ma laddove queste verifiche vengano meno i matematici non si trovano in posizione migliore dei semplici filosofi. Quando si tratta di sapere se un teorema possa avere un senso senza essere verificabile, chi potrà giudicare, dato che per definizione ci si impedisce di verificare? Non ci sarebbe altra risorsa che ridurre il proprio avversario ad una contraddizione. Ma l’esperimento è stato fatto e non ha dato risultati.
Sono state segnalate molte antinomie, ed il disaccordo è perdurato, nessuno ne è uscito convinto; da una contraddizione ci si può sempre togliere d’impaccio con un espediente, voglio dire con un distinguo.

Jules-Henri Poincaré

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 245-253; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.Titolo originale: Les mathématiques et la logique, capitolo V di Dernières Pensées. Parigi, Flammarion 1913. Traduzione di FABIO ACERBI.

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Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

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Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Bert

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ho compiuto i miei studi universitari di filosofia, il panorama filosofico italiano era dominato da correnti che, con poche eccezioni, avevano in comune il rifiuto della metafisica: sviluppi del neoidealismo (U. Spirito, G. Calogero), storicismo (C. Antoni, E. Garin), esistenzialismo (N. Abbagnano, L. Pareyson), marxismo (A. Banfi, C. Luporini, N. Badaloni), neopositivismo (L. Geymonat, A. Pasquinelli, N. Bobbio), spiritualismo cristiano (A. Guzzo, L. Stefanini, M.F. Sciacca). Favorevoli a una forma di metafisica, detta «metafisica classica», erano le scuole filosofiche dell’Università Cattolica di Milano (A. Olgiati, G. Bontadini, S. Vanni Rovighi) e dell’Università di Padova (U. Padovani, M. Gentile).

L’esistenzialismo francese esercitava la sua influenza attraverso Sartre e Marcel e quello tedesco attraverso Heidegger e Jaspers; accanto ad esso anche il personalismo di Mounier e di Maritain influì sulla filosofia italiana degli anni Cinquanta, ma soltanto nell’area cattolica. Il neopositivismo era conosciuto attraverso le opere del primo Wittgenstein (il Tractatus), di Carnap e in generale del Circolo di Vienna; la filosofia analitica inglese cominciava a farsi conoscere attraverso Austin e Ryle (quest’ultimo tuttavia interpretato come un comportamentista attraverso la traduzione di Rossi-Landi). Negli anni Sessanta cominciò l’influenza dello strutturalismo (Lévy-Strauss, Foucault), del pensiero di K.R. Popper, dell’ermeneutica filosofica tedesca (Gadamer) e francese (Ricoeur), della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse).

Ciò che mi ha spinto a fare filosofia è stato soprattutto il desiderio di verificare se i problemi umani, quelli di carattere teoretico, cioè conoscitivo, potessero essere risolti tutti dalle varie scienze, oppure richiedessero soluzioni di carattere trascendente, tali quindi da aprire lo spazio ad un’eventuale fede religiosa. Una conoscenza, anche soltanto superficiale, della metafisica antica (Aristotele) e medievale (Tommaso d’Aquino) mi convinse della necessità di una soluzione trascendente e quindi mi consentì un’adesione alla fede cristiana.

Ma non scelsi la metafisica per fare spazio alla fede, bensì, al contrario, mi aprii alla fede in conseguenza di un’adesione alla metafisica, percorso – credo – abbastanza raro e in genere rifiutato sia dai credenti che dai non credenti.

Dato questo orientamento, mi trovai a mio agio nell’Università di Padova, soprattutto nella corrente della «metafisica classica», che faceva capo a Umberto Padovani per la componente tomistica e a Marino Gentile per la componente aristotelica. Volevo fare una tesi di laurea sui rapporti tra la metafisica e la filosofia contemporanea, per “confutare” la pregiudiziale antimetafisica di quest’ultima, ma Marino Gentile, al quale avevo chiesto di farmi da relatore, mi spinse a studiare Aristotele, per cui feci la tesi sulla genesi della dottrina della potenza e dell’atto. In quel momento lo studio di Aristotele, in Italia, era ritenuto una scelta del tutto priva di interesse filosofico, perché lo storicismo imperante induceva a considerare Aristotele un filosofo del tutto superato dalla scienza e dalla filosofia moderna. In realtà si ignorava che il più grande filosofo tedesco del momento, cioè Heidegger, si era formato soprattutto attraverso lo studio di Aristotele, e che la migliore filosofia inglese, quella di Austin e di Ryle, non era che un’applicazione dei metodi di Aristotele all’analisi del linguaggio. Pertanto i rapporti della mia “scuola” di appartenenza con il resto dell’ambito filosofico italiano erano di totale opposizione, un’opposizione condotta da una posizione assolutamente minoritaria. Invece i miei studi su Aristotele, che si espressero per la prima volta nel libro su La filosofia del primo Aristotele (Padova 1962), oltre a farmi ottenere la cattedra universitaria, mi aprirono la strada a numerosi contatti internazionali e mi fecero entrare nel giro prestigioso dei Symposia Aristotelica, a cui sono stato invitato dal 1966 per più di 40 anni (fino al 2011).

Il primo nodo centrale che si è maturato nella mia posizione filosofica è stato il concetto di esperienza come problematicità pura, appreso dal mio maestro Marino Gentile e ricostruito nella sua genesi storica nella metafisica di Aristotele. Esso consiste nel mettere in questione tutto ciò di cui abbiamo esperienza, oggetto, soggetto, natura, storia, individuo, società, realizzando quello che M. Gentile definiva «un domandare tutto che è tutto domandare» e che corrisponde perfettamente alla «meraviglia» da cui, secondo Platone e Aristotele, ha origine la filosofia. Si tratta di quello che potremmo chiamare il terzo grado di meraviglia, cioè la meraviglia che investe non i problemi della vita quotidiana, né i fenomeni di cui si occupano le scienze, ma il perché del tutto, la ragione ultima della totalità del reale.

Di questo atteggiamento ho trovato la prima formulazione rigorosa in Aristotele, nella sua concezione della metafisica come ricerca delle cause prime, alcune delle quali trascendono il mondo dell’esperienza. A parte i condizionamenti storici della metafisica di Aristotele, cioè la

sua dipendenza dalle conoscenze scientifico-cosmologiche della sua epoca, la sua classicità consiste da un lato nell’essere stata costruita con risorse unicamente umane, senza presupporre, come le posteriori filosofie medievali, alcuna fede religiosa; dall’altro nella sua apertura al monoteismo, come hanno compreso i filosofi musulmani (Avicenna, Averroè), ebrei (Maimonide) e cristiani (Alberto e Tommaso).

Un secondo nodo per me centrale è stato la scoperta, in Aristotele, del metodo dialettico inteso nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, come struttura del discorso filosofico. Praticato nell’antichità da Platone e da Aristotele, questo metodo è stato ripreso nella filosofia del Novecento dall’ermeneutica di Gadamer, dal fallibilismo di Popper, dall’etica del discorso di Apel e Habermas, dalla teoria dell’argomentazione di Perelman, ma anche di Ryle, insomma dai più critici ed aperti tra i filosofi contemporanei.

Un terzo nodo, legato al secondo, è stato per me la critica della dialettica intesa nel senso moderno del termine, cioè hegeliano-marxiano, in particolare la critica della realtà della contraddizione, condotta alla luce del principio aristotelico di non-contraddizione.

Questa critica è stata occasionata per me dal dibattito inaugurato con l’intervista filosoficopolitica di Lucio Colletti (1975), al quale ho partecipato intensamente, attraverso confronti con lo stesso Colletti, con Emanuele Severino, con Ludovico Geymonat, con Franco Chiereghin, e all’estero, più recentemente, con i fautori del “dialeteismo” (Graham Priest).

Un quarto nodo, il più recente e probabilmente l’ultimo, è l’elaborazione di una metafisica povera, umile, “debole” dal punto di vista dell’informazione, anche se “forte” dal punto di vista dell’argomentazione. Esso consiste nella riduzione della «metafisica classica» a semplice riconoscimento della problematicità dell’esperienza e della conseguente necessità di un principio trascendente, senza aggiungere a questo alcuna ulteriore indicazione, conseguibile razionalmente, circa la natura di tale principio, i suoi rapporti con il mondo, con l’uomo, con la storia, temi considerati tutti come materia di fede.

Naturalmente ho anche delle idee di carattere politico, o di filosofia politica, che riguardano l’attualità del concetto classico di polis come società politica autosufficiente, il conseguente superamento dello Stato sovrano moderno, la necessità di una società politica di dimensioni mondiali, e idee simili, per le quali tuttavia non posso pretendere alcuna originalità.

Se dovessi indicare gli aspetti della mia filosofia che considero più originali, distinguerei la mia posizione filosofica generale dai miei studi su Aristotele, che pure considero parte della mia filosofia. Per quanto riguarda la prima, non ho mai preteso di essere originale, perché mi interessa di più essere nel vero, cioè sapere come stanno realmente le cose, che essere originale. Per questo ho aderito alla «metafisica classica», in particolare alla formulazione che di essa ha dato Marino Gentile. Rispetto a questa tuttavia, credo di avere contribuito all’approfondimento, o alla precisazione, di qualche aspetto di essa. Per esempio, in collaborazione con alcuni amici che erano al pari di me allievi di Marino Gentile (Romano Bacchin e Franco Chiereghin), abbiamo precisato che la problematicità pura non è un’introduzione alla metafisica, come forse riteneva Marino Gentile, ma ne costituisce l’intero corpo. Abbiamo precisato inoltre che, dal punto di vista logico, il discorso metafisico è un discorso di tipo dialettico, nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, il che in Marino Gentile non era dapprima chiaro, ma lo divenne in seguito, e lui stesso riconobbe il nostro contributo al riguardo. Personalmente poi ritengo di avere ulteriormente essenzializzato il discorso metafisico di Marino Gentile, riducendolo a quella che ho chiamato metafisica povera, o umile, o debole dal punto di vista dell’informazione.

Per quanto riguarda invece lo studio di Aristotele, credo di avere contribuito a presentare il suo pensiero in modo più autentico, cioè più fedele ai testi, sfrondandolo dalle numerose incrostazioni accumulatesi nei secoli e dovute alle diverse forme di scolastica. In tal modo esso è risultato anche più attuale, cosa di cui più volte mi è stato dato atto. Più particolarmente ancora, credo di avere mostrato che la metafisica di Aristotele non è né una teologia, come si credeva nella tarda Antichità e nel Medioevo, né un’ontologia, come si è creduto nella filosofia moderna, ma è invece una ricerca delle cause prime, proseguita in gran parte dalla scienza moderna (nella ricerca della causa prima materiale e della causa prima formale) e in parte dalla filosofia contemporanea (l’etica della felicità nella ricerca della causa prima finale, la «metafisica classica» nella ricerca della causa prima efficiente).

Infine ritengo di avere proposto alcune interpretazioni originali della causalità del motore immobile, mostrando che essa è di tipo efficiente (pur non essendo creazione), e della vexata quaestio dell’intelletto attivo, mostrando che questo non è una mente, ma un complesso di conoscenze già acquisite dal genere umano (i princìpi delle scienze).

Ho accennato all’inizio all’inattualità dello studio di Aristotele e della metafisica in generale negli anni Cinquanta del secolo scorso, almeno in Italia. Ebbene, nel corso degli anni Sessanta si è verificata nel mondo occidentale la perdita di fiducia nelle scienze umane, specialmente nella sociologia, come capaci di risolvere tutti i problemi. Questa perdita di fiducia, o crisi delle scienze umane, ha portato alla nascita della «teoria critica della società», cioè della sociologia filosofica della Scuola di Francoforte, che è sfociata nella contestazione studentesca, la quale ha scosso l’intero mondo occidentale con le rivolte di Berkeley (1964-65), di Berlino (1967), di Parigi (1968), e in Italia di Torino, di Roma, e di quasi tutte le università. Essa ha determinato la cosiddetta «rinascita della filosofia pratica», cioè di una modalità razionale, non ideologica o religiosa, né soltanto scientifica, ma filosofica, di affrontare i problemi etici e politici, la quale è consistita essenzialmente nella riscoperta della filosofia pratica di Aristotele, ad opera di Gadamer, Ritter, Apel, Habermas, in Germania, Arendt, MacIntyre, Nussbaum in America, Aubenque e la sua scuola in Francia, Franco Volpi in Italia. Aristotele è risultato così improvvisamente attuale, molto più di quanto lo fosse negli anni Cinquanta, e si è determinata una rinascita dell’interesse per la filosofia aristotelica negli ultimi decenni del secolo scorso, alla quale credo di avere contribuito anch’io con i miei studi.

Contemporaneamente si sono avuti in Occidente eventi storici di tipo diverso, quali la progressiva presa di coscienza dei diritti umani, il Concilio Vaticano II, il pontificato di alcuni importanti papi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II), la scoperta e i progressi dell’informatica, che hanno contribuito con altri fattori al crollo dell’Impero sovietico e quindi alla sconfitta del comunismo “realizzato”. Tutto questo ha determinato anche la crisi del marxismo come filosofia, in particolare del materialismo dialettico, che aveva dominato la filosofia europea negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (anche nella prima Scuola di Francoforte), per cui i miei studi sulla contraddizione e la dialettica moderna sono risultati del tutto attuali e hanno determinato la fortuna del mio libro Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (Palermo 1987), che è stato pubblicamente lodato, ad esempio, da un ex materialista dialettico come Ludovico Geymonat.

Infine la scoperta e la diffusione nell’Europa continentale e in Italia della filosofia analitica anglo-americana, la quale aveva superato la fase neopositivistica ed aveva quindi abbandonato la sua pregiudiziale antimetafisica, ha portato anche in Europa ad una rinascita di interesse per la metafisica. Questo ha fatto apparire più attuale, o meno inattuale, anche la metafisica di ispirazione aristotelica, e quindi la mia posizione filosofica si è trovata ad essere meno isolata che in passato, anzi spesso in linea con i dibattiti più recenti (sull’identità personale, sull’individuazione, sulla sostanza, sulla forma). Mi riferisco a posizioni come quelle di Strawson e Wiggins in Inghilterra, Chisolm e van Inwagen negli USA, Ricoeur in Francia, con le quali mi è accaduto di confrontarmi e di incontrarmi in anni recenti. Tutto questo ha determinato una certa attualità della mia posizione filosofica.

Se dovessi dire cos’è mutato oggi nel rapporto tra filosofia e vita, farei riferimento soprattutto alla situazione italiana, che conosco meglio, anche se, girando il mondo, partecipando a congressi mondiali (quelli organizzati dalla FISP, Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, di cui sono stato vice-presidente) e presiedendo istituzioni internazionali (l’Institut International de Philosophie), ho riportato l’impressione che altrove la situazione non sia molto diversa. In Italia la filosofia era già uscita dall’ambiente accademico, cioè universitario, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma per impegnarsi sul piano politico; esempio emblematico: Toni Negri. Negli anni più recenti la filosofia accademica è entrata nei mass media (giornali quotidiani, settimanali, televisione), si è diffusa in innumerevoli festival filosofici, facendosi sentire nei teatri e nelle piazze, ma ha perduto l’aggressività polemica, e anche l’influenza politica, che aveva negli anni Settanta, per diventare una forma di intrattenimento, o di passatempo intelligente. Molti filosofi sono stati coinvolti in dibattiti, soprattutto di bioetica, entrando a far parte di comitati di consulenza locali e nazionali. Pochi invece sono stati coinvolti nell’attività dei partiti politici, anche per la crisi che ha colpito questi ultimi. La mia impressione è che nei rapporti reciproci tra i filosofi ci sia meno ideologia e più tolleranza che in passato, o almeno io mi sento rispettato, nelle mie idee e nei miei studi, più di quanto lo fossi all’inizio della mia attività (indubbiamente anche a causa della mia età ormai avanzata).

Un tema di importanza perenne, e quindi anche futura, per la filosofia è il suo rapporto con le scienze. Mano a mano che queste si sviluppano, dalla fisica alla biologia, dall’economia alla psicologia, esse pongono continuamente nuovi problemi, che la filosofia non può ignorare e con cui deve confrontarsi, pur nel rispetto delle competenze. Ci sono poi i problemi dovuti alla globalizzazione, cioè le crisi economiche, le migrazioni di popoli, i conflitti etnici e religiosi, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie: tutti temi importanti per la filosofia, specialmente per la filosofia pratica e la filosofia politica.

Naturalmente i filosofi di professione, che in genere sono professori, di scuola media superiore o di università, difficilmente possono influire sulla soluzione di tali problemi. Essi possono tuttavia fornire informazioni e indicazioni a chi non è filosofo di professione, cioè ai politici, agli amministratori, agli economisti, agli scienziati. L’ideale sarebbe che tutte le persone di cultura, qualunque sia la loro professione (medici, giuristi, informatici, giornalisti, artisti, gente di spettacolo, ecc.), avessero un minimo di formazione filosofica, per poter riflettere da un punto di vista generale sui problemi particolari, per confrontare opinioni diverse, per argomentare in modo corretto.

Secondo Hegel la funzione del filosofo era di capire il proprio tempo, cosa possibile – a suo avviso – solo al termine di un’epoca, quando ormai gli eventi storici erano compiuti e si apriva lo spazio alla riflessione, o meglio alla comprensione razionale, senza più nessuna possibilità di intervenire. Secondo Marx, invece, la funzione del filosofo era di trasformare il mondo, cioè di renderlo più razionale, più umano, più giusto, anche a prezzo di violenza, per esempio con la rivoluzione. Oggi mi sembra difficile, per il filosofo, svolgere sia l’una che l’altra funzione, benché egli disponga di informazioni indubbiamente molto più vaste che in passato, e benché i mezzi per influire sul modo di pensare della gente siano molto più efficaci che in passato. Il difficile è capire come stanno realmente le cose, data l’enorme complessità delle situazioni che si determinano a livello mondiale, ed inoltre sapere esattamente che cosa bisogna fare, cioè essere sicuri di poter fare bene.

Una cosa credo che il filosofo di professione debba fare, cioè esercitare con onestà la propria professione. Mi richiamo qui a quanto disse Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione: il filosofo non deve fare il profeta, il predicatore, l’agitatore di folle; soprattutto non deve servirsi della cattedra per imporre agli studenti le sue idee, sottraendosi al confronto aperto con i propri simili. Il filosofo deve argomentare onestamente, cioè correttamente dal punto di vista logico, sottoponendosi all’esame altrui ed esaminando a sua volta le opinioni altrui, cioè deve discutere. La figura di Socrate, paradossalmente, può essere ancora attuale, ma nella discussione pubblica. Nell’attività professionale il filosofo deve ricercare onestamente la verità, fornendo possibilmente contributi di nuove conoscenze, e insegnare qualcosa di preciso, di determinato, di non vago, non fumoso, non generico. A questo proposito mi permetto di rinviare a ciò che ho scritto nel mio ultimo libro, La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium, 2014.

Ai giovani vorrei dire: non vi invito a scegliere la filosofia come professione, perché rischiate di non poter sopravvivere; vi invito ad occuparvi di filosofia facendo altre professioni, nel tempo libero, nelle domeniche, nelle vacanze. Vedrete quanta soddisfazione la filosofia vi può dare, e forse essa vi darà anche qualche indicazione per ciò che dovete fare, o qualche consolazione per ciò che avete già fatto.
A chi sceglie la filosofia come professione, sperando che egli abbia delle motivazioni fortissime, raccomando di non farla in modo generico, ma di farla in modo serio, cioè di non fare troppe chiacchiere, di non occuparsi di tutto, ma di specializzarsi in qualche cosa di preciso, pur tenendosi al corrente di tutto.

Enrico Berti

Enrico Berti – Per una nuova società politica

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Incontri con la filosofia contemporanea

Enrico Berti – Incontri con la filosofia contemporanea

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Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

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Marcello Cini (1923-2012) – C’È ANCORA BISOGNO DELLA FILOSOFIA PER CAPIRE IL MONDO?

Marcello Cini

  1. INTRODUZIONE

È possibile “collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra”? Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, “cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca”. Interpretazione vuol dire “comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata”. Si tratta, in definitiva, di “capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce”.
Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.
Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.
La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di “un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale” cioè della “discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani”. Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).
Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di “rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza” e di “riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti”.
Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.
Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.
Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso” oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.
In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

  1. LA SVOLTA NELLA SClENZA DAL XX AL XXI SECOLO

Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Dopo essere riuscito, nel ‘700 e ‘800, a formulare le grandi leggi universali che ne regolano le proprietà a livello macroscopico e aver individuato le diverse forme di energia di cui può essere dotata, nel ‘900 ha appreso, attraverso la conoscenza sempre più approfondita dei suoi costituenti elementari, a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, finalizzato ad incrementare al di là di ogni immaginazione, mediante protesi sempre più potenti e penetranti, la portata e l’intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno. Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. La prima barriera, che separa la materia inanimata e quella vivente, sta crollando vistosamente, dopo che, da un lato, sono state decodificate le modalità di autorganizzazione della vita e sono stati identificati i geni come sue unità elementari, e, dall’altro, è stato ricostruito il processo evolutivo che ha dato origine alla immensa varietà e complessità delle sue diverse manifestazioni. La seconda, quella tra corpo biologico e mente (e, in particolare, tra cervello e coscienza) sta cedendo sotto i colpi dei progressi delle neuroscienze nell’individuazione della gerarchia delle diverse strutture cerebrali e delle loro funzioni, dai singoli neuroni fino alla rete delle loro reciproche connessioni.
Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con conseguenze imprevedibili.
È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza. Essa infatti comporta l’abbattimento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane: uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione), e l’altro separava le attività che si occupano difatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Entrambe queste separazioni nette tendono a scomparire. Per quanto riguarda la prima è evidente che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l’innovazione tecnologica, stimolata dall’interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile. Per convincersene basta osservare quanto sia ambiguo e intimo il rapporto fra la biologia molecolare, disciplina fondamentale quant’altre mai, e l’ingegneria genetica, tecnologia di punta per eccellenza, per convincersi che è impossibile decidere se una delle due venga prima dell’altra. Lo stesso si può dire per le discipline coinvolte in tutti i problemi ambientali, o in quelle che intervengono nei fenomeni cerebrali e mentali.
Anche per quanto riguarda la separazione fra fatti e valori la svolta ha un effetto dirompente. È ormai esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza cominciano a entrare nelle arene del discorso e dell’azione non scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili da parte di un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso illecito coincide con l’utile, nel secondo illecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Le “verità” della scienza e gli “strumenti” della tecnologia acquistano proprietà che dipendono dal contesto. Nasce il problema del rapporto fra conoscenza e valori, cioè del nesso fra la ricerca della “verità” e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. Sia gli scienziati che i decisori, nella sfera pubblica (politici e amministratori) come in quella privata (industriali e managers), si affannano infatti, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a mantenere intatta l’immagine tradizionale della scienza, come ricerca disinteressata e oggettiva (avalutativa) della verità capace di rappresentare la realtà così com’è, in modo sempre più fedele e dettagliato. I primi perché sono interessati a sottolineare la continuità del “metodo scientifico” che garantirebbe una volta per tutte uno statuto epistemologico privilegiato a questa forma di conoscenza, conferendo nel contempo alla categoria un elevato prestigio sociale e non disprezzabili porte di accesso alla sfera del potere. I secondi perché sono ancor più interessati a marcare la continuità delle leggi dell’economia e del mercato come regolatrici ultime dell’introduzione di innovazione scientifica e tecnologica di qualsiasi natura nel processo produttivo. “Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca –afferma a questo proposito un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti”. Portare alla luce la vera portata di questa svolta diventa dunque un primo compito essenziale della riflessione filosofica. La pionieristica opera di Gregory Bateson, questo grande “filosofo naturale”, emarginato dalla comunità scientifica quando era in vita e quasi completamente dimenticato dopo la sua morte, può essere, da questo punto di vista, assolutamente fondamentale. Altri nomi che a questo punto è d’obbligo fare sono quelli di Hans Jonas e di Paul Ricoeur. Come vedremo più avanti, non si parte da zero. Occorre però compiere un riordinamento gestaltico nell’immagine della scienza che incontra ancora molte resistenze. Sarà la forza delle cose a costringerci a farlo.

  1. 3. L’EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DELLA MATERIA INERTE

Il compito di “sintesi” assegnato da Badiale alla filosofia è indubbiamente reso difficile dai due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – che caratterizzano la nostra società capitalistica avanzata. Mi sembra però che ci sia nella stessa definizione di “sintesi” una difficoltà più profonda, che riguarda tutta la scienza, a partire dalla fisica, la disciplina della materia inerte per eccellenza.
Mi sembra infatti che il concetto di “sintesi” inteso come “estensione a un livello molto generale e astratto di un aspetto essenziale della pratica quotidiana della scienza” sia fondato su una immagine inadeguata di questa pratica.
Secondo Badiale, essa comincia “dallo studente che, svolto il calcolo suggerito dal docente, deve capire perché esso rappresenti la soluzione del problema fisico dato”, continua con lo “sperimentatore che si sforza di interpretare i segnali che i suoi strumenti gli mandano”, arriva al “teorico che sintetizza i dati sperimentali e deduzioni matematiche in una nuova immagine del mondo”, per sfociare nella “intera prassi scientifica [che vive] di un continuo sforzo di sintesi e di interpretazione dei propri stessi risultati”.
Forse questa immagine della scienza è un po’ troppo semplice. Se fosse vera, tra l’altro,la filosofia non avrebbe mai avuto un ruolo nel suo processo di sviluppo. È essenziale infatti, per capire questo ruolo, abbandonare la vecchia immagine, criticata da Kuhn già quarant’anni fa, del progresso della scienza come processo lineare, tutto interno, di accumulazione di verità che man mano sostituiscono vecchi errori e colmano precedenti lacune. Se così fosse, in effetti, non ci sarebbe bisogno della filosofia: la “verità” verrebbe fuori da sé.
Bisogna dunque per prima cosa cominciare a distinguere fra gli aspetti concettuali che sono entrati a far parte del patrimonio comune di conoscenze, sui quali il dibattito è ormai chiuso (ma alle volte può riaprirsi: c’è voluto Einstein per rimettere in discussione, dopo due secoli di accettazione unanime, la meccanica newtoniana), e i diversi aspetti concettuali che sono, nel corso del processo di acquisizione di nuove conoscenze, oggetto di discussione e di conflitto fra i sostenitori di proposte epistemologiche e metodologiche alternative. È in questo processo che può intervenire la filosofia. Non ha senso che intervenga post factum. Una volta che gli scienziati si sono messi d’accordo la filosofia può solo fare la mosca cocchiera.
È infatti proprio nel corso di questo dibattito che si forma il consenso attorno a posizioni che via via si consolidano ed entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettato da tutti. A volte questo consenso non si raggiunge e la comunità si divide. Il punto fondamentale è che, anche quando il consenso è stato raggiunto su un tema controverso, il dibattito non finisce, ma si sposta su un fronte più avanzato. È il confronto fra posizioni differenti che genera la nuova conoscenza. Certo, come lo stesso Kuhn ha mostrato, ci sono periodi di svolta in cui il dibattito è particolarmente acceso e contrastato, e periodi di continuità in cui la conoscenza procede per approfondimento e allargamento all’interno di un “paradigma” riconosciuto.
Ma come si raggiunge il consenso? Non è vero che è soltanto la “natura” a decidere chi ha ragione e chi ha torto. Le esperienze “cruciali”, ci avverte Lakatos, diventano tali solo retrospettivamente, dopo che l’accordo è stato raggiunto. La valutazione delle proposte alternative in competizione avviene invece sulla base di molteplici fattori che portano all’accettazione di alcune e al rifiuto di altre. Questi fattori possono comprendere una serie di criteri differenti. Essi vanno, per esempio, da quelli adottati per esprimere un “giudizio di scientificità” sulla proposta in discussione o della sua pertinenza all’ambito disciplinare (cioè della sua compatibilità con i capisaldi della disciplina che non possono, allo stato delle cose, essere messi in discussione), fino ai criteri per giudicare dell’esistenza o meno di un problema aperto da risolvere o da accantonare (in questo caso si tratta di decidere se un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori). Oppure possiamo trovare criteri di carattere formale. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all’eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.
Certo sono anche importanti i criteri adottati per giudicare dell’adeguatezza empirica di una teoria. Ma non sono i soli che contano per decidere. Può accadere infatti che l’accordo o il disaccordo con una determinato esperimento sia considerato più o meno importante a seconda del grado di attendibilità di cui il paradigma dominante gode presso la comunità. In certi casi si accetta una nuova teoria nonostante il suo disaccordo con dati sperimentali che successivamente verranno smentiti; altre volte invece nuovi dati vengono ignorati per mantenere in vita la vecchia teoria in mancanza di una più soddisfacente.
È chiaro a questo punto quale sia il ruolo essenziale della riflessione filosofica nel contribuire a risolvere il conflitto fra sostenitori di punti di vista diversi e a determinarne l’esito. Essa infatti deve aiutare a formulare in forma esplicita e razionale le premesse meta teoriche, implicite o addirittura nascoste nell’inconscio individuale dei singoli scienziati, che stanno alla radice del conflitto. È un ruolo che può avere come protagonisti sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici formali delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Essi possono così individuare legami fra proposte di innovazione avanzate anche in campi disciplinari diversi che tuttavia condividono la stessa “metafisica influente” (Lakatos), o gli stessi “stili di pensiero”, o gli stessi “ideali del sapere” (Amsterdamski), rintracciandone le radici nel retroterra culturale che caratterizza lo Zeitgeist dell’epoca considerata. Ha dunque ragione Badiale nel sottolineare che la riflessione filosofica è efficace quando rivela il nesso che lega una svolta concettuale introdotta in una data disciplina scientifica con i temi importanti e urgenti che permeano la cultura del contesto sociale corrispondente. Ma individuare le ragioni del contendere aiuta a capire come e dove ciò che è stato possibile una volta può ancora accadere oggi.
Gli esempi che Badiale presenta dei grandi protagonisti delle svolte importanti della scienza che sono riusciti a svolgere efficacemente questo compito di “sintesi” filosofica sono da questo punto di vista significativi, ma lasciano in ombra, mi pare, il fatto fondamentale che questa “sintesi” più che essere una conseguenza necessaria del successo del nuovo modo di descrivere la realtà, è stata un fattore importante per raggiungere questo successo nel conflitto con i sostenitori della rappresentazione dei fenomeni considerati accettata fino a quel momento.
Prendiamo il caso di Galileo, la cui “opera di costruzione e difesa della nuova scienza” è giustamente presentata come la “proposta di alcuni principi metodologici … che sono diventati costitutivi dell’immagine moderna della scienza”. Ma forse non basta il riferimento a quei principi metodologici – come quello del rapporto fra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, o l’idea che il libro dell’Universo “è scritto in lingua matematica” – a spiegare la drammaticità del conflitto che oppone Galileo ai suoi oppositori aristotelici e il carattere epocale della svolta che ne è seguita.
Occorre forse riconoscere che alla base di quelle differenze c’era uno scontro su questioni filosofiche fondamentali. È infatti su questo terreno che Galileo conduce la sua battaglia, come dimostrano con evidenza i suoi dialoghi. Se si fa questo, fra l’altro, si evita di assolutizzare il famoso metodo attribuendogli quel carattere di ricetta universale ed eterna per raggiungere la verità che gli viene attribuito nei libri di scuola; una ricetta che oggi, come discuteremo fra poco, si applica male alle scienze della vita e della mente.
Il contrasto dunque non era – o non era soltanto – sul metodo, ma tra due concezioni del mondo antitetiche. Per Aristotele c’era una dicotomia netta fra il mondo sublunare, caratterizzato dall’irreversibilità, la caducità e la mutevolezza di una materia corruttibile e quello delle sfere celesti, dove regnano l’armonia, la regolarità, la perfezione del moto circolare, tutte manifestazioni di una sostanza eterna ed eterea. Per Galileo, al contrario, non c’è barriera fra cielo e terra. La sostanza dei corpi celesti è la stessa di quelli terrestri. E poiché i primi rivelano che l’unico mutamento reale è il movimento, anche sulla Terra deve essere possibile ricondurre ogni mutamento, per quanto sostanziale e irreversibile possa apparire, al moto delle sue infime parti. Al disotto delle apparenze, dunque, il mondo dei fenomeni terrestri è semplice, regolare, ripetibile, così come si mostra in cielo.
Ed è perciò intelligibile – ecco la conseguenza – a patto di imparare a “intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto”, che è, appunto la “lingua matematica” . Non è dunque il metodo che gli permette di scoprire come è fatto ilmondo. È la sua convinzione che il mondo è fatto in un certo modo che gli suggerisce il modo migliore per costringere la natura a dargli ragione, anche a costo di tralasciare altre evidenze empiriche contrarie (per esempio sulla questione della natura delle comete Galileo aveva torto e padre Grassi ragione). Insomma, se si ignorano le ragioni (serie, dopotutto, visto che Aristotele aveva retto per più di duemila anni) di entrambi i contendenti, la filosofia non ha più nulla da dire, perché scompare la materia del contendere. Si rischia così di precipitare dalla sfera dei più elevati dibattiti della storia del pensiero filosofico allivello di una banale lezione di fisica di liceo.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le due figure di Cartesio e di Newton, ma ci porterebbe via troppo spazio. Mi limito a segnalare che anche qui ci sarebbe un dibattito filosofico da portare alla luce. Sarebbe interessante infatti ricordare come le differenti posizioni filosofiche di questi due grandi personaggi, esplicitate nella polemica fra Newton e i cartesiani, fossero indissolubilmente legate alle rispettive differenti concezioni del concetto di forza (per contatto o a distanza) che a loro volta sono all’origine di due diverse formulazioni, a livello tecnico, della meccanica (leggi di conservazione vs. leggi della dinamica), formulazioni che ancora oggi hanno un significato epistemologico profondamente differente (le leggi di conservazione, che per la loro generalità valgono anche nella meccanica quantistica, sono vincoli da rispettare, mentre quelle della dinamica newtoniana sono prescrizioni da eseguire).
Se dunque è vera la mia tesi, cioè che la riflessione filosofica può avere un ruolo importante nella scienza dove e quando c’è un dibattito fra scienziati portatori di varianti alternative del linguaggio disciplinare basate su presupposti meta teorici differenti, si capisce anche perché oggi questo ruolo non possa più essere esercitato all’interno della fisica. L’ultimo conflitto all’interno di questa disciplina basato su concezioni alternative del mondo, e dunque tale da investire la cultura in generale (gettando un ponte fra le due culture”) è stato quello tra Einstein e Bohr attorno alla domanda se Dio giocasse o meno ai dadi. (La questione del “realismo” è strettamente connessa a questa, ma sul loro nesso non posso dilungarmi). Risolta la questione negli ultimi decenni del secolo con la conclusione che il Personaggio è un accanito giocatore (e in questo caso la risposta della natura è stata “cruciale”), le proprietà della materia inerte, come ho cercato di argomentare nel § 2, non hanno più nulla da dire di significativo per l’uomo, e dunque per la filosofia.
È per questo che la conclusione che Badiale trae da un colloquio immaginario tra un fisico e una generica persona colta, secondo la quale “la scienza moderna si pone ormai al di fuori della cultura umana, perché non riesce più a rendere comune al genere umano il significato del proprio operare”, mi sembra ingiustificata. In primo luogo perché il confronto fra uno scienziato e una persona colta non può mai avvenire (ed è sempre stato così anche in passato) sul terreno del linguaggio specialistico della disciplina, ma soltanto su quello del suo livello meta teorico. In secondo luogo perché la fisica non è più rappresentativa della “scienza moderna”, mentre, come adesso vedremo in maggior dettaglio, è nell’ area delle discipline della vita, dell’uomo e della mente che la mediazione fra scienza e contesto culturale è oggi necessaria e possibile.

  1. UNA EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DEL MONDO VIVENTE

Ho già sottolineato all’inizio che, quando si sale ai livelli più elevati di organizzazione della tnateria, si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi all’interno di una data comunità disciplinare, fondati su differenti modellizzazioni del dominio di fenomeni considerato e su differenti punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) adottati per esplorarlo. In particolare, il passaggio dalle discipline che studiano la materia inerte a quelle che si pongono come obiettivo l’investigazione del mondo della vita e di quello della mente, deve tener conto della natura della barriera che separa la materia inerte dalla materia vivente. Sorvolo per ora su quella etica, perché ci torneremo alla fine del nostro discorso. Ma mi soffermo brevemente sui suoi aspetti epistemologici ed ontologici. La logica che sta dietro alla interpretazione delle proprietà della materia inerte è riduttiva: dalla conoscenza dei componenti elementari e delle loro interazioni si risale alle proprietà del sistema. Quella che occorre adottare per spiegare le proprietà della materia vivente è una logica evolutiva: essa si basa sul riconoscimento dei due momenti indipendenti e complementari che ne sono all’origine: quello della generazione aleatoria della diversità a livello genotipico e quello della selezione da parte dei vincoli (esterni ed interni al sistema) a livello fenotipico. Questo implica che l’adozione di un criterio riduzionista (per esempio la credenza ancora diffusissima nella validità della formula “un gene=un carattere”) per la progettazione del vivente può condurre a errori macroscopici e gravissimi.
Dal punto di vista ontologico poi, la barriera stabilisce una differenza fondamentale tra i due mondi: l’assenza o la presenza di autonomia. Una volta fabbricati gli artefatti biologici sono autonomi: prevederne il futuro diventa problematico e riacchiapparli una volta che se ne sono andati in giro per il mondo addirittura impossibile.
Due libri recentissimi, uno di un biologo, Marcello Buiatti, intitolato Lo stato vivente della materia, l’altro di una epistemologa, Elena Gagliasso, intitolato Verso un’epistemologia del mondo vivente, sembrano scritti apposta per dimostrare che in queste discipline la mediazione fra scienza e contesto culturale può avere per protagonisti – come dicevo poc’anzi – sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Il libro di Buiatti ci insegna infatti a guardare il mondo della vita da un punto di vista che riesce ad essere tanto più originale sul piano dello schema interpretativo generale quanto più risulta solidamente ancorato alle più recenti acquisizioni fattuali della ricerca biologica. Esso dimostra che, quando uno scienziato alza gli occhi dai suoi strumenti e dai suoi calcoli, e riflette sul senso e sulle ragioni delle domande che egli stesso e i suoi colleghi pongono alla natura, le sue riflessioni non solo sono perfettamente accessibili alle “persone colte” ma introducono anche all’interno della comunità gli stimoli per un dibattito fecondo di nuove domande. In concreto il punto di vista adottato in questo libro fa cadere molte delle barriere tradizionali che separavano approcci concettuali nettamente contrapposti – per esempio fra i sostenitori della localizzazione di proprietà specifiche in strutture determinate e i sostenitori dell’esistenza di proprietà diffuse all’interno di una rete di componenti diverse – e sgretola molte separazioni rigide fra modellizzazioni differenti dei fenomeni vitali. Le conseguenze culturali di questo approccio sono profonde.
Per quanto riguarda il genoma, ad esempio, il libro dimostra, dati alla mano, l’insensatezza della pretesa corrispondenza biunivoca tra geni e caratteri: da quelli somatici a quelli caratteriali fino a quelli comportamentali (addirittura, sfiorando il ridicolo, come il “gene” dell’adulterio o dell’omosessualità). È una tesi, non solo presente ancora negli ambienti scientifici ma soprattutto prevalente nella cultura diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, che ha basi eminentemente ideologiche e permette di giustificare le peggiori discriminazioni ed emarginazioni. La conclusione del nostro autore è categorica: “affidare a uno o pochissimi geni comportamenti sociali (non biologici) complessi [è] del tutto erroneo dal punto di vista scientifico”.
Utilissimo è dunque il contributo “filosofico” che questo libro può dare per contrastare la concezione pesantemente deterministica della vita prevalente nell’immaginario diffuso, che la considera assolutamente prevedibile una volta conosciuto il contenuto del patrimonio genetico. “Secondo questa visione – scrive Buiatti nell’ultimo capitolo – l’uso di nuove tecnologie biologiche permetterebbe di liberare noi e gli altri esseri viventi da tutti i pericoli di eccessivo disordine derivante dal rumore indotto dall’ambiente, di guasti interni, dalla stessa variabilità genetica il cui valore biologico essenziale viene accuratamente dimenticato (rimosso). Di qui l’implicita sgradevole utopia positivistica della possibilità di modificare a volontà gli esseri viventi secondo progetti reificati nella materia vivente, paralleli a quelli costruiti per l’adattamento ai nostri bisogni veri o presunti, di quella non vivente”.
Dal canto suo, sul versante della filosofia, Elena Gagliasso così ci spiega il compito che la sua ricerca si prefigge. “Il libro – leggiamo nell’introduzione – si muove costantemente tra due piani, pur scegliendo di esaminarli insieme nelle diverse sezioni. Esiste infatti una sorta di crocevia che permette, a seconda dell’utilità, di intrecciare o di distinguere due livelli di discorso mutuamente vincolati, se si vuole oggi trattare un’epistemologia specifica delle scienze del mondo vivente”. Da un lato si tratta di una epistemologia che “si è aperta a riflettere anche su ciò che investe il pensiero scientifico prima del metodo o in modo circostante ad esso: una epistemologia dunque sensibile a inseguire le varie e controverse storie plurali della ricerca, i processi del farsi concreto delle teorie e degli stili di pensiero, più che a modellizzare la storia scientifica in modo normativo”. Dall’altro abbiamo una attenzione specifica “all’arcipelago di competenze e di ‘ritagli’ sulla molteplicità di piani che mostra la natura vivente”. L’intenzione è dunque di “fornire chiavi interpretative per mettere a fuoco i mutamenti epistemologici tra filosofia della scienza in generale e filosofia delle scienze del mondo vivente.” È proprio dunque il contrario di ciò che teme Badiale quando vede una tendenza della filosofia della scienza a dividersi essa stessa in sottodiscipline mimando il movimento di specializzazione parcellizzante della scienza stessa.”
Può essere esemplare, a questo punto, per mostrare meglio in concreto in che modo oggi la riflessione filosofica possa diventare una componente essenziale del processo di crescita della conoscenza scientifica, riferirsi al dibattito in corso sul tema dell’evoluzione biologica. La figura di Stephen J. Gould ha in esso un ruolo centrale.
Egli infatti si presenta come un darwiniano che intende valorizzare l’opera di Darwin polemizzando al tempo stesso anche con gli eredi più “ortodossi”.La sua polemica nei loro confronti riguarda tre punti essenziali. Il primo riguarda la natura dei soggetti dell’evoluzione. “Secondo me – scrive in polemica con Richard Dawkins – Richard è un iperdarwinista. Per Darwin la spiegazione viene abbassata [da un Dio provvidenziale] al livello degli organismi, che perfezionano le loro caratteristiche attraverso la lotta per la riproduzione, ossia per il loro vantaggio personale. [ … ] Richard ha voluto spostare il livello di spiegazione al gradino più basso: non sono gli organismi, ma i geni che lottano per riprodursi. Gli organismi sono solo i veicoli dei geni. Ma Richard ha torto. In natura sono gli organismi che lottano fra loro. Se essi potessero essere definiti come un’addizione cumulativa di quello che fanno i geni, allora si potrebbero ricondurli ad essi. Ma non è così, perché gli organismi hanno miriadi di caratteristiche emergenti. In altre parole [e qui ritroviamo ciò che dice Buiatti; M. C.)] i geni interagiscono in modo non lineare; questa interazione definisce l’organismo, il quale non può essere ridotto a una mera sommatoria dell’azione di un gene o di quell’ altro”.
Il secondo punto riguarda il gradualismo dell’evoluzione biologica. Esso è il più noto, e ad esso si riferisce la teoria degli equilibri punteggiati formulata da Gould con Niles Eldredge negli anni ’70. A questo proposito egli commenta: “Il concetto di tempo geologico è considerato indispensabile dai darwinisti ortodossi per applicare la cosiddetta estrapolazione biouniformista: essa consiste nell’osservare i piccoli cambiamenti che si verificano nella storia delle popolazioni locali per poi estrapolarli nella scala dei tempi geologici. Ma se sul piano delle ere geologiche entrano in gioco nuove cause che non possono essere comprese nel tempo breve, allora la strategia darwinista non funziona più. Ecco perché lo stesso Darwin faceva finta di ignorare le estinzioni di massa: la geologia mette in crisi l’aspetto uniformista o estrapolazionista, del pensiero darwiniano”.
Il terzo infine riguarda l’adattazionismo. “Nel lungo periodo – egli osserva – si scopre che la storia della vita sfugge al controllo adattativo. Entrano in gioco infatti nuovi fattori contingenti, come le estinzioni in massa e l’emergere di nuove specie per via dell’equilibrio punteggiato. Il successo a lungo termine nei vari gruppi di organismi dipende più dal tasso di specializzazione che dalle morfologie costruite dalla selezione naturale”.
“È chiaro – Gould aggiunge – che in natura l’adattamento gioca un ruolo importante. La mano e il piede, per esempio, sono strutture così ben funzionanti solo in virtù della selezione naturale. “Tuttavia, egli prosegue, “alcune strutture possono emergere come semplici effetti secondari di altre che hanno scopo adattativo. Prendiamo il cervello umano: pur assolvendo a funzioni ben determinate, esso è anche un computer straordinariamente complesso che non è necessariamente il frutto della selezione naturale. Di sicuro la selezione non gli ha insegnato a leggere e scrivere, perché queste funzioni sono state acquisite molto recentemente”. Infine Gould sostiene una tesi radicale sul ruolo del caso nell’evoluzione della vita sulla Terra. Cosa succederebbe, si domanda, se il nastro della vita fosse fatto girare un’altra volta? Egli risponde che l’evoluzione è fondamentalmente il risultato della contingenza, e pertanto che il suo esito sarebbe completamente diverso se essa ricominciasse da capo. “Se ci poniamo la domanda fondamentale di tutte le epoche – perché esistono gli esseri umani? – una parte essenziale della risposta … deve essere: perché Pikaia [il nome dato a un esemplare insignificante, che mostra una traccia di rudimentale corda spinale, trovato nel giacimento fossile della Burgess shale formatasi 570 milioni di anni fa] sopravvisse alla [successiva] grande decimazione della popolazione di Burgess. Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, né alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell’anatomia o dell’ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto un evento contingente della storia”.
Negli ultimi anni sta tuttavia affermandosi una scuola di pensiero formata da coloro che, pur ammettendo che il caso possa giocare un ruolo importante nel processo evolutivo, ritengono ragionevole affermare che alcune caratteristiche della vita si ripresenterebbero comunque invariate, in quanto risultato di regolarità emergenti dalle proprietà di autorganizzazione dei sistemi formati da un gran numero di semplici elementi reciprocamente interagenti. Questa linea di ricerca si riallaccia dunque alla tradizione della scienza “newtoniana”, tornando a rivendicare anche per la biologia il ruolo, già svolto in passato dalla fisica, di scienza nomomologica, che aspira a fornire spiegazioni universali e astoriche dei fenomeni biologici fondate su leggi matematiche strutturali o morfogenetiche (sulla scìa della tradizione della biologia della forma e della struttura che ha avuto nel ‘900 esponenti come Ludwig von Bertalanffy, D’Arcy Thompson e Conrad Waddington e i contemporanei René Thom e Brian Goodwin). Per questa scuola di pensiero, che ha come esponente di spicco Stuart Kaufmann e come centro di riferimento il Santa Fé Institute in California, l’unico modo per tentare di rispondere a questa domanda, visto che non è possibile ricominciare da capo l’evoluzione della vita sulla terra, è costruire un modello di universo “ragionevole” da sottoporre a una molteplicità di processi evolutivi in condizioni differenti, in modo da identificare quali siano le caratteristiche che compaiono comunque indipendentemente dai fattori contingenti operanti in ognuno di questi processi.
Per mezzo di questa procedura Kaufman arriva a concludere che “gran parte dell’ordine negli organismi non sia il risultato della selezione, ma della capacità di ordine dei sistemi autoorganizzati. L’ordine degli organismi è naturale, non è il trionfo inaspettato della selezione naturale contro la marea entropica montante.”
In sostanza, mentre per Gould nell’evoluzione prevale la contingenza, e dunque le forme della vita sarebbero completamente diverse se ricominciasse tutto da capo, per Kaufmann prevale l’ordine, e tutto si ripeterebbe all’incirca nello stesso modo.

  1. IL PROBLEMA CORPO/MENTE

Il tema senza dubbio più attuale e controverso, dove maggiormente i presupposti metateorici si intrecciano con il linguaggio formale adottato dando origine a una grande varietà di teorie in competizione è quello del rapporto corpo/mente, e della natura della coscienza. È interessante a questo proposito il tentativo di esplorare questo terreno esposto in un libro recente (La nature et les règles, Odile Jacob, Parigi, 1998), nel quale il neurobiologo Jean Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur affrontano il discorso alla luce rispettivamente dei risultati più recenti delle neuroscienze e delle posizioni filosofiche della fenomenologia di derivazione husserliana. È un tentativo di costruire un “terzo discorso” che rispetti al tempo stesso i vincoli imposti alla vita dell’uomo dalla materialità della sua natura e i suoi bisogni di dare un significato al suo vissuto individuale. Non è possibile, ovviamente, ripercorrere le vie che ognuno dei due ha seguito per cercare di incontrarsi. Qui mi limito a riassumere brevemente le premesse di questo dibattito.
“In che misura – si chiede all’inizio il neurobiologo – il progresso spettacolare delle conoscenze sul cervello e la sua evoluzione, l’emergere di un dominio completamente nuovo, quello delle scienze cognitive – fisiologia, biologia molecolare, psicologia e scienze umane – ci portano a riesaminare la vecchia questione” del rapporto corpo-mente, cervello-pensiero? È possibile accedere oggi a una visione più unitaria, più sintetica tra dominio riservato alla filosofia e quello delle conoscenze sul cervello e delle sue funzioni? Può un neurobiologo legittimamente interessarsi ai fondamenti della morale, e reciprocamente può un filosofo trovare materia di riflessione e di arricchimento nel campo delle neuroscienze contemporanee? Ci si può interrogare sulla relazione tra la natura e la regola?”.
Il filosofo gli risponde: “Prima ancora di affrontare queste domande, occorre sgombrare il campo dal problema tradizionale dell’ontologia fondamentale, del problema cioè se l’uomo sia fatto di una o due sostanze. La mia tesi iniziale è che i due discorsi tenuti da una parte sul corpo e sul cervello e dall’altra su quello che chiamerò il mentale, della conoscenza, dell’azione e dei sentimenti, si riferiscono a due prospettive eterogenee, cioè irriducibili l’una all’altra, cioè non derivabili l’una dall’altra. Si tratta però di un dualismo semantico, di un dualismo di prospettive. Bisogna evitare di scivolare da un dualismo di discorso a un dualismo di sostanze. L’interdizione di questa estrapolazione dal semantico all’ ontologico implica che il termine mentale che io impiego non è uguale a non-materiale, non-corporeo. Il mentale vissuto implica il corporeo, ma in un senso irriducibile al corpo oggettivo conosciuto dalle scienze della natura. Al corpo-oggetto oppongo il corpo-vissuto. Il corpo come parte del mondo, e il corpo da dove apprendo il mondo per orientarmici e viverci”.
Le posizioni di partenza sono dunque chiare. Il neurobiologo è un riduzionista che identifica l’esperienza soggettiva dei pensieri e delle emozioni con le loro tracce nelle strutture cerebrali e il filosofo è invece convinto dell’irriducibilità delle categorie del corpo-vissuto alle categorie del corpo-oggetto. Non è questa la sede per illustrare le molte questioni trattate nel corso del dibattito. Mi limito a segnalare che, pur concordando sull’obiettivo, che è quello di cercare le origini delle condotte morali nel processo di evoluzione delle specie, le reciproche posizioni restano alla fine, ancora abbastanza lontane. A mio giudizio la responsabilità maggiore ricade principalmente sul neurobiologo, che crede ancora alla unicità della rappresentazione scientifica della realtà e dunque, in ultima analisi, alla sua oggettività assoluta. Al filosofo tuttavia, che pure insiste giustamente sulla relativa autonomia dei linguaggi delle diverse discipline e sulla necessità di riconoscere l’esistenza di una sfera dell’indicibile nella psiche umana (anche se in questo dialogo stranamente non si parla mai dell’inconscio), manca la capacità di chiarire il carattere di meta linguaggio del linguaggio filosofico rispetto ai linguaggi delle discipline scientifiche. Solo a questa condizione, infatti, si apre la possibilità di andare oltre il “dialogo fra sordi” rappresentato dal confronto sterile fra le proposizioni fattuali e relazionali della scienza e i concetti che la filosofia utilizza per descrivere la soggettività della mente umana.
Conviene a questo punto passare in rapidissima rassegna le tesi di alcune delle teorie che si confrontano. Francisco Varela, un notissimo neurofisiologo recentemente scomparso che ha dedicato a questo problema gli ultimi anni della sua vita riassume il nodo della questione dicendo che “ogni scienza della cognizione e della mente deve, prima o poi, fare i conti con la condizione ineludibile secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo”. Egli presenta in uno schema grafico quattro gruppi di posizioni diverse, collocando in alto quelli funzionalisti, da un lato quelli riduzionisti, in basso quelli “rassegnati al mistero” e dall’altro lato quelli (tra i quali si colloca egli stesso) che si richiamano alla fenomenologia.
L’esponente più tipico del riduzionismo fisico è il filosofo Paul Churchland (e vicino a lui troviamo lo scopritore della doppia elica Francis Crick), secondo il quale l’attività funzionale del cervello (attività cognitiva) è una attività di calcolo distribuito parallelo (CDP). Questa attività trasforma gli input sensoriali, passando attraverso una vasta rete di connessioni sinaptiche, in output di varia natura (motoria, razionale, emotiva ecc.) o in informazioni immagazzinate in memorie di vario tipo che vengono utilizzate a loro volta nell’attività di calcolo. Sulla base di questo modello Churchland affronta l’enigma della coscienza umana. Concretamente egli propone di procedere elencando alcune caratteristiche che egli considera salienti della coscienza umana, e facendo vedere che tutte queste caratteristiche sono ricostruibili in termini neurocomputazionali, con un modello di rete neurale ricorrente di calcolo distribuito parallelo. Esse sono riproducibili mediante una semplice rete specifica, formata da tre strati di neuroni con connessioni feedfonvard e retroazioni feedbackward. “In termini neurocomputazionali – conclude Churchland – riusciamo a capire come ciascuna di queste caratteristiche possa essere realizzata, ed è concepibile che esse vengano effettivamente realizzate in una struttura fisica reale, il nostro cervello”.
Un’altra forma di riduzionismo, questa volta di tipo informatico, è quello dei fautori del programma “forte” di Intelligenza Artificiale, che anch’essi assumono come modello il computer, ma, invece di concentrarsi sulle proprietà del cervello come hardware, equiparano la mente al suo software. Secondo il filosofo Daniel Dennett, per esempio, la coscienza umana nasce dall’operazione di un qualche programma informatico, da lui definito “macchina virtuale” che “gira” sul cervello. “[Se] tutti i fenomeni della coscienza umana trovano spiegazione ‘solo’ in quanto attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni astronomicamente regolabili del cervello umano, allora, in teoria, un robot programmato ad hoc, il cervello di un computer a base di silicio, sarebbe conscio, avrebbe un sé”.
Agli antipodi di entrambi troviamo da un lato Varela, e dall’altro il filosofo John Searle. Per entrambi questi autori, i riduzionisti eliminano il problema negandolo, anche se le soluzioni che essi propongono sono diverse. Per il primo, infatti, il riduzionismo “cerca di risolvere il problema eliminando il polo dell’esperienza a favore di una qualche forma di spiegazione neurobiologica a cui sarà affidato il compito di generarla. Ovvero, per dirla con la tipica rudezza di Crick: ‘Non sei che un ammasso di neuroni”‘. Egli sostiene al contrario, che “l’esperienza in prima persona è un fatto fondamentale da inserire nel futuro della disciplina”, e propone un “particolare procedimento di esplorazione dell’esperienza” secondo un approccio fenomenologico nel senso di Husserl. “Non possiamo – egli argomenta – in alcun modo immaginarci la soggettività come parte della nostra visione del mondo, perché proprio la soggettività in questione è la capacità stessa di immaginare”.
Per John Searle invece non c’è una irriducibilità sostanziale tra descrizione oggettiva in terza persona ed esperienza soggettiva in prima persona: il cervello è una macchina, ma una macchina cosciente. Il “mistero” della coscienza “verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso del mistero deriva piuttosto dal fatto che attualmente non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. “L’errore dei riduzionisti è dunque quello di tentare di duplicare i “processi mentali interiori, qualitativi e soggettivi [ … ] duplicando gli effetti osservabili del comportamento esteriore di questi processi. Sarebbe come tentare di duplicare i meccanismi interni del vostro orologio costruendo una clessidra”.
In mezzo ai due estremi troviamo due fra i maggiori protagonisti di questo dibattito, Antonio Damasio e Gerald Edelman, entrambi scienziati all’avanguardia nella ricerca di punta. Per entrambi l’idea che la ricchezza dell’esperienza umana sia indipendente dal substrato biologico è una sciocchezza. Secondo Gerald Edelman la ricchezza dell’esperienza umana del ricordo “non può essere adeguatamente rappresentata dal linguaggio impoverito della scienza informatica: ‘memorizzazione, recupero, input, output”‘.
Questo, tuttavia, non significa che ci sia qualcosa di misterioso. Al termine del libro scritto in collaborazione con Giulio Tononi, Come la materia diventa coscienza, leggiamo: “Il pensiero cosciente è un insieme di relazioni dotate di senso che vanno oltre l’energia e la materia (anche se le implicano). Che cos’è allora la mente nella quale questo pensiero nasce? La risposta è che essa è al tempo stesso materiale e dotata di senso. [ … ] Sono le strutture materiali straordinariamente complesse del sistema nervoso e del corpo che danno origine ai processi dinamici mentali e alla produzione di senso. Non è necessario postulare niente altro – né altri mondi, né altre menti o forze ancora inimmaginabili come la gravità quantistica”. Le conclusioni di Damasio (che fra l’altro ha scritto un fortunato libro intitolato L’errore di Cartesio, esempio quanto mai pertinente di intervento della filosofia in una controversia scientifica) sono simili. Per questo autore “il potere della coscienza deriva dalla connessione efficace che stabilisce fra il meccanismo biologico di regolazione della vita individuale e il meccanismo biologico del pensiero. Questa connessione è la base per la creazione di un impegno individuale che permea tutti gli aspetti dei processi di pensiero, focalizza tutte le attività di problem solving, e ispira le conseguenti soluzioni.”
È tuttavia interessante che egli sottolinei, avvicinandosi in questo a Varela, come “non sia verosimile pensare che nuove conoscenze sulla biologia che sta dietro alle immagini mentali possano produrre, nella mente di chi possiede queste conoscenze, l’equivalente dell’ esperienza di una immagine mentale nella mente dell’organismo che la crea”. In altri termini: “Quando tu guardi l’attività del mio cervello, tu non vedi quello che io vedo. Tu vedi una parte dell’attività del mio cervello mentre io vedo quello che vedo”. Questo non vuol dire, però, che la conoscenza neurofisiologica non è in grado di spiegare l’esperienza mentale. Vuol dire semplicemente che spiegare in termini scientifici come fare qualcosa di mentale è cosa completamente diversa dal fare direttamente quel qualcosa di mentale.

  1. SCIENZA E VALORI

Il ruolo del discorso filosofico nel dibattito fra proposte alternative di rappresentazione della realtà non si limita al piano epistemologico, ma assume una nuova dimensione quando si passa dalle discipline della materia inerte a quelle della materia vivente e pensante. È la dimensione dell’etica. La tradizionale separazione fra il compito di una scienza che persegue in completa autonomia l’obiettivo di acquisire conoscenza oggettiva e disinteressata, basata su “fatti” certi, e quello di utilizzarne i risultati per soddisfare i bisogni dei membri di una comunità in base a priorità e vincoli economici, sociali e morali in accordo con le norme che ne regolano la convivenza, non regge più. Il dogma della avalutatività delle affermazioni della scienza è crollato. L’ideale della “conoscenza fine a sé stessa” si rovescia nella pratica della “ragione strumentale”. Il motivo è semplice: i “fatti” non sono neutri, perché, per definizione, i “fatti” che condizionano nel bene e nel male la vita delle persone – e sono sempre di più i “fatti” di questa natura che la scienza produce direttamente – diventano carichi di “valori”. E lo diventano ancor di più quando condizionano in modo diverso la vita di persone diverse. Questo implica che, alle scelte dei problemi da affrontare, delle nuove direzioni da esplorare e soprattutto delle azioni da intraprendere, dovrebbero concorrere in modo esplicito e trasparente oltre agli scienziati con i loro dati, ai politici con le loro ideologie, alle imprese con i loro interessi, anche i soggetti sociali che di queste scelte dovranno subire le conseguenze, con la loro concretezza materiale, che esprime bisogni, condizioni di vita e aspettative per il futuro.
Dice il filosofo Hans Jonas nel suo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica: “Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo […]. Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità”. E ancora: “Una volta era facile distinguere fra tecnica benefica e tecnica dannosa, considerando semplicemente l’impiego dei suoi strumenti. I vomeri, si diceva, sono buoni, le spade, cattive. Ma qui salta all’occhio il tormentoso dilemma della tecnica moderna: a lungo termine i suoi ‘vomeri’ possono essere dannosi quanto le sue ‘spade”‘. E prosegue: “In questo caso sono loro, i benefici ‘vomeri’ e i loro simili, il vero problema”. È un problema che diventa ogni giorno più urgente affrontare. Già più vent’anni fa Jeremy Rifkin – un autore molto noto e molto discusso per le sue previsioni sui rischi e sulle promesse delle nuove tecnologie, considerate per lo più come profezie allarmistiche dagli esperti, dai leaders politici e dai mass media in genere, ma che a me, al contrario, sembrarono all’epoca molto realistiche – prospettava in un libro, intitolato Who should Play God? la possibilità di realizzare, entro la fine del secolo, specie transgeniche, chimere animali, cloni, bambini in provetta, e di avviare la fabbricazione di organi umani e la chirurgia genetica. Nel libro, inoltre si affermava che lo screening per le malattie genetiche sarebbe diventato una pratica diffusa, sollevando problemi molto seri di discriminazione genetica da parte di datori di lavoro, compagnie di assicurazione e scuole. Si esprimevano inoltre preoccupazioni per la crescente commercializzazione del pool genetico della Terra da parte delle aziende farmaceutiche, chimiche e biotecnologiche, e si sollevavano domande inquietanti sull’impatto potenzialmente devastante e a lungo termine che il rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati avrebbe potuto avere.
Dopo vent’anni le previsioni di Rifkin si sono avverate tutte e le sue preoccupazioni sono sempre più largamente condivise. Anzi, nuove tecnologie sempre più potenti sono state realizzate. La letteratura in proposito è ormai sterminata. Cito soltanto un documento, scritto recentemente da Bill Joy, un informatico assai noto, autore del software Java, intitolato Il futuro non ha necessariamente bisogno di noi che ha per sottotitolo Le nostre più potenti tecnologie del 21° secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologia stanno minacciando di fare degli umani una specie a rischio.
Il punto essenziale è che queste tecnologie rappresentano una minaccia diversa da quella insita nelle tecnologie precedenti: esse infatti hanno in comune un fattore di amplificazione finora sconosciuto, perché possono autoreplicarsi. Una bomba scoppia una sola volta, ma un organismo artificiale può generarne molti, e rapidamente sfuggire a ogni controllo. Non è fantascienza. È di questi giorni la notizia che una supererba infestante, nata dall’incrocio tra un’erbaccia comune e sementi di colza geneticamente modificata per resistere a tutti gli erbicidi noti, seminata all’aperto per errore, sta diffondendosi in Inghilterra producendo miliardi di danni.
La conclusione delle riflessioni di Joy è drastica: “Stiamo proiettandoci nel nuovo secolo senza un piano, né un controllo né freni. Siamo già andati troppo avanti, giù per la china per poter fermare la corsa? Forse no, ma non ci stiamo nemmeno provando, e l’ultima occasione per istituire un controllo – il punto di non ritorno – sta avvicinandosi rapidamente”.
Non nascondiamoci l’enorme difficoltà del compito che ci sta di fronte. Se già è difficile il confronto fra epistemologie diverse, il contrasto tra etiche basate su valori differenti rischia di diventare un conflitto devastante. Detto per inciso, che altro è, se non questo, lo scenario sconvolgente che si apre dopo l’11 Settembre? Ma non è questa la sede per affrontare questo discorso. Mi limito ad accennare al tenue spiraglio di luce che il dialogo, già citato, fra Changeux e Ricoeur getta su questo buio pauroso. Nella fase finale del dibattito essi affrontano infatti la questione se esistano fondamenti naturali dell’etica. Per Ricoeur il termine fondamenti naturali è ambiguo: da un lato ha il significato di elemento di base, di preliminare, e dall’altro quello di legittimazione, di giustificazione. La storia culturale dell’umanità ha portato alla coesistenza di molti sistemi di legittimazione. Il problema è di accedere allo stadio in cui più tradizioni si riconoscano come cofondatrici al fine della sopravvivenza comune. Per Changeux il termine giustificazione è pericoloso perché implica un giudizio di “giustizia” assoluta che può aprire le porte ai fondamentalismi e impedire il dialogo. Egli insiste sul fatto che epigenesi e apprendimento contribuiscono entrambi tanto alla diversità individuale che all’unità di ogni persona umana. Il termine “fondamento naturale” fa riferimento semplicemente alla sua natura materiale, a una “realtà unica e sufficiente”. Per questo un processo di intercomprensione benevolente e illuminata, in cui tutte le opinioni si esprimono, ma restano libere di evolversi è l’obiettivo al quale occorre mirare.
I temi sui quali questa fase finale si articola sono molti: ne accenno brevemente. Sul rapporto fra religione e violenza entrambi i dialoganti sono d’accordo che le religioni quasi sempre generano violenza. Tuttavia, la differenza fondamentale che li separa riemerge ancora una volta. Per Changeux solo il linguaggio scientifico può eliminare la violenza, mentre per Ricoeur la critica al settarismo delle religioni può soltanto farsi facendo ricorso alla sfera del “fondamentale religioso” dell’esperienza umana alla quale solo attraverso il linguaggio del “religioso” si può accedere. Di qui deriva anche una diversa concezione del cammino verso la tolleranza. Per lo scienziato, a partire dalla constatazione dei conflitti generati dalle differenze cuI tura li, è necessario sforzarsi di riflettere sui fondamenti di un etica universale e di trovare dove si situa concretamente quello che il filosofo designa come “fondamentale”. Per quest’ultimo invece, non può essere la scienza che detiene da sola la chiave del problema della violenza tra gli uomini. La tolleranza non consiste solo nel sopportare ciò che non si può impedire. “È dall’interno della mia relazione con il fondamentale che posso comprendere che ci sono altre convinzioni oltre alla mia”.
Infine, il problema dello scandalo del male. Qui, nonostante la diversità dei punti di vista l’obiettivo è, nella sostanza, comune. Per lo scienziato la ricerca della conoscenza oggettiva e il dibattito argomentato e critico che l’accompagna possono farci meglio comprendere la violenza e le sue origini, e arbitrare più efficacemente i conflitti in vista di una pacificazione. L’obbiettivo è la formazione di una etica laica, che non faccia intervenire alcuna metafisica superiore, ma, partendo da fatti oggettivi e da ingiunzioni pratiche “civilizzatrici”, valutabili in termini delle loro conseguenze, faccia appello all’immaginario mobilitando la sfera del simbolico per mettere in sinergia il desiderio, e magari anche il piacere con il normativo.
Il filosofo è d’accordo, a patto di considerare, alla base di questa etica universale laica, tre correttivi: il primo è il riconoscimento che c’è del religioso anche al di fuori della mia religione. Il secondo è che non c’è solo il religioso delle altre religioni, ma anche il non religioso dei miei contemporanei; il terzo è il pensare la politica come regola procedurale per vivere insieme in una società dove ci sono religiosi e non religiosi. Termina così questo dialogo serrato e non inutile.

  1. CONCLUSIONI

Cerchiamo di trarre le fila. Che non basti la scienza per capire il mondo, ma ci sia anche bisogno della filosofia, mi sembra dunque ovvio. Direi di più. Non basta nemmeno la filosofia. Direbbe Bateson che ci vogliono anche, per esempio, l’arte, la bellezza, il gioco, l’umorismo e persino il sacro. Ma il vero drammatico problema è che nella società contemporanea tutto è ormai ridotto a merce, e dunque che non si può capire il mondo senza andare al supermercato.
Nel XX secolo il meccanismo di accumulazione del capitale si è fondato sulla formazione del profitto nel processo di produzione delle merci materiali (molecole) e sull’espansione del loro consumo da parte dei lavoratori stessi (fordismo). Di qui ha avuto origine il conflitto drammatico tra capitale e lavoro che ha segnato il secolo “breve”. Nel XXI secolo il meccanismo di accumulazione del capitale sempre più si fonderà sulla formazione del profitto nella produzione di merci immateriali (bit) (“informazione”, “conoscenza” o, semplicemente “comunicazione”). Più propriamente la formazione del profitto si sgancia dal “tempo di lavoro”, perché le merci immateriali possono essere moltiplicate all’infinito senza costo, e dunque il profitto, una volta fatto il prototipo, può crescere illimitatamente al crescere del consumo.
La necessità da parte del capitale di invocare una continuità tra la new economy e la old economy deriva dal tentativo di mantenere il vecchio meccanismo di accumulazione (valido per la produzione di merci materiali), che sta entrando in crisi per limiti fisici (saturazione di mercati, disastri ecologici, ecc.), anche per un processo produttivo di beni che per natura potrebbero essere fruiti da tutti i membri della società. Per sopravvivere ed espandersi il capitale ha bisogno di rendere artificiosamente scarsi i beni che potrebbero essere liberamente fruiti da tutti.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Le merci immateriali, in realtà non si “consumano”. In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c’è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l’ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale, e giustifica in tal modo le leggi che vietano la riproduzione libera del contenuto. Ma se anche il supporto diventa immateriale, il trucco si scopre (mi dicono che è facile scaricare canzoni da Internet senza pagare una lira, anche se le case discografiche fanno il diavolo a quattro per impedirlo).
C’è di più. Anche le relazioni fra persone diventano merce. Nessuno può più comunicare con gli altri se non paga un pedaggio al capitale che ha ridotto a merce tutti i mezzi indispensabili per mettere in relazione reciproca i membri della società. Senza queste merci l’individuo non può sopravvivere come individuo sociale. Diventa rifiuto, spazzatura, scompare.
In questo quadro che si può fare? Mi limito a poche osservazioni su alcune questioni urgenti. La prima riguarda le incertezze. Gli “scienziati”, per definizione, si occupano solo di quei fatti dei quali possono acquisire certezza. Essi tendono dunque a selezionare i temi che possono dare risultati certi, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo ben determinato, a breve termine. Si accontentano, per esempio, di dire: “non ci sono evidenze certe che la tal cosa sia dannosa”. Oppure cercano rimedi per disastri già avvenuti (AIDS, mucca pazza).
I “decisori” a loro volta utilizzano queste certezze come base di partenza per realizzare gli obiettivi da perseguire sulla base dei loro “valori”. Anch’essi vogliono risultati, sul terreno sociale, a breve termine. Dicono: “visto che la tal cosa non è dannosa possiamo utilizzarla per ciò che riteniamo essere un obiettivo prioritario (a seconda della situazione sviluppo economico, salute, sicurezza o quant’altro possa far vincere le elezioni)”.
Ma chi si occupa delle incertezze? Chi si occupa dei costi che forse noi stessi, ma certamente qualcun altro, già oggi o in un futuro più o meno prossimo, dovrà pagare per i benefici che le certezze delle tecnologie di punta possono riversare nell’immediato su di noi? Perché di questi costi nessuno parla? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell’ ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell’inquinamento genetico una minaccia per il pianeta ancora più grave dell’inquinamento nucleare e chimico? Oppure si domanda che conseguenze potrebbe avere per l’economia globale e per la società ridurre il pool genetico del mondo allo stato di proprietà intellettuale brevettata sotto il controllo esclusivo di un ristretto numero di multinazionali? O ancora si chiede quale sarà la condizione umana in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente – certo, per il loro bene – e dove le persone vengono identificate, classificate e discriminate in base alloro genotipo?
Il primo obiettivo è dunque: orientare la ricerca pubblica verso la previsione di scenari futuri e sui mezzi di prevenzione dai pericoli dei “vomeri”.
La seconda questione riguarda i conflitti di interesse. Come facciamo ad essere sicuri che le scelte del capitale siano le migliori possibili dal punto di vista dei soggetti sociali inevitabilmente e pesantemente coinvolti, che non sono una generica “umanità”, ma i popoli, le classi, le categorie economiche, le comunità culturali, gli individui, che si trovano oggi e si troveranno domani a doverne subirne le conseguenze, nel bene e nel male?
Gli interessi dei diversi soggetti sociali sono in genere diversi, ma molti sono in conflitto con gli interessi delle multinazionali. Produttori di prodotti locali messi fuori mercato dalla produzione di massa. Malati che non si possono pagare le medicine delle grandi imprese farmaceutiche (Mandela vs. Big Pharma). Masse escluse dall’istruzione. Popolazioni derubate delle ricchezze contenute nel genoma delle specie vegetali e animali che vivono nelle nicchie ecologiche dei loro paesi. Comunità cacciate dalle terre di origine dalle catastrofi “naturali” prodotte dalle modificazioni climatiche e dalle catastrofi economiche e belliche. Nuovi lavoratori atipici privi di qualunque protezione sociale. E così via.
Il secondo obiettivo è dunque: favorire la diversificazione, difendere i più deboli dall’esclusione dall’accesso ai beni resi artificiosamente scarsi dal capitale. La terza questione riguarda come affrontare il tema della libertà della ricerca. Molti scienziati temono che un controllo sociale della loro attività invocato per prevenire disastri o evitare pericoli (principio di precauzione) possa imporre loro divieti inaccettabili (“non si può mettere il lucchetto al cervello” è il loro slogan) o addirittura forzarli a seguire cammini impercorribili. Invocano il dogma tradizionale della avalutatività delle affermazioni della scienza per rifiutare ogni ingerenza esterna. Tullio Regge, per esempio, polemizzando con me sulla rivista Le Scienze, dopo aver ribadito che “il mondo scientifico deve attenersi ai fatti ed esporli, ma sono i politici a decidere”, attribuisce agli ambientalisti la pretesa di avere la “certezza assoluta” che un determinato agente non nuoccia alla salute o comunque non abbia effetti dannosi, e, argomenta che “non esiste attività umana a rischio nullo” per concludere che “il principio […] diventa così strumento per bloccare innovazioni ideologicamente sgradite”. Ma, come accade per la Libertà senza aggettivi, il limite alla libertà di ognuno è la libertà altrui. Perciò la libertà di fare ricerca nell’interesse di un soggetto particolare non può impedire la formulazione di vincoli per la prevenzione dei danni possibili e il controllo sociale a vari livelli (locale, regionale, nazionale e internazionale) sui costi e benefici dalla utilizzazione dei suoi risultati. Il terzo obiettivo deve essere dunque l’istituzione di sedi competenti (magistratura tecnoscientifica) per giudicare conflitti derivanti da uso improprio della ricerca. Strettamente connessa con la precedente è dunque la domanda: Chi paga la ricerca? La ricerca privata deve essere libera, ma deve essere pagata da chi ha un interesse diretto a farla. La ricerca pubblica deve avere due obiettivi. Il primo è quello di sviluppare ricerca senza obiettivi immediati di utilizzazione o con obiettivi di utilizzazione senza scopo di lucro. Il secondo, l’abbiamo già detto, è quello di controllare quella privata nell’interesse dei cittadini e delle generazioni future. Il quarto obiettivo deve essere dunque: rendere praticabile l’adozione del principio di precauzione. Infine una domanda di scottante attualità: Si può brevettare la vita? Poiché il brevetto è stato istituito per proteggere una invenzione e la scoperta non è per principio brevettabile, occorre concludere che gli organismi viventi, anche se artificialmente modificati non possono essere brevettati. Ogni ogm è una modifica di un organismo naturale, e la natura non si brevetta. Del resto gli elementi transuranici artificiali, in quanto ottenuti da modificazione di elementi naturali non sono stati brevettati. Tagliare il cordone ombelicale che lega la ricerca alla produzione di conoscenza in forma di merce è il solo modo per assicurare la libertà di ricerca. Le imprese potranno brevettare i procedimenti specifici per ottenere un determinato prodotto vivente, ma non il prodotto stesso. Solo in questo modo la ricerca riacquisterà un ampio ventaglio di motivazioni, giustificazioni, stimoli, al di fuori dell’unico imperativo attuale, che, come dice Giorgio Bocca si riduce alla regola: “attenersi a ciò che rende e trascurare ciò che non dà guadagni”. Il quinto obiettivo dunque è: la vita non si brevetta.

Marcello Cini

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 53-76; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

La fine della filosofia, Heidegger, paradigma dello spazio e temporalità storica

SAŠA HRNJEZ: Comincerei da un tema abbastanza trattato nel corso del Novecento. È il tema della “fine della filosofia”. Basta pensare a Heidegger, ma non solo. Mi interessa come ti rapporti con questo problema. Ed inoltre pongo la questione della autocontraddizione dell’annuncio filosofico della fine della filosofia, in quanto questa stessa affermazione rimane ancora nell’orizzonte della filosofia. É la questione che lateralmente apre un altro problema: il problema dell’autoriflessione della filosofia stessa.
COSTANZO PREVE: In primo luogo io penso che Heidegger non possa essere ridotto all’annunciatore della fine della filosofia. Più esattamente lui è un annunciatore della fine della metafisica che egli ritiene risolta integralmente nella tecnica planetaria, perché il termine tedesco Gestell vuol dire dispositivo anonimo ed impersonale. Perciò, quello che Heidegger dice è una proposta di fine della metafisica. Questa proposta è autocontraddittoria, non c’è alcun dubbio, nel senso che per poter annunciare la fine della filosofia bisogna filosofare. La teoria della fine della filosofia o della fine della storia o della società è un’autoriflessione filosofica pessimistica dell’umanità su se stessa. E perciò io la respingo immediatamente. Piuttosto voglio riflettere sul fatto che l’annuncio della morte della metafisica è dovuto, secondo me, a due componenti fondamentali. In primo luogo una lettura errata, distorta dell’antichità greca. Siccome Heidegger non è in grado di compiere una deduzione sociale delle categorie della filosofia greca e della sua nascita come risposta della comunità di fronte al pericolo della sua dissoluzione a causa del denaro, del potere, della tirannia e della crematistica, allora, dato appunto che non è in grado di capire ciò, da solo poi si infila in un distinzione fittizia tra aletheia e orthotes intesa come corretto rispecchiamento, distinzione che secondo me è completamente sbagliata. Perché l’orthotes pitagorico-platonica era un modo dei greci antichi per arrivare al disvelamento, cioè all’aletheia. Perciò devo respingere completamente questa diagnosi di Heidegger.
Poi c’è un secondo aspetto: Heidegger registra nel sofisticato e rarefatto linguaggio della filosofia l’impressione di immodificabilità del mondo, che è evidentemente un’impressione che avviluppa molti filosofi intorno agli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, e Sessanta. In un certo senso Adorno, anche se è un filosofo molto diverso da Heidegger, dice le stesse cose in una forma di pessimismo radicale che lui esprime nel linguaggio della dialettica negativa. Gli stessi filosofi marxisti, come il gruppo iugoslavo di Praxis (di cui ho conoscituo Gajo Petrović e Mihajlo Marković), poi Bloch, Lukács, francesi come Althusser e così via, mantengono invece una sorta di speranza di trasformazione socialista del mondo. Ma la mantengono sullo sfondo, come se non ci credessero neanche loro molto. Lukács parla di prospettiva, Bloch parla di utopia, Karel Kosík parla di distruzione della pseudoconcretezza. Però è come se tutti loro – arrivati alla svolta degli anni Sessanta e Settanta (prima che ci fosse ancora il postmoderno, che ha in un certo senso consacrato l’idea dell’immodificabilità del mondo) – quasi avessero smesso di credere a questa modificabilità. Perciò il successo di Heidegger nelle comunità universitarie europee, a mio parere, non è altro che la trascrizione filosofica sofisticata di questo senso d’impotenza sociale generale.

S H: Infatti ciò a cui volevo arrivare con la mia domanda sulla fine della filosofia è proprio questo che hai indicato. A mio parere c’è una connessione più profonda tra l’affermazione della fine della filosofia, un’affermazione filosofica auto-negante, e un’altra affermazione, quella ideologica di Fukuyama sulla fine della storia. Interessante è notare che queste due posizioni teoriche emergano in un periodo dominato dal paradigma dello spazio (lo dice esplicitamente Foucault nel suo saggio Spazi altri, ma si trova anche in Deleuze-Guattari e recentemente in Sloterdijk, etc). Allora, da una parte lo spazio secondo Sloterdijk diventa saturato, senza distanza e privo di estensione e d’altra parte abbiamo un esaurimento della temporalità storica. Una diagnosi perspicace oppure un altro indicatore dell’impotenza politico-sociale?
PREVE: Il rapporto fra spazio e tempo sostanzialmente ha come origine moderna il 1700. Ma è noto che il problema dello spazio e del tempo non nasce nel 1700 ma percorre tutta l’antichità greca e il cristianesimo: lo spazio inteso come (diceva Newton) il sensorium Dei; o lo spazio per i greci (che non erano monoteisti) che era chiamato hora, cioè il luogo in cui semplicemente si organizzava la materia; oppure lo spazio inteso come creazione divina, e che dunque era il teatro della sua creazione. Nel 1700 le cose cambiano radicalmente: la borghesia capitalista in formazione deve intervenire simbolicamente sia nel tempo che nello spazio. Per quello che riguarda l’intervento nello spazio nasce il moderno materialismo che non ha nessun carattere proletario, operaio, socialista e scientifico, ma rappresenta un’unificazione simbolica dello spazio alto e basso all’interno del quale possa circolare la merce capitalistica, togliendo la divinità che stava in alto e qualunque sovranità sull’economia. Per quello che riguarda il tempo: il tempo è unificato sotto la categoria di progresso, e come tutti sanno è l’ideologia fondamentale del Settecento borghese destinata ad essere ereditata completamente dal marxismo, e non soltanto dal pensiero di Marx, ed anche di più dal marxismo successivo. Personalmente non sono sicuro che noi siamo di fronte a un problema di saturazione dello spazio, come diceva la scuola francese. Io sposterei un po’ il problema seguendo il marxista britannico David Harvey, ultimamente autore di un libro che si chiama The Enigma of Capital. Harvey sostiene che ci sia oggi una prevalenza dello spazio sul tempo, dovuto al fatto che da un lato il mondo borghese ha abbandonato completamente il mito del progresso, mantenendone soltanto una superficie tecnologica e retorica; e d’altro lato, la globalizzazione – che fa diventare l’intero mondo una sorta di territorio liscio per lo scorrimento della merce e dei capitali – porta automaticamente a una prevalenza dello spazio sul tempo. Propendo a ritenere valida una sorta di combinazione di due diagnosi, quella di Jameson e l’altra di Harvey. Jameson ha detto che il postmoderno è l’epoca della produzione flessibile e secondo me ha ragione. Harvey parla di dominio dello spazio sul tempo con lo sbaraccamento dell’ideologia del progresso e con l’enfasi sulla globalizzazione spaziale del mondo come luogo di possibilità infinite.

SH: E non è che il compito filosofico di oggi sarebbe proprio di re-introddure nella filosofia una concezione del tempo alternativa e una prospettiva della temporalità storica?
PREVE: Con questa domanda tu stesso hai suggerito il modo migliore per arrivare alla risposta, perché Hegel non è affatto un cane morto, ma è un autore ancora attuale, anzi, più che mai attuale. In Hegel infatti al centro del problema è il riconoscimento della coscienza, della presa di coscienza progressiva che diventa l’autocoscienza, che avviene ovviamente all’interno di uno spazio e di un tempo in cui il soggetto manifesta, diciamo così, le sue richieste, i suoi bisogni, i suoi progetti. Questo vuol dire innanzitutto escludere che in Hegel ci sia una teoria della fine della storia. È un equivoco, secondo me, espresso in buona fede dal francese Alexandre Kojeve, ma è errato, profondamente errato. E poi viene ripreso ridicolmente da Fukuyama come teoria apologetica del secolo americano. Ma Fukuyama è un funzionario del Dipartimento di Stato come quelli che fanno bombardamenti sull’Afghanistan. Non è una cosa seria. Io parlo di Kojeve che invece è una persona seria. Secondo me in Kojeve c’è un fraintendimento gravissimo, perché quella che era una diagnosi di Hegel è stata fatta nel 1820, una diagnosi situata, congiunturale. Hegel aveva maturato la opinione secondo cui il tempo storico che stava vivendo era un tempo ricco di possibilità, in cui lo spirito si era determinato. Il concetto di Bestimmung è qui fondamentale. Perché Hegel, come è noto, polemizza continuamente contro il cattivo infinito di Kant e contro l’idea di Fichte secondo cui noi staremmo vivendo nell’epoca della compiuta peccaminosità. Siccome Hegel non può accettare la diagnosi dell’epoca della compiuta peccaminosità, che poi viene ripresa dagli intellettuali marxisti del Novecento – ovviamente in forma diversa (Bloch, Lukács, Althusser …) –, egli vuole contrapporsi a quelli che lui chiama i vecchi conservatori di Metternich, all’economia politica inglese che lui chiama «uno stato civile senza metafisica», e si contrappone anche a Rousseau e a Robespierre in base a quello che lui chiama «furia del dileguare».
Come tu sai Hegel nega il contratto sociale, ma lo nega non perché neghi gli elementi progressivi del giusnaturalismo o del contrattualismo, ma perché pensa che la civiltà non sia nata da un contratto. Lui dice, nella Fenomenologia dello Spirito, che la civiltà nasce dalla violenza, come nelle prime sequenze del film di Kubrick, Space Odissey 2001. La civiltà nasce dalla violenza, nasce dalla paura del dominato del primo dominatore, e soltanto nel corso del tempo storico che si arricchisce d’autocoscienza la civiltà giunge a superare questa nascita violenta in direzione di un’autocoscienza. Questa proiezione hegeliana afferma che ci sono il tempo e lo spazio come luoghi di realizzazione …
SH: È chiaro perché Hegel critichi il contrattualismo. Semplicemente un’ontologia della società non si può basare sul contratto, proprio in quanto l’ontologia storica che va oltre l’accordo tra due volontà rimane ancora, diciamo così, a posteriori.
PREVE: Hegel dice molto chiaramente che il contratto riguarda soltanto il diritto privato e non accetta che lo Stato nasca da un contratto. In questo ambito del diritto astratto c’è il contratto, ma è un errore trasformare il contratto da questo suo ambito reale a un ambito statuale. Come è noto lo Stato in Hegel deve avere una fondazione etica (eticità), che io traduco “comunitaria” ma che certamente non è un comunitarismo comunista; però ritengo che questo sia uno degli aspetti di Hegel meno trattati. Dimenticando questa genesi comunitaria della filosofia hegeliana già presente dal 1803, Hegel viene trasformato erroneamente nel filosofo del dispotismo, del totalitarismo, dello statalismo: il che è un fraintendimento mortale.

Filosofia e politica, la deduzione sociale delle categorie filosofiche,
la filosofia di oggi e le facoltà di filosofia
SH: Su Hegel torneremo. Ma per arrivarci voglio passare attraverso un’altra questione. Nel testo Dialogo sulla filosofia a venire, che è un dialogo tra Roberto Esposito e Jean-Luc Nancy, dove tra l’altro si affrontano tutti questi problemi di fine della filosofia e di paradigma dello spazio etc., affiorano due definizioni di filosofia che trovo interessanti. L’una dice che «il dentro della filosofia è precisamente il suo fuori» e l’altra espressa dallo stesso Nancy dice più o meno questo: se filosofare significava in passato contemplare e fissare, oggi significa aprire gli occhi, occhi finora non ancora aperti. Allora, queste due definizioni mi conducono verso il rapporto tra filosofia e politica, andando ovviamente al di là del testo di partenza di Nancy e Esposito e cercando di dare un’altra interpretazione. Questo “fuori” della filosofia che è il suo più profondo dentro, secondo me, è il contesto politico-sociale a cui filosofia necessariamente risponde. Ed “aprire gli occhi” significherebbe aprirsi a questo fuori politico-sociale che è nient’altro che il nocciolo della filosofia stessa.
PREVE: Per usare la terminologia di Esposito e di Nancy, che non è la mia, il fatto che la filosofia abbia un rapporto di esternità e contemporaneamente d’internità con la politica per me è un’ovvietà. Non è un qualcosa di strano a cui arrivare attraverso percorsi complicati, ma è quasi, come direbbero i greci antichi, un postulato. Se Nancy dice che la filosofia è nata come contemplazione ed oggi non si tratta di contemplare, è semplicemente errato. La filosofia non è mai nata come contemplazione. Secondo me è un equivoco che nasce da una frase nobile ma errata di Aristotele che fa nascere la filosofia dalla meraviglia. Perché, sia nella antica Grecia sia nella Cina, nella valle del fiume giallo di Confucio, che erano due zone che non si conoscevano reciprocamente, la filosofia non è nata come contemplazione, ma come risposta concreta ai fenomeni di convivenza. Perciò io non riesco a prendere sul serio questa definizione di Nancy perché essa parte da un presupposto inesistente. Secondo me, la filosofia non è mai nata come contemplazione.

SH: All’inizio hai accennato che Heidegger non era in grado di fare una deduzione sociale delle categorie. Poi infatti la spiegazione dello spazio e del tempo che hai dato è un esempio di questa deduzione sociale. Ed anche questa riflessione sulla nascita sociale di filosofia è legata a una tale deduzione. Allora visto che molte riflessioni esposte da te si basano su questa operazione deduttiva, ci potresti spiegare il concetto?
PREVE: Quando si parla di deduzione sociale delle categorie, innanzitutto io intendo le categorie filosofiche e non soltanto quelle ideologiche. È assolutamente chiaro ed ovvio che l’ideologia ha un’origine sociale, perché la stessa parola ideologia rivela in quanto tale che l’ideologia viene prodotta socialmente per rispondere ai bisogni di legittimazione delle classi dominanti verso le classi dominate. Questo è evidente per l’ideologia, ma è meno evidente per la filosofia. Si vorrebbe far apparire la filosofia come se fosse nata al tempo dei greci non in modo sociale ma per un miracolo greco: improvvisamente i greci, popolo indoeuropeo geniale, avrebbe scoperto la filosofia. Lo stesso Aristotele parla di meraviglia. Questo vuol dire che le idee filosofiche cadono dal cielo. Io invece penso che non soltanto le categorie ideologiche ma anche le categorie filosofiche devono essere socialmente dedotte. Questo fatto ovviamente comporta il pericolo del riduzionismo sociologico e del relativismo nichilistico, cioè del ridurre le categorie filosofiche soltanto a un episodio puramente ideologico-storico, togliendogli ogni carattere veritativo. Questo problema può essere agevolmente superato distinguendo quello che si chiama in tedesco Genesis e Geltung, cioè il fatto che c’è una genesi particolare e una validità potenzialmente universale.
In realtà le principali categorie della filosofia greca antica, chiamata erroneamente presocratica, perché in fondo Socrate è al servizio ideale della polis esattamente come Talete, Anassimandro o Pitagora, nascono sulle basi comunitarie per rispondere ad esigenze di mantenimento della comunità contro la sua dissoluzione.

SH: Quando si teorizza una deduzione sociale delle categorie, uno dei primi riferimenti che emerge è Kant (almeno per quanto riguarda il termine deduzione). E dunque, se in Kant abbiamo una quid iuris, deduzione della legitimità e della validità dell’uso di concetti, la deduzione sociale potrebbe sembrare antikantiana in quanto esce fuori dal regno trascendentale del soggetto. Però se ci pensiamo un attimo, la deduzione sociale delle categorie come una sorta di quid iuris politicamente contestualizzato sviluppa e porta il trascendentalismo di Kant fino alle sue ultime conseguenze. Per di più, la deduzione sociale può spiegare anche la deduzione trascendentale di Kant dal punto di vista delle esigenze sociali dell’epoca.
PREVE: Direi che questa è una buona impostazione. Negli anni Venti e Trenta del Novecento il pensatore tedesco Alfred Sohn-Rethel fu il primo a proporre la deduzione sociale delle categorie suscitando l’entusiasmo di Adorno in una loro corrispondenza. Horkheiemer invece la respinse, perché vide in questo tentativo di Sohn-Rethel una sorta di caduta nel relativismo sociologico, e pertanto si oppose. In questo modo buttò via il bambino con l’acqua sporca. Secondo me quello che dici tu può essere inteso in due modi: noi possiamo contrapporre la deduzione sociale delle categorie a quella trascendentale di Kant e a quella fenomenologica di Husserl; in questo caso abbiamo una terza posizione contrapposta. Poi c’è un altro modo che secondo me è altrettanto legittimo: possiamo pensare che la deduzione sociale delle categorie non rompa con quella trascendentale di Kant e quella fenomenologica di Husserl, ma semplicemente ci sia una Aufhebung, un superamento e una contestualizzazione.
Detto questo, secondo me, l’Io penso kantiano è fondamentalmente destoricizzato e desocializzato. Ich denke perciò non è dedotto socialmente. E se mi si chiede se in Kant ci sia in un certo senso l’origine della deduzione sociale delle categorie, direi di no, perché Ich denke è come Ego cogito di Cartesio, completamente destoricizzato e desocializzato: viene posto fuori dello spazio e del tempo.

SH: Sì, ma il fatto che Kant non esegua una deduzione sociale delle categorie, non vuol dire che questa deduzione non sia applicabile allo stesso Kant. Anzi, sicuramente c’erano le esigenze sociali per impostare anche l’Ich denke trascendentale.
PREVE: In un certo senso, e parzialmente, lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel è proprio questo. Perché lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel parte dall’Ich denke di Kant cercando di storicizzarlo, attraverso l’insegnamento di Vico e attraverso l’impostazione di Spinoza che non separa le categorie dell’essere e le categorie del pensiero. In un certo senso il primo idealismo di Fichte e di Hegel rappresenta già un tentativo di concretizzare storicamente la deduzione trascendentale di Kant.

SH: Una delle mie domande precedenti, quella sul fuori/dentro filosofico, era mirata a una critica della tendenza attuale, cioè alla filosofia che si riduce alla storiografia filosofica autarchica, all’analitica logico-semantica, oppure ad una sorta del esistenzialismo dove filosofia diventa quasi un’esperienza mistico-personale. In tutte queste declinazioni non c’è quel “fuori” filosofico-politico, e perciò non c’è niente di sovversivo in queste filosofie.
PREVE: Su questo voglio dire la cosa che ritengo più importante. Bisogna distinguere con grande chiarezza il problema storico e teorico della filosofia come forma di vita occidentale poi globalizzatasi, vecchia ormai di 2000 anni, e un secondo problema che non ha nessun rapporto con il primo, che è l’organizzazione universitaria delle facoltà di filosofia, le quali oggi non hanno più nessun rapporto con la filosofia. Quando dico nessun rapporto, intendo dire nessuno. Non sto dicendo un rapporto debole, fragile … ma nessuno per motivi storici che si possono spiegare. Le moderne facoltà di filosofia sono nate alla fine del Settecento, all’inizio del Ottocento, nel tempo di Kant e Hegel. Ma nella seconda metà dell‘Ottocento hanno assunto in Europa un carattere sostanzialmente positivistico e neokantiano, concentrato sulla teoria della conoscenza. Le tecniche di cooptazione dei giovani filosofi sono tecniche, diciamo così, patriarcali perché il giovane filosofo è scelto dal cattedratico sulla base di simpatia/antipatia con la propria affinità. Per cui Kant verrebbe bocciato con la Critica della ragion pura, e Hegel verrebbe bocciato a un concorso con la Scienza della Logica, in quanto i concorsi di filosofia vengono fatti su base citatologica, cioè con una corretta citatologia, se possibile in greco antico o tedesco, ma fra poco soltanto in basic english. Questo è un fenomeno che si sta sviluppando e che secondo me deve essere interpretato in questo modo: l’ultimo periodo storico in cui c’è ancora stato rapporto fra filosofia universitaria e pratica politica generale della filosofia sono stati gli anni di metà Nocevento, dal 1920 al 1970-75, gli anni di Lukács, Bloch, Kosík, Marcuse, Petrović, Heidegger. Gli anni in cui filosofi erano nazisti, comunisti, socialisti, liberali etc.; ghli anni in cui i filosofi, oltre ad essere cattedratici, erano anche impegnati nelle grande ideologie del tempo. I comunisti Bloch e Lukács, il nazional-socialista Heidegger, il liberale Popper. In questi 50 anni il dibattito filosofico aveva ancora un rapporto con la riproduzione universitaria. Secondo me questo rapporto è finito negli anni Ottanta del Novecento, e per cui da circa 30 anni, in questa congiuntura storica, la filosofia non ha più nessun rapporto con l’università. Esistono certamente ancora alcuni professori universitari che praticano liberamente filosofia perché sono dotati etc., però l’organizzazione in quanto tale è …

SH: … è antifilosofica …
PREVE: Peggio. È una forma di criminalità se mi permetti, di criminalità bianca. La definirei così. Normalmente non è sanguinaria, le persone non vengono uccise …

SH: Ma non ne sono sicuro. Intellettualmente e simbolicamente alcune persone vengono anche” uccise”. O il tentativo almeno c’è.
PREVE: Ad esempio nell’ultimo romanzo poliziesco di Petros Markaris intitolato L’Esattore che ho letto in greco, il protagonista dice: «Lo Stato greco è l’unica mafia fallita». Lui dice che le mafie di solito non falliscono, si arricchiscono con il traffico di armi, droga, prostituzione etc., ma lo Stato greco inteso come clientelismo è l’unica mafia fallita.

SH: Vale anche per gli altri Stati?
PREVE: Meno. Nel senso che la classe politica greca ha fatto pagare prezzi giganteschi al popolo greco. Ora accade anche in Spagna, Portogallo, e io penso che l’Italia abbia ancora due-tre anni prima di sprofondare. Tu sai che gli orsi per andare in letargo devono avere del grasso, perché se l’orso andasse in letargo senza grasso, soltanto pelle e ossa, morirebbe. La Grecia e la Spagna sono gli orsi senza grasso, e l’Italia ha ancora due-tre anni di grasso.

L’attualità di Hegel, comunitarismo e capitalismo
SH: Anche su questo argomento torneremo, particolarmente su quello che sta succedendo nella Grecia. Ma ora ci aspetta Hegel. Oggi si nota una certa rinascita del pensiero hegeliano sull’orizzonte globale, si parla addirittura del Hegelian turn, nei quotidiani escono ad esempio gli articoli intitolati Hegel on Wall Street e così via. Comunque la questione è sempre in che modo si riprende Hegel. Tu sei uno dei pochi filosofi italiani che esprime e prende una posizione esplicitamente e chiaramente hegeliana. Quando si parla del ritorno a Hegel c’è sempre la questione: quale Hegel?. Tu vedi Hegel come un rimedio filosofico contro il neoliberismo capitalistico di oggi e perciò in questo sta la sua attualità
PREVE: Non soltanto in questo, ma anche in questo.

SH: Allora, alla domanda: Quale Hegel? Rispondiamo Hegel filosofo della comunità, Hegel comunitarista?
PREVE: Dunque, tu sai molto bene che un grande filosofo come Hegel, e questo vale anche per Platone, Kant, Spinoza, Aristotele, non può essere ridotto ad una sola dimensione. La ricchezza inesauribile di Hegel sta proprio nel fatto che non c’è soltanto un aspetto di Hegel. Quando leggiamo ad esempio l’Estetica di Hegel vediamo che le sue osservazioni sulla storia dell’arte, sull’arte greca e l’arte fiamminga non posso essere ridotte a l’Hegel politico. Vediamo anche che la sua ricostruzione storica della filosofia greca e moderna non può essere ridotta a l’Hegel politico; per cui facendo una permessa che Hegel è un pensatore multiversum, direi che la sua attualità consiste nel fatto che Hegel è completamente alternativo alla fondazione del neoliberismo, il quale per la sua fondazione trova Hume. In Inghilterra hanno fatto un concorso su quello che la gente considerava essere il più grande filosofo. È venuto fuori Marx. The Economist scese in campo per impedire che Marx vincesse – ma poi Marx ha vinto –, e ha proposto come alternativa Hume, mentre gli altri filosofi come Hegel hanno avuto score molto basso. Questa questione è molto significativa e molto importante, perché il liberalismo capitalistico, che è una forma di dittatura dell’economia finanziaria, non ha bisogno di nessuna fondazione filosofica. Dunque non ha bisogno né di Dio, né della religione che viene derubricata ad assistenza per drogati, poveracci e popolo infelice; non ha bisogno della filosofia, non ha bisogno della politica, perché si basa sulla premessa tipicamente humiana empirista dell’autofondazione del capitalismo su se stesso come attesa dello scambio di merci fra venditori e compratori, cioè la teoria humiana della natura umana dove la natura umana di per sé, essendo basata su una serie di attese ed aspettative del compratore-venditore, ha messo le basi per l’economia politica di Smith (anche lui amico di Hume). A questo punto che è successo? Che per 200 anni la borghesia ha ancora avuto una coscienza infelice, per usare linguaggio hegeliano. E la coscienza infelice della borghesia si chiama dialettica. Perciò abbiamo avuto 200 anni di Marx, Adorno, Lukacs, cioè 200 anni sia degli amici della dialettica sia dei nemici della dialettica (Althusser). Secondo me attualmente viviamo in un capitalismo largamente postborghese e postproletario – il che è il mio concetto fondamentale, per cui un capitalismo postborghese e postproletario continua ad essere capitalismo ma non è più caratterizzato né dalla coscienza infelice borghese, né della coscienza utopica proletaria. A questo punto le facoltà di filosofia perdono ogni significato politico per cui i discorsi di Esposito e simili mi sembrano del tutto privi di realismo perché richiamano semplicemente un fatto intorno a cui non vediamo nulla.

SH: Capitalismo postborghese. E la distinzione tra borghesia e capitalismo?
PREVE: In tutti i miei libri ho sempre lavorato sulla distinzione metodologica fra borghesia e capitalismo. In primo luogo Marx non dice mai la parola Kapitalismus che nasce con Sombart e con la socialdemocrazia tedesca. Marx dice sempre Produktionsweisen, i modi della produzione capitalista. E questa differenza non è puramente linguistica e sofistica, bensì strutturale. Per Marx il modo di produzione capitalistico è un meccanismo riproduttivo anonimo ed impersonale come il Gestell in Heidegger, che potrebbe essere definitivo capitalismo senza opposizione dialettica. La concezione heideggeriana di tecnica ricopre completamente la concezione marxiana di capitalismo togliendole però l’aspetto utopico dialettico coscienziale rivoluzionario. Se andiamo al di là della chiacchera su Heidegger come amante di Arendt o come nazista, e cerchiamo invece di entrare nella sua filosofia, noi vediamo che la sua filosofia tende a descrivere il dominio anonimo ed impersonale che lui chiama Gestell (dipositif in francese è la traduzione molto corretta perché dà l’idea di qualcosa di anonimo, qualcosa che è fuori controllo dell’umanesimo). L’antiumanesimo di Heidegger distinto da quello degli strutturalisti alla Althuser è un segnale di impotenza. Nella sua Lettera sull’Umanesimo rivolta a Sartre, lui fondamentalmente fa un diagnosi di impotenza. L’umanesimo, ci sia o non ci sia, è comunque impotente, e gira su se stesso. La filosofia di Heidegger è una diagnosi marxiana a cui viene tolta semplicemente la rivoluzione. Però è una cosa grossa.

SH: Secondo me il valore epocale di Hegel non sta soltanto nella sua nota differenza tra la società civile e lo Stato, ma nel fatto che già la società civile in Hegel provvede gli strumenti e le istituzioni contro una deviaziane potenziale (e qua non sarebbe sbagliato interpretare “potenziale” come dynamis) del principo soggettivo della particolarità liberata. Cioè, i momenti di amministrazione della giustizia, di polizia (che vuol dire anche assistenza sociale), di corporazione, etc., sono già i momenti fondativi per uno stato sociale. E se ne teniamo conto concludiamo che già al livello della bürgerliche Geselschaft abbiamo un Hegel che propone una sorta di welfare, la protezione sociale e il diritto al benessere.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa analisi, ed essere d’accordo al cento per cento capita molto raramente in filosofia. In Italia, ma anche altrove, c’è l’idea che bürgerliche Geselschaft sia la parola tedesca per dire civil society. É un errore enorme. Perchè civil society anglosassone è concepita come luogo di mercato delle merci e delle opinioni, e non come organizzazione statuale della comunità pur in presenza di un’economia dello scambio capitalistico. Penso che si tratti di un concetto che si può spiegare tranquillamente dopo appena un mese di corso su Hegel. Il fatto che ci sia tanta ignoranza su questo io lo spiego in maniera sociale: come vera e propria volontà di censurare un pensiero dialettico e sociale che intreccia economia e politica in favore di un pensiero che separa completamente economia e politica, e questa separazione è un vero problema del capitalismo. È chiaro allora che le facoltà di filosofia, che sono povere serve del capitalismo, lavorino per questo. Mentre le facoltà di economia offrono direttamente dei managers all’apparato capitalistico, le facoltà di filosofia diventano completamente inutili. Sono delle nicchie marginali che vengono mantenute come si mantengono certi animali rari nello zoo, tipo panda e così via … vengono mantenute purché non rompano le scatole. E il modo migliore affinché non rompano le scatole è togliergli ogni espressività politica, ogni espressività comunitaria e trasformarle in meccanismi di citatologia e di nicchie postmoderne.

SH: Andrei anche oltre partendo dalla mia riflessione precedente. Hegel anche ci dice che quello che nel linguaggio di oggi potremmo chiamare welfare, non basta. Il mito della socialdemocrazia non è sufficiente, e l’altra questione è se oggi è possibile. Hegel ci dice che, in modo dialettico, se vogliamo la protezione sociale e il diritto al benessere, Soziale Sorge e il bene comune, ci vuole un orizzonte più alto della comunità. E proprio quello bisogno contrassegna il passaggio dalla società civile allo stato. Questo è secondo me il punto di estremo rilievo. La società civile può funzionare giustamente purché ci sia un orizzonte del mutuo riconoscimento politico-sociale, un orizzonte di Noi – l’idea dello Stato in Hegel.
PREVE: Sono ancora pienamente d’accordo con quello che dici. Sono cose che si sentono dire molto poco mentre invece è basilare dirle. Il passaggio dalla società civile allo stato non deve essere interpretato come una forma di burocrazia statalista, ma deve essere interpretato come un inveramento etico-comunitario, in mancanza del quale uno Stato non può funzionare unicamente come Sorge socialdemocratica o comunista nel senso del comunismo storico novecentesco, che si è sviluppato come una sorta di socialdemocrazia povera che garantiva in maniera dispotica la piena occupazione e le cure mediche gratuite (in Russia, Polonia, ovviamente il caso di Iugoslavia era un po’ diverso). Tuttavia c’era ugualmente l’antipatia e l’avversione da parte della stragrande maggioranza della popolazione. Questo fenomeno apparentemente incomprensibile viene spiegato generalmente o con la mancanza dei beni di consumo, per cui Polacchi e Ungheresi volevano passare dalla Trabant alla vera automobile Mercedes, oppure come dispotismo burocratico nella spiegazione trotzkista del fato che i burocrati rubavano, mangiavano, saccheggiavano e nominavano i loro amici, parenti, amanti etc. … Tutte queste spiegazioni colgono soltanto parzialmente il fatto fondamentale, cioè che lo Stato comunista non è mai riuscito ad esser percepito dalla maggioranza della popolazione come realizzazione di una Sittlichkeit, cioè di una eticità soddisfacente.
Stessa cosa oggi con la socialdemocrazia. Noi abbiamo il SPD in Germania, Holland in Francia, in Italia neanche questo perché la degradazione del vecchio PCI è stata distruttiva, nel senso che l’Italia è attualmente il paese che ha meno sinistra. Non so come è da te?
SH: Anche nella Serbia è così, ma per altri motivi.
PREVE: Ecco, lì si tratta di una elaborazione e di un superamento del lutto e dell’odio. Per ancora molti anni in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Serbia non si potrà parlare del socialismo. Questo fatto è molto triste perché impedisce quello che psicologi chiamano l’elaborazione del lutto e l’elaborazione della coscienza. Tu non puoi a lungo espellere la prospettiva anti-capitalista per il fatto che essa è stata a suo tempo inquinata ed infangata dal sistema despotico del socialismo reale, che io attribuisco alla fondamentale incapacità d’egemonia della classe operaia proletaria, con tutto il rispetto per gli operai di fabbrica, per i contadini poveri e i lavoratori manuali (io ho grande disprezzo per gli atteggiamenti intellettualistici verso il lavoro manuale di chi pensa che, sapendo tedesco ed inglese, deve essere superiore); però dobbiamo constatare – usando il linguaggio di Gramsci – che i ceti popolari non sono mai riusciti ad avere un’egemonia sulla società, per cui hanno dovuto sostituire l’egemonia con il despotismo burocratico-militare. E questo fatto è imprevedibile in Hegel e Marx. Fermandosi alla lettera di Fichte, di Hegel e di Marx non può essere previsto, perché è un fenomeno che si fa strada alla fine del Ottocento e nei primi del Novecento, perché nei tempi di Hegel, ma secondo me anche di Marx, non c’era ancora una presenza sociologica dominante della classe operaia proletaria. C’era già la massa dei poveri contadini, che però non era visibile agli occhi del filosofo.

SH: Ritengo importantissima una interpretazione del fallimento del comunismo storico novecentesco a partire dal concetto di Sittlichkeit. Però tornando a Hegel (ribadendo di nuovo un “Ritorno a Hegel) secondo me è importante tenere un piano di lettura di Hegel su cui insisti anche tu, cioè la sintesi tra il piano trascendentale logico-ontologico e la prospettiva storica. Perché se diamo uno sguardo agli studiosi di Hegel, negli ultimi 150 anni sembra che si dividano in due gruppi: quelli che leggono la Fenomenologia dello Spirito senza la Logica, e quelli che leggono la Scienza della Logica senza Fenomenologia, mentre si tratta di leggerli insieme. Ed aggiungerei anche: leggere la Filosofia del diritto insieme alla Scienza della Logica.
PREVE: Ed ancora una volta sono totalmente d’accordo con questa impostazione. Se tu leggi Hegel senza Scienza della logica Hegel diventa uno storicista, e lo storicismo è l’anticamera del relativismo. Se invece tu leggi la Scienza della logica unicamente come sintesi di ontologia e logica, tu leggi Hegel in modo spinoziano come chi ha costruito una cattedrale puramente astratta che non ha nessun rapporto con il mondo reale, e sta in un mondo platonico-celeste. In realtà Hegel va letto insieme, sia come pensatore del processo storico di autocoscienza attraverso le figure della negazione, sia come pensatore che ha un robusto ancoraggio ontologico, come gli antichi greci e come Spinoza, diverso certamente, perché è dialettico e strutturato nella differenza tra essere, essenza e concetto. A questo punto Marx non è stato letto in maniera correttamente hegeliana, perché se si leggesse Marx in maniera hegeliana la produzione generale corrisponderebbe alla logica dell’essere, il capitalismo come la sua negazione alla logica dell’essenza, e l’autocoscienza comunista, intesa come autocoscienza etica della libertà, alla logica del concetto. In questa maniera Marx non fu letto neppure da Lenin, che pure si dichiarava ammiratore della Logica di Hegel, ma trascurava completamente l’aspetto idealistico, perché secondo me Lenin non capiva che il materialismo di Marx era metaforico, che il fondamento della filosofia di Marx non era la materia, ma la storia intesa come idea unificata del tempo.

SH: Ho dimenticato di dire che la tua “iniziazione” al pensiero hegeliano era avvenuta attraverso i corsi di Hyppolite che hai seguito a Parigi negli anni Sessanta.
PREVE: Io ho sempre pensato che Hyppolite avesse ragione. Solo che purtroppo in quel momento storico Hyppolite era un grande professore, ma non aveva nessuna influenza politica. Mentre invece Althusser, che secondo me capiva molto meno di Hegel ed aveva di Hegel una concezione completamente sbagliata, è riuscito ad intercettare il momento storico militante, il grande lavoro di Hyppolite tradotto in molte lingue è rimasto isolato.

Le figure antropologiche di Nietzsche: l’Übermensch e l’ultimo uomo
SH: Nietzsche è un altro filosofo cruciale per capire le contraddizioni e i limiti della Modernità. Nietzsche è spesso posto agli antipodi di Hegel, dove quest’ultimo rappresenta il culmine di una tradizione razionalista e idealista, mentre Nietzsche sarebbe l’inizio di una filosofia anti-metafisica che porta al postmoderno. Ma è davvero Nietzsche così opposto a Hegel, oppure questi due pensatori qualche volta sembrano molto più vicini di quanto si pensi?
PREVE: Allora, per poter rispondere a questa domanda bisogna vedere se per caso il problema a cui cercano di rispondere sia Hegel che Nietzsche sia un problema identico, o se non identico almeno omologo, oppure comparabile. Onestamente mi sembra di no. Perché mi sembra che Hegel affronti, in modo a mio parere corretto, i limiti dell’illuminismo e della filosofia kantiana senza respingerli completamente, e cerchi di assumere l’eredità greca interpretandola correttamente a partire da Platone ed Aristotele. Secondo me in Hegel c’è una corretta interpretazione sia dell’eredità greca, che in lui passa attraverso il filtro del cristianesimo (a differenza di Nietzsche che pensa che essa sia una decadenza), sia dell’illuminismo nella forma del suo elemento positivo di lotta contro il dispotismo dei gesuiti. Tra l’altro io non sono d’accordo con Hegel quando dice che c’è soltanto la filosofia greca, e respinge la filosofia cinese e indiana. Secondo me è un errore comprensibile nel 1820 ma oggi assolutamente intollerabile.
Nietzsche basa la sua diagnosi su alcuni equivoci fondamentali. In primo luogo vede Socrate come l’inizio della decadenza greca. E non dimentichiamo mai che Nietzsche non vede soltanto il cristianesimo come decadenza, come protesta dei poveri e malriusciti, come sublimazione dell’invidia. Questo dice apertamente e continuamente. E questo impedisce di avere del cristianesimo una visione dialettica, perché anche uno che non è credente come me, come filosofo cerca di interpretare l’evento cristiano in termini storico-dialettici, e non semplicemente come caduta nella decadenza.
Perciò Nietzsche respinge l’intera filosofia greca classica evocando una fondamentale sapienza greca, dionisiaca ed apollinea, che avrebbe preceduto il vero ruolo della filosofia, cosa che parzialmente fa Heidegger. Ora, questo è un mito d’origine, cioè un mito secondo il quale prima della filosofia greca che è già decadenza, ci sarebbe stato un momento precedente non decadente; secondo me tutto questo è completamente falso. Se poi pensiamo alla critica di Nietzsche della società borghese del suo tempo, essa è in buona parte profonda e riveltarice. Anche se non esagererei il carattere di originalità. La concezione del soggetto di Nietzsche c’era già in Hume come fascio di sensazioni e come polemica contro l’unità del soggetto che è il presupposto della filosofia di Cartesio, di Kant e di Hegel. Perciò la grande moda di Nietzsche, contrapposta a Hegel ed anche a Marx, rappresenta storicamente –a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento – un episodio di stanchezza degli intellettuali europei nei confronti dello storicismo ottimistico-marxista che essi avevano coltivato spesso contro voglia per 20-30 anni, e in cui hanno smesso di credere. È la loro delusione nei confronti della loro precedente illusione. Perché l’illusione diventa delusione e porta alla collusione, cioè la collusione con il potere. Spero che ciò sia traducibile in serbo.
SH: Però c’è un’altra figura nietzscheana che è quella dello Uebermensch. Mi interessa a questo punto la linea interpretativa Hegel-Marx-Nietzsche. E tra l’altro un abbinamento tra Hegel e Nietzsche si trova in Vattimo, almeno nel suo libro Il soggetto e la maschera, che comunque lui poi ha riveduto dicendo che era troppo aperto al pensiero dialettico. E in questo testo di Vattimo si trova l’idea che lo spirito assoluto si realizza con l’oltreuomo, cioè, l’oltreuomo nietzscheano sarebbe una sorta di figura antropologica che corrisponde per certi versi all’ontologia di Hegel. Perché entrambe le figure, antropologica in Nietzsche e ontologica in Hegel, secondo Vattimo rappresentano un punto finale di risoluzione del conflitto tra l’esistenza e il senso, che poi non è niente altro che quel conflitto che costituisce la coscienza infelice in Hegel.
PREVE: In primo luogo il termine tedesco Übermensch non può essere tradotto in italiano. È assolutamente intraducibile. Sia tradurlo come oltreuomo sia come superuomo è arbitrario. Nel momento in cui la parola tedesca Über può voler dire sia “sopra” che “oltre”, ogni traduzione è arbitraria. La cosa migliore è non tradurlo, segnalare e lasciare la parola in originale. Non so com’è in lingua serba, ma per l’italiano la penso così. Poi passando all’Übermensch, io credo che Nietzsche volesse dare un disegno antropologico della situazione contemporanea che deve essere paragonata a quello che lui chiama l’eremita, l’uomo superiore e l’ultimo uomo. Nel Così parlò Zarathustra Nietzsche fa una sorta di cartina, di mappa antropologica in cui sostiene il rapporto tra l’informazione e la morte di Dio. L’eremita è colui che abitando nelle montagne non è ancora informato della morte di Dio e pensa che Dio ci sia ancora. L’ultimo uomo è un uomo informatissimo della morte di Dio e che ne trae come conclusione e conseguenza che tutto è possibile. Allora, io credo che Nietzsche in un certo senso abbia presagito l’equivoco che poteva nascere nel Così parlò Zarathustra. E tutte le figure del nano, del serpente, danno luogo ad una sua consapevolezza dell’equivocità di quello che stava dicendo. Ed io ritengo che l’evocazione della figura dell’Übermensch fosse in certo senso una risposta preventiva ai fraintendimenti dell’Übermensch in termini di ultimo uomo.
Per quello che riguarda invece Hegel, io non sono convinto che in Hegel ci sia una fine antropologica della storia con inveramento del superamento integrale della coscienza infelice. Mi rendo conto che questa è soltanto una mia interpretazione. E non dimentico mai che la Scienza della Logica di Hegel non può mai realizzarsi una volta per tutte nella storia temporale, in quanto non c’è mai una sovrapposizione completa fra logica e storia. Così io vedo Hegel. Se ci fosse una sovrapposizione integrale fra logica e storia avremmo anche la fine della storia come un coperchio sopra una pentola. A questo punto potremmo interpretare l’ultimo capitolo della Fenomenologia come coronamento antropologico delle vicende della coscienza infelice, e lo spirito assoluto come luogo del coronamento antropologico. Io non sono affatto d’accordo.

SH: Sì, certo che non c’è un coronamento antropologico, ma sicuramente è una realizzazione ontologica, che poi non vuol dire necessariamente la chiusura, come spesso si interpreta.
PREVE: È tutt’un’altra storia. Secondo me lo spirito assoluto apre la storia. Sia nella forma dell’arte che della religione che della filosofia, lo spirito assoluto significa un rifiuto di chiudere il sistema. È il punto fondamentale. Se noi prendiamo il sistema di Hegel e lo chiudiamo, cadiamo in un equivoco grottesco che va contro lo spirito di Hegel. L’equivoco linguistico che Hegel ha lasciato quando morì è dovuto al suo eccesso di polemica contro Kant e Fichte, con il fatto che lui voleva ad ogni costo rompere con l’idea dell’epoca della compiuta peccaminosità fichtiana e rompere con quello che lui chiama la cattiva infinità in Kant. Secondo me Hegel fa bene a rompere con Kant, ma esagera un po’.
Poi, si è parlato molto di giovane Hegel alla fine degli anni Novanta nelle su varie fasi religiose, cristiane, anche la fase schelingiana, etc. Però, secondo la mia opinione, c’è una sopravalutazione del giovane Hegel. Il giovane Hegel secondo me non è molto interessante. Hegel comincia ad essere interessante nel 1803 con la sua rottura con Schelling e diventa veramente interessante con la Fenomenologia. Fatta questa premessa, che Hegel è veramente interessante dopo i 33 anni mentre il giovane Hegel è oggetto di tesi di laurea e di erudizione filosofico-biografica, ma secondo me non presenta un particolare interesse, darei un’interpretazione dell’interesse esagerato per il giovane Hegel. Tutta la corrente di pensiero alla Löwith vuole dire che Hegel non fa altro che secolarizzare l’escatologia cristiana. Allora, per poter sostenere questa tesi folle e per ridurre Hegel fondamentalmente a un burattino, bisogna ridurlo a quando aveva 26 anni, a quando era ancora invischiato fra l’interesse verso la grecità, l’interesse verso il cristianesimo: il che è vero, ma lo ha superato nel momento in cui individua nella filosofia il luogo di ricomposizione dell’intero scisso, dell’intero sociale spezzato. Soltanto quando Hegel capisce – e lo capisce intorno ai 33 anni – che la filosofia è il luogo privilegiato di ricomposizione dell’intero sociale, della comunità spezzata, e che il criticismo di Kant non è sufficiente perché è una metafisica di Verstand, Hegel diventa interessante.
Per tornare a Nietzsche, io credo che Nietzsche voglia una nuova antropologia. Sia il modo in cui considera i greci, sia il modo in cui considera i moderni mostra che egli è alla ricerca di un’antropologia dello Übermensch. Ora, il problema di Hegel non è antropologico, ma filosofico: il problema è quello della autocoscienza. L’ontologia correttamente intesa dà luogo automaticamante a una ricaduta che poi di fatto è anche antropologica, ma è sempre comunitaria. Nella misura in cui Nietzsche è un pensatore radicalmente anticomunitario e individualistico, finisce con l’arrivare alle stesse conclusioni di Locke e di Hume semplicemente in un linguaggio tragico. E per questo piace agli intellettuali postmoderni, perché dà loro una medicina per poter rompere con Hegel, Marx e la dialettica.

SH: Questa considerazione su Nietzsche come pensatore radicalmente individualista e come critico dei valori borghese-cristiani mi fa pensare all’ orizzonte culturale del Sessantotto. E non per caso dagli anni Settanta del Novecento abbiamo una rinascita dell’interesse per Nietzsche (Deleuze, Foucault in Francia, Vattimo e Cacciari in Italia etc.)
PREVE: Il Sessantotto è stato fondamentalmente una riforma radicale del costume antiborghese che si è pensato con falsa coscienza necessaria come anticapitalistico. Si creò un equivoco. I residui del pensiero borghese (tipo la famiglia) che erano quelli che sorreggevano la coscienza infelice nella sua ultima forma – che era la Scuola di Francoforte – furono completamente distrutti. Il Sessantotto non ha ucciso soltanto Lukács e Bloch, ma anche Adorno. È stata, diciamo così, un’apoteosi, una festa dell’individualismo, sebbene nella forma nuova. Non è più vecchio individualismo borghese razionalistico e positivistico, ma è l’immaginazione al potere, lo scatenamento del desiderio. Questo spiega perché la scuola di Deleuze, Guattari e Negri mette al posto del bisogno il desiderio. Invece Hegel è un filosofo del bisogno.

SH: Per dire il vero c’è anche la figura del desiderio nella Fenomenologia dello spirito come la prima figura dell’autocoscienza…
PREVE: É un’altra cosa. Il desiderio (Begierde) hegeliano è un momento dell’autocoscienza, il momento in cui essa si sviluppa. Il desiderio puro in quanto tale deve essere aufgehoben. Perciò non c’entra per nulla con il desiderio di Deleuze.

SH: Certo. Perché è la questione del soggetto ad essere in gioco. Il desiderio hegeliano è il momento costitutivo della soggettività, mentre negli autori francesi il desiderio è proprio quello che fa parte della dissoluzione del soggetto autoriflessivo.
PREVE: Direi che è questo e lo sottoscrivo.

Marx – pensatore epocale,
comunismo storico e comunismo come giudizio riflettente
SH: Perché Marx inattuale, citando il titolo di un tuo libro? Cosa è ancora vivo in Marx e cosa è invece ciò che bisogna rivedere, ripensare e ricostruire?
PREVE: Il titolo Marx inattuale non è un mio titolo, ma fu suggerito dalla casa editrice Bollati Boringhieri che voleva usare il termine nietzscheano “inattuale” per dire più che attuale. Secondo me questo è una sofisticazione intellettuale, e io avrei preferito un titolo più noioso, ma diverso. Fatto questo chiarimento, direi che Marx è un pensatore epocale. In quanto pensatore epocale lui è sempre attuale e sempre inattuale. Marx è entrato in quella sfera di pochissimi pensatori occidentali, tipo Platone, Aristotele, Spinoza etc. che non superano cinque-dieci. E perciò Marx sarà attuale anche fra 500 anni. Perché Marx è un pensatore dentro il quale si intrecciano due cose: si intreccia una filosofia idealistica della storia come luogo dell’emancipazione e del superamento dell’alienazione, ed una scienza sociale dei modi di produzione, la quale offre alla storia del passato e del presente uno schema interpretativo basato su alcuni concetti (modi di produzione, rapporti di produzione, forze produttive, ideologia etc.), paragonabile allo schema di Weber o di Durkheim, ma secondo me migliore. Marx è un pensatore che non ha mai smesso di essere attuale. Quando è crollato il socialismo reale sia in Russia che in Iugoslavia, e in Cina si è trasformato in modo confuciano in un capitalismo dirigistico di Stato, gli intellettuali hanno rotto con Marx dichiarando che Marx è morto. Ma gli intellettuali essendo una categoria parassitaria ogni vent’anni dichiarano i morti. E questo fa parte della riproduzione del gruppo intellettuale come tale. Io personalmente per quello che riguarda gli intellettuali sono d’accordo con Pierre Bourdieu che li considera un gruppo dominato della classe dominante, per cui fanno parte della classe dominante avendo un capitale intellettuale da vendere, ma all’interno di essa sono un gruppo dominato dal capitale finanziario e dai capitalisti. E pertanto sono un gruppo sociale. E che sia chiaro che quando parlo degli intellettuali non parlo della singola persona che utilizza il proprio intelletto. Gli intellettuali come gruppo sociale moderno nascono con l’Illuminismo. Prima del Settecento non esistevano. E come gruppo politico nascono alla fine Ottocento con il caso Dreyfus. Io non mi considero un intellettuale. Sono uno studioso che parla 6 lingue e ha scritto 30 libri, però personalmente non appartengo a questo gruppo sociale. In Italia questo gruppo si definisce prima di tutto dall’adesione alla dicotomia sinistra-destra, poi si definisce in base al codice d’accesso al politicamente corretto.
Dunque, Marx è un pensatore epocale e gli intellettuali europei in preda al complesso di colpa per avere sostenuto l’utopia comunista di fronte al suo crollo apparso negli anni Ottanta, hanno rifiutato Marx riscoprendo Nietzsche, Heidegger, Hume, Popper e così via. Pochi intellettuali si sono opposti. Ad esempio, Žižek. Che non è l’unico, ma comunque non fa ancora massa critica, cioè una massa sufficiente per poter spostare veramente le cose.
Poi, c’è un’esperienza importante degli anni Sessanta: io, negli anni Sessanta, come molti ragazzi francesi ed italiani avevo le fidanzatine nei paesi socialisti. E andavo in questi paesi. Per essere simpatico dicevo sempre “I am a communist” provocando le reazioni di sospetto e di disgusto. Perché nella mia intenzione comunismo voleva dire l’utopia hegeliano-marxiana, ma per loro voleva dire la spia della polizia e il burocrate. Poi dopo un po’ mi sono accorto che bisogna dire “I am Italian”, e improvvisamente si aprivano tutte le porte.

SH: Devo ammettere che questo codice per aprire le porte vale anche oggi, anche se non c’è più il comunismo all’Est. È sopravvissuto alle ideologie. Noi nella rivista avremmo anche una sezione dedicata ai testi contemporanei che riattualizzano l’idea di comunismo. I molti libri recenti, le conferenze i dibattiti pubblici indicano un risveglio dell’interesse per il pensiero comunista (il fenomeno è abbastanza comprensibile data la crisi del capitalismo). Ti chiedo che ne pensi e potrei aggiungere anche un’altra domanda che è il titolo di un testo di A. Negri: «é possibile essere comunisti senza Marx»?
PREVE: Risponderò prima all’ultima domanda e poi farò il mio bilancio storico del comunismo in quanto cittadino di un paese che non ha mai avuto il comunismo, ma soltanto una simulazione onirica del comunismo per cui erano chiamate comuniste le cooperative emiliane dell’Emilia-Romagna.
Si può essere comunisti senza Marx? È una domanda epocale. Io oserei dire di sì, ma è meglio essere comunisti con Marx perché Marx ci ha consegnato gli strumenti filosofici e scientifici di grande valore ancora attuali. Ma se proprio mi fai questa domanda in maniera brutale, risponderei di sì. È sufficiente la filosofia greca e lo spirito comunitario della filosofia greca. È chiaro che i greci non erano comunisti, però secondo me la filosofia greca classica nella variante di Platone e di Aristotele, e soprattutto dei presocratici che erano legislatori sociali, è sufficiente per il comunismo. Se poi il comunismo viene ridefinito attraverso la concezione hegeliana del comunitarismo, trascurando però l’analisi del plus-valore, pianificazione economica, etc., risponderei sì alla tua domanda. Ma è tuttavia meglio essere con Marx perché ci ha consegnato degli strumenti filosofici e scientifici inestimabili.
Poi, un conto è l’idea di comunismo e un conto è quello che io chiamo comunismo storico novecentesco. Il comunismo storico novecentesco è come la tomba con la data di nascita e di morte. È un fenomeno vissuto per 64 anni, nato nel 1917 e finito nel 1989 e di cui ancora resistono alcuni residui storici a Cuba, perché non c’è più né in Cina, né in Vietnam, né altrove. Come fenomeno finito ha espresso secondo me la volontà di liberazione di due classi povere, classe operaia di fabbrica e classe dei contadini poveri, che erano giustificati nel rivendicare il loro riconoscimento, per usare linguaggio hegeliano, ma che erano completamente incapaci d’egemonia e che hanno sostituito l’egemonia attraverso le figure dei capi carismatici come Tito, Stalin, Mao Tsetung e altri. Comunque figure temporanee come quella di Tito: la figura temporanea di antifascista, perché la legittimità della Iugoslavia si è basata quasi unicamente sull’antifascismo, e quando l’antifascismo è finito, improvvisamente Serbi, Croati, Sloveni e Macedoni hanno scoperto che sono diversi. Io continuo a pensare che la Iugoslavia era la soluzione migliore, cioè la meno peggiore, perché io considero le soluzioni migliori degli Stati multinazionali in cui le nazionalità sono intrecciate. Nei casi dove c’è la frontiera sicura come tra Francia e Italia, è facile fare una separazione, un divorzio, ma se popoli sono intrecciati come erano Serbi e Croati qualunque modo di separarvi era traumatico. Anche in Kosovo erano intrecciati Albanesi e Serbi. Poi, quando la Nato decise di bombardare la Serbia non lo fece per ragioni di giustizia, ma per ragioni geopolitiche, per insediare le basi americane. I serbi furono trasformati nel popolo balcanico selvaggio attraverso una campagna mediatica. Certo che c’erano i crimini della guerra, però non esistono i popoli malvagi. E questa è una vergogna dell’Occidente.
Per quanto riguarda l’idea di comunismo, io interpreto il comunismo in un modo che Marx ed Engels e Lenin avrebbero rifiutato, cioè il comunismo come un’ideale regolativo della ragion pura pratica, oppure il comunismo come giudizio riflettente e non determinante. Questo però verrebbe rifiutato da tutti i marxisti ufficiali del Novecento, sia quelli aderenti al materialismo dialettico sia quelli aderenti allo hegelo-marxismo di tipo lukacsiano. Un’altra opinione che io ho è che fra poco la gente sarà costretta a porsi il problema di comunismo, che non sarà più una questione di option. Penso che questo capitalismo finanziario sia talmente distruttivo anche se in questo momento non si vede ancora. Come dico l’orso ha ancora del grasso, e siccome ancora ha del grasso può andare in letargo, ma il letargo finisce quando il grasso finisce.

SH: Ad esempio, Slavoj Žižek dice che “comunismo” è piuttosto il nome di un problema, quando come oggi il bene comune sparisce nella privatizzazione totale.
PREVE: Non ho mai conosciuto Žižek, non l’ho mai visto, e personalmente non so qual è il motivo del suo successo: è una cosa a cui non so rispondere. Perché in generale tutti i pensatori anti-sistema vengono respinti dal mondo mediatico. Come sia possibile essere fuori sistema ed essere una star mediatica? Anche Chomsky lo è. E questa non è una critica. Se Žižek ha avuto questa fortuna ne sono contento, almeno dice cose importanti dentro lo spazio mediatico. Così noi abbiamo alcuni pensatori anticapitalisti che sono star. Non so perché, penso che alla nicchia del 2% di persone colte si possono lasciare Chomsky e Žižek. Mi ricordo di una frase di Althusser prima di morire: «Io sono famoso per la mia notorietà».

Althusser, Gramsci e il capitalismo aleatorio
SH: Siamo arrivati ad Althusser. Il tuo libro appena uscito, Lettera sull’Umanesimo, è dedicato ad Althusser. Potresti riassumere la tua posizione nei confronti di questo pensatore che tu hai conosciuto, diciamo così, alla nascita del suo pensiero negli anni Sessanta frequentando il circolo althusseriano?
PREVE: Dunque, io ero studente all’Università di Parigi negli anni Sessanta. Althusser non era professore ma bibliotecario all’École normale supérieure. Non ero suo allievo direttamente, ma sono stato amico di molti dei suoi allievi diretti, come E. Balibar, con cui siamo stati in rapporti di amicizia molto stretta. E poi, quando Althusser morì, ho partecipato al primo convegno fatto in lingua francese a Parigi dopo la sua morte che si chiamava Politique et theorie. Negli anni Sessanta ero indeciso fra Althusser e Hyppolite: cioè mi trovavo nella situazione dell’asino di Buridano tra due mucchi di fieno. Chiaramente questo è un paradosso e posso dirlo a distanza di 50 anni. Io ero attratto contemporaneamente dalla rivalutazione di Hegel fatta da Hyppolite (non dimentichiamo che i famosi saggi su Marx e Hegel furono pubblicati nel 1965 e sono contemporanei di Per Marx e Come leggere il Capitale), ed anche ero attratto dalla scientificità di Althusser e dalla critica della metafisica del soggetto. Ad un certo punto l’asino di Buridano ha dovuto decidere da quale parte andare. Il momento di verità per me è arrivato con la lettura di Lukács, della sua Ontologia dell’essere sociale, che nonostante non condivida in toto mi ha convinto fondamentalmente del rapporto organico tra Hegel e Marx. A questo punto ho smesso di essere althusseriano, ma smettere di esserlo non vuol dire buttare via tutti gli elementi razionali contenuti in Althusser.
Dunque, io ho scelto Hegel contro Althusser soltanto negli anni Ottanta. Ci sono arrivato a risolvere il mio problema soltanto negli anni Ottanta, quando mi è sembrato di capire che Althusser continuava ad avere una funzione storica molto positiva, perché secondo me la sua critica alla metafisica del soggetto, origine e fine continua ad essere intelligente, per cui non voglio buttarlo via completamente. Ma il suo rifiuto della dialettica e di Hegel secondo me è da respingere. Althusser definì quello di Hegel un Processo senza Soggetto. È una follia perché il soggetto in Hegel c’è, è l’Idea che diventa Spirito. Intanto Hegel rimprovera a Spinoza che non aveva pensato radicalmente la sostanza come soggetto. La mia impressione è che Althusser non sapesse quasi niente.

SH: Di Hegel …
PREVE: No, quasi niente di niente. Ma attenzione, non lo dico con disprezzo. Kant non sapeva quasi niente, leggeva solo i manuali. Kant conosceva Hume e Cartesio. Auguste Comte si vantava di non aver mai letto né Kant né Hegel. Per me per essere un filosofo creativo è utile ma non è necessario conoscere tutta la storia della filosofia, si può anche non conoscerla, fraintenderla ed essere creativi. Althusser non sapeva quasi niente. Non so cosa avesse letto. Ha letto Kojeve. Il suo Hegel passava attraverso Kojeve.
Da giovane Althusser era cattolico, fece anche dei pellegrinaggi cattolici a Roma nel 1948-49. E questo è molto importante; una delle cose che gli althusseriani nascondono di più. Esiste un libro di un certo Salvatore Azzaro che si chiama Althusser e la critica, che parla della gioventù cattolica di Althusser. E questo libro parla del fatto che Althusser fu prigioniero di guerra dal 1940-45, cominciò a mostrare in questo periodo alcuni sintomi di nevrosi, ad esempio accumulava tutta la mondizia sotto il lettino della camerata del campo di lavoro. Poi fu riportato in Francia, negli anni Quaranta era cattolico e faceva i pellegrinaggi a Roma. E solo negli anni Cinquanta diventò comunista. Secondo me questa origine cattolica sempre censurata spiega anche un certo stile teologico di Althusser. Quello che lui chiama l’intervento politico in filosofia è secondo me un intervento teologico in filosofia. Poi, la setta althusseriana attualmente è una setta universitaria priva di qualunque espressività politica. Cioè l’althusserismo politico è morto prima che Althusser morisse, già alla fine degli anni Settanta. Io ho letto i verbali dell’ultima conferenza che Althusser ha fatto in pubblico prima di strangolare la moglie, nella città di Terni. Anche essa rimossa dagli althusseriani. La voglio raccontare perché è fondamentale. Althusser arriva, si siede davanti a tutti gli intellettuali di sinistra che aspettavano il verbo del profeta, sposta tutti i libri dicendo «bisogna suonare senza spartiti»; poi si alza, va alla finestra dove nel cortile c’erano i ragazzini che giocavano a pallone felicissimi e dice: «Il socialismo è merda. Il comunismo è questo», indicando i bambini che giocavano. Dopo la merda avremo l’anarchismo sociale – ha detto così. Il mio libro su Althusser intitolato Lettera sull’Umanesimo, titolo che ho scelto apposta perché è un titolo di Heidegger, è una critica educata di Althusser in cui definisco il mio concetto filosofia-scienza-ideologia prima, e poi faccio una critica al materialismo aleatorio e all’ultimo Althusser. Una critica molto dura. E questo lo considero il mio congedo definitivo e completo dall’althusserismo. In questo libro io affermo che Althusser era arrivato al taoismo ed a una concezione puramente anarchica. E questo è interessante, perché poco prima della uccisione della moglie andò a trovare Althusser il filosofo italiano Lucio Colletti (prima marxista e poi berlusconiano), che fece un’intervista in cui dice: povero Althusser, è pazzo. Già questo è poco educato. «Mi sono accorto che era pazzo perché mi invitò in un piccolo ristorante vietnamita e mi disse: il più grande marxista del mondo è Toni Negri – dice Althusser», ma sempre secondo Colletti, non abbiamo un altro testimone. Io ho fatto molta attenzione sia all’intervista di Colletti che al discorso di Terni. Quando Althusser uccise la moglie scrisse una sua autobiografia che si chiama Il futuro dura a lungo. È un’autobiografia interessantissima, piena di menzogne, dove lui racconta che ha conosciuto De Gaulle, che non è vero. Tutta fantasia che rivela le sue angosce.
L’althusserismo come setta universitaria è finito; esistono ancora alcuni althusseriani, per esempio in Grecia dove ho alcuni amici althusseriani. Però la domanda che faccio io a te è cosa vuol dire oggi essere althusseriani. Negli anni Sessanta era chiaro cosa voleva dire: voleva dire contrapporsi all’umanesimo interclassista di Garaudy in favore di una radicalizzazione classista del marxismo. Chiunque ha vissuto quegli anni lo sa. Però visto che tutto ciò è finito 40 anni fa mi chiedo che cosa vuol dire oggi essere althusseriani, che significato abbia. Se il significato è “eliminazione del soggetto”, è frutto di fraintendimento. È vero che la sorte di un filosofo morto è di essere frainteso, perché quando il filosofo è morto non può più rispondere, per cui Kant non può polemizzare con i neokantiani e Marx non può polemizzare con Lenin e Stalin. Siccome ho vissuto quegli anni, so che il vero problema di Althusser non era criticare il soggetto ma criticare la Metafisica del soggetto, cioè criticare la metafisica del soggetto proletario inteso come sviluppo di un origine verso un fine. Al di fuori di questo contesto politico la critica della trilogia soggetto-origine-fine, la critica del soggetto non ha senso, diventa semplicemente un’altra cosa. Per criticare il soggetto occorre andare da Hume, Deleuze, etc., ma non da Althusser, che non c’entra niente.

SH: Se riprendiamo l’idea di Althusser su Marx come scopritore di un nuovo continente, potremmo dire che il compito del marxismo è teorizzare sul come abitare questo continente, come renderlo vivibile? E che questo lavoro non è ancora finito …?
PREVE: Non sono d’accordo con la metafora dello scopritore del continente Storia. Questa metafora è tratta da Cristoforo Colombo che è partito per andare in India e poi scoprì l’America senza sapere che c’era. La metafora di Marx come scopritore di un continente Storia è errata e scientistica.

SH: E tra l’altro appartiene al paradigma dello spazio da cui è partita la nostra conversazione.
PREVE: Non soltanto questo, ma c’è una ragione più profonda. La storia non è una scienza nel senso delle scienze della natura come chimica o fisica. E pertanto la storia è una disciplina per cui la parola scienza può soltanto essere usata metaforicamente. La conoscenza della storia vuol dire la conoscenza del passato, del presente e del futuro (dove il futuro rimane inconoscibile). E Marx pensava che fosse conoscibile attraverso il concetto di legge storica, cosa che oggi sappiamo che non è così. Per cui semplicemente respingo la metafora della scoperta di un continente, perché considero la storia una disciplina in cui sono intrecciati due elementi: filosofia della storia, di cui Marx non è scopritore ma sono scopritori Vico, Fichte e Hegel, e la scienza della storia dove l’apparato scientifico di Marx è un apparato provvisorio, utile, ma non è affatto detto che abbia scoperto un nuovo continente.

SH: E quando dici che il capitalismo è un incidente aleatorio, non è questo un “residuo althusseriano” nel tuo pensiero?
PREVE: La questione della nascita aleatoria del capitalismo io l’ho tratta non da Althusser ma da Robert Brenner. Brenner dice che a metà Settecento le condizioni che resero possibile il decollo (take off) capitalistico dell’Inghilterra di quei tempi, da non confondere con gli elementi borghesi già presenti prima nel Cinquecento e nel Seicento, furono largamente aleatorie, cioè il fatto che ci fosse una combinazione del commercio triangolare e del passaggio dell’agricoltura alla forma dello sfruttamento capitalistico (la teoria di Sweezy e di Dobb). Il capitalismo rappresenta nella storia umana non uno sbocco inevitabile di questa storia, ma un fenomeno largamente aleatorio che per certi versi è paragonabile al fatto che gli uomini abbiano vinto contro i neanderthal. Perciò, così come lo sviluppo dell’uomo sulla terra è un fenomeno largamente aleatorio, nello stesso modo lo sviluppo del capitalismo è largamente aleatorio.

SH: E questa tesi come si inserisce nel quadro del marxismo, avendo presente l’idea di necessità storica che era dominante?
PREVE: Quello che viene chiamato spesso marxismo non c’entra con Marx, perché è una formazione ideologica nata fra il 1875 e il 1895, di cui furono fondatori Kautsky e Engels. Essa è in realtà una forma di positivismo di sinistra che ha una teoria neokantiana della conoscenza, per cui se qualcuno mi chiedesse quale è il pensiero di Marx, direi: è un pensiero idealista non coerentizzato. Perciò c’è una filosofia della storia idealistica che è a fianco di una teoria sociale di modi di produzione che in quanto tale non è né materialista né idealista, ma è una teoria sociologica. Quello che viene chiamato Marxismo è una scena primaria come direbbe Freud. Secondo me la scena primaria del marxismo, che il marxismo non ha mai abbandonato, nasce in quel ventennio dal 1875 al 1895 e nasce per opera di Engels e Kautsky e io lo definirei come un positivismo di sinistra unito a una teoria gnoseologica del rispecchiamento prodotta di Friedrich Lange nella Storia del materialismo del 1866.
Ora, il marxismo non si è mai separato da questa scena primaria, ma l’ha mantenuta per 130 anni. Quando questa scena primaria è caduta con la fine dell’Urss e dei paesi socialisti, la comunità dei marxisti non ha avuto il coraggio di rompere con essa. Ad esempio, mantenere il materialismo come teoria del rispecchiamento, mantenere la teoria dei cinque stadi (che è una secolarizzazione marxista positivista della teoria borghese del progresso. È, come direbbe Lukács, “una storia spogliata dalla forma storica”, cioè una pseudo-storia). Tutto questo fondamentalmente nel linguaggio di Kuhn vuol dire che il vecchio paradigma scientifico non è abbandonato, ma si cerca soltanto di fare le aggiunte ad hoc e le eccezioni senza fare la rivoluzione scientifica. Ora, a mio parere, il marxismo tutt’ora non ha ancora avuto una rivoluzione scientifica a causa del conservatorismo dei gruppi universitari marxisti e dei gruppi militanti marxisti, però per ragioni diverse. Sia i gruppi universitari che hanno le principali riviste Historical materialism, Actuel Marx etc., sia i gruppi militanti (trozkisti, staliniani, maoisti e così via), non hanno osato fare un rivoluzione scientifica. Allora il primo passo di una rivoluzione scientifica è di dire che il capitalismo è nato in modo aleatorio. Non è l’unico ma è uno dei passi.
Per quanto riguarda “il residuo althusseriano” il fatto è questo: Althusser prima di morire ha scritto una storia della filosofia su base aleotoria, in cui lui parla di tradizione materialistica in filosofia, in cui mette dentro Heidegger, Rousseau, Epicuro, Machiavelli. Io la respingo completamente. Però considero intelligente la teoria dell’aleatorietà.

SH: A tal proposito mi vengono due riflessioni. La prima riguarda il modo in cui la tesi sull’aleatorietà e non necessità del capitalismo ci indica oggi di superarlo. Perché se un fenomeno è nato contingente, allora anche la sua vita non è necessaria e la sua morte diventa contingente. La seconda riflessione si basa sul fatto che la contingenza non deve escludere necessariamente la necessità, purché quest’ultima non si consideri come la necessità predestinata che deve per forza realizzarsi come se ci fosse un fato ineluttabile. In questo modo, prendendo l’esempio hegeliano, anche quando Cesare attraversava il Rubicone non è che lui era portato da una necessità superiore chiamata l’astuzia della ragione, ma il suo atto storico era contingente e la necessità viene dopo, retroattivamente; perché la necessità qua è piuttosto pensata come l’autoriflessione della contingenza stessa.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa definizione di necessità. Facciamo un esempio: se io studio come è nato il modo di produzione schiavistico in Grecia vedo che esso è nato in modo aleatorio e contingente, dovuto al fatto che nel Regno di Lidia, quello di Creso, davanti all’isola di Chio, cominciarono a fare delle monete (prima la Grecia non aveva le monete). A questo punto le monete passarono all’isola di Chio e poi all’isola Egina davanti ad Atene. E nel giro di 50 o 100 anni si creò una classe dei proprietari schiavistici. Fu infatti contro questa classe che Solone fece le sue leggi per impedire la messa in schiavitù per i motivi di debito. Questo è un tipico esempio di come il modo di produzione schiavistico, nato in modo completamente aleatorio e casuale, ha dato poi luogo a un fenomeno di necessità successiva. Per esempio, il feudalesimo europeo è nato in maniera completamente aleatoria per l’incontro fra Gefolhschaft dei Germani (il seguito militare armato del re) con il latifondo romano; l’incontro fra questi due elementi, aleatorio, ha dato luogo al modo di produzione feudale, che una volta messo in piedi è durato poi mille anni. Stessa cosa per il capitalismo. Il capitalismo è nato in modo aleatorio a metà Settecento, ma una volta innescato ha dato luogo a delle regolarità. Perciò la formulazione che hai dato tu, che la necessità è un’autoriflessione dialettica della contingenza, è assolutamente corretta.

SH: Più volte nelle tue risposte hai usato il linguaggio gramsciano. Allora, la mia impressione che può essere sbagliata e può sembrare sciocca perché fatta da uno straniero, è che il pensiero di Gramsci non è ancora affrontato giustamente. A parte tantissimi lavori, studi e articoli su Gramsci in Italia, mi sembra che la sua attualità oggi non sia riconosciuta sufficientemente. Possiamo dire alla Hegel che Gramsci è noto ma non conosciuto?
PREVE: Io personalmente sono ammiratore della figura di Gramsci e della sua filosofia mai sistematizzata e mai coerentizzata. Gramsci è stato usato e manipolato come ideologo di legittimazione del vecchio PC dal 1946 al 1990. Perciò si sono scritti migliaia dei libri su Gramsci soltanto per motivi opportunistici. Gramsci nel mondo anglosassone è diventato un teorico di quello che loro chiamano cultural studies, cioè uno studioso della cultura, e perciò alle università anglosassoni Gramsci non è più un intellettuale comunista, ma è semplicemente un grande teorico di cultura.

SH: Ma questo è un lavaggio ideologico di Gramsci e la sua riduzione.
PREVE: Certamente lo è. Ma c’è un motivo per cui Gramsci è stato censurato. Perché lui è filosoficamente un neoidealista, come erano anche Gentile e Croce, però comunista politicamente, per cui la cultura italiana che è una cultura drogata dalla politica centro-sinistra-destra, non è arrivata neppure a capire una cosa elementare: che uno può essere neoidelista hegeliano pur essendo fascista (Gentile), liberale (Croce) o comunista (Gramsci). Questa cosa è completamente incomprensibile per un intellettuale italiano medio drogato dalla politica.
Gramsci è scoperto, letto e tradotto in molte lingue, Gramsci è molto presente nell’America Latina (Argentina per esempio) e per quanto riguarda Italia devo dire, ma mi dispiace dirlo a uno straniero: l’Italia è un paese malato, è stato malato per 40 anni della contrapposizione Partito Comunista – Democrazia cristiana, e poi è stato malato per 20 anni della simulazione teatrale berlusconismo – antiberlusconismo, per cui sembrava che fare politica fosse soltanto lo svelare le puttane di Berlusconi oppure difendere la libertà contro gli orribili comunisti, nel frattempo spariti.

Italia di Berlusconi, Syriza in Grecia e gli orsi in letargo
SH: Sembra che nell’Italia sia più visibile quello che è una tendenza globale del capitalismo. É interessante che molti filosofi e teorici prendano l’esempio dell’Italia come un terreno per rintracciare i processi del capitalismo, cioè quello che può succedere anche negli altri paesi.
PREVE: Ad esempio Roberto Esposito

SH: Sì, ma già negli anni Ottanta e Novanta Baudrillard scriveva che l’Italia è un paese della simulazione gioiosa e della connivenza ironica dove non ci sono le leggi, ma le regole del gioco. Oggi Žižek dice che l’Italia è l’immagine del nostro futuro sinistro. Il suo messaggio è più o meno questo: se volete vedere il futuro autoritario del capitalismo, guardate l’Italia di Berlusconi.
PREVE: Secondo me è una sciocchezza. Tu chiedi questa cosa non ad un italiano, ma ad un italiano che si chiama Costanzo Preve. Io non sono portavoce di un’entità metafisica chiamata Italia, come tu non sei portavoce di un’entità chiamata Serbia. E nessuno lo è. La mia opinione è che gli intellettuali stranieri non conoscono l’Italia. Non conoscono l’Italia perché prima erano illusi ed ora sono tragici. Dunque, prima, negli anni Sessanta-Settanta, il PC italiano ha fatto una campagna propagandistica verso gli intellettuali europei dicendo “siamo i comunisti migliori del mondo” e “non abbiamo niente in comune con Russi, Cinesi etc. …”. Ma è una campagna totalmente illusoria, perché erano più corrotti degli altri. Basta vedere D’Alema, ex-comunista che ha fatto la guerra in Kosovo nel 1999. Gli intellettuali stranieri generalmente hanno dell’Italia un’immagine pittoresca: commedia dell’arte, la vita giocosa, Benigni, spaghetti, San Remo e così via. Questo stereotipo che io ho conosciuto molto in Francia e in Germania, è completamente falso, è una porcheria indegna. Per di più, gli Italiani amano pensare se stessi come un popolo buono, ma gli Italiani hanno fatto in Etiopia, Libia, Iugoslavia, Grecia stermini terribili, ma non vogliono saperlo e vogliono pensare di essere buoni a differenza dei Francesi e Inglesi che sono cattivi.
Gli intellettuali hanno creduto che l’arrivo di Berlusconi fosse l’arrivo di una forma del totalitarismo soft e una nuova forma del fascismo. Non è vero. Sono ovviamente contro Berlusconi. La vittoria di Berlusconi è stata la vittoria del vecchio bacino elettorale anti-PC che in Italia ha sempre avuto dal 50 al 60 per cento dei voti. Nel momento in cui i magistrati di Mani Pulite – che fu un colpo di Stato giudiziario ed extra-parlamentare – hanno arrestato l’intera classe politica del partito socialista, democristiano e così via, era rimasta unicamente la classe politica del PC pronta a prendere il potere regalato dai magistrati. Berlusconi, con i soldi e le televisioni, poteva concentrare i voti su se stesso. Però per 20 anni secondo me Berlusconi non è stato l’espressione di una nuova forma del fascismo mediatico e del populismo autoritario. Queste sono stupidaggini di chi non ha mai vissuto in Italia e di chi pensa che la Grecia è il Partenone e la Serbia è la slivovitza e basta. Il livello è questo. Cosa diresti se uno ti dicesse «Ah, i serbi sono quelli che bevono slivovitza»? Diresti che è un po’ più complicato. Berlusconi è una persona certamente abietta, ma non rappresenta a mio parere un nuovo populismo mediatico. In questo momento il governo Monti ha fatto quello che Berlusconi non avrebbe mai potuto fare. Oggi “il fascismo” in Italia è Monti. Se Berlusconi avesse detto: prolungo l’età pensionabile di 5 anni, taglio gli stipendi, licenziamenti etc… .avremmo avuto forse le manifestazioni come in Spagna. Invece, Berlusconi è stato messo in disparte perché non poteva farlo. Ecco il vero problema.

SH: Vuoi dire che il Governo Monti realizza tutto quello in cui Berlusconi forse non sarebbe stato efficace e avrebbe fallito.
PREVE: Sì, questa formulazione la accetto, ma non quella di prima.

SH: L’ultima volta quando abbiamo parlato si aspettavano le elezioni nella Grecia. E molte speranze erano rivolte al nuovo movimento-partito Syriza che tu hai apertamente appoggiato. Secondo me nella Grecia succedono cose di estrema importanza, e Syriza potrebbe essere un soggetto politico-modello anche per gli altri paesi.
PREVE: Io ho vissuto a lungo in Grecia, parlo perfettamente la lingua greca, per cui – pur essendo italiano – non sono del tutto straniero alla cultura greca. Per questa ragione la crisi della società greca e il suo impoverimento mi hanno colpito particolarmente. Ora, se io fossi stato greco avrei certamente votato Syriza senza alcun dubbio. Non avrei votato Partito Comunista greco, il quale ha messo come parola d’ordine: non credete in Syriza; è una cosa terribile. Però, fatto questo, il popolo greco ha trovato in Syriza secondo me un’illusione, cioè l’illusione di poter ricontrattare il suo rapporto con l’EU senza essere ridotto alla fame. Secondo me, questa è un’illusione. Syriza ha propugnato una via di mezzo: siamo nell’Euro, non usciamo dall’Euro, ma contrattiamo il nostro rapporto con la Germania e la Francia in modo che ci possano condonare o l’intero debito o una parte. Il popolo greco ha scelto Syriza giustamente. Non è un caso che gli intellettuali europei come Žižek e Balibar hanno appoggiato Syriza e Tsipras. Per cui gli intellettuali europei hanno trovato una speranza in Syriza perché non dice no alla Europa, ma sì però sulle altre basi.
I greci hanno paura di uscire dall’Euro perché la drahma ricorda ai greci la miseria e povertà. La soluzione del ritorno alla drahma non era popolare in Grecia. Ma Syriza è un’illusione che anch’io avrei votato…

SH: Ma non è l’orizzonte di speranza che possa esistere una società diversa proprio quello che bisogna mantenere come punto di partenza? Poi sul resto sicuramente possiamo discutere se è una soluzione o no …
PREVE: Se si vuole la speranza, allora Syriza è la speranza. Secondo me la crisi della Grecia è appena cominciata. E non è un caso che in Grecia si sia formato un partito nazista del 7%, Alba dorata, con dei teppisti in divisa, le mazze da baseball, che picchiano e massacrano gli immigrati. Ripeto, la Grecia è un orso senza grasso. E i giorni cattivi della Grecia ancora devono arrivare.

Torino, il 21 luglio 2012.

Già comparso sulla rivista Koiné   – Anno XIX  –  NN° 1-4  –  Gennaio-Dicembre 2012

Il testo di questa intervista è stato pubblicato anche in lingua serba nel terzo numero della rivista filosofica “Stvar” (Thing – Journal for Theoretical Practices) che esce a Novi Sad come pubblicazione del circolo filosofico “Gerusija” (http://gerusija.neru9.com/, http://tinyurl.com/74tdy37)

L’immagine:
Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920.

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

Giancarlo Paciello – Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati!”

gerusalemme
«Fermate la colonizzazione di Gerusalemme Est»

Premessa

  1. La colonizzazione dei territori occupati
  2. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est
  3. La documentazione UE su Gerusalemme-Est
  4. L’insabbiamento della documentazione
  5. Conclusioni

 

 

Région de Jérusalem

 

  1. Premessa

 

Era mia intenzione affrontare in questo saggio la colonizzazione di Gerusalemme-Est, senza per questo dimenticare la violenta e sempre operante colonizzazione, da parte degli israeliani, di tutta la Cisgiordania. E avevo anche deciso di non prendere in considerazione tutto il rumore propagandistico che si nasconde dietro le due formule ormai stantie (e soprattutto false!) “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati” dal momento che, vuote entrambe ormai, e da tempo, di contenuto, avrebbero finito col nascondere nella sostanza la barbarie che si sta consumando in Palestina da parte dello Stato d’Israele nei confronti di un popolo che vive da quarantatre anni (!?) sotto occupazione militare.
Ma non ci sono riuscito! Troppo forte il rumore, troppo deformante la lettura dei fatti reali per non dover premettere qualcosa. Di qui, la modifica sostanziale del titolo, fuorviante in parte sul contenuto del saggio, ma teso ad evidenziare la colossale menzogna che si nasconde dietro alla riproposizione di un processo da tempo defunto e che di pace non ha mai avuto nemmeno la sembianza, se non nella formulazione originaria degli accordi di Oslo di un lontanissimo 1993. Ed era all’interno degli accordi di Oslo la formulazione “Due popoli, due Stati”. Di conseguenza …
L’ultima goccia, per un vaso che è traboccato almeno da 12 anni, è rappresentata da un evento molto recente, del 10 ottobre: l’approvazione della legge sul giuramento di fedeltà da parte del governo israeliano, avvenuto mentre riprendono le costruzioni di abitazioni nelle colonie, del tutto illegittime (sia le costruzioni sia le colonie!), e mentre, alla base della trattativa ripresa con l’ANP, Netanyahu ha posto il riconoscimento, da parte dei palestinesi, dello stato d’Israele come stato ebraico!
Ecco cosa ne pensa Gideon Levy, di quest’ultima goccia. L’articolo, apparso sul numero 868 (15-21 ottobre 2010) di Internazionale dal titolo assai significativo “La Repubblica ebraica d’Israele” è tratto da Haaretz, un coraggioso giornale progressista israeliano:

Segnatevi la data. Il 10 ottobre è il giorno in cui Israele ha cambiato natura. E magari cambierà addirittura nome e si chiamerà ‘Repubblica ebraica d’Israele’, come la Repubblica islamica dell’Iran. D’accordo: la legge sul giuramento di fedeltà che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto approvare al governo e ora vuol far votare dal parlamento riguarda, o almeno così dice, solo i nuovi cittadini israeliani non ebrei.
Ma in realtà avrà effetti sul destino di tutti. Perché d’ora in poi vivremo in un nuovo paese etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista. E chi pensa che la cosa non lo riguardi si sbaglia. Già, perché in Israele c’è una maggioranza silenziosa che accetta tutto questo con un’allarmante apatia. Invece chiunque creda che dopo l’approvazione di questa legge il mondo continuerà a considerare Israele come una qualsiasi democrazia non ha capito cos’è questa legge: è un nuovo grave danno all’immagine d’Israele.
Il premier Netanyahu ha dimostrato di essere come Avigdor Lieberman, il suo ministro degli esteri e leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu. Il parttito laburista ha dimostrato di essere solo uno zerbino. E Israele ha mostrato la sua indifferenza. La diga è crollata, minacciando di annegare ogni traccia di democrazia, fino al punto in cui forse finiremo per ritrovarci in uno stato ebraico, la cui natura nessuno capisce veramente, ma che di sicuro non sarà democratico.
Si prevede che la Knesset, nella sua sessione invernale, discuta un’altra ventina di disegni di legge anti-democratici. L’Associazione per i diritti civili in Israele ha appena pubblicato una lista nera di provvedimenti che comprende: una legge sul giuramento di fedeltà per i parlamentari, una legge sul giuramento di fedeltà per i produttori cinematografici, una legge sul giuramento di fedeltà per le associazioni senza fini di lucro. E ancora: un provvedimento che vieta ogni proposta di boicottaggio e un provvedimento sulla revoca della cittadinanza. Siamo di fronte a un pericoloso balletto maccartista, da parte di parlamentari ignoranti che non hanno capito cos’è la democrazia.
Non è difficile giudicare il duo Netanyahu-Lieberman: sono due fanatici nazionalisti, quindi nessuno può pretendere che capiscano che democrazia non significa solo potere della maggioranza, ma anche – anzi soprattutto – diritti delle minoranze. E’ molto più difficile da capire, invece, l’inerzia dei cittadini. Le piazze di tutte le città israeliane avrebbero dovuto riempirsi di persone che rifiutano di vivere in un paese dove la minoranza è oppressa da leggi severissime come quella che le obbligherebbe a prestare un falso giuramento di fedeltà ad uno stato ebraico. E invece quasi nessuno sembra pensare che la cosa lo riguardi. E’ sbalorditivo.
Ci siamo dedicati per decenni al futile dibattito su cosa significhi essere ebrei. Un interrogativo che a quanto pare ci impegnerà ancora per molto tempo. Cos’è infatti lo “stato della nazione ebraica”? Appartiene forse agli ebrei della diaspora più che ai cittadini arabi d’Israele? E i cittadini arabi potranno decidere delle sue sorti, così che la nostra si possa chiamare ancora democrazia? Cosa caratterizza l’ebraicità? Le festività? Le prescrizioni alimentari della kasherut? L’aumento del peso politico dell’establishment religioso, come se non fosse già sufficiente a distorcere la democrazia?
L’introduzione di un giuramento di fedeltà allo stato ebraico ne deciderà il destino. E rischia di trasformare Israele in una teocrazia simile all’Arabia Saudita. E’ vero: per il momento giurare fedeltà allo stato ebraico è solo uno slogan ridicolo, e non esistono tre ebrei che riescano a mettersi d’accordo su come dovrebbe essere uno stato ebraico. Ma la storia ci ha insegnato che la strada per l’inferno può essere lastricata anche di slogan inutili. Nel frattempo, la nuova legge non farà altro che aggravare il senso di estraneità degli arabi israeliani e finirà per alienare le simpatie nei confronti d’Israele di settori ancora più vasti dell’opinione pubblica mondiale.Ecco cosa succede quando non si ha piena fiducia nella strada intrapresa. Solo questa
sfiducia può indurre a presentare proposte di legge perverse come quella approvata il 10 ottobre.
Il Canada non sente il bisogno di che i suoi cittadini giurino fedeltà allo stato canadese, né lo richiedono altri paesi. Solo Israele. Questa decisione è stata pensata per provocare di nuovo la minoranza araba e spingerla a dimostrare ancora più distacco dal paese, così che un bel giorno venga finalmente il momento di disfarsene. Oppure per affossare la prospettiva di un accordo di pace con i palestinesi. Comunque sia, lo stato ebraico – come diceva Theodor Herzl – fu fondato nel primo congresso sionista, che si svolse a Basilea nel 1897. Il 10 ottobre invece è stata fondata l’oscurantista Repubblica ebraica d’Israele
”.

Un articolo dignitosissimo che, se sottoscritto al 50% dalla classe politica italiana (di destra e di sinistra, centrista o radicale) mi riempirebbe veramente di gioia, ma temo che dovrò continuare a soffrire! Alla sordità della nostra classe politica si è contrapposto in questo frangente, un documento del Sinodo del Medio Oriente del 18 ottobre 2010.
Gli scopi del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente sono stati ribaditi dal relatore generale dell’assemblea, Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, che ha tenuto la ‘Relatio post disceptationem’ nella quale ha riassunto quanto emerso negli interventi dei padri sinodali la scorsa settimana. “Confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità e rinnovare la comunione ecclesiale per offrire ai cristiani le ragioni della loro presenza, per confermarli nella loro missione di rimanere testimoni di Cristo”.
Naguib ha passato in rassegna la situazione dei cristiani in Medio Oriente evidenziando la necessità dell’essere missionari, e parlando di “laicità positiva”, ha ribadito che la “religione non deve essere politicizzata né lo Stato prevalere sulla religione. E’ richiesta una presenza di qualità perché possa avere un impatto efficace sulla società. Ciò che conta non è il numero di persone nella Chiesa ma che queste vivano la fede e servano onestamente il bene comune”.
Per assicurare la sua credibilità evangelica – ha rimarcato il Relatore – la Chiesa deve trovare i modi per garantire la trasparenza nella gestione del denaro”.
Ripercorrendo le principali sfide che i cristiani devono affrontare, tra le quali i conflitti politici nella regione, il patriarca Naguib “pur condannando la violenza da dovunque provenga ed invocando una soluzione giusta e durevole del conflitto israelo-palestinese”, ha espresso la solidarietà del Sinodo al popolo palestinese, “la cui situazione attuale favorisce il fondamentalismo. Chiediamo alla politica mondiale di tener sufficientemente conto della drammatica situazione dei cristiani in Iraq. I cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia, la pace e la laicità positiva. Le Chiese in Occidente sono pregate di non schierarsi per gli uni dimenticando il punto di vista degli altri”.
Nella Relatio il Sinodo condanna anche “l’avanzata dell’Islam politico che colpisce i cristiani nel mondo arabo” poiché “vuole imporre un modello di vita islamico a volte con la violenza e ciò costituisce una minaccia per tutti” e la limitazione dell’applicazione di diritti quali la libertà religiosa e di coscienza che comporta anche, ha ricordato il patriarca, “il diritto all’annuncio della propria fede”. Conseguenza delle crisi politiche, del fondamentalismo, della restrizione delle libertà è l’emigrazione, che pur essendo “un diritto naturale”, interpella la Chiesa che “ha il dovere di incoraggiare i suoi fedeli a rimanere evitando “qualsiasi discorso disfattista”. […] “Le nostre chiese rifiutano l’antisemitismo e l’antiebraismo”: riafferma il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.
Le difficoltà dei rapporti fra i popoli arabi ed il popolo ebreo sono dovute piuttosto alla situazione politica conflittuale. Noi distinguiamo tra realtà politica e religiosa. I cristiani hanno la missione di essere artefici di riconciliazione e di pace, basate sulla giustizia per entrambe le parti” ribadisce il testo che, parlando di dialogo interreligioso, ricorda le iniziative pastorali di dialogo con l’ebraismo, come ad esempio “la preghiera in comune a partire dai Salmi, la lettura e meditazione dei testi biblici”.
Per il Sinodo il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani “è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”. E riprende le parole di Benedetto XVI a Colonia (2005) per riaffermare l’importanza del dialogo islamo-cristiano.
Le ragioni per intessere rapporti con i musulmani sono molteplici, sono tutti connazionali, condividono stessa cultura e lingua, le stesse gioie e sofferenze. Fin dalla sua nascita l’Islam ha trovato radici comuni con Cristianesimo ed Ebraismo. Il contatto con i musulmani può rendere i cristiani più attaccati alla loro fede”. Per il Sinodo vanno, tuttavia, “affrontati e chiariti i pregiudizi ereditati dalla storia dei conflitti. Nel dialogo sono importanti l’incontro, la comprensione reciproca. Prima di scontrarci su cosa ci separa, incontriamoci su ciò che ci unisce, specie per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore”.
Serve – si legge nella Relatiouna nuova fase di apertura, sincerità e onestà. Dobbiamo affrontare serenamente e oggettivamente i temi riguardanti l’identità dell’uomo, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità. La libertà religiosa è alla base dei rapporti sani tra musulmani e cristiani. Dovrebbe essere un tema prioritario nel dialogo interreligioso”.

  1. La colonizzazione dei territori occupati

 Dopo questa corposa premessa, entrerò nel merito dell’argomento che intendo trattare in questo che temo ormai non possa costituire un piccolo saggio. Partirò con il fornire l’elenco dei testi su cui ho basato questo lavoro. Sostanzialmente quattro, senza ovviamente citare quanto personalmente ho scritto in precedenza sull’argomento. Un volume dal titolo “Palestine, la depossession d’un territoire”, realizzato da Pierre Blanc, Jean-Paul Chagnollaud e Sid Ahmed Souiah, per la casa editrice L’Harmattan, del 2007, “Jerusalem le rapport occulté”, con sottotitolo Rapports 2005 et 2008 des diplomates de l’Union Européenne en poste a Jerusalem, con la presentazione di René Backmann, delle edizioni Salvator del 2009, “Gaza, le livre noir” che raccoglie rapporti e documenti di diverse associazioni, a cura di Reporters sans frontières, del 2009, il numero di Limes “Il buio oltre Gaza” del gennaio 2009 e il quaderno speciale di Limes del luglio 2010.
Il primo di questi testi mi è servito per sviluppare il paragrafo numero 3, il secondo per sviluppare i paragrafi 4 e 5 e gli altri due costituiscono un riferimento importante rispetto agli eventi riguardanti Gaza e il terrorismo di Stato israeliano, che avrei voluto trattare ma che ho deciso di non scrivere per le ragioni indicate all’inizio delle conclusioni.
In questo paragrafo ripercorrerò, sia pure sinteticamente, la colonizzazione dei territori occupati che ho trattato diffusamente sia in “Quale processo di pace?” del 1998, che ne “La nuova Intifada” del 2001. Sostanzialmente, cercherò di rendere ragione del perché, in un territorio totalmente abitato da palestinesi, quali la Cisgiordania e la striscia di Gaza, prima della guerra del 1967, fatta eccezione per Gerusalemme Ovest, si sia ormai giunti ad una presenza israeliana tra le 500.000 e le 550.000 persone, Gerusalemme Ovest inclusa.
Intendo inoltre mettere in evidenza un’esasperazione di lunga durata per il popolo palestinese, dovuta ad un articolato quanto iniquo sistema “legale” di sottrazione del territorio da parte dello Stato d’Israele, a danno dei palestinesi. Dopo aver analizzato le forme “legali” dell’espropriazione della terra, già in uso del resto dal 1948, procederò a quantificarla, a partire dal 1967. E, per quanto riguarda in particolare la colonizzazione di Gerusalemme-Est, sarà il testo di Chagnollaud a precisarla nei minimi particolari.
Occorre in ogni caso non dimenticare mai che si è trattato (e si tratta) di un processo di colonizzazione in piena regola, con un suo armamentario specifico di confische di terre, di distruzioni di case e di abbattimento di alberi, con la requisizione della terra, per motivi di sicurezza, come chiave di volta. Il mio timore è che oggi questo processo possa sfociare in una seconda e più feroce pulizia etnica. Si, è proprio ad una seconda Nakba che penso, quando vedo l’opera dell’esercito israeliano, sempre più vicino alla logica dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, la costruzione del Muro e quel carcere a cielo aperto, rappresentato dall’intera striscia di Gaza! Ho trattato con dovizia di particolari ne “La colonizzazione sionista della Palestina” i vari aspetti dello spossessamento dei palestinesi da parte dei sionisti prima e dello Stato d’Israele poi, ma ritengo importante riassumerne gli aspetti essenziali.

 

Le forme “legali” per l’appropriazione delle terre.

Dopo il 1967, è passata sotto il controllo israeliano, fra terre demaniali confiscate, recintate e soggette ad acquisto forzato, e terreni di privati, “neutralizzati” e resi indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, più del 55% della Cisgiordania. Ciò è avvenuto attraverso tre procedure fondamentali: l’assenza, l’acquisto di terre e l’esproprio. Ma prima di tutto, voglio analizzare l’elemento dominante nella requisizione delle terre:

La sicurezza

Si tratta del noto vessillo agitato, da sempre, dallo Stato d’Israele (e anche da altri, sia chiaro!), divenuto in Italia la bandiera dell’improntitudine. Le autorità israeliane hanno sempre sostenuto che le requisizioni di terre per la costruzione di colonie, (o per qualsiasi altro motivo), sono effettuate nel pieno rispetto della legalità. Cosa che si spiega facilmente, pensando al ruolo che la nozione di stato di diritto occupa sia nell’ideologia dominante sia nella realtà del sistema politico di questo paese. E poi, portare un dibattito di questo tipo sul terreno giuridico permette di superare più facilmente i problemi difficili ed imbarazzanti circa la vera natura di queste appropriazioni coprendole della neutralità apparente e della rispettabilità formale della norma giuridica.
Conviene perciò cercare di capire meglio cosa nasconde la nozione di legalità. Partendo, come criterio di differenziazione, da come vengono prodotte le norme, occorre distinguere la legalità internazionale e quella interna. Per definizione, la legalità internazionale esiste al di fuori di ogni Stato preso separatamente. Come qualsiasi altro attore del sistema internazionale, lo Stato d’Israele si trova in presenza di un complesso di regole giuridiche, che esiste indipendentemente da lui. Certamente, in qualche modo, può rifiutare di sottoscriverlo ma non avrà mai il controllo assoluto della sua elaborazione, ma gli resta, in ogni caso, il potere di interpretazione. Vediamo quali sono le tesi israeliane sulla Cisgiordania e Gaza, come sulla questione più specifica delle colonie.
In sostanza Israele, avanzando dei diritti legittimi sui territori occupati, sostiene di non occuparli (nel senso del diritto internazionale) ma soltanto di amministrarli in attesa di uno statuto definitivo da assegnare loro, al termine di un processo di negoziati. Le colonie poi, sempre secondo il governo israeliano, non contravvengono alla legalità internazionale, nonostante la posizione adottata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione del 1° marzo 1980, secondo la quale esse costituiscono “una flagrante violazione della Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra del 12 agosto 1949…”.
Altra cosa invece è la legalità interna che il governo può non solo interpretare, ma anche, e questa è la differenza fondamentale, creare come vuole, in funzione degli obiettivi politici che intende perseguire, a condizione tuttavia di tenere conto della giurisprudenza di una giurisdizione del tutto indipendente: la Corte Suprema d’Israele. La requisizione di terre nei territori occupati, ma non annessi, è avvenuta essenzialmente per motivi di sicurezza. La base giuridica di queste operazioni si trova nelle ordinanze promulgate dai britannici all’epoca del Mandato, e che sono rimaste in vigore dopo la creazione dello Stato d’Israele. In particolare l’articolo 125 delle Defence Emergency Regulations del 1945 che permette al Comandante regionale di vietare l’accesso in qualsiasi zona che si trovi sotto il suo controllo, per motivi di sicurezza.
Da allora, più nessuno può penetrarvi, senza aver ottenuto preliminarmente un’autorizzazione rilasciata dall’autorità competente. Queste pratiche non sembrerebbero in ogni caso contrarie al diritto internazionale, dal momento che, in questo ambito, le regole del diritto hanno soprattutto per obiettivo di proteggere l’interesse dello Stato occupato e quello dei singoli. Per questo vietano qualsiasi forma di sostituzione di proprietà e non ammettono che un uso provvisorio di esse. E dunque l’occupante non può essere che l’amministratore e l’usufruttuario dei beni dello Stato occupato. La confisca dei beni dei privati è rigorosamente proibita dall’articolo 46 del Regolamento dell’Aja (1907) che recita:

L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata così come le convinzioni religiose devono essere rispettate”. Sono lecite soltanto le requisizioni poiché, entro certi limiti, rappresentano delle “prestazioni forzate in natura o servizi forzati, richiesti unicamente per i bisogni dell’esercito d’occupazione“.

Questo è un processo cominciato fin dai primi anni dell’occupazione; prima in forma occulta, trasformando l’installazione militare insensibilmente in insediamento civile. Poi, soprattutto dopo la guerra del 1973, in modo sempre più esplicito. Da quel momento in poi la colonizzazione è apparsa in tutta la sua forza e la sua ampiezza. Facciamo un passo indietro: sia la Gran Bretagna che la Giordania avevano avviato il censimento sistematico di tutti i titoli di proprietà. Ma questa operazione, indispensabile oltre che complessa, si basava sull’effettività del possesso e dell’uso, che ciascuno poteva provare in diversi modi. Proprio per questo, un tale processo, estremamente lento, era ben lungi dall’essere stato completato nel 1967, e dunque la più gran parte delle terre non era ancora stata censita. Uno dei primi provvedimenti delle autorità israeliane d’occupazione fu quello di bloccare brutalmente queste attività di censimento anche nei settori dove era praticamente terminato. Una decisione di una portata politica importantissima. A questo proposito Dany Rubistein, noto giornalista israeliano, su Davar del 20 marzo 1981, scrisse: “minore è il numero di beni immobili registrati al catasto e di terreni la cui proprietà è chiaramente definita, più numerose sono le aree suscettibili d’essere proclamate beni dello Stato“.

 

L’assenza

 Alla conquista del 1967, seguì subito dopo l’insediamento di un governatore militare nei territori occupati. Il Comandante regionale (nome ufficiale del governatore), pubblicò, il 23 luglio 1967, l’ordinanza n° 58, riguardante lo statuto della proprietà degli assenti. Per questa ordinanza, l’assente rispondeva ad una definizione molto estensiva. Si trattava in sostanza di chi, allo scoppio della guerra, nel giugno 1967, aveva lasciato la Cisgiordania. Così era già avvenuto nel 1950, quando la Knesset, il parlamento israeliano, adottò un provvedimento della stessa natura per tutte le proprietà abbandonate nel 1948 dai palestinesi. Il governatore sosteneva che l’obiettivo dell’ordinanza fosse quello di proteggere i beni di coloro che erano stati costretti a fuggire allo scoppio della guerra.
Vediamo come funziona quest’ordinanza. Il Comandante regionale nomina un “Guardiano della proprietà abbandonata”, cui compete il ruolo di prendere in carico l’insieme di questi beni. All’inizio la semplice assenza del proprietario non basta per trasferire il controllo dei beni al Guardiano. È necessario anche che non ci sia nessun parente prossimo, un membro della famiglia ad esempio, in grado di assicurarne la gestione secondo il diritto vigente. Non si tratta dunque di un vero e proprio trasferimento di proprietà: il Guardiano agisce in qualità di depositario della proprietà dell’assente fino al suo ritorno e deve anche conservare per il proprietario, tutti i redditi eventuali che può aver realizzato, diminuiti delle spese di gestione. Se il proprietario ritorna, il Guardiano gli deve restituire l’esercizio di tutti i suoi diritti. Ma tra il dire e il fare…
Esistono due questioni di fondo, che portano ad una realtà sensibilmente diversa da quella del discorso giuridico ufficiale. Infatti il Guardiano dispone in pratica di un potere discrezionale per quanto riguarda l’uso dei beni abbandonati. Nessuna transazione è valida senza la sua autorizzazione e nessun articolo limita le sue possibilità d’azione. In tali condizioni, il ruolo effettivo del Guardiano è anche quello di contribuire con efficacia agli insediamenti israeliani soprattutto nella valle del Giordano dove si trovano numerosi beni abbandonati, dal momento che questo settore è stato il più coinvolto dall’esodo della popolazione nel 1967. Ed eccoci così ad uno dei problemi chiave del conflitto israelo-palestinese e cioè quello del Ritorno. E qui il cerchio si chiude. Il contadino palestinese che ha attraversato il Giordano nel 1967, si è “sistemato” provvisoriamente a qualche decina di chilometri dalle sue terre, ormai occupate da una colonia israeliana. È perciò considerato assente sul piano giuridico poiché gli è vietato l’attraversamento del Giordano in senso inverso. Vi sembra un problema giuridico? Ma nemmeno per sogno! Questo è il risultato di un rapporto di forze. Il responsabile delle colonie israeliane della valle del Giordano si esprime a questo proposito in modo molto chiaro:

Qui, nella valle, noi lavoriamo su migliaia di dunum che appartengono – perché non dirlo? – a degli arabi. Arabi, per la maggior parte assenti, abitanti di Nablus o di Tubas… che sono fuggiti durante la guerra del 1967. Queste persone non possono tornare in Giudea-Samaria perché i loro nomi figurano su di una lista ai posti di frontiera sui ponti [sul Giordano]”. E così, questa legislazione ha generato situazioni kafkiane. Il caso classico? Un proprietario che, rientrato sulle sue terre senza autorizzazione, finisce davanti ad un tribunale, accusato d’effrazione di proprietà di un assente!

Gli acquisti di terre

 Per affrontare quest’altra questione, è necessario distinguere fra le istituzioni ufficiali autorizzate ad effettuare transazioni fondiarie e i privati che all’inizio, fino al 1979, non ne avevano diritto. A partire dal 1967, l’amministrazione del demanio (Israel Land Administration, I.L.A.) e il Fondo Nazionale Ebraico (K.K.L.), hanno concepito ed attuato una politica sistematica di acquisti di terre nei territori occupati. Queste due istituzioni hanno potuto così acquistare importanti superfici, soprattutto nella regione di Gerusalemme. Le decisioni sugli acquisti vengono prese dai due direttori delle istituzioni appena citate, che definiscono le loro scelte in funzione di dati forniti da una rete d’informazioni molto estesa, riguardante diversi paesi stranieri, dove si trova la parte più consistente dei venditori potenziali. L’operazione viene condotta in porto tramite la società Hemnutah, la cui creazione risale all’epoca del Mandato britannico (1938) quando il suo compito era quello di favorire il trasferimento dei capitali degli ebrei tedeschi. Le transazioni vengono fatte nel più gran segreto non solo per evidenti ragioni politiche ma anche perché sono molto forti le minacce di rappresaglie nei confronti dei proprietari palestinesi. Fino al 1979, gli acquisti di terre da parte di privati erano vietati nonostante le molteplici pressioni esercitate sui vari governi.

 

L’esproprio

 Non parliamo qui di un generico spossessamento ma di quello effettuato per motivi di interesse generale. È in questa prospettiva limitata che le autorità israeliane intendono collocarsi, quando sottolineano l’indispensabile rispetto dei principi fissati dal diritto internazionale. E così l’esproprio è lecito per la realizzazione di obiettivi di interesse pubblico nelle forme previste dal diritto locale e con la condizione del pagamento di un’indennità al proprietario. La legislazione giordana, relativa alla procedura d’esproprio, era stata concepita in modo da non limitare in alcun modo la sua attuazione. La nozione d’interesse pubblico viene definita dalla constatazione della volontà del potere politico. Un interesse pubblico è, a termini di legge, “qualsiasi interesse che il governo, con il consenso del Re, ha deciso di considerare come pubblico“. Le autorità israeliane ironizzano su questa formulazione per poi precisare che, nonostante l’ampiezza discrezionale, le autorità militari utilizzano la procedura d’esproprio in maniera molto restrittiva. (Quando si dice la democrazia!). E mettono in evidenza come tale procedura non sia mai stata impiegata per insediamenti civili nei territori occupati. Si è fatto ricorso ad essa, soltanto per servire l’interesse generale in senso stretto. Per la costruzione e l’ampliamento di strade o la costruzione di edifici pubblici, ad esempio!
Si ritrova perciò un dato evidente: in ogni situazione d’occupazione il diritto è sempre al servizio di una politica. Se la nozione stessa di Stato di diritto è centrale in Israele, essa non ha quasi più senso aldilà della linea verde. L’elemento dominante della colonizzazione sionista dopo la guerra del 1967 è caratterizzato proprio dal fatto di verificarsi in una società sotto occupazione e dunque completamente sottomessa all’arbitrio dello Stato d’Israele. In queste condizioni, l’occupazione non riguarda soltanto questo o quell’aspetto della vita quotidiana, ma è invece al centro di tutto, in tutti i settori d’attività. Costituisce un sistema globale coerente, che non lascia sfuggire nessun dettaglio al suo controllo, neppure il colore delle targhe delle automobili.
Dopo il 1967, strettamente connesso con il processo di colonizzazione continuò il processo di espropriazione della terra. In questo ambito è praticamente impossibile disporre di cifre precise. Bisogna distinguere fra terre coltivate e terre riservate alle colture o agli insediamenti futuri. Una fonte israeliana parla, per tutti i territori, di 118 chilometri quadrati (11.800 ettari, pari a 118.000 dunum) di terre ebraiche coltivate. La superficie delle terre confiscate, in vista di utilizzo futuro da parte dei coloni, sarebbe salita a 3.000 chilometri quadrati, di cui 1.200 sul Golan, e 1.800 in Cisgiordania, ovvero il 31,5% del suolo. Anche se fino al 1977 queste terre “redente” si trovavano soprattutto ad oriente, e si trattava di zone aride e spopolate, la violenza inflitta alla popolazione araba non era per questo meno severa: ad esempio, il livello dell’acqua si abbassò pericolosamente in alcuni villaggi arabi della valle del Giordano a causa della creazione di pozzi artesiani negli insediamenti israeliani vicini!
Evidenti gli effetti nefasti della colonizzazione israeliana sulla popolazione palestinese, i cui mezzi di sussistenza tradizionali erano progressivamente minacciati e che veniva sottoposta ad un processo di proletarizzazione. La perdita di terre coltivate spingeva infatti i contadini palestinesi ad abbandonare l’agricoltura e così molti di loro andavano a lavorare come manodopera non qualificata nell’economia israeliana. L’acquisto di terre assunse proporzioni ancora più allarmanti dopo il 1977, e riguardò molto di più campi e piantagioni palestinesi, esasperando la tendenza ad una compartimentazione dei centri di popolazione locale.
Se è vero che la colonizzazione non aveva raggiunto, nel 1977, proporzioni irreversibili, è altrettanto vero che nella pratica non c’è stato nessun aspetto della politica colonizzatrice successiva di Begin che non avesse avuto un precedente nel periodo laburista, in particolare nella sua ultima fase. Dopo il 1967, a tutto il 1985, passano sotto diretto controllo israeliano, fra terreni demaniali, confiscati, recintati, e soggetti ad acquisto forzato, un totale di 2.268.500 dunum, pari al 41% dell’intera Cisgiordania. Poiché le autorità israeliane “neutralizzano” altri 570.000 dunum, dichiarandoli indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, complessivamente l’area soggetta a requisizioni o restrizioni ammonta a 2.838.000 dunum pari al 52% della Cisgiordania. Nella striscia di Gaza, con la stessa logica, nascono 16 insediamenti ebraici. Nei primi dieci anni di occupazione nascono 24 insediamenti. Dopo ne sono sorti altri 118, distribuiti in modo da impedire qualsiasi futuro ritiro di Israele dalla Cisgiordania, se non dalla striscia di Gaza.

 

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Insieme con gli insediamenti, è cresciuto il numero dei coloni. Dalla tabella si vede come questi siano passati da 1.182 nel 1972 a 27.500 nel 1983. Se si confrontano i dati del periodo 1967-77 con quelli relativi al periodo successivo (1977-1983), quando il Likud è al governo, appare evidente una rapida crescita del numero dei coloni che passano dai 5023 del 1977 ai 27.500 di cui si parlava prima. Il partito della “Grande Israele”, che punta ad una Palestina tutta ebraica si fa più forte e prepotente. Con l’avvento della destra al governo, sono nate in Israele due tesi. La prima punta ad utilizzare i territori come “materiale” di scambio, per la pace. La seconda, oltranzista, basandosi sulla potenza militare d’Israele e sull’incondizionato appoggio degli Stati Uniti (anche nel Medio Oriente la “guerra fredda” funziona!), intende appropriarsi di tutta la Palestina del Mandato, e oltre.

La colonizzazione della terra d’Israele è un diritto e un aspetto determinante della sicurezza del paese che sarà difeso ed esteso”.

È ancora e sempre questo, uno degli obiettivi principali del programma di governo presentato l’8 giugno 1990. Il che significa che l’insediamento di colonie di popolamento, strumento essenziale della politica di colonizzazione, continuerà a svilupparsi, a danno dei palestinesi, con lo spossessamento continuo della loro terra. Il governo di Unità nazionale cade il 15 marzo 1990. Tre mesi dopo nasce un nuovo governo, diretto sempre da Shamir, con la partecipazione di tre formazioni di estrema destra. Si tratta del governo più a destra, più estremistico e più legato agli ambienti religiosi della storia d’Israele. Ariel Sharon, ministro degli Alloggi, dirige questa nuova tappa della colonizzazione. Fino a quel momento s’intende! Ma poiché il peggio non è mai morto, dopo la parentesi laburista, nel maggio 1996, nasce il governo Netanyahu. E poi il governo Barak e poi il governo Sharon e poi il governo Olmert …
Ufficialmente, non viene creato nessun nuovo insediamento, per tenere buoni gli Stati Uniti, ma i fatti sono diversi. Nascono nuove colonie ma questi insediamenti vengono mascherati da artifici amministrativi come dimostra il rapporto del Dipartimento di Stato: “[…] costruendo su quei siti che, da un punto di vista amministrativo, dipendono da un insediamento già esistente, anche se si trovano in realtà a distanza di chilometri. E così si vedono nascere cantieri in massa su località abbandonate da tempo, che ampliano i limiti di colonie già esistenti […]. E così si capisce perché la presenza israeliana nei Territori occupati continua a crescere a un ritmo altissimo. In meno di due anni, Ariel, il secondo insediamento della Cisgiordania per dimensioni, mette in cantiere 1.400 appartamenti; il più grande, Ma’ale Adumim, vicino Gerusalemme, ne costruisce attualmente un migliaio” (“Report on Israeli Settlement Activity in the Occupied Territories”, consegnato al Congresso americano il 20 marzo 1991).
Nel 1991, circa 200.000 coloni risiedevano in circa 200 colonie (197.000 abitanti in circa 150 colonie in Cisgiordania, e di questi 120.000 insediati nella città di Gerusalemme-Est annessa nel 1967, e 3.000 nelle 15 colonie a Gaza). Secondo uno studio del Dipartimento di Stato americano del 20 marzo 1991, essi rappresentavano il 13% della popolazione totale dei territori occupati, mentre il 50% delle terre della Cisgiordania erano state confiscate per la colonizzazione. A Gaza, un terzo del territorio abitabile era riservato ai coloni. Il movimento cresce dopo il 1990, con 10.000 nuovi arrivati in un anno. La natura degli insediamenti è ancora più significativa, se si pensa che non si tratta più della creazione di piccole unità che raggruppano alcune centinaia di persone ma di veri e propri centri urbani, il più vicino possibile ai grandi agglomerati israeliani. Non si tratta più di modeste colonie a vocazione rurale. L’ambizione è quella di costruire delle cittadine.
E’ importante ricordare la classificazione ufficiale delle zone d’insediamento. Queste si dividono in tre settori, a seconda dell’importanza della domanda di abitazioni: forte, media o debole. La zona di forte domanda comprende tutti i luoghi situati al massimo a mezz’ora da Tel Aviv e a venti minuti da Gerusalemme. Quella di domanda media comprende, a parte la precedente, tutte le località situate al massimo a cinquanta minuti da Tel Aviv e a trentacinque da Gerusalemme. La terza infine comprende il resto della Cisgiordania. In funzione di questa divisione, i grandi progetti si trovano concentrati nella zona di forte domanda. E così al centro di questo settore viene costruito Ariel, il più vasto insieme urbano, concepito per accogliere più di 100.000 abitanti. L’obiettivo politico implicito è quello di fare di questa zona una specie di cerniera che fissi strettamente la Cisgiordania a Israele. Sono questi gli aspetti più importanti per cercare di capire il “senso” del processo di pace.
Riepilogando, nel periodo (1967-1977) i laburisti hanno dato la priorità assoluta a Gerusalemme. Si sono annessa non soltanto la parte araba della città, ma anche importanti superfici di terre prese dai villaggi dei dintorni per creare un vasto agglomerato urbano. All’interno di questi nuovi limiti, sono stati costruiti grandi insiemi di immobili riservati alla popolazione ebraica a Nord, a Est e a Sud (Ramot, Talpiot, Gilo…).In alcuni anni i rapporti demografici sono stati rivoluzionati con tutte le conseguenze sociologiche e politiche che si possono immaginare (nel 1976 le statistiche ufficiali parlano di una popolazione di 264.000 ebrei e di 92.000 arabi). Oltre a Gerusalemme, i governi laburisti hanno avuto tre priorità: la valle del Giordano, il Golan e il Sinai; queste tre regioni hanno una caratteristica comune: sono poco popolate; il Sinai perché è un deserto, le altre due perché la maggior parte degli abitanti che vi risiedevano sono fuggiti durante la guerra del 1967. Gli insediamenti realizzati nelle zone a forte densità di popolazione palestinese furono poco numerosi, il più significativo di questi fu quello di Kiriat Arba alle porte di Hebron.
A partire dal 1975, sotto il governo Rabin, il processo si è accelerato ed esteso. Oltre alle sue iniziative, il Primo Ministro lascia fare al Gush Emunim la cui politica consiste nel creare insediamenti dappertutto, in particolare al centro della Cisgiordania. Come a Sebastia (vicino Nablus), dove il Gush Emunim riesce a spuntarla nell’installazione importante che intendeva realizzare. Nel periodo (1977-1984), con il governo del Likud vengono realizzati numerosi insediamenti. Il suo governo sviluppa quelli esistenti e soprattutto ne crea di nuovi. A questo proposito la formulazione del suo programma è molto semplice: “il territorio di Cisgiordania e di Gaza appartiene al popolo ebraico, è quindi legittimo creare degli insediamenti che dovranno permettere l’installazione di centinaia di migliaia di Ebrei”. Tuttavia, a causa dei negoziati avviati a Camp David, questa politica non troverà immediata applicazione sul terreno, si dovrà attendere il 1980 e soprattutto il 1981, data in cui Begin vince per la seconda volta le elezioni legislative, perché il processo di colonizzazione conosca una spettacolare accelerazione.
Con il Likud ormai la priorità delle priorità è la Cisgiordania (la Giudea e la Samaria); mentre i laburisti, in dieci anni, avevano creato una decina di siti, il governo del Likud ne costruisce più di una cinquantina in cinque anni. Se alla fine del 1976, c’erano circa 5.000 abitanti ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme), nel 1983 sono vicini a 30.000. Tutti i dati statistici evidenziano l’importanza di questo salto qualitativo: un numero molto più grande di colonie e di abitanti, proprio nel cuore della Cisgiordania, rispetto all’epoca dei laburisti.
Nel periodo (1984-1988) i laburisti e il Likud si ritrovano in una situazione d’equilibrio elettorale tale da doversi rassegnare a formare un governo di unità nazionale, dopo aver tentato invano, per diverse settimane, di mettere in piedi delle coalizioni omogenee. Per giungere a questa formula, si sono fatte concessioni da una parte e dall’altra soprattutto a proposito degli insediamenti. Su questo punto, l’accordo di governo ha cercato di gestire le posizioni delle due parti in modo che ciascuna possa dare l’impressione di non aver ceduto nulla di essenziale. In applicazione di questo accordo è stata annunciata la creazione di sei nuove colonie; verranno installate in Giudea-Samaria al limite dei settori inclusi nel piano Allon, cosa che permette al Likud di affermare che il governo continuerà a creare insediamenti “dappertutto” e al partito laburista di mostrare di restare fedele alla sua posizione basata sulla ricerca di un compromesso territoriale. Nella pratica il ritmo della colonizzazione si è un po’ rallentato perché il governo non attribuiva a questo problema il ruolo prioritario che aveva in precedenza ma anche perché il numero delle persone che desideravano installarsi al di là della linea verde diminuivano sensibilmente.
Nel luglio del 1988, in una intervista alla rivista Nekuda, una delle figure di punta del movimento di colonizzazione, il rabbino Levinger, faceva un bilancio in questi termini: “Dopo le elezioni del 1984, siamo stati tra coloro che chiedevano un governo di unità nazionale. Noi lo abbiamo fatto perché l’unità della nazione è un principio non meno importante del processo d’insediamenti; per preservare questa unità abbiamo accettato di sacrificare l’insediamento di nuove colonie… Anche se la nostra influenza su un (tale) governo era inferiore rispetto a quella su di un governo diretto dal Likud”.
Che questa politica non avesse avuto più, dopo il 1984, l’intensità che l’animava all’inizio, non significa però che si sia veramente indebolita. Il risultato? Dal 1983 al 1986 il numero delle colonie è cresciuto del 118%, quello degli abitanti del 45 % e l’investimento pubblico del 56 %. Alla vigilia dello scoppio dell’Intifada, il processo di colonizzazione è un fatto politico che secondo molti osservatori ha tutte le possibilità di svilupparsi ancora, anche se si svolge ad un ritmo meno sostenuto che in precedenza. Nel suo rapporto del 1987, Meron Benvenisti valuta che ci sono 65.000 ebrei in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme) e 2.700 nella striscia di Gaza e che fino alla metà degli anni 1990 il numero annuale di nuovi arrivati sarà dell’ordine di 10.000; tutta questa popolazione sarà concentrata negli insediamenti urbani situati attorno alle metropoli di Tel Aviv e Gerusalemme, a danno degli insediamenti rurali. Se non si sono raggiunti gli obiettivi ambiziosi sognati dagli ispiratori di questo processo, né gli scopi del piano progettato dal Likud, a medio termine, l’installazione di 100.000 coloni sembra già di un’importanza considerevole.
Per rendersene conto non basta del resto far riferimento soltanto alle statistiche sulle persone insediate; occorre prendere in considerazione altre due dimensioni essenziali. La prima attiene all’ampiezza delle superfici delle terre confiscate o requisite per questi insediamenti e più in generale per tutta una serie di motivi a cominciare da quelli invocati dalla sicurezza militare: più della metà della Cisgiordania si trova così oggi sotto il controllo assoluto d’Israele. È in questo senso che è giusto parlare di una vera appropriazione dello spazio con le molteplici conseguenze che ne derivano. Ciò significa soprattutto che queste terre sono state prese a degli uomini che ci vivevano e che in molti casi le coltivavano. Essi sono stati espulsi dal loro universo familiare, allontanati dai loro utensili di lavoro, dalla loro terra d’origine cui sono ormai costretti a girare intorno come se fossero degli stranieri. Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se la battaglia per la terra sia divenuta l’ossessione di molti; la posta in gioco si rivela fondamentale perché rinvia all’essenza stessa del conflitto che oppone i Palestinesi agli Israeliani.
La seconda dimensione riguarda le profonde trasformazioni che questi insediamenti inducono nella vita quotidiana. Per un palestinese dei territori è impossibile circolare senza passare vicino ad una colonia o senza sentirne la pesante presenza. In alcuni settori, come a Hebron per esempio, la tensione che ne consegue è difficilmente sopportabile e talvolta, in questa o in quella occasione, degenera in scontri. In ogni caso il rapporto di forze non può essere analizzato soltanto in termini di numeri. Anche se è assai minoritario in rapporto alla popolazione locale, il colono vuole sempre dimostrarsi come il padrone delle zone presso le quali abita. Ciò si materializza in particolare con il portare sistematicamente le armi che, soltanto a lui, esprime una realtà: l’atteggiamento arrogante di colui che esibisce il suo fucile sulla spalla basta per far capire molte cose. Non bisogna credere, tuttavia, che tutti i coloni siano degli ideologi determinati, costi quel che costi, a battersi in favore della grande Israele; questi ci sono, ovviamente, ma non rappresentano, secondo un’inchiesta effettuata nel 1983, che una minoranza valutata al 17% dell’insieme. Gli altri hanno scelto di vivere nei territori occupati in virtù dei prezzi molto competitivi degli appartamenti e della qualità della vita che si trova in regioni situate a qualche decina di minuti da Gerusalemme o da Tel Aviv.
Ciò non toglie che, al di là di queste constatazioni, la volontà politica affermata una volta da alcuni attivisti si sia ormai tradotta nei fatti, al punto tale da essere riuscito a creare una stretta rete d’influenze e d’interessi, capace di pesare sulle scelte fondamentali dello Stato. I sostenitori della Grande Israele attraverso lo sviluppo massiccio di insediamenti nei territori palestinesi occupati non erano infatti, trentanove anni fa, che dei gruppi relativamente periferici. Poi il loro progetto è stato facilitato dalle esitazioni e dalle contraddizioni del partito laburista. Così il Likud ha conosciuto uno sviluppo spettacolare che ne fa oggi una delle due grandi formazioni politiche del paese, cosa del tutto impensabile alla fine degli anni ‘60. In altri termini, il problema degli insediamenti non è più appannaggio di gruppi della società civile con scarsi addentellati politici; ormai, da trent’anni, esiste un’efficace articolazione fra questi gruppi di pressione e potenti formazioni politiche.
Ci si rende conto perciò di quanto l’appropriazione dello spazio costituisca, ad un tempo, fattore decisivo di esasperazione della popolazione palestinese e ostacolo importante a qualsiasi ricerca di una soluzione politica negoziata. Ecco perché, lo ripetiamo ancora una volta, questa occupazione non è un’occupazione come le altre.
Dopo gli accordi di Oslo, non solo la colonizzazione non ha subito alcun rallentamento ma addirittura c’è stata una forte accelerazione sia sotto i governi laburisti (Rabin, poi Peres ed infine Barak) sia, ovviamente, sotto i governi Netanyahu, Sharon e Olmert. Tutto è avvenuto come se “la corsa contro il tempo“, non fosse mai cessata, per accumulare fatti compiuti su fatti compiuti, e trovarsi così in posizione di vantaggio, all’apertura dei negoziati sullo statuto finale, previsti per il 4 maggio 1996 (pensate, più di quattordici anni fa!) Con il ritorno dei laburisti al governo nel 1992, sembrava che le cose stessero cambiando. Nel luglio del 1992, Rabin decise il congelamento della colonizzazione. Sembrava! Questa decisione bloccò soltanto i nuovi progetti, ma non fermò quanto era già avviato, in particolare tutta la colonizzazione intorno a Gerusalemme, e tutta la costruzione della rete stradale, decisiva nel vasto processo di appropriazione della terra. Rabin, in realtà, non ha mai cercato di bloccare la colonizzazione, ha soltanto dovuto tener conto dei vincoli imposti dagli americani al governo Shamir, secondo i quali la concessione di garanzie bancarie a prestiti privati, per l’ammontare di più di 20.000 miliardi di lire, era condizionata dal blocco della colonizzazione.
E così, il numero di coloni, dal 1992 al 1996, è passato da 100.000 a 151.000. Il ministro per le Abitazioni in carica nel governo Rabin (poi ministro della difesa nel governo Sharon) Benyamin Ben-Elieser, così commentava allora il suo lavoro: “Dal momento in cui ho il completo consenso del Primo ministro, io costruisco tranquillamente senza far rumore … Per me è importante costruire con grande slancio a Givat Ze’ev, Maale Adumim e Beitar… colonie che fanno parte di Gerusalemme. Per me ciò che conta è costruire, costruire e ancora costruire…”.

Per i dirigenti laburisti, il programma è chiaro: moltiplicare i fatti compiuti nelle zone che si vogliono conservare, mentre si negozia molto lentamente l’accordo di ripiegamento rispetto a quelle zone che si intendono evacuare comunque lentamente, per aver il massimo tempo possibile per controllare la doppia operazione. Facciamo ora un altro esercizio. Confrontiamo la carta di Oslo II con quelle dei piani Allon e Drobless. Si capisce, abbastanza presto, che si fondano su alcune logiche comuni. La carta di Oslo II evidenzia la divisione della Cisgiordania in tre zone. Non si infastidisca il lettore. È vero, per alcuni versi ci stiamo ripetendo, ma vedrà, che alla fine dell’esercizio, avrà un quadro più ampio, e non soltanto tecnico degli accordi di Oslo II.
La zona A riguarda le città palestinesi, da anni ormai circondate dalle colonie e tornate nel 2002 sotto il controllo dell’esercito israeliano. La zona B riguarda i villaggi, dove vive la massima parte dei palestinesi, e che sono assai spesso separati gli uni dagli altri da colonie o da strade di aggiramento, meglio sarebbe dire di accerchiamento. La zona C rappresenta tutto il resto del territorio, dove si trovano tutte le colonie, dalla più grande alla più piccola, oltre alle basi militari.
Quando il Likud, nel maggio del 1996, a sorpresa torna al governo, si trova in una situazione radicalmente diversa dal 1992. Dal momento che gli accordi di Oslo sono anche il portato della comunità internazionale e poi c’è stato il riconoscimento reciproco tra israeliani e palestinesi, la sua scelta pragmatica è quella di fare di tutto per piegare le cose nella direzione desiderata. La posizione di Benyamin Netanyahu viene formalizzata nel piano “Allon plus” (1997). Ironia delle parole: il piano va oltre, plus, un altro piano, fuori uso dal 1975, opera dei laburisti!

Quattro sono i punti essenziali di questo piano.
In primo luogo, l’instaurazione della sovranità israeliana su di una fascia larga 15 chilometri (dal Giordano alla cima delle montagne ad ovest).
In secondo luogo, l’estensione dei limiti territoriali di Gerusalemme con l’annessione a nord delle colonie di Givat Ze’ev, a est di Maale Adumim e a sud del blocco Etzion.
In terzo luogo, la rottura della continuità territoriale palestinese con l’attivazione di colonie ebraiche sotto la sovranità israeliana e la creazione di quattro corridoi di larghezza indeterminata (?!) che colleghino Israele alla valle del Giordano secondo l’asse est-ovest.
In quarto luogo, la rottura della continuità territoriale per la popolazione palestinese che si trova a cavallo della linea verde, secondo la logica del piano Seven Stars. La maggior parte delle 140 colonie (esclusa Gerusalemme-Est) con i suoi 160.000 coloni saranno annesse ad Israele. Di fatto, si tratta dell’annessione di circa il 60% della Cisgiordania con il controllo totale delle risorse in acqua. Quando Netanyahu lascia il governo, dopo aver fatto ricorso alle elezioni anticipate per bloccare i negoziati con i palestinesi e portare avanti, indisturbato, la colonizzazione, il bilancio “coloniale” è impressionante. Migliaia di appartamenti costruiti e migliaia di nuovi coloni insediati, in particolare nel settore della Grande Gerusalemme.
È la volta di Barak come Primo ministro. Questi, alla fine del mese di giugno del 1999, s’impegna a garantire la sicurezza dei coloni e a fornire loro “i servizi necessari alla vita quotidiana e al loro sviluppo”. E, dopo quella data, la colonizzazione prosegue a ritmo sostenuto. Ma il quadro della colonizzazione sarebbe sicuramente sbiadito, se non si parlasse specificamente di Gerusalemme, del resto al centro della nuova Intifada, chiamata dai palestinesi intifada Al-Aqsa, (La Lontana), dal nome di una delle moschee della Spianata, e terzo luogo sacro dell’Islam, che si trova appunto a Gerusalemme.Lo statuto finale della città di Gerusalemme ha rappresentato (e rappresenta) uno dei temi, forse il tema più importante, che divide, da sempre, israeliani e palestinesi.
Vista l’importanza di Gerusalemme, ripercorreremo la sorte di questa città, (che in ogni caso riprenderemo al paragrafo 3) per grandi linee, dalla fine del Mandato alla guerra dei sei giorni del 1967, per poi analizzarne le modifiche in termini di distruzioni e di colonizzazione apportate dalla potenza occupante, assai poco interessata al diritto internazionale e alle risoluzioni dell’ONU. Data di partenza, il mese di maggio del 1947, quando all’ONU, inizia il dibattito sul piano di spartizione della Palestina del Mandato. Gerusalemme è una città di 165.000 abitanti che si estende su di un’area di circa 30 kmq. È costituita dalla Città Vecchia, (poco più di un chilometro quadrato, densissimo di valori però per le tre religioni monoteiste), e da numerosi quartieri ebraici della Città Nuova, sviluppatisi, dopo il 1860.
Gli ebrei costituiscono il 60% degli abitanti. Del resto, dal 1875, sono sempre stati in maggioranza a Gerusalemme.Il 29 novembre 1947, l’ONU vota, come è noto, la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico ed uno arabo. Gerusalemme dovrà costituire un corpus separatum internazionalizzato che comprende, dal punto di vista dello spazio, “la municipalità attuale di Gerusalemme, i villaggi e centri circostanti, il più orientale dei quali sarà Abu Dis, il più meridionale Betlemme, il più occidentale Ein Karim (compreso l’agglomerato di Motsa) e il più settentrionale Shu’fat” L’allargamento tende a realizzare un relativo equilibrio dal punto di vista demografico, con 100.000 ebrei e 105.000 arabi (di cui 65.000 musulmani e 40.000 cristiani).
Ovviamente, i primi essenzialmente concentrati nella Città Nuova ad ovest, dove si trovavano anche molti arabi. I secondi nella Città Vecchia e nei quartieri extra muros ad est, con qualche sacca ebraica, il Monte Scopus, in particolare. Tutti i villaggi intorno, Betlemme compresa, erano abitati da arabi. Dal punto di vista amministrativo, Gerusalemme doveva finire:“sotto un regime speciale amministrato dalle Nazioni unite… Lo statuto sarà in principio in vigore per un periodo di dieci anni… al termine del quale… le persone aventi la residenza nella Città saranno allora libere di far conoscere con un referendum i loro suggerimenti relativi ad eventuali modifiche al regime della Città”. In seno all’Agenzia ebraica, la spartizione venne celebrata come una grande vittoria. Totale fu il rifiuto nel mondo arabo.
Il Vaticano, che aveva avuto un ruolo importante nel progetto, risultava di fatto il vero beneficiario, perché quello statuto gli avrebbe permesso di esercitare un’influenza decisamente superiore a quella che avrebbe potuto esercitare nel caso in cui Gerusalemme fosse diventata una città araba o ebraica. Dopo la guerra 1948-1949, oltre a non nascere lo Stato arabo, di Gerusalemme come corpus separatum nemmeno l’ombra. Le disposizioni, mai annullate, non verranno mai applicate. Mistero onusiano!
Dal settembre 1948 in poi, i sionisti assumono una posizione molto rigida. Si oppongono all’internazionalizzazione di Gerusalemme, preferendo accordarsi con Abdallah di Giordania su di una tacita spartizione, da verificare successivamente con le armi! In realtà, Gerusalemme sarà sì un corpus separatum, ma soltanto nel senso che invece di essere un corpo a sé stante, sarà un corpo fatto a pezzi! Nascono così, Gerusalemme-Ovest, in mano agli israeliani e Gerusalemme-Est in mano ai giordani (e anche questa in fondo è una spartizione…). Gli israeliani, fin dal gennaio del 1950, dichiareranno Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. I giordani, rimasti padroni della Città Vecchia, cacceranno gli ebrei che vi abitavano. La frontiera è un dato di fatto militare, e cioè la linea di demarcazione definita all’atto del cessate il fuoco del novembre 1948, la famosa linea verde. Subito dopo il 1967, il Vaticano non proporrà più l’internazionalizzazione, ma uno statuto internazionale garante dei Luoghi Santi. Con la vittoria del 1967, gli israeliani si impadronirono dell’intera città e, il 27 giugno dello stesso anno, estesero ad essa legge, giurisdizione ed amministrazione dello Stato d’Israele. Scomparve così la municipalità palestinese, in funzione dal 1948. E, fin da subito, iniziò la colonizzazione della Gerusalemme araba, di Gerusalemme-Est, che comportò la distruzione, via bulldozer, del quartiere maghrebino, (prima ancora che la guerra finisse), per far posto ad un enorme piazzale, antistante il Muro del Pianto, oltre che la restaurazione del quartiere ebraico. Ne fecero le spese più di 5000 palestinesi, espulsi dalla Città Vecchia. A questa “pulizia etnica” seguì un’astuzia amministrativa. I confini municipali della città furono arbitrariamente dilatati fino a comprendere un territorio dodici volte più grande, per quanto riguardava Gerusalemme-Est (da 6 a 72 kmq) e, complessivamente, 108 kmq, l’equivalente della superficie di Parigi! L’astuzia consistette nel realizzare un’operazione chirurgica sul territorio, che comportò l’esclusione di importanti comunità palestinesi dalla vita di Gerusalemme, pur comprendendone le loro proprietà! In questo modo, si evitò di aggiungere 80.000 palestinesi alla già numerosa popolazione araba di Gerusalemme, gettando le basi, allo stesso tempo, per una successiva confisca delle proprietà private dei palestinesi. Tale confisca si è puntualmente verificata, e su quelle terre sono state costruite colonie ebraiche, veri e propri quartieri residenziali come Gilo ad esempio, chiamate eufemisticamente in Israele “dintorni”, quartieri limitrofi. In trentatré anni, (dal 1967 al 2000), più di 27.000 dunum (27 kmq, pari a più di quattro volte le dimensioni di Gerusalemme-Est) di proprietà di palestinesi subiscono la stessa sorte: confiscati per “pubblica utilità”. Peccato che l’aggettivo “pubblica” è riferito soltanto agli ebrei, quanto al sostantivo “utilità” è poi riferito alla costruzione di colonie residenziali o di colonie tout court, che hanno accerchiato le zone abitate dai palestinesi nella città. Ai palestinesi di Gerusalemme-Est è toccata anche la brutta sorte di diventare poveri, Infatti, oltre ad essere stati espropriati e soppiantati dagli israeliani, hanno anche perduto terre per un valore di due miliardi di dollari USA (più di 4.000 miliardi di vecchie lire italiane).

Vediamo ora più in dettaglio la cronologia delle confische e degli espropri. La parte più cospicua è avvenuta agli inizi degli anni Settanta ed Ottanta ma confische ed espropri sono continuati negli anni Novanta e continuano ancora …
Per riassumere: nei mesi di gennaio e di aprile del 1968, furono confiscati 4.800 dunum; nell’agosto del 1970, 13.800; nel marzo 1980, 4.500; nell’aprile del 1991, 1840; nell’aprile del 1992, 2400 dunum vennero definiti green zone (zona verde) e dunque non utilizzabili dai palestinesi per costruire. Con il completamento di Har Homa (Jabal Abu Ghneim per i palestinesi), la più provocatoria iniziativa di Netanyahu, i 200.000 palestinesi di Gerusalemme-Est sono circondati da tutte le parti. Si tratta di una serie di fatti compiuti che hanno ignorato, anzi hanno approfittato del processo di pace, in aperta violazione del diritto internazionale e delle Risoluzioni dell’ONU. Oltre alle Risoluzioni 242 e 338, riguardanti l’insieme dei Territori occupati, ci sono altre specifiche Risoluzioni che condannano esplicitamente l’attività colonizzatrice israeliana a Gerusalemme-Est. In particolare la 252 del maggio 1968, la 279 del 15 settembre 1969, la 446 del 22 marzo 1979, la 476 del 30 giugno del 1980 e la 478 del 20 agosto del 1980. Della Risoluzione 476 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riportiamo qui di seguito un estratto.

Deplorando che Israele continui a modificare il carattere fisico, la composizione demografica, la struttura istituzionale e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.Gravemente preoccupato per le misure legislative adottate alla Knesset israeliana per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.1. Riafferma la necessità imperiosa di mettere fine all’occupazione prolungata dei territori arabi occupati da Israele dopo il 1967 ivi compresa Gerusalemme […]3. Conferma di nuovo che tutte le misure e le disposizioni legislative e amministrative prese da Israele, la potenza occupante, per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme non hanno alcuna validità in diritto e costituiscono una violazione flagrante della convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra […]6. Riafferma la sua determinazione, nel caso in cui Israele non si conformi alla presente risoluzione, di prendere in esame in conformità alle pertinenti disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, i mezzi pratici per assicurare l’applicazione integrale della presente risoluzione”.

Ho usato spesso l’espressione “fatto compiuto“. Se qualcuno non sapeva cosa fosse, ora lo sa! In realtà, non c’è da meravigliarsi che Israele non abbia rispettato le Risoluzioni dell’ONU relative a Gerusalemme. Dal momento che non ne ha rispettata nessuna, compresa quella che ha dato vita allo Stato d’Israele, e non intende nemmeno rispettare la Risoluzione 194 relativa al diritto al ritorno dei rifugiati. In fondo, a che serve questo diritto internazionale, quando si dispone di un padrino come gli USA, maestro nell’infischiarsene e di un contesto internazionale prono ai piedi del padrino? Una volta l’Italia veniva accusata di essere favorevole ai palestinesi, ora questo rischio non lo corre più, dal momento che, con l’Europa, ignora la tragedia palestinese ha dato credito al macellaio di Sabra e Chatila, che bombardava tutti i giorni le misere case e le caserme palestinesi, (tutte piene di terroristi, intenti a confezionare ordigni micidiali), circa la sua buona volontà di riprendere le trattative, come continua a farlo con Netanyahu, sempre che cessi la violenza!
Vorrei invitare i lettori che hanno figli piccoli a non parlare loro di Esopo e comunque non della favola del lupo e dell’agnello! La pace in Israele/Palestina potrebbe esserci dal tempo, se il processo di pace fosse stato inteso, nel rispetto del diritto internazionale e delle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come un processo graduale di restituzione dei Territori occupati, come un calendario di crescita di fiducia tra due popoli separati dalla nakba del 1948 e non invece come una serie di concessioni territoriali fatte dal più forte per legittimare la conservazione delle colonie, la rinuncia, da parte araba, a Gerusalemme-Est ed infine alla banalizzazione del problema dei rifugiati, come ricongiungimento di pochi nuclei familiari e senza nemmeno l’ammissione della ormai conclamata, anche da parte di storici israeliani, quelli “nuovi”, dell’espulsione di 750.000 palestinesi durante la guerra del 1948.
Saltiamo ora al 27 febbraio 2000, quando, all’Università palestinese di Bir Zeit, una sassaiola, opera di studenti, una sorta di mini intifada, costrinse ad una fuga ingloriosa Lionel Jospin, reo di aver accusato Hezbollah di terrorismo. Soltanto qualche mese prima, un ufficiale superiore dell’esercito israeliano aveva rilasciato al quotidiano Ha’aretz (La Terra, in ebraico), una dichiarazione di tutt’altro avviso:“Hezbollah non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento di liberazione nazionale, che conduce operazioni di guerriglia. In queste condizioni, non abbiamo nessuna possibilità di farcela. Dobbiamo avere il coraggio di guardare la verità in faccia: noi non abbiamo più niente da fare in questo paese [il Libano]”.
Il 22 maggio Israele riceve un saggio della disfatta, con l’arrivo di Hezbollah alla frontiera. Viene liberato simbolicamente il villaggio di Hula. I mercenari si squagliano a tempo di record. Migliaia di libanesi ritornano in dodici villaggi abbandonati. L’aviazione israeliana fa cinque morti e più di trenta feriti.Gli Hezbollah, oltre ad avere una “fede incrollabile“, hanno in realtà goduto di un sostegno nell’opinione pubblica libanese che va ben oltre la comunità sciita da cui sono nati. Del resto, le “Brigate libanesi della resistenza”, cui diedero vita nel 1998, raggruppano oggi combattenti di tutte le confessioni, sunniti, drusi ed anche cristiani. Proprio per rafforzare il carattere nazionale del movimento lo sceicco Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah dal 1992, si era opposto alla nascita di “brigate arabe”, come è avvenuto altrove, con il risultato che la maggioranza della classe politica libanese ha visto di buon occhio il movimento di resistenza. Ed ora Hezbollah spera forse in una pace totale, che porti ad un Libano liberato dall’occupazione israeliana ma anche siriana.
Nel frattempo israeliani e palestinesi si ritrovano nella base aerea americana di Bolling, vicino Washington, per cercare di definire, prima della fine di maggio, le grandi linee di un accordo globale che dovrebbe concludersi al massimo entro il 13 settembre 2000. Ma, nonostante l’impegno del mediatore americano Aaron Miller, che ha messo a disposizione delle due delegazioni anche la sua casa, le cose non vanno molto avanti. Si parla molto, ma Israele continua a non voler riconoscere la sua responsabilità sulla Nakba e, per quanto riguarda Gerusalemme Est, ripropone la solita autonomia amministrativa, mentre i palestinesi vogliono entrare nel vivo del contenuto dell’accordo quadro, e chiedono di definire con precisione le frontiere, lo statuto di Gerusalemme, la dimensione delle aree militari poiché definiti questi punti in termini percentuali, il resto dovrà essere trasferito a loro, con relativa scomparsa delle zone B e C.
Arafat, il 7 aprile, definisce i negoziati di Bolling una “perdita di tempo”.Sono giorni, questi, in cui si va sempre più deteriorando il rapporto tra Arafat e Barak. Quest’ultimo, mentre si prepara a partire (9 aprile) per Washington per incontrare Clinton, trova il modo di dichiarare che il blocco di colonie intorno a Gerusalemme (Maale Adumim, Pisgat Zeev, Ghilo e Ramot) resterà comunque sotto la sovranità israeliana. Dal Cairo, Arafat esprime un giudizio durissimo nei suoi confronti, sostenendo che è peggiore di Netanyahu. Ma il giorno dopo, Saeb Erekat parla dell’apertura di trattative segrete in Svezia. Per la Palestina c’è il presidente del parlamento, Ahmed Korei con Hassan Asfur, per Israele, Shlomo Ben-Ami e Gilad Sher, avvocato assai vicino a Barak.
Il 21 maggio, Barak intima ad Arafat di scegliere tra il negoziato e l’intifada e interrompe le trattative di Stoccolma. La situazione in Libano precipita. L’opinione pubblica palestinese rimane colpita dalla precipitosa ritirata dell’esercito israeliano. Molti confrontano ciò che Hezbollah ha ottenuto con la forza con quanto Arafat ha perso con i negoziati. Per Arafat, in visita a Madrid il 26 maggio, si tratta “innanzitutto di una vittoria della pace“, replicando così a chi chiama alla lotta armata. In una intervista alla televisione israeliana, forse per riesumare la 242, sostiene una tesi ardita e, a nostro modesto parere, totalmente errata, e cioè che Barak ha ordinato il ritiro non “a causa di Hezbollah” ma “per rispettare la risoluzione 425“!
La risposta del capo di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, non si fa attendere. Per lui, il 29 maggio annuncia la nascita di “una nuova era“, sostenendo che gli avvenimenti libanesi “dimostrano che la resistenza è la sola via possibile. Quale che sia l’equilibrio tra le forze, la determinazione di un popolo prevale sempre sulla potenza militare“. Sicuramente giusta l’analisi rispetto al Libano, purtroppo soltanto affermazione di principio rispetto ad una situazione, quella palestinese, non immediatamente riconducibile, per motivi storici, politici e militari alla situazione libanese. Questo sempre a nostro modesto parere.Gli avvenimenti precipitano. IL 4 giugno l’OLP prepara la proclamazione dello Stato palestinese, prevista per il 13 settembre. La Albright è a Ramallah il 6, per incontrare Arafat. L’incontro è burrascoso. Alla conferenza stampa, il ministro degli esteri americano annuncia il ritorno dei negoziati a Washington, dopo il fallimento di Eilat e il ricevimento di Arafat alla Casa Bianca, il 14 giugno. In sostanza, il 6 giugno, ad Arafat venne proposto-imposto un vertice a tre a Washington. Arafat riteneva che le condizioni non fossero mature non avendo gli israeliani mantenuto gli impegni presi ad Eilat e in quello stesso giorno, nel corso del pranzo in onore degli americani, a Ramallah, Arafat si rivolse così alla Albright:

Signora segretario di Stato, se convocate un vertice e questo fallisce, la speranza dei nostri popoli di vedere instaurare la pace diminuirà ancora. Sarebbe saggio non deludere ancora questa speranza“.

La Albright non tenne conto dei dubbi espressi, nella riunione pomeridiana, anche dai negoziatori palestinesi, incontrò la sera Barak e, dopo essersi consultata con i suoi collaboratori, comunicò a Clinton di ritenere opportuna la convocazione del vertice. Cominciò, con la decisione della Albright, un tour de force per Arafat. Il 15 giugno incontra di nuovo Clinton, che dice di “voler finire il lavoro puntualmente” e s’impegna a far rispettare la scadenza finale del 13 settembre. Subito dopo, sospese i negoziati di Washington, dopo l’annuncio israeliano della liberazione di 3 (tre) prigionieri al posto di 230 e del trasferimento all’ANP dell’1% del territorio, quale ultimo ritiro dalla Cisgiordania, mentre l’accordo interinale prevedeva il 10% prima del 23 giugno.
Il 7 giugno Madeleine tornò in Israele per preparare il vertice a tre a Camp David, per i primi di luglio, continuando ad ignorare il parere dei palestinesi circa il sicuro fallimento dello stesso. A portare all’incandescenza il clima dovuto alle forti pressioni e alle reiterate inadempienze contribuì non poco l’intervento del procuratore israeliano Eliyakim Rubistein. Costui giudicò le risoluzioni 242 e 338 non applicabili, in quanto, all’atto dell’adozione delle risoluzioni, l’ANP non esisteva e che in esse, i palestinesi venivano menzionati soltanto come rifugiati! Bella mossa! E così viene di nuovo a galla la tesi del “buon cuore israeliano”. Secondo la quale, lo Stato palestinese non ha fondamento nel diritto internazionale, ma soltanto nella benevolenza israeliana, che occorre sapersi guadagnare. Si sta creando il contesto del vertice.
Americani a premere, al servizio delle tesi israeliane o servendosi delle stesse, sui palestinesi, perché accettino ancora una volta, ma questa volta senza più poter recriminare, un accordo che cancelli la Nakba, la realtà araba di Gerusalemme e anche la perdita definitiva di una parte del loro territorio residuale, per poter dar vita (sarebbe vita?) ad uno Stato di Palestina senza reale sovranità.Clinton chiama di nuovo Arafat, che lo invita a convocare negoziati preparatori e non un vertice. Il 4 luglio, Clinton, “portavoce” di Barak, dice ad Arafat che il Premier israeliano è contrario a negoziati preparatori, ma che ha “cose nuove da proporre”. Arafat non si arrende, mette di nuovo in guardia sui rischi di un fallimento, ma Clinton ormai è finito nella trappola dei “funzionari dell’impero” che lo hanno convinto della possibilità di incastrare i palestinesi! Partono gli inviti per l’undici luglio, a Camp David”.Come sono andate le cose dopo, e come vanno oggi lo sappiamo. Ma l’11 settembre diventa sempre di più una scusa che un evento epocale!


  1. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est

 Lo studio che viene qui proposto (pagg. 85-108 del testo richiamato all’inizio del paragrafo 2), è opera di Jean Paul Chagnollaud, cui devo moltissimo sia per quanto riguarda le mie conoscenze sulla colonizzazione sionista in Palestina sia per quelle relative all’Intifada del 1987. Io penso che sia lo studioso che con maggiore sistematicità abbia affrontato il dramma del popolo palestinese, restando sempre lontano da un coinvolgimento ideologico. Forse è questa la ragione per cui i suoi testi non hanno trovato nessun editore in Italia! Sono perciò entusiasta di poter proporre, ancora una volta le sue argomentazioni e, in questo caso, un testo essenzialmente suo. Qualsiasi modifica fatta da me, nel quadro della traduzione è dovuta soltanto al mio tentativo di rendere più chiaro il testo ad un pubblico non sempre esperto della materia trattata. Spero di essere riuscito nell’intento, senza però aver tradito l’autore. Ed ora diamo la parola a Jean Paul!

Il processo di annessione unilaterale di Gerusalemme

Quando si arriva a Gerusalemme provenendo dall’aeroporto di Tel Aviv, si incontra prima la sua parte Ovest, abitata da israeliani e strutturata in vasti quartieri moderni con scuole, ospedali, grandi alberghi, ristoranti come all’incirca in qualsiasi altro agglomerato al mondo. Poi si arriva vicino alla città Vecchia, circondata dalle sue imponenti mura, attraversate da alcune grandi porte, le più importanti delle quali sono quella di Jaffa a ovest e quella di Damasco a est. Discendendo dall’una all’altra, si scopre rapidamente la parte Est della città, abitata da palestinesi, con la sua principale arteria, Salahedin street. In pochi minuti si potrebbe pensare di aver individuato le tre componenti principali di questa città. In realtà, il visitatore non ha visto quasi niente, dal momento che la città si estende in molteplici direzioni per inglobare zone assai differenti e soprattutto assai contrastanti. Si colgono almeno due grandi tipi di urbanizzazione.
Nella parte centrale di Gerusalemme-Est (da nord a sud) vasti complessi abitativi costruiti dagli israeliani, che non sono altro che colonie come ce ne sono tante altre nei Territori occupati e che sono riservati alla popolazione ebraica israeliana. Queste costruzioni moderne, abitate ciascuna da migliaia di persone, godono di un’ottima manutenzione, sono servite da buone strade e da buoni servizi di trasporto.
Alla periferia, ci sono alcuni villaggi o quartieri palestinesi che fanno pensare di trovarsi in una città di quello che veniva chiamato una volta terzo mondo, dove le strade sono quasi impraticabili, dove spesso si incontra, qui e là, spazzatura venuta non si sa da dove, che il vento sparpaglia in tutte le direzioni. Nessuna traccia di commercio o di servizi o quasi. Questi posti, che rassomigliano a terre di nessuno, sono abitati da migliaia di uomini e donne dagli abiti malandati, dalle automobili ammaccate e dagli sguardi tristi, che danno un’idea di quanto debba essere difficile la loro vita quotidiana, soprattutto dopo la costruzione del Muro della vergogna, che li pone in situazioni impossibili.
E tuttavia, questi spazi così diversi sono sotto l’egida della stessa municipalità creata dopo la guerra del 1967 dal governo che aveva ben presto decretato l’annessione de facto della città, dotandola di limiti municipali che andavano ben al di là di quelli esistenti sotto il regime giordano. Quelli cioè della Gerusalemme storica. Questa configurazione apparentemente caotica non deve nulla al caso. Al contrario, essa è il risultato di una politica coerente e sistematica il cui obiettivo è chiarissimo: fare in modo che Gerusalemme occupi il più vasto spazio possibile con il minor numero di palestinesi, per realizzare il sogno di una Gerusalemme “riunificata”, popolata da una larga maggioranza ebraica. Gerusalemme costituisce senza alcun dubbio il cuore del conflitto israelo-palestinese, poiché vi si trovano condensate tutte le sue dimensioni storiche, politiche, demografiche e religiose. Per gli uni come per gli altri, essa deve essere la capitale del loro Stato, cosa che, sia pure formalmente, la comunità internazionale continua a rifiutare allo Stato d’Israele (che l’ha proclamata unilateralmente dal 1950), e che gli israeliani rifiutano ai palestinesi che non hanno nemmeno più, da tempo, il diritto elementare di accedervi, se non sono residenti.
Durante la guerra del 1948, per conquistare questa città popolata da 205.000 abitanti (circa 100.000 ebrei e 105.000 palestinesi, di cui 60.000 musulmani e 45.000 cristiani), ci fu uno scontro durissimo tra l’esercito israeliano e la Legione araba giordana, e al cessate-il-fuoco le due forze in campo si trovarono faccia a faccia vicino alle mura della città Vecchia, che rimase sotto la dominazione giordana, mentre gli israeliani si installarono in tutti i quartieri della parte Ovest della città compresi quelli interamente popolati da palestinesi, costretti a lasciare le loro case. Questo flusso di profughi costituì una parte importante dell’esodo palestinese del 1948 e la prima tappa dell’attivazione del progetto israeliano di giudaizzazione della città, mentre alcune migliaia di ebrei che risiedevano nella città Vecchia subirono lo stesso destino, raggiungendo la parte Ovest della città. Negli anni successivi, la giudaizzazione di Gerusalemme-Ovest è avvenuta senza un’importante opposizione, poiché i palestinesi l’avevano abbandonata per esiliarsi a qualche chilometro dall’altra parte, o addirittura a poche centinaia di metri per quelli che, ad esempio, abitavano nei pressi della Porta di Jaffa e che si installarono nella città Vecchia.
Ma è con la guerra del giugno 1967 che la situazione precipita poiché, da quel momento, Israele controlla tutta la Palestina compresa perciò Gerusalemme. Immediatamente, la città viene percepita da una grandissima maggioranza di israeliani in maniera del tutto differente dal resto dei territori palestinesi appena conquistati. Se i vari governi succedutisi hanno esitato sulla politica da tenere rispetto ai nuovi territori, questo non è avvenuto in relazione a cosa era necessario decidere per Gerusalemme. Da allora, e senza che questo fatto abbia avuto mai una smentita, esiste un forte consenso tra i partiti di destra e di sinistra per farne una grande metropoli dove gli ebrei siano largamente in maggioranza.
Tutto questo trova d’altronde una prova immediata il 27 giugno 1967, con un voto della Knesset che stabilisce: “La legge, la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato si estenderanno a qualsiasi porzione di Eretz Israel indicata per decreto governativo. Molto rapidamente vengono insediati a Gerusalemme-Est numerosi servizi amministrativi municipali e, qualche anno più tardi, nel luglio 1980, la Knesset adotta una legge fondamentale secondo la quale “Gerusalemme riunificata è la capitale d’Israele… (e) la sede del presidente dello Stato, del governo e della Corte Suprema”.
Questo vasto progetto, che s’inquadra pienamente nella logica sionista, è oggi, nel 2010, praticamente realizzato. Esso è costituito da quattro grandi articolazioni strettamente intrecciate le una con le altre e cioè l’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città; la chiusura della città con un immenso muro di cemento che la separa dall’habitat palestinese, integrandola con l’hinterland israeliano; lo spossessamento fondiario dei palestinesi, con relativa costruzione di vaste colonie ebraiche; il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme.


L’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città

Questa estensione si è svolta in tre grandi tappe strettamente legate tra di loro anche se, ogni volta, di natura differente. La prima è consistita in una modifica unilaterale del perimetro originario della città, La seconda si è svolta all’esterno dei nuovi limiti con la creazione di una nuova colonia a meno di dieci chilometri da Gerusalemme. La terza ha riguardato una “nuova” forma di gestione del territorio, in realtà un progetto di sviluppo di una vasta metropoli: la “grande Gerusalemme”.


La modifica unilaterale dei limiti municipali

 Sulla base di un testo di legge votato dalla Knesset nel mese di giugno 1967, il governo ampliò in misura spropositata il perimetro urbano della città, ben al di là dei limiti urbani di Gerusalemme-Est e dunque al di là della linea verde che costituiva la linea di demarcazione relativa alla guerra del 1948. Questa iniziativa unilaterale va considerata di fatto come una forma mascherata di annessione di nuovi territori assolutamente contraria al diritto internazionale, come ha ribadito il Consiglio di sicurezza dell’ONU con la risoluzione 252 del 1968. Per attivare questo progetto, era necessario confiscare terre arabe, evitando il più possibile d’integrare, con la stessa operazione, nuove popolazioni nella città che non potevano che essere palestinesi o giordane. Servivano le terre ma non i loro abitanti e di conseguenza ecco i nuovi limiti municipali che fanno lo slalom tra questi vincoli demografici per giungere ad una nuova geografia della città particolarmente sinuosa, ricca di gomiti e di incavi, stirandosi verso sud e allungandosi lungo la verticale verso il nord, quasi fino alla periferia di Ramallah. Una metafora sessuale, ispirata alla forma assunta dai nuovi confini municipali, fa pensare ad un enorme fallo che stupra il cuore della Palestina. La superficie di Gerusalemme-Est passò così da 6 (sei) chilometri quadrati (che comprendevano anche il chilometro quadrato relativo alla città Vecchia) a circa 70 (settanta) kmq. Sommata alla parte Ovest della città, la superficie totale di Gerusalemme risulta essere di 108 kmq, abitata da 266.000 persone, per tre quarti ebree.

 

La costruzione di Ma’ale Adumim

 La colonia di Ma’ale Adumim, situata a pochi chilometri da Gerusalemme in direzione di Gerico, ha conosciuto all’inizio una storia assai contrastata, prima che il Likoud, arrivato al governo nel 1977, non la classificasse in zona di sviluppo prioritario, dopo averla legalizzata, in modo da permetterle di beneficiare di sovvenzioni per gli alloggi, di riduzioni di tasse e di prestiti agevolati. Dopo dieci anni, questa nuova colonia, consacrata ufficialmente nel 1992 prima città ebraica dei territori, è in piena espansione con circa 15.000 abi­tanti. Nel 1994, e cioè quando erano stati da poco firmati gli accordi di Oslo, il governo di Yitzhak Rabin, che intendeva continuare in maniera intensiva la politica dei fatti compiuti sul terreno, malgrado i negoziati con i palestinesi, prese la decisione di allargarne i limiti molto ampiamente, aggiungendo nuove riserve fondiarie, di fatto terre espropriate a cinque villaggi: El-Eisawiyeh, El-Tour, El-Eizariyeh, Anata e Abu Dis. Si trattò di una sorta di misura conservativa, che permise ad Israele di prendere tempo e di conservare per un uso successivo queste terre, dal momento che all’epoca, non fu presa alcuna decisione concreta.
Occorrerà infatti aspettare il 2005 perché il governo di Ariel Sharon decida di utilizzare questa riserva fondiaria per lanciare uno dei più grandi progetti di costruzione di colonie. Una prima fase, 3.500 nuovi alloggi e l’installazione del quartier generale della polizia per la Cisgiordania. I piano in questione si chiama “E1”, comporta anche una zona di sviluppo economico, zone commeciali, alberghi, istituti d’insegnamento superiore, un cimitero e un ampio parco che circonderà il tutto. La sua superficie totale è dell’ordine di 50 kmq e si stende praticamente da Gerusalemme a Gerico. La sua realizzazione deve collegare Ma’ale Adumim alle altre colonie di Gerusalemme-Est come Psigat Omer, Neve Yaacov e French Hill, creando così una continuità territoriale tra tutti questi quartieri ebraici.
Di fronte alle proteste americane ed europee (si fa per dire!) il governo ne ha congelato per qualche tempo l’applicazione, ma, dalla fine del 2006 sono state prese le prime misure effettive, con l’insediamento in particolare del centro di polizia. All’inizio del 2007, la zona si è trasformata in un immenso cantiere, con lavori di terrazzamento e l’apertura di nuove infrastrutture stradali. E oggi se ne vedono i risultati !
Ariel Sharon aveva preso questa decisione perché il piano s’inseriva perfettamente nella strategia di frantumazione del territorio palestinese, che puntava (e punta) a creare svariati cantoni isolati gli uni dagli altri. Questo progetto è assai vicino ad essere realizzato, e permette fin d’ora di collegare fisicamente Gerusalemme e Ma’ale Edumim con zone abitate esclusivamente da ebrei, di intercludere villaggi palestinesi come Abu Dis e Al-Eizariyeh, ormai soffocati tra il Muro della vergogna e Ma’ale Adumim, di isolare Gerusalemme dal resto dell’hinterland palestinese e, infine e forse soprattutto, di tagliare in due la Cisgiordania, separando i distretti palestinesi del Nord da quelli del Sud.
Questa separazione è già da oggi operante nei fatti. L’esercito impedisce qualsiasi forma di circolazione ai palestinesi tra il Nord e il Sud della Cisgiordania e, in sovrappiù essi non possono nemmeno accedere alla vallata del Giordano, ormai limitata ai soli residenti.
Una simile configurazione, cui vanno aggiunte le innumerevoli restrizioni alla libertà di movimento di cui sono vittime i palestinesi, rende impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato di continuità territoriale. A questa obiezione il governo israeliano replica che costruirà… un tunnel per renderla un giorno possibile, un chiaro modo per confermare questa politica di frammentazione dello spazio palestinese per favorire un dominio incontrastato degli israeliani.
Quasi a voler sigillare il tutto – nel senso proprio del termine -, è previsto che il Muro in cemento che circonda completamente la parte Est di Gerusalemme, venga prolungato tutto intorno a Ma’ale Adumim passando molto a sud per inglobare alcune piccole colonie come Kedar e molto a nord oltre Almon e Kefar Adumim.

 

Il progetto della Grande Gerusalemme

 Questo progetto rappresenta un’importantissima estensione dell’annessione già realizzata nel 1967 quando lo Stato d’Israele aveva del tutto unilateralmente ridisegnato i limiti municipali della parte Est della città. In seguito, la colonizzazione in Cisgiordania aveva portato alla costruzione di grandi blocchi di colonie intensamente popolate tutto intorno a Gerusalemme, per meglio garantirne il controllo politico e demografico. Lanciato da Benjamin Netanyahu nel 1995, questo progetto riguarda un vasto territorio che va a nord fino a Ramallah, a sud di Betlemme senza includerla e a est verso la periferia di Gerico. Comporta un forte sviluppo di quattro blocchi di colonie che si trovano al di là dei limiti della città di Gerusalemme e che la circondano da nord-ovest, da nord-est, da est e da sud. Queste colonie sono tutte collegate a Gerusalemme-Ovest da una rete stradale efficiente e sofisticata che permette collegamenti rapidi tra i diversi punti di questo spazio ampio, di cui Gerusalemme-Ovest costituisce il cuore, per l’offerta relativa al lavoro e ai servizi (istruzione, salute, alimentazione e tempo libero).

Il fatto nuovo ed essenziale è che questo complesso che inghiotte tutta una parte centrale della Cisgiordania è ormai separato fisicamente dal resto del territorio palestinese dal Muro il cui tracciato ha qui la funzione evidente di fissare una vera frontiera di cemento per consacrare l’annessione unilaterale di questo complesso allo Stato d’Israele.

Il primo blocco si situa a est, intorno a Ma’ale Adumim, punto cardine di questo dispositivo, con, a nord della strada che collega Gerusalemme a Gerico, una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Mate Binyamin: Mizpe Yeriho, Kefar Adumim e Almon (3 600 abitanti). A sud-est di Ma’ale Adumim, si trova la colonia di Qedar (450 abitanti). Il complesso, con una superficie di circa 70.000 dunam, si estende fino alla periferia di Gerico e rinforza così la spaccatura tra il Nord e il Sud della Cisgiordania.

Il secondo blocco di colonie si situa a nord-ovest con in particolare Giv’on e Bet Horon che fanno anche loro parte del consiglio regionale di Mate Binyamin e Giv’at Ze’ev che è un consiglio locale. I limiti di queste colonie sono vicini a Ramot che si trova all’interno dei nuovi limiti municipali di Gerusalemme. Un pò più lontano si trova la colonia di Har Adar (circa 2000 abitanti) de facto incorporati allo Stato d’Israele da un tracciato del Muro che si allontana anche qui, deliberatamente, dalla linea verde. Il complesso è servito da strade che collegano questo settore all’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e al centro-città.

Il terzo blocco di colonie si situa a nord-est con in particolare le colonie di Kokhav Ya’akov, Tel Zion e anche Geva Binyamin, che dipendono tutte dal consiglio regionale di Mate Binyamin. Qualche chilometro più a nord, ci sono le colonie di Pesagot e Bet El che fanno parte di un altro sistema ma che, allo stesso tempo, sono vicinissime a questa metropoli. Questi due blocchi, entrambi situati a nord della città, costituiscono una specie di barriera che separa Gerusalemme da una decina di villaggi palestinesi. Più di 30.000 abitanti palestinesi sono così estraniati da quello che è sempre stato il loro centro urbano di riferimento.

Il quarto blocco si trova più a sud, vicino Betlemme. Comprende Betar Illit con 16.000 abitanti, Efrat e una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Gush Etzion. Benché sia abbastanza lontano da Gerusalemme, questo settore si integra con la metropoli grazie ad una strada che la collega direttamente con il centro della città, evitando zone popolate da palestinesi. Del resto, come gli altri blocchi di colonie, esso contribuisce alla frammentazione dello spazio palestinese poiché impedisce lo sviluppo dei villaggi palestinesi e limita fortemente la libertà di movimento dei suoi abitanti. In totale, i limiti municipali di queste colonie nella Grande Gerusalemme si estendono per circa 130.000 dunum, due terzi dei quali rappresentavano nel 2002 una riserva fondiaria per progetti futuri, con una popolazione di circa 250.000 abitanti, con l’ambizione di raccogliere nella zona mezzo milione di israeliani per pesare nel rapporto di forze demografico nel cuore dei territori palestinesi.

Gli abitanti di queste colonie, sommati ai 200.000 di Gerusalemme-Est, costituiscono un insieme comparabile con la popolazione palestinese che, per di più, è fisicamente suddivisa tra diverse enclave dovute alla strutturazione spaziale indotta dalle nuove costruzioni israeliane e dal Muro che spezza in modo brutale tutto uno spazio in precedenza continuo.

 

Il Muro intorno a Gerusalemme

 Tutta l’operazione costruita in parecchi anni a partire da piani, tutti rigidamente centrati sull’idea di realizzare una maggioranza ebraica nell’insieme della città, ha trovato una forma di completamento con la costruzione del Muro a partire dal 2003. Ovviamente le conseguenze della costruzione del Muro hanno coinvolto (e coinvolgono) tutta la Cisgiordania. Qui di seguito studieremo le implicazioni relative alla sola Gerusalemme.
Questo mostro di cemento e di acciaio (si tratta in realtà di un’alternanza di un vero e proprio muro di cemento e, per la più gran parte del percorso, di una barriera, limitata da una parte e dall’altra da una rete metallica di circa tre metri di altezza, controllata elettronicamente, ma assai larga, dai 45 ai 100 metri. Questo spazio compreso tra le due reti è occupato da reticolati, da un fossato che impedisce il passaggio ad eventuali veicoli, un sistema di rilevazione di intrusioni e almeno una strada di pattugliamento), il Muro della vergogna, serpenteggia per decine di chilometri intorno a Gerusalemme, schiacciando tutto al suo passaggio, mutilando il paesaggio come un’enorme cicatrice, ferendo le magnifiche colline di Gerusalemme e imponendo una separazione di una violenza estrema che sconvolge letteralmente la vita di decine di migliaia di palestinesi ormai separati gli uni dagli altri, isolati dai loro cari, staccati dal loro ambiente naturale e anche, per molti di loro, rinchiusi in una sorta di ghetto, le cui uniche uscite sono dei tunnel!
L’argomentazione secondo la quale il Muro è stato costruito per ragioni di sicurezza non regge all’analisi precisa del suo tracciato in Cisgiordania. Nel caso di Gerusalemme, l’argomentazione regge ancora di meno tanto è evidente che la decisione di circondare la città con un muro risponde fondamentalmente alla volontà politica di annettersi le più ampie superfici possibili attorno a Gerusalemme e di crearvi un rapporto di forze demografico favorevole agli israeliani ebrei. Si ritrova qui l’ossessione demografica in tutta la sua ampiezza: bisogna fare tutto perché Gerusalemme sia a maggioranza ebraica. E nel quadro di questa ossessione, la Grande Gerusalemme completa in maniera decisiva i dispositivi che permettono di frammentare al massimo il territorio palestinese per impedire qualsiasi possibilità di creazione di uno Stato palestinese vivibile.
All’inizio del 2007, per capire il tracciato del muro e le relative conseguenze, occorre tenere ben separati i limiti municipali della città e la Grande Gerusalemme. I due progetti sono strettamente legati tra loro e sono anche complementari (dal momento che la Grande Gerusalemme consolida, con un’ampia estensione, i limiti iniziali della città) ma non procedono con lo stesso ritmo. Uno è completato mentre l’altro non lo è ancora, soprattutto perché la comunità internazionale ha condannato a più riprese il progetto di una Grande Gereusalemme. Detto questo, le implicazioni per i palestinesi sono più o meno le stesse e si possono individuarne almeno tre tipi : l’esclusione, la chiusura e la separazione.

 

L’esclusione

Il principio stesso dell’esclusione è semplice: estendere al massimo lo spazio urbano di Gerusalemme espropriando terre palestinesi, includendovi il minor numero possibile di palestinesi. Il caso più flagrante e senza dubbio più importante è quello del circondario di Shu’fat. In questo settore, dove vivono circa 50.000 palestinesi, ovverosia un quarto della popolazione palestinese della parte orientale della città, il tracciato del Muro opera un gran giro per “tirare fuori” questa popolazione della città, lasciandola fuori dal muro, nonostante che si trovi all’interno dei limiti municipali! Il circondario di Shu’fat comprende il campo profughi di Shu’fat, Ras Hamis, Ras l’Shehada, e i quartieri di Dahiyat al-Salaam. Si trova al limite nord-est di Gerusalemme, a sud della colonia Pisgat Ze’ev e a est della colonia French Hill e del villaggio di Isawiya. La grande maggioranza degli abitanti del settore è costituita da residenti di Gerusalemme, e alcuni sono cittadini israeliani. Si noti che la residenza di Gerusalemme è considerata come equivalente allo statuto di “residente permanente” e, in quanto tali, i suoi detentori godono della maggior parte dei diritti e servizi di cui godono i cittadini israeliani, in particolare, hanno il diritto di voto alle elezioni municipali, ma non a quelle parlamentari
Il campo-profughi di Shu’fat fu il primo campo ufficiale. Fu costruito tra il 1964 e il 1966 per ospitare i profughi di Gerusalemme-Ovest che vivevano nel quartiere ebraico della città Vecchia dopo la guerra del 1948.
La popolazione del campo (circa 10.000 rifugiati registrati ai quali conviene aggiungere dalle 10 alle 15 mila persone che non sono rifugiati ma che vivono là) si è sviluppato nel corso degli anni, mentre altri quartieri sono sorti intorno al campo negli anni 1970 e 1980 poiché la popolazione di Gerusalemme-Est aumentava e i residenti cercavano terreni liberi su cui insediarsi. L’ONU fornisce dei servizi di base ai rifugiati, mentre la municipalità di Gerusalemme e lo Stato d’Israele hanno l’obbligo di far fronte ai bisogni di tutti gli altri residenti di Gerusalemme all’interno del campo. In linea generale, le condizioni di vita dei residenti del capo sono decisamente modeste.
Proprio come per il campo di Shu’fat, la municipalità di Gerusalemme è responsabile della fornitura dei servizi per i qurtieri esterni al campo: Ras Hamis, Ras I’Shehada e Dahiyat al-Salaam dove vivono circa 10.000 persone. Tutto questo settore soffre di un’infrastruttura sottosviluppata. Poche strade, poca o nessuna raccolta di spazzatura e assenza qusi totale di illuminazione pubblica. Non ci sono scuole municipali, non ci sono parchi, non ci sono centri sociali e nessun ufficio postale. Per questi quartieri non esiste alcun piano urbanistico, la qual cosa impedisce ai residenti di depositare richieste per costruire. A titolo di confronto, il quartiere vicino di Pisgat Ze’ev, una colonia israeliana fondata nel 1982 a Gerusalemme-Est con i suoi 45.000 abitanti, dispone di una decina di scuole, di diverse cliniche, di un centro sociale, così come di strade, di lampioni, di parchi e di pianificazione paesaggistica. I residenti beneficiano dei vantaggi dei piani urbanistici approvati, della polizia, dei pompieri e di servizi di pronto soccorso. Nel gennaio 2004, Israele ha cominciato a confiscare la terra per la costruzione del Muro sul settore di Shu’fat. Il tracciato previsto lo ha circondato completamente, isolandolo dalla città, limitando de facto l’accesso degli abitanti al resto di Gerusalemme attraverso un solo check-point. Malgrado i ricorsi depositati dai palestinesi, la cos­truzione del Muro, alla fine del 2005, era già avviata.


La chiusura

Un altro segmento della popolazione palestinese, che viveva al di fuori del perimetro della città, si trova letteralmente chiuso da un muro che si è inserito tra quello delle frontiere municipali e quello della Grande Gerusalemme! Si tratta di quattro villaggi palestinesi che si trovano a nord-ovest della città tra le colonie israeliane di Giv’at Ze’ev e di Ramot Allon: Al-Judeira, Al-Jib, Bir Nabala e Al-­Balad. A lavori finiti, i loro abitanti non potranno più uscire da questa enclave se non attraverso tunnel controllati evidentemente dalla polizia israeliana.
Dall’altro lato di Gerusalemme, in prossimità della nuova colonia di Har Homa, alcune centinaia di palestinesi del villaggio di Nu’man vivono da anni un vero incubo. In seguito ad un errore commesso dall’amministrazione israeliana, gli abitanti di questa zona erano stati giuridicamente come residenti della Cisgiordania, mentre erano all’interno del nuovo perimetro di Gerusalemme. A questo titolo, avrebbero dovuto beneficiare dello statuto di residenti di Gerusalemme. Finché il Muro non esisteva, la loro situazione era difficile ma non drammatica, poiché potevano circolare alla meno peggio sia verso Gerusalemme sia verso la Cisgiordania. Con la costruzione del Muro, tutto è cambiato, dal momento che sono ormai bloccati all’interno della città senza disporre però dei documenti che li autorizzino a circolare da questa parte del Muro. Si trovano dunque in una situazione kafkiana poiché non hanno il diritto di stare legalmente nelle loro case e nello stesso tempo non possono più andare dalla parte palestinese a causa del Muro. Gli abitanti hanno depositato diversi ricorsi, ma senza alcun risultato, a tutt’oggi.


La separazione

 

L’insieme della zona compresa tra Ramallah, Gerusalemme e Betlemme ha sempre rappresentato un bacino di popolazione e di impieghi indivisibile dove la circolazione e gli scambi erano tanto più facili in ragione delle brevissime distanze : alcuni chilometri soltanto separano Ramallah da Betlemme. La decisione israeliana di vietare ai palestinesi di Cisgiordania di andare a Gerusalemme all’inizio degli anni 1990 ha costituito una prima rimessa in discussione di questa unità. Questo divieto, applicato in modo rigorosissimo, isola i palestinesi gli uni dagli altri con tutto ciò che comporta per la vita quotidiana, per le famiglie che non possono più incontrarsi dove desiderano, per i credenti che non possono più recarsi alla moschea di Al-Aqsa, per i commercianti e i lavoratori che non possono più servirsi dell’attività di un centro urbano importante.
Il Muro rafforza violentemente questa separazione perché ormai il minimo spostamento da Gerusalemme verso la Cisgiordania è un percorso di guerra mentre nel senso inverso sono impossibili del tutto percorsi discreti o clandestini che permettano ai palestinesi di andare a Gerusalemme. I pochi punti di passaggio esistenti dove si può superare questo Muro non sono semplici check-point ma veri terminali di frontiera con reti metalliche, porte di ferro e tornelli metallici mediante i quali si operano stretti controlli d’identità assai spesso umilianti per i palestinesi che devono passare uno alla volta davanti a vetri blindati dove i soldati israeliani la fanno da padroni assoluti.
Ci sono ormai anche diversi frammenti di popolazioni esplose: gli abitanti di Ramallah e di Betlemme sono separati, quelli di Gerico vivono in un’oasi circondata da una zona vietata, quelli di Abu Dis sono soffocati tra il Muro di Gerusalemme e presto quello di Ma’ale Adumim, quelli di Anata sono chiusi tra il Muro e una strada a diverse corsie, mentre quelli di Gerusalemme-Est sono praticamente agli arresti domiciliari dal momento che sono bloccati a casa loro in un perimetro sempre più ridotto, con la paura di perdere il loro statuto di residenti della città, nel caso in cui si allontanino per una qualsiasi ragione. Si potrebbe continuare facilmente questa enumerazione seguendo i contorni del Muro che ha accuratamente integrato le colonie israeliane e disintegrato le comunità dei villaggi palestinesi.
Una simile separazione pone molteplici e gravi problemi alla vita di tutti i giorni dei palestinesi, poiché spesso la famiglia, gli amici, il dispensario, la scuola, il centro per lo svago, il droghiere, il panettiere che prima erano a pochi minuti da casa, sono ormai quasi inaccessibili. La via principale di Abu Dis costituisce uno degli esempi che più colpisce: immaginate una larga strada che va dritta verso il centro di Gerusalemme spesso interrotta da un muro in cemento alto otto metri che trasforma quest’asse di vita e di attività in un sinistro vicolo cieco dove tutto deperisce.
Alcuni ricorsi depositati presso la Corte Suprema hanno portato qui e là ad alcune modifiche di tracciato ma mai ad una rimessa in discussione del principio stesso di questa barriera che chiude, esclude e separa una stessa popolazione. All’inizio del 2007 si poteva ancora vedere qualche breccia nel Muro, legate a decisioni provvisorie di sospensione, in attesa del giudizio definitivo. Ad esempio, esiste ancora un passaggio tra due villaggi che hanno sempre vissuto l’uno in rapporto all’altro: Jabal Mukabar (integrato dal Muro a Gerusalemme) e As-Sawa­hira (lasciato dal Muro all’esterno). Ma già, in attesa del verdetto della Corte, l’esercito ha attivato un check-point nella breccia per filtrare i passaggi. Siccome la circolazione delle automobili è vietata, gli abitanti di questi due villaggi sono costretti a passare a piedi per superare una distanza di trenta metri. Se la Corte autorizzerà la costruzione del Muro in quel punto, i due villaggi saranno separati, come tutti gli altri intorno a Gerusalemme, e tutta la vita di quella fino ad ora è una comunità, ne sarà sconvolta. Si vede bene con questi esempi come le argomentazioni che tentano di spiegare il tracciato del Muro con ragioni di sicurezza non reggano nemmeno per un minuto. Al contrario, l’esclusione, la chiusura e la separazione non possono che generare sofferenze e frustrazioni che un giorno, in un modo o in un altro, se la situazione permane, provocheranno violenze di ogni tipo soprattutto da parte dei giovani che non potranno che ribellarsi contro questa situazione di discriminazione che non esiste in nessun’altra zona al mondo.

 

Lo spossessamento fondiario

 L’estensione continua dei perimetri fondiari controllati da Israele ha senso soltanto se accompagnata da una vigorosa politica di di cocostruzione di nuovi complessi abitativi riservati agli israeliani nella prospettiva di prendere definitivamente possesso di quelle terre per giudaizzare questo settore centrale e vitale dei territori palestinesi. Siamo di fronte, ancora una volta, al centro di una logica che rinvia ai principi fondamentali del sionismo e cioè di impadronirsi al massimo di terre per radicarvi popolazioni ebraiche.
La messa in opera di questa politica obbedisce ad altri principi altrettanto «classici»: si tratta di creare le condizioni di una continuità spaziale tutto intorno e all’interno di Gerusalemme-Est. Ciò implica immediatamente, di spingere i palestinesi alla periferia dal centro dove la popolazione ebraica deve essere maggioritaria – di qui in particolare il tracciato del Muro a est della città che opera inverosimili contorsioni per cacciare all’esterno il più gran numero possibile di palestinesi e di circondare le zone palestinesi del resto già frammentatissime. Queste costruzioni costituiscono del resto un perfetto esempio del modo in cui i governi israeliani sono riusciti, per mezzo di progetti urbani, a cancellare in molti posti ogni traccia della linea verde poiché molti quartieri come Talpiot Est o Ramot Eshkol sono costruiti in piena continuità territoriale con Gerusalemme-Ovest. Dal momento che stiamo prendendo in considerazione soltanto le costruzioni all’interno dei nuovi limiti municipali della città, occorre distinguere le colo­nie create a Gerusalemme-Est e le molteplici iniziative di insediamento nella città Vecchia.

 

Le colonie nel nuovo perimetro di Gerusalemme-Est

 Una prima fase di costruzione è stata realizzata tra il 1968 e il 1970 per creare una continuità spaziale ebraica dal monte Scopus a Sanhe­driya, lungo un asse est-ovest. Negli anni seguenti, un’altra tappa si è avviata con la creazione di nuovi quartieri (o colonie) alla periferia dello spazio centrale per controllarlo meglio e includerlo nel nuovo spazio israeliano: Neve Yaakov a nord dove vengono costruite quasi 4.000 residenze per 20.000 persone circa, Ramot Allon per la quale vengono confiscati più di 4.000 dunam per permettere a circa 40.000 persone di viverci, Gilo a sud che domina Beit Jala e Betlemme, Talpiot Est (1973) su una superficie di più di 2 000 dunum (15 000 persone).
Ad eccezione di Talpiot Est, che si trova sulla linea di demarcazione tra Israele e la Giordania dal 1949 al 1967, queste nuove colonie sono state costruite su terre confiscate a una trentina di villaggi palestinesi bloccando durevolmente così il loro potenziale sviluppo poiché si sono ritrovati privati di spazi fondiari necessari sia alla loro agricoltura che all’estensione del loro habitat.
In totale, esistono ormai dodici colonie che, dal punto di vista del diritto internazionale, hanno esattamente lo stesso statuto illegale di quelle impiantate in Cisgiordania o sul Golan anche se la più gran parte degli israeliani le considerano come quartieri di Gerusalemme alla pari degli altri, dove vivono circa 200.000 persone (2005). La storia di una delle più recenti, Har Homa, è assai rivelatrice del modo in cui il governo procede per queste colonie presenti a Gerusalemme-Est. Il processo si è svolto in tre tempi: 1967, 1991, 1997.
A partire dal 1967, tenuto conto della sua localizzazione (a sud della città), della sua configurazione (una bellissima collina che offre panorami superbi) e delle sue potenzialità fondiarie, questo settore è stato incluso nel nuovo perimetro urbano di Gerusalemme unilateralmente deciso da Israele, mentre in precedenza dipendeva dal governatorato di Betlemme. Successivamente, nel 1968, è stato classificato come zona verde, in modo da impedire ai proprietari palestinesi di costruirvi una qualsiasi cosa. Nel 1991, il governo ha espropriato queste terre essenzialmente proprietà degli abitanti del villaggio vicino Beit Sahour, ma anche di Betlemme, di Sur Baher e di Um Tuba. Infine, nel 1997, Benjamin Netanyahu ha deciso di farci costruire una prima rerie di alloggi rapidamente seguita da altri negli anni successivi. Nel 2007, questa colonia contava diverse migliaia di abitanti e ancora oggi i palestinesi assistono impotenti alla crescita inesorabile di queste costruzionic sulle loro terre. Inoltre, essi temono che questo insieme si estenda anche alle terre circostanti dal momento che ora il Muro passa a poche centinaia di metri dall’abitato, chiudendo così completamente l’accesso di questa piccola montagna, Jabal Abu Ghneim, agli abitanti vicini di Cisgior­dania per i quali è stata a lungo una zona per trascorervi il tempo libero. Har Homa e il Muro separano ormai completamente villaggi che prima costituivano un medesimo insieme urbano distando gli uni dagli altri pochi chilometri oggi insuperabili.

 

Le installazioni nella città Vecchia

La città Vecchia è un universo unico dove ogni costruzione, quasi ogni pietra, conserva tracce di una memoria che si allunga su diversi secoli. L’intensità delle tracce lasciate dal tempo è tanto più forte, vista l’esiguità del perimetro di questo spazio così singolare dove tutto si mischia. Poche centinaia di metri soltanto separano il Santo Sepolcro dal Muro del Pianto che si trova perpendicolarmente alla Spianata delle Moschee… In una configurazione spaziale così esigua, impadronirsi di un semplice cortile diventa una posta importante tra palestinesi e israeliani che vogliono ad ogni costo esercitare il loro dominio sull’insieme della città che vogliono “riunificata”.

Una delle prime decisioni del governo immediatamente dopo la guerra del giugno 1967 è stata quella di radere al suolo le centotrenta case del quartiere maghrébino che si trovavano di fronte al Muro del Pianto per creare una vasta spianata dalla quale lo si può vedere interamente. Questa decisione si inseriva in un piano complessivo di rinnovamento e di estensione del quartiere ebraico vicino, che gli ebrei avevano dovuto abbandonare nel 1948 quando la Legione araba ne aveva assunto il controllo. E, da allora, e soprattutto dopo la vittoria del Likoud nel 1977, alcuni gruppi ultranazionalisti israeliani organizzati o che ispiravano al Goush Emunim hanno, a più riprese, tentato di acquistare immobili nel quartiere musulmano della città Vecchia.
Ateret Cohanim, diretto dal rabbino Shlomo Aviner, figura influente del campo nazionale religioso, è una delle organizzazioni radicali tra le più attive in questo ambito e ha la sua sede proprio in una yeshiva che si trova nel quartiere musulmano della città Vecchia, dove alcune decine di studenti si dedicano allo studio dei riti praticati nel Tempio di Salomone. E’ in parte grazie ad essa che Ariel Sharon, anche proprietario di una casa nei pressi della Porta di Damasco, ha fatto annunciare, en 2005, l’approvazione di un progetto di costruzione di un complesso di diversi edifici e di una sinagoga a Burj Al­-Laqlaq su di una superficie di circa 11 dunum (11.000 mq) tra la Porta dei Leoni e la Porte di Erode suscitando immediatamente vivissime reazioni tra i palestinesi.
Nello stesso periodo sono state prese altre iniziative importanti. E così, diversi edifici imponenti, di cui alcuni come l’hotel Imperial, situati sulla piazza della Porta di Jaffa, che controlla l’entrata occidentale della città Vecchia, sono stati riacquistati in condizioni che restano assai oscure. Queste operazioni immobiliari condotte in gran segreto sembrano annunciarne altre, con gran soddisfazione di alcuni giornali israeliani come Maariv (18 marzo 2005) che fa questo commento: “Ultimamente due gruppi di investitori .ebrei stranieri hanno comprato in segreto i terreni del quartiere … hanno speso milioni di dollari con un obiettivo preciso: restituire Gerusalemme agli Ebrei
Tenuto conto dell’importanza delle poste in gioco e delle passioni che suscitano, questo tipo di acquisizioni sono condotte nella più grande discrezione e molto spesso da società di copertura dove i coloni non compaiono. Una delle più note di queste società è la Atara Leyoshna che, in diversi anni, è riuscita a comprare numerose case e appartamenti nel quartiere musulmano. Gli inquilini palestinesi hanno finito con l’andarsene o perché stanchi delle svariate forme di logoramento, o perché hanno accettato sostanziosi compensi finanziari.
Nella stessa logica di questo tipo di iniziative, vanno collocate le decisioni del governo che hanno portato a spossessare i palestinesi di molte istituzioni a Gerusalemme-Est emblématiche del loro radicamento in questa città, la più impor­tante delle quali è la presa di possesso con la forza e la chiusura (nell’agosto 2001) della Casa dell’Oriente aperta nel 1992 da Feisal Husseini, discendente di una grande famiglia dela città e responsabile politico inportante dell’OLP (morto nel 2001). Nel periodo degli accordi di Oslo, era diventata una specie di municipio ufficioso che rappresentava gli interessi della popolazione palestinese a Gerusalemme-Est e un centro di ricerca documentatissimo sulla colonizzazione della città da parte dello Stato d’Israelel. La Road map proposta dal Quartetto nel maggio 2003 comprende la sua riapertura, ma più tempo passa e più questa eventualità si fa remota e problematica.


Il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme

 Tutta l’urbanizzazione e, in senso più ampio, tutte le misure prese dalla municipalità di Gerusalemme, compreso il fatto che soltanto una modestissima componente del suo budget sia destinata ai quartieri palestinesi, sono condizionate da una vera e propria ossessione demografica. Non deve accadere che i rapporti di forze tra le due comunità possano risultare in favore dei palestinesi. Gli ebrei rappresentano il 72% della popolazione e questo rapporto deve restare immutato. In nessun caso, i palestinesi devono avvicinarsi al al “tetto” del 30% come viene detto in modo assolutamente esplicito in molti documenti ufficiali israeliani. Questo obiettivo porta ad esercitare una politica particolarmente repressiva nei confronti dei palestinesi per spingerli ad andarsene e, in ogni caso, per impedire loro di costruire.


Spingerli ad andarsene

 Questa politica che non viene espicitata e che non viene ostentata in quanto tale, consiste nel far di tutto per rendere difficile la vita ai palestinesi di Gerusalemme che haano questo strano statuto di non essere alla fine né cittadini israeliani, come lo sono più di un milione di loro, discendenti di coloro che rimasero sulla loro terra (diventata territorio israeliano) dopo il 1948, né soggetti all’Autorità palestinese. Hanno una carta d’identità (bleu) che permette loro di vivere a Gerusalemme, ma non di votare in Israele, n* di avere un passaporto israeliano. Il rinnovo di questo documento presso il Ministero dell’Interno è complicatissimo da ottenersi e spesso umiliante, visto che alcune procedure recenti hanno, se possibile, inasprito il processo. Risultato: regolarmente alcuni sono costretti ad andarsene. La stessa cosa avviene migliaia di altri che hanno vissuto per un periodo prolungato fuori della città, per esempio per fare i loro studi all’estero. Se non hanno compiuto i passi necessari e ripetuti presso le autorità israeliane per ottenere il rinnovo dei loro documenti, si ritrovano stranieri a casa loro poiché non possono più rientrare se non con un’altra nazionalità. Essi tornano a vedere i propri caricon lo statuto di turisti stranieri!. Stessa situazione impossibile per le coppie, nelle quali un membro della coppia possiede una carta d’identità bleu e l’altro una verde (per la Cisgiordania). C’è un’incessante pressione burocratica sul loro statuto al quale malgrado tutto essi tengono, dal momento che con lo stato attuale della situazione rappresenta l’unico mezzo per poter continuare a vivere a Gerusalemme, e cioè a casa loro! Alla fragilità di questo statuto ibrido si aggiungono molti altri vincoli amministrativi da sopportare per numerose attività. Un semplice spostamento fuori città è fonte quasi sempre di noie e preoccupazioni che la costruzione del Muro ha ancor più aggravate poiché ormai i contatti con i palestinesi di Cisgiordania – dove si trovano necessariamente la famiglia, gli amici, i rapporti professionali … ­sono difficilissimi.


Impedire loro di costruire

 Anche in questo caso si tratta di una politica che viene da lontano ! Dagli anni 1950, nei confronti degli arabi israeliani e dopo il 1967 nei confronti dei palestinesi di Cisgiordania. Da una parte, si è facilitata in tutti i modi possibili la creazione dell’habitat ebraico, al punto d’aver costruito, come abbiano visto, dodici colonie a Gerusalemme-Est dove vivono circa 200.000 persone (2005), dall’altra, l’habitat palestinese si scontra costantemente con ostacoli di ogni tipo, e alcuni di questi sono insormontabili. C’è infatti tutto un armamentario di regolamenti che avvolge i palestinesi in un mondo surreale e kafkiano al quale non hanno praticamente alcuna chance di sfuggire. Tra zone verdi e piani direttivi inesistenti, il loro percorso è praticamente senza sbocco, come lo mostra molto bene il rapporto dell’Unione europea: “Le autorità israeliane hanno attivato serie restrizioni sul rilascio di permessi di costruzione per i palestinesi di Gerusalemme-Est. Esse li rilasciano soltanto per località che hanno un piano direttivo relativo a certe zone. Ma la municipalità produce questi piani solo relativamente a zone di colonizzazione e non per le zone palestinesi. E così, ogni anno, i palestinesi ricevono meno di cento permessi per costruire per i quali hanno dovuto aspettare diversi anni”.

Bisogna precisare inoltre che le zone verdi possono evidentemente cambiare di statuto e un buon numero di palestinesi, ad esempio a Har Homa, hanno avuto la sorpresa di veder spesso una colonia costruita su terre “congelate” qualche anno prima per una simile destinazione. Secondo B’Tselem, le costruzioni palestinesi vengono autorizzate soltanto sul 7% di Gerusalemme-Est, e per la maggior parte delle volte in settori dove già esisteva un habitat palestinese. E anche in questi quartieri, rimane difficilissimo ingrandire la propria casa !
L’effetto perverso di questa politica ultra-restrittiva consiste nel fatto che i palestinesi che hanno, come tutti, esigenze impellenti di alloggio, finiscono per costruire senza permesso. A questo punto si trovano in difetto rispetto alla legalità israeliana che tuttavia non dovrebbe in ogni caso applicarsi, perché ai termini della Quarta convenzione di Ginevra del 1949, una potenza occupante non ha il diritto di estendere la propria giurisdizione ad un territorio occupato. Cresce dunque la fragilità, perché, in queste condizioni, le autorità israeliane hanno un facile pretesto per demolire queste costruzioni illegali. E così, ogni anno, decine di case private vengono distrutte, lasciando famiglie intere prostrate per aver visto brutalmente scomparire la loro casa per la quale avevano, in molti casi, investito quasi tutte le loro sostanze. Questa politica di distruzione dell’habitat pales­tinese illegale si è intensificata con la costruzione del Muro che schiaccia tutto ciò che trova sulla sua strada.
E, come fa notare il rapporto europeo da poco citato: “Queste demolizioni non obbediscono a nessun obiettivo apparente di sicurezza ma sono chiaramente legate all’espansione delle colonie … esse hanno conseguenze umanitarie catastrofiche e alimentano amarezza ed estremismo”.
A questo punto c’è da porsi una domanda essenziale: poiché i palestinesi non possono costruire per loro stessi, o molto poco, o fuori della legalità imposta dal governo, possono andare ad abitare nelle zone tenute dagli israeliani e in particolare nelle colonie ?
A priori, e fatte salve particolarissime eccezioni, i palestinesi non hanno alcuna voglia di andare ad abitare negli immobili degli insediamenti israeliani che percepiscono come vere enc1ave straniere che rappresentano a volte anche una minaccia per la loro vita quotidiana. L’ambiente culturale, sociale e soprattutto politico è tale che un simile approccio sembrerebbe inconcepibile. In queste condizioni ci si può aspettare rispetto a chi li circonda, che li evitino o che si sforzino di vivere ignorandoli ma non che cerchino di integrarsi. Ma, malgrado tutto, facciamo per un istante l’ipotesi di una famiglia palestinese che voglia affittare o comprare un appartamento in un quartiere ebraico. Sarebbe autorizzato a farlo ?
Sul piano del diritto positivo in vigore, non c’è, a quanto ne sappiamo, alcuna regola che vieti tale possibilità. Al contrario, è sicuro che i proprietari di beni immobiliari possono esigere un certo numero di condizioni per l’affitto o la vendita dei loro appartamenti, condizioni che i palestinesi non possono rispettare.
Per evitare facili polemiche su questo delicato argomento, la cosa migliore è quella di attingere alla giurisprudenza della Corte Suprema che ha avuto, almeno una volta, l’occasione di deliberare su questo problema. Essa è stata chiamata in causa da un richiedente che si era visto rifiutare il diritto di affittare un appartamento nel quartiere ebraico restaurato della città Vecchia, perché non ottemperava alle condizioni pretese dal venditore, e cioè di essere cittadino israeliano e di aver compiuto il servizio militare (o di esserne stato esentato o di aver servito in una organizzazione ebraica prima del 14 maggio 1948), o essere un nuovo immigrante ebreo residente in Israele. Dopo aver affrontato le questioni di competenza, illustrato le circostanze relative all’affare, trattato dei motivi sussidiari, la sentenza della Corte, redatta dal giudice Haim Cohen, va al punto essenziale, ovvero alla discriminazione determinata dalle condizioni imposte dal venditore, in questi termini:

[…] Il richiedente riconosce di non essere cittadino israeliano, che non ha svolto servizio militare nelle Forze di Difesa d’Israele e di non essere un nuovo immigrante: è di nazionalità giordana e dichiara di aver sempre risieduto nella città Vecchia di Gerusalemme […] […] L’argomentazione principale del richiedente è che il difensore pratica una discriminazione illegale tra le persone […] in funzione della loro religione o della loro nazionalità poiché è pronto ad affittare degli appartamenti ad ebrei ma non a musulmani […] Io non sono convinto che la richiesta del difensore costituisca una discriminazione […] 1) in primo luogo, la nozione di cittadino israeliano include anche il non-ebreo: musulmano, druso o cristiano … quanto alla restrizione relativa al servizio militare si spiega con semplici considerazioni di sicurezza […] 2) in secondo luogo una discriminazione tra cittadini e non cittadini … non è necessariamente illegale … 3) in terzo luogo se il restauro del quartiere ebraico della città Vecchia è apparso indispensabile ciò è dovuto al fatto che la sua occupazione aveva portato all’espulsione degli ebrei, al saccheggio delle loro proprietà e alla distruzione delle loro case. E’ perciò nella natura delle cose che questo restauro comporti il ritorno all’antico splendore delle case ebraiche nella città Vecchia […] 4) in quarto luogo, nella misura in cui la discriminazione si fa nei confronti di un cittadino giordano che deve fedeltà al suo governo (come nel caso di specie) io considero questa discriminazione giustificata ed appropriata: noi deploriamo e protestiamo contro quello che i giordani hanno fatto contro di noi … ma non ci si può aspettare che noi apriamo con larghezza la strada per un loro ritorno ed insediamento, in particolare nel quartiere ebraico della città Vecchia. Una simile discriminazione è fondata e giustificat ad un tempo per considerazioni politiche e di sicurezza […[. L’appello è respinto.

Questo appello del 1978 presenta aspetti molto particolari perché attiene alla città vecchia di Gerusalemme, divisa in diversi quartieri da tradizioni antiche e complesse. Ma al di là di questa incontestabile specificità, se ne deduce una posizione di principio molto semplice: ognuno può stabilire le discriminazioni che vuole nella gestione delle sue proprietà restando comunque in un quadro di legalità. Secondo le parole del giudice Haim Cohen che ci commentava la sua decisione alcuni anni dopo:

In una democrazia liberale, tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso … nessuno può impedirvi di fare quello che voi volete della vostra proprietà”.

Sul piano logico, questo ragionamento è totalmente inattaccabile ma, sul piano politico, porta ad una situazione contraria alle premesse su cui si basa. In nome del liberalismo, tutta una categoria di persone viene privata di una libertà elementare. E’ proprio per questo che il giudice Haim Cohen aggiungeva: “Noi dovremmo avere una legge per vietare questo tipo di discriminazioni … ma fino ad oggi non ce l’abbiamo”.
Ovviamente, ciò che è in discussione non sono soltanto le contraddizioni interne al liberalismo ma anche il suo utilizzo assai insidioso per appropriarsi di un territorio. Si ritorna così all’essenziale. La vera fonte di ogni discriminazione è rappresentata dal regime di occupazione. Se il problema di istallazione di palestinesi resta un’ipotesi formale, essa ci ha permesso di mettere l’accento sulla società duale attuata a Gerusalemme-Est come in Cisgiordania, nel rispetto e mediante il rispetto della legalità imposta dall’occupante, in violazione del diritto internazionale.

  1. La documentazione UE su Gerusalemme-Est

 Per questo paragrafo, mi sono servito abbondantemente dell’introduzione di René Backmann al libro contenente la documentazione. Questo giornalista, redattore capo de le Nouvel Observateur, ha scritto un bellissimo libro (Un mur en Palestine) nel 2009. La sua dimestichezza con la documentazione, mi ha portato spesso a formulare, con le sue parole, le argomentazioni relative. Spesso!
Un diplomatico britannico, console generale del Regno Unito a Gerusalemme, ebbe per primo l’idea, all’inizio degli anni 2000, di redigere, con l’aiuto dei suoi colleghi rappresentanti i paesi dell’Unione europea, una specie di “stato delle cose” sistematico della situazione a Gerusalemme-Est. Per poter integrare i lavori dei diplomatici di stanza in Israele, con le informazioni raccolte da parte palestinese, fu richiesto un contributo dello stesso tipo ai capi dell’Ufficio dell’Unione europea a Ramallah, sede dell’Autorità palestinese.
Il metodo di lavoro adottato era assai informale. Gli scambi tra capi-missione portarono alla redazione di un progetto di testo, in inglese, affidato al diplomatico, che fece circolare il documento tra i suoi colleghi, raccolse proposte, suggerimenti, reticenze, opposizioni e produsse la versione finale, Dopo di che, questo documento validato dai rappresentanti dei 27 paesi dell’Unione, o almeno da coloro che si erano associati per redigerlo, venne trasmesso a Bruxelles.
Il rapporto del dicembre 2005 non entrava in particolari dettagli e conteneva relativamente pochi dati, ma presentava un quadro realistico della situazione sul terreno e dei rapporti di forza. E constatava soprattutto che la coniugazione delle politiche condotte da Israele nei diversi ambiti, riduceva le possibilità di raggiungere un accordo sullo statuto finale, che fosse accettabile dai palestinesi.

Siamo convinti che la prosecuzione dell’annessione di Gerusalemme-Est derivi da una politica israeliana deliberata”, scrivevano gli estensori del documento. “Le misure prese da Israele rischiano anche – aggiungevano – di radicalizzare una popolazione palestinese di Gerusalemme-Est, fino a quel momento relativamente tranquilla”.

Si pensi all’uso che una diplomazia europea coerente, creativa, audace avrebbe potuto fare di un simile documento. Soprattutto, nel quadro di negoziati sullo statuto di partner preferenziale dell’Europa, sollecitato dal governo israeliano. Si pensi anche a quale sostegno avrebbe potuto avere il campo della pace israeliano, oggi moribondo, da un’Europa, che avesse continuato ad essere sempre risoluta nel difendere l’esistenza e la sicurezza d’Israele, ma altrettanto decisa nel rammentare ai vari governi israeliani che i palestinesi non erano i soli ad avere dei doveri… Si pensi infine quale sostegno avrebbe rappresentato per l’Autorità palestinese, un’Europa generosa, capace di dimostrare che la partigianeria in favore d’Israele di cui l’accusano gli islamici, era di fatto contraddetta da una denuncia argomentata degli atti e dei progetti israeliani. Chissà che un impegno più risoluto dell’Unione europea (e degli USA) non avrebbe potuto spingere Israele a decisioni meno unilaterali e l’Autorità palestinese a opzioni più creative, e avrebbe potuto evitare non la crescita di Hamas e la successiva vittoria elettorale nel gennaio 2006, ma certamente un rapporto più equilibrato con l’Anp.

Tre anni dopo, i capi-missione di stanza in Israele, inviano un nuovo rapporto a Bruxelles. Dopo tre anni, gli insegnamenti che si possono trarre dal confronto tra il rapporto del novembre 2005 e quello del dicembre 2008, lasciamo poche speranze. Sia sull’evoluzione della situazione sul terreno, così come emerge dalle analisi dei diplomatici, sia sull’impegno dell’Unione europea, sempre generosa nella sua strategia di cooperazione, ma disunita, e perciò senza voce sul piano diplomatico. Redatto in inglese, come il rapporto 2005 e nella sostanza più lungo del quello, il rapporto 2008 non rileva alcun segno, da parte israeliana, di una volontà di rianimare il processo di pace. Al contrario. In tutti gli ambiti passati in rivista dai diplomatici (colonizzazione, infrastrutture di trasporto, costruzione del muro, demolizioni di case, statuto dei residenti, atteggiamento di fronte alle istituzioni palestinesi, rispetto delle libertà religiose), il rapporto del 2008, rivela una regressione e una presa di distanza sempre più chiara rispetto agli obblighi assegnati dalla Road ma e ribaditi nel corso della conferenza di Annapo1is, nel novembre 2007. L’esempio più chiaro di questo atteggiamento israeliano è rappresentato dalla politica di colonizzazione del governo Olmert, continuata ed amplificata da Benyamin Netanyahou e dalla sua coalizione di estrema destra, al cui interno sono presenti (ed attivi!) i coloni. Un documento reso pubblico il 2 marzo 2009 dal movimento La Pace subito, conferma del resto che Israele ha intenzione di raddoppiare il numero dei coloni in Cisgiordania. I piani di colonizzazione del governo Netanyahou prevedono, secondo questo documento, la costruzione di 70.000 alloggi nei prossimi anni, di cui 5.700 nei quartieri annessi di Gerusalemme-Est.

Secondo il rapporto europeo del 2008, che si fonda sulle ricerche di La Pace subito e sui dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano, 190.000 dei 470.000 coloni censiti nel 2008 nei Territori palestinesi occupati vivono all’interno di Gerusalemme-Est e 96.000 nelle colonie che circondano Gerusalemme. E la costruzione di colonie, a Gerusalemme-Est e intorno a Gerusalemme, continua ad un ritmo elevato, contrariamente agli obblighi ai quali Israele sarebbe tenuto dal diritto internazionale e dalla Road map. Uno degli insegnamenti principali che fornisce su questo punto il confronto tra i due documenti è l’analisi dell’evoluzione del settore “E-l”. E-1, che sta per “Est-1”, è il nome dato dai pianificatori israeliani a una zona di colline sassose, di forte pendenza e con burroni, che si estende su un area di una decina di chilometri quadrati, a est di Gerusalemme tra la corona delle località palestinesi che raccoglie El-Azariyeh, At-Tor e lssawiya, e la colonia di Ma’ale Adoumim, la più popolosa della Cisgiordania, dove risiedono 31.000 israeliani. Questo settore “E-1”  è destinato a prolungare verso ovest, Ma’ale Adoumim, e alla fine, ad attaccare il blocco di Ma’ale Adoumim, che copre una cinquantina di chilometri quadrati, a Gerusalemme. L’idea guida è quella di prolungare l’enclave di Gerusalemme fino ai confini della vallata del Giordano, la qual cosa comporterebbe la divisione in due della Cisgiordania e in particolare la strada tra due delle principali città palestinesi, Ramallah e Betlemme

Il rapporto del 2005 faceva già riferimento ai progetti degli urbanisti-colonizzatori israeliani per la zona “ E-1”. Alloggi per 815. 000 residenti, una zona di attività comprendente alberghi e un centro commerciale, un’università, un parco paesaggistico, un cimitero, una discarica e una costruzione destinata ad ospitare il quartier generale della polizia per la Cisgiordania. Quando il rapporto del 2005 era stato redatto, erano stati avviati soltanto pochi lavori di preparazione La cima di una collina era stata spianata ed era stata tracciata una pista per i camion e le macchine del cantiere. Ma, in seguito a fortissime pressioni diplomatiche, soprattutto americane, i lavori erano stati bloccati.

Tre anni dopo, la lettura del documento del dicembre 2008, mostra che le pressioni diplomatiche americane non erano risultate a lungo dissuasive. Infatti il quartier generale della polizia è stato completato ed è anche entrato in funzione nell’aprile 2008. Una parte dell’infrastruttura stradale del progetto « E-1 » è praticamente completata. I provvedimenti israeliani in corso nella zona di Ma’ale Adoumim-E-1, secondo gli estensori del rapporto, costituiscono una delle principali sfide al processo di pace israelo-palestinese. La continuazione della costruzione del muro e la realizzazione del piano E-1 determineranno una continuità territoriale israelianea tra il blocco di colonizzazione di Ma’ale Adoumim e Gerusalemme, dividendo in due la Cisgiordania e separando Gerusalemme-Est dal suo retroterra. La realizzazione di questo piano renderebbe impossibile lo sviluppo urbano ipotizzato dai palestinesi a Gerusalemme-Est, privando questa parte della città della maggior parte dei terreni disponibili per il suo sviluppo economico e demografico. Il 25 marzo 2009, mentre andavano avanti le trattative per la costituzione del governo Netanyahou, la radio dell’esercito israeliano ha rivelato che il capo del Likoud e il suo futuro ministre degli Esteri, Avigdor Lieberman, avevano concluso un accordo segreto che prevedeva la costruzione di 3.000 alloggi nella zona E-1

Dopo aver constatato e deplorato che i due “anelli” di colonie costruite intorno a Gerusalemme hanno continuato a svilupparsi, il rapporto 2008 evidenzia anche che il governo israeliano ha avviato la costruzione di una tramvia destinata a collegare le colonie di Pisgat Ze’ev (40.000 abitanti) e Neve Ya’acov (20.000 abitanti) al centro di Gerusalemme, includendo così nello schema urbanistico della città l’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania sulle quali le colonie sono costruite. Il rapporto europeo non ne fa cenno, ma due imprese francesi, con l’avallo del governo francese, sono partner di questo progetto israeliano che se ne infischia delle Convenzioni di Ginevra, che definiscono i diritti e i doveri degli “Stati occupanti”. Nel capitolo sulle infrastrutture di trasporto, il rapporto 2008 parla anche della costruzione, ad est di Gerusalemme, di una strada di aggiramento che dovrebbe, alla fine, collegare, aggirando il muro di separazione e passando sotto la zona “E-1” con un tunnel, le località palestinesi situate a nord e a sud di Gerusalemme. L’obiettivo è, ancora una volta, chiarissimo e cioè quello di permettere in futuro al governo israeliano, di fronte alla comunità internazionale, di aver conservato la “continuità territoriale” della Cisgiordania. Pur avendo riunito Ma’ale Adoumim a Gerusalemme…

Dal momento che la lunghezza dei vari tronconi del muro di separazione in attività si è raddoppiata in tre anni, passando da 200 a 400 chilometri, il rapporto 2008, esamina più in dettaglio la realizzazione, e le conseguenze, di quest’altro grande progetto israeliano. Per constatare in particolare che quando il muro sarà finito (e la sua lunghezza sarà allora di 725 chilometri!), di fatto annetterà ben 80 colonie, e tra queste, anche le 12 situate alla periferia di Gerusalemme-Est. E così, i 385.000 israeliani che vivono nelle colonie a ovest, e cioè dalla parte “israeliana” del muro. Nella sola regione di Gerusalemme, il 3,9 % del territorio palestinese è già stato annesso di fatto dal tracciato del muro che “taglia” dalla Cisgiordania più di 280.000 palestinesi, tra i quali tutti quelli di Gerusalemme-Est. In aggiunta alla moltiplicazione di checkpoints e all’obbligo di ottenere un permesso per entrare a Gerusalemme, l’esistenza del muro ha trasformato la vita quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania in un confronto permanente con la burocrazia poliziesca e militare israeliana, che obbliga ad esempio coloro che risiedono nelle regioni comprese tra il muro e la Linea Verde (si tratterà di circa 35.000 persone quando i lavori finiranno), a sollecitare un’autorizzazione di residenza per continuare a vivere a casa loro. Dal 2000, constatano gli autori del rapporto 2008, il numero degli studenti palestinesil dell’Università Al Quds, a Beit Hanina, è calato del 70 %. Un numero sempre decrescente di fedeli palestinesi cristiani e musulmani ha accesso ai Luoghi santi a Gerusalemme. Anche il tradizionale vino da messa di Betlemme, prodotto da 125 anni da un ordine cattolico, non è più autorizzato a superare il muro perché costituirebbe “un rischio per la sicurezza”.

La lezione essenziale della realtà, così come esiste sul terreno e come viene descritta da questi due documenti, è brutalmente semplice: tutto si svolge come se lo Stato d’Israele e i suoi governi che si succedono, lungi dall’avere per obiettivo di riavviare il processo di pace avviato dagli Accordi di Oslo o dalla Road map, abbiano deciso d’imporre, dall’inizio degli anni 2000, in particolare con la costruzione del muro e della barriera di separazione, e attraverso una molteplicità di iniziative, spesso spettacolari, altre volte appena percepibili se viste da lontano, una soluzione unilaterale del problema palestinese.

Questa soluzione si basa su di una concezione strategica e politica totalmente nuova: il muro e la barriera di protezione saranno domani, la frontiera tra il futuro Stato palestinese e lo Stato d’Israele. In altre parole, “il compromesso storico” accettato da Yasser Arafat, secondo il quale l’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP) accettava di costruire il suo Stato sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza e cioè sul 22 % del territorio della Palestina mandataria non varrebbe più.
E’ sulla striscia di Gaza ed una parte soltanto della Cisgiordania, che questo Stato, sempre meno vivibile, con il procedere delle amputazioni, dovrebbe essere costruito. Sempre che venga costruito. Le colonie israeliane, almeno le più importanti di esse, non saranno né distrutte né consegnate all’Autorità palestinese. Esse costituiranno altrettante enclave strategiche collegate direttamente a Israele con una specifica rete stradale, conficcate come cunei nel cuore dello Stato palestinese da creare.
Propaganda palestinese? Estrapolazione azzardata? Paranoia militante? Purtroppo no ! Nell’agosto 2007, non è un rappresentante dell’OLP o dell’Autorità palestinese che ha fatto questa rivelazione a René Backmann, nel corso di una trasmissione di France Inter, ma l’ex ambasciatore d’Israele in Francia, Nissim Zvili. E un anno più tardi, come lo evidenzia il rapporto dei diplomatici, sarà il vice-primo ministro israeliano Haim Ramon, che dichiarerà: “La barriera è la nuova frontiera orientale d’Israele”. Da anni, ufficiali israeliani ripetono che la Linea Verde non è che una linea armistiziale, cosa vera del resto, che non è perciò sacra, e che nel quadro di un negoziato sullo statuto finale, scambi di territori potrebbero essere conclusi con i palestinesi.
Alla ricerca di soluzioni accettabili per la comunità internazionale, per ridurre la proporzione di non-ebrei tra la popolazione israeliana senza far ricorso alla pulizia etnica, (diffusa anche in altre regioni del mondo sia ben chiaro!), alcuni politici israeliani avevano anche ipotizzato di cedere ai palestinesi, come contropartita delle enclave costituite dalle nuove colonie, regioni d’Israele abitate da arabi israeliani. Va detto che questa ipotesi, che non teneva in nessun conto la volontà dei principali interessati, i palestinesi d’Israele, non era stata presa molto sul serio all’inizio. L’entrata nel governo israeliano dell’estremista Avigdor Lieberman, che sogna un Israele liberatosi del 20% dei suoi abitanti (i palestinesi), potrebbe provocare il ritorno di questo mercanteggiamento nel dibattito politico. Quello che i palestinesi si dichiaravano disposti a prendere in considerazione, nel quadro di un negoziato globale, era il principio di scambi limitati di territori di natura comparabile e di superficie equivalente, per permettere ad Israele di conservare le colonie vicine alla Linea Verde, e all’Autorità palestinese di ottenere terre destinate soprattutto a favorire una via di comunicazione tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Ma le tra modeste rettifiche di frontiera, mutuamente accettate e l’annessione autoritaria da parte israeliana dal 3 al 12 % del territorio palestinese, ce ne passa!
O piuttosto ce ne passava ! Forti della protezione di George W. Bush e dei suoi consiglieri likudnik, evangelisti e neocons, i dirigenti israeliani hanno creato una nuova dottrina, che volta le spalle risolutamente allo spirito di Oslo, i cui pilastri sono costituiti dalla priorità assegnata alla forza, al rifiuto del dialogo, alla identificazione della rivendicazione nazionale palestinese, (anche in assenza di violenza) al terrorismo e alla politica dei fatti compiuti. Dottrina che ha ricevuto la benedizione ed il sostegno di George W. Bush nell’aprile del 2004. In una lettera al Primo ministro del tempo, Ariel Sharon, il cui testo era stato solennemente approvato dal Senato (95 voti contro 3) e dalla Camera dei Rappresentanti (407 voti contro 9) il presidente americano sottolinea che Israele, “Stato ebraico”, deve avere frontiere sicure e riconosciute, risultato dei negoziati tra le parti, basato sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma, aggiunge George W. Bush, che “alla luce delle nuove realtà sul terreno che che comprendono i principali centri della popolazione palestinese esistente, non è realistico sperare che i risultati dei negoziati sullo statuto finale costituiscano un ritorno integrale alla linea armistiziale del 1949; tutti i tentativi precedenti per negoziare una soluzione con due Stati portano a questa conclusione”. In altri termini: le colonie più popolate e i l5 blocchi principali di colonizzazione costituiscono delle “nuove realtà sul terreno” che restano fuori dal campo del negoziato.
Da questo punto di vista, le discussioni che hanno preceduto la conferenza di Annapolis, il 27 settembre 2007, hanno fornito indicazioni eloquenti. Sulla questione centrale “dei termini di riferimento”, i palestinesi hanno ripetuto che intendevano attenersi alle basi fissate durante gli incontri di Oslo nel 1993, arricchite e precisate negli incontri successivi. Non soltanto le risoluzioni 242 e 338 dell’ONU dunque, ma anche parte delle conclusioni di Camp David (luglio 2000) e di Taba (gennaio 2001), oltre all’iniziativa di pace araba di Beirut (2002) e alla procedura definita dalla Road map di George W. Bush (2003).
Fin dall’ottobre 2007, un mese prima che si tenesse la conferenza, il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, si era premurato di precisare, in un’intervista diffusa dalla televisione palestinese che il futuro Stato di Palestina avrebbe dovuto comprendere integralmente la striscia di Gaza e la Cisgiordania (6205 chilometri quadrati). Ma per la parte israeliana, e con l’assenso americano, le basi del negoziato erano decisamente differenti. Un diplomatico israeliano importante, una settimana prima della apertura della riunione di Annapolis si espresse così: “Oggi, non è più questione di Camp David, di Taba o dei parametri di Clinton del dicembre 2000. Le circostanze e gli interlocutori non sono più gli stessi. Si ricomincia da zero o quasi”. A parte le inaggirabili risoluzioni 242 e 338, sempre ritualmente citate ma mai rispettate e la Road map, il cui calendario era da tempo scaduto, ma i cui meccanismi erano ancora accettati dalle due parti, la delegazione israeliana aveva messo al centro delle sue argomentazioni la lettera indirizzata da George W. Bush a Ariel Sharon nell’aprile 2004.
Nel settembre 2008, un personaggio della società politico-militaire israeliana, il generale Giora Eiland, che aveva presieduto il Consiglio nazionale di sicurezza dal 2004 al 2006, dopo aver servito per trentatre anni nell’esercito, in particolare al comando del dipartimento di pianificazione strategica, pubblica uno studio di 35 pagine nel quale si pronuncia chiaramente in favore di una frontiera completata da una barriera di sicurezza. E la nuova frontiera che egli propone nei due scenari studiati annette, come quella che è in costruzione, la maggior parte dei blocchi di colonizzazione della Cisgiordania. In contropartita, il generale Eiland propone diverse possibilità di scambio di territori, compreso un baratto triangolare Israele-Palestina-Egitto. Per Giora Eiland, la diffidenza, se non addirittura l’ostilità tra israeliani e palestinesi è tale che ogni negoziato sullo statuto finale deve prevedere l’esistenza di una barriera di sicurezza. Dopo il fallimento del processo di Oslo, la seconda Intifada e l’emersione potente di Hamas, l’opinione pubblica israeliana, sostiene il generale, è sempre meno favorevole al principio “la terra in cambio della pace”. Ed è quello che conferma un’inchiesta dell’Istituto Nazionale degli Studi Strategici (INSS) di Tel Aviv secondo il quale la percentuale della popolazione ebraica di Israele favorevole a questo principio è scesa tra il 1977 e il 2007 dal 56 % al 28 %.
Altri strateghi vanno ancora più lontano. In un documento reso pubblico nel 2007, tre ex-ambasciatori e un generale, direttore dell’Istituto di Difesa nazionale valutano che la frontiera costituita dall’insieme muro-barriera non sia sufficiente. Una frontiera difendibile dovrebbe comprendere, secondo loro, una linea di separazione spinta verso l’est, fino alle alture e alle “regioni vitali dal punto di vista militare”. Questa frontiera dovrebbe conservare a Israele il controllo della vallata del Giordano, comportare l’allargamento del corridoio Gerusalemme-Tel Aviv e la creazione di una zona di difesa di Gerusalemme. Questi progetti attirano poco l’attenzione, se non tra i palestinesi. Ma, a parte i palestinesi e i difensori dei diritti umani, chi se ne preoccupa? Di fatto, i dirigenti israeliani, incoraggiati dalla loro impunità quando ignorano il diritto internazionale, le risoluzioni dell’ONU e anche i loro stessi impegni, sono convinti che tutto ciò che utile alla sicurezza d’Israele sia loro permesso. Ed è proprio in virtù di tale convinzione che lo Stato Maggiore e il governo israeliano hanno scatenato nel 2002 l’operazione “Baluardo”, nel dicembre 2008 l’operazione “Piombo fuso”, contro la striscia di Gaza, nel corso della quale, in tre settimane, 1.330 palestinesi, per più della metà civili, e 13 israeliani, di cui 10 soldati, sono stati uccisi. Ufficialmente, si trattava di porre fine ai tiri di razzi e di mortai sul sud d’Israele, dalla striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas. L’esame attento della cronologia dei fatti ha mostrato che nella rottura del cessate-il-fuoco fissato nel giugno 2008, le responsabilità non erano certo del campo palestinese. Ma questo piccolo dettaglio è scomparso, seppellito dalla riprovazione che provocano in Europa e negli Stati Uniti le tesi ed i metodi di Hamas. La divisione tra i palestinesi, gli scontri tra al-Fatah e Hamas, l’esistenza di due entità territoriali palestinesi distinte, una, la striscia di Gaza (386 chilometri quadrati), sotto il controllo di Hamas, l’altra, la Cisgiordania (venti volte più grande della striscia!), sotto il controllo di al-Fatah, così come il rifiuto di una parte della comunità internazionale, tra cui l’Unione europea, d’intrattenere relazioni con Hamas, hanno svolto un ruolo importante nel fornire ad Israele argomentazioni che le hanno permesso di mettere in atto e di difendere le sue scelte unilaterali.
Nella visione mediatica del conflitto, estremamente approssimativa, la responsabilità israeliana, la scelta deliberata della forza contro il negoziato è stata eclissata dalla diffidenza, direi l’ostilità che suscita Hamas, di cui non si discutono mai le spesso ragionevoli argomentazioni, e di cui si dimentica di essere il legittimo rappresentante del popolo palestinese, avendo stravinto le elezioni nel 2006. Si sperava nell’arrivo al potere di Barack Obama, ma la canzone non è cambiata e nemmeno i ritornelli! Ci si aspettava uno sguardo americano più critico sulla politica israeliana, ma nulla di tutto questo è successo. Un solo esempio. Rispondendo a Benyamin Netanyahou, che ripeteva, appena eletto, il suo rifiuto circa la creazione di uno Stato palestinese, Barack Obama ha ricordato, subito imitato dal Segretario di Stato Hillary Clinton, che la soluzione per gli Stati Uniti si fonda sull’esistenza di due Stati. E’ stato tirato in ballo George Mitchell come inviato speciale del presidente in Medio Oriente, ma dopo due anni tutto è praticamente fermo, se si eccettua la colonizzazione! E l’Europa tace. I due documenti dei capi delle missioni diplomatiche a Gerusalemme e a Ramallah potevano far sperare forse in una riflessione. L’Europa ufficiale ha preferito tenerli nel cassetto.

  1. L’insabbiamento della documentazione UE

 Torniamo al 2005, quando i diplomatici di stanza in Israele spedirono il primo rapporto a Bruxelles. Qual era il loro intento? Almeno una parte dei suoi promotori speravano che questo “Rapporto su Gerusalemme-Est” avrebbe contribuito a tenere vivo un dibattito, in seno alla Commissione, o meglio ancora, nel Parlamento europeo, che portasse alla definizione di una politica comune in Medio Oriente. Secondo loro, in ogni caso, questo lavoro comune non doveva restare confidenziale. Una nobile ambizione democratica. Ma questi ottimisti dovettero ben presto ricredersi! Con sorpresa e anche delusione per alcuni di loro, fin dalla trasmissione a Bruxelles del rapporto del novembre 2005, Javier Solana, responsabile per la politica estera e della sicurezza comune, condusse l’offensiva contro la pubblicazione ufficiale del documento. La sua motivazione, secondo un diplomatico a conoscenza del dossier, era semplice, dal momento che il testo non raccoglieva un larghissimo consenso nelle capitali europee per essere pubblicato e soprattutto utilizzato come documento di lavoro a Bruxelles e a Strasburgo.
La Germania, che sistematicamente si rifiuta, per ragioni storiche evidenti, a formulare critiche troppo severe nei confronti d’Israele, ma anche, l’Italia e i Paesi Bassi in particolare, rifiutarono di farsi carico delle considerazioni e delle conclusioni del rapporto. Anche il ministro degli Esteri britannico, Jack Straw, nel corso di una riunione del Consiglio europeo, di cui stava assumendo la presidenza, ritenne opportuno non far proprio il documento e quindi di non pubblicarlo, per non interferire, questa la motivazione ufficiale, con il processo elettorale israeliano, Erano infatti previste elezioni legislative anticipate per la fine del mese di marzo 2006 in Israele. Si trattava di individuare il successore di Ariel Sharon, in coma dopo un ictus cerebrale, a gennaio. Le elezioni furono vinte, di pochissimo, dal partito Kadima il cui leader, Ehoud Olmert, che aveva assunto l’interim di Sharon, diventò Primo ministro.
Ma il documento non rimase a lungo “confidenziale”. Un quotidiano britannico l’aveva nel frattempo pubblicato sul suo sito Internet. E questa rivelazione aveva suscitato, oltre che una certa irritazione da parte israeliana e una visibile soddisfazione da parte dei palestinesi, diverse domande in Europa, e oltre, tra gli osservatori avvertiti della situazione in Medio Oriente. Per gli esperti del problema, giornalisti, diplomatici, membri delle ONG, il rapporto conteneva poche novità, se si eccettua un particolare importante: il documento dimostrava con chiarezza che le cancellerie europee disponevano di buone informazioni sulla realtà della vita quotidiana a Gerusalemme-Est e in Cisgiordania, sulla colonizzazione, sulle discriminazioni, sulla costruzione del muro di separazione, sulle demolizioni di case palestinesi e sul logorio burocratico dei palestinesi. E non era poca cosa!
Di fatto, questo rapporto dovuto alle osservazioni di testimoni tenuti, per le loro funzioni, ad un uso misurato delle parole, confermava buona parte delle critiche fatte ad Israele dall’Autorità palestinese. Dimostrava, ad esempio, e nel modo più chiaro possibile, che la parte palestinese non era la sola, e non ci voleva molto a capirlo, a non rispettare gli impegni contenuti nella Road map pubblicata nell’aprile 2003, sotto il patrocinio del “Quartetto” (Nazioni unite, Stati Uniti, Unione europea, Russia). Nelle disposizioni previste nella “Fase 1” della Road map, la parte palestinese doveva impegnarsi a porre termine alle violenze e al terrorismo. Alla parte israeliana veniva chiesto di mettere fine alle espulsioni, agli attacchi contro i civili, alle confische e/o demolizioni di case e di proprietà palestinesi, sia che si trattasse di misure punitive sia che fossero decisioni destinate favorire costruzioni israeliane. Il governo israeliano doveva anche “congelare” lo sviluppo delle colonie nei territori occupati e smantellare tutte le colonie “selvagge” create dopo marzo 2001.
Certamente l’Autorità palestinese, i cui servizi di sicurezza erano stati in gran parte distrutti dall’esercito israeliano durante l’“Operazione Baluardo” del marzo 2002, non era stata capace di porre termine alla violenza e al terrorismo. Ma il governo israeliano, che era perfettamente padrone delle sue scelte e dei suoi atti, non aveva rispettato nessuno dei suoi impegni della Road map. Quando il rapporto dei diplomatici era stato redatto, il muro di separazione costruito in assoluta illegalità all’interno della Cisgiordania, superava già i 220 chilometri di lunghezza. Quanto alla colonizzazione, non soltanto non era stata congelata ma, al contrario, il suo ritmo di crescita superava di gran lunga il tasso di crescita naturale della popolazione israeliana
Il rapporto 2008, che era destinato in principio al Dipartimento delle relazioni esterne dell’Unione europea, e cioè ai servizi di Javier Solana, resta ancora, un “documento di lavoro confidenziale” dallo statuto incerto. All’inizio, alcuni Stati-membri, fra i quali la Francia, il Regno Unito e la Spagna, non erano contrari a dare a questo documento maggiore visibilità, soprattutto all’indomani del viaggio di Hillary Clinton a Gerusalemme, dove aveva usato con i dirigenti israeliani un linguaggio almeno altrettanto critico rispetto a quello del documento. Ma una volta ancora, in mancanza di consenso, questo documento non ha potuto essere attribuito ai Ventisette e la sua pubblicazione “ufficiale” è stata respinta. Al Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese, coloro che conoscono il dossier considerano il rapporto come una “banca dati”  seria, destinata a valutare l’impegno delle due parti rispetto alla Road map, e eventualmente a nutrire la discussione a Bruxelles per la definizione della politica dell’Unione europea.

Ufficialmente, questa politica si fonda sui principi enunciati dalla risoluzione 242 dell’ONU che chiede il “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati”. Perché non ricordare con fermezza questa esigenza al governo israeliano? Perché non ricordargli anche che l’Europa ha sottoscritto le raccomandazioni contenute nel giudizio della Corte Internazionale di giustizia che dichiarava illegale la costruzione del muro? In base a quali precauzioni, a quali reticenze, l’Europa deve continuare a essere meno lucida e meno coraggiosa del giornalista israeliano Akiva Eldar che nel luglio 2006 scriveva su Haaretz: “Nelle nostre relazioni con i nostri vicini, la forza è il problema, non la soluzione …”?

 

  1. Conclusioni

Nelle mie intenzioni, esisteva ancora un paragrafo, dal titolo assai esplicito: “Le tappe del terrorismo di Stato israeliano” ma ho ritenuto di fermarmi qui, per non allontanare il lettore da quello che ho ritenuto essere l’obiettivo essenziale di questo scritto e cioè il processo di espropriazione del popolo palestinese nel punto nevralgico della Palestina, Gerusalemme. Ci sarà modo di riprendere l’argomento e concentrare l’attenzione sul terrorismo di Stato israeliano.
Dedicherò quindi quest’ultimo paragrafo, quello conclusivo, alla ricostruzione, soltanto per l’anno in corso il 2010, del balletto israelo-statunitense, con accompagnamento palestinese, sul “processo di pace”. Mi servirò della collezione di la Repubblica, dal 16 marzo al 9 novembre, giorno in cui spero di porre fine anche al mio lavoro su Gerusalemme-Est. Balletto che si ripete ormai da più di sedici anni!

Partiamo dalla fine. Dal 9 novembre.

Nuovi insediamenti a Gerusalemme ‘Così Israele distrugge i negoziati’. Sì a 1.300 alloggi mentre Netanyahu è negli USA. Protestano i palestinesi”.

Questo il lungo titolo a pagina 19. Di seguito riportiamo l’articolo di Fabio Sciuto, inviato di la Repubblica a Gerusalemme.

Con un tempismo destinato a mettere ancora più in chiaro qual è lo stato delle relazioni fra Stati Uniti e Israele, ieri la commissione per l’edilizia del ministero dell’Interno ha pubblicato il bando per la costruzione di mille e trecento nuove abitazioni a Gerusalemme-Est, contravvenendo alla esplicita richiesta di Washington di congelare i nuovi insediamenti per favorire il riavvio dei negoziati di pace con l’ANP. L’annuncio è venuto proprio mentre il premier israeliano Netanyahu è in visita in America ed è stato subito bollato come ‘molto deludente’ dal dipartimento di Stato USA. Immediata anche la reazione dei palestinesi che, per bocca del negoziatore Saeb Erekat, hanno accusato Netanyahu di voler ‘distruggere’ i colloqui.
La politica coloniale israeliana rappresenta, al momento, la principale ragione dello stop forzato ai negoziati di pace tra israeliani e palestinesi che non riprenderanno la trattativa se prima non ci sarà il blocco delle nuove costruzioni. E lo stallo del negoziato – dopo tante energie spese – è frustrante per l’Amministrazione Obama. Il programma approvato ieri dal comitato per l’edilizia della municipalità di Gerusalemme prevede la costruzione di 978 appartamenti a Har Homa e di altre 320 unità a Ramot, quartiere ebraico sempre nel settore est della città.
Nei primi mesi dell’anno, la pubblicazione di un altro piano per la costruzione di 1.600 alloggi a Gerusalemme-Est, avvenne durante una visita del vice presidente Usa Joe Biden che aveva l’intento di ricucire i tesi rapporti fra Israele e Stati Uniti per il rifiuto israeliano di attuare una moratoria degli insediamenti. Il fatto fu giudicato uno sgarbo diplomatico e causò una seria crisi fra i due paesi. Anche questa volta la pubblicazione del piano ha di fatto coinciso con l’incontro che Netanyahu ha avuto domenica sera con Biden a New Orleans. Incontro nel quale il premier è tornato a incalzare l’Amministrazione Usa per una opposizione più dura sull’Iran e il suo programma nucleare. Per Netanyahu
‘l’unico modo per assicurarsi che l’Iran non ottenga armi nucleari è una credibile minaccia militare’, affermazione sulla quale Biden ha glissato limitandosi a sottolineare che le attuali sanzioni contro Teheran hanno un ‘impatto misurabile’, diversamente da un’azione militare che potrebbe avere esiti devastanti in tutto il Medio Oriente”.

Dall’articolo di Fabio Sciuto emerge un dialogo fra sordi, con un premier israeliano all’attacco di un Obama in forte crisi di credibilità e battuto alle elezioni di medio termine. Torniamo ora al 15 marzo e vediamo i titoli relativi all’annuncio dei 1.600 alloggi cui accenna Sciuto, durante la visita di Biden.

15 marzo. “Colonie, contro Israele la rabbia Usa. Obama furioso, la Clinton attacca Netanyahu: ci hai offeso. Il premier si scusa”.

E il giorno dopo?

“Netanyahu: ‘Continuiamo a costruire’ Nuova sfida a Obama. L’ambasciatore in Usa: ‘Crisi di proporzioni storiche’”.

L’articolo comincia con la dichiarazione fatta da Netanyahu alla Knesset: “Le costruzioni a Gerusalemme-Est continueranno nella stessa maniera in cui sono andate avanti negli ultimi 42 anni”. Più chiaro di così!

17 marzo. Paginone centrale e due titoli.

“Colonie, l’ira palestinese, barricate contro la polizia. A Gerusalemme scontri con gli israeliani: arresti e feriti”

“Il Pentagono: l’intransigenza di Netanyahu mina i rapporti tra l’America e il mondo arabo. L’irritazione della Casa Bianca. Clinton: ‘Israele dia un segnale’”

20 marzo. “‘Stato palestinese in due anni’. Usa e Russia avvertono Israele. Martedì alla Casa Bianca vertice Obama-Netanyahu”

Da Gerusalemme, Alberto Stabile, parla di pace fatta fra Obama e Netanyahu, almeno secondo Fox New. Netanyahu e la Clinton si sono telefonati e mercanteggiando un po’ l’Amministrazione Obama finisce con l’accettare un pacchetto di misure reciproche, questa la proposta di Netanyahu, per ristabilire la fiducia con i palestinesi. Senza nessun impegno specifico e, soprattutto, nessun cambiamento di programma sulle costruzioni!

24 marzo. “Netanyahu avverte la Casa Bianca: ‘Negoziato fermo per un anno’. Su Gerusalemme non trattiamo. E parte un nuovo insediamento”

L’articolo di Angelo Aquaro, inviato a New York, comincia così: “Se i palestinesi non rinunceranno alla richiesta di fermare gli insediamenti, i colloqui di pace potrebbero slittare di un anno. Non poteva cominciare in modo peggiore l’atteso incontro alla Casa Bianca, novanta minuti faccia a faccia, tra Barak Obama e Bibi Netanyahu. […] ‘Non dobbiamo farci intrappolare da una richiesta illogica e irragionevole’”. Dichiara Bibi! E l’articolo continua: “Uno schiaffo dopo l’altro. Anche perché quella ‘richiesta illogica e irragionevole’ viene pure dagli Usa, che con tutto il Quartetto (Ue, Onu, Russia e Stati Uniti) hanno chiesto il blocco degli insediamenti”. E mentre i due sono a cena, “da Israele è arrivato l’affronto; il via libera alla costruzione di complesso di 29 nuove abitazioni che sostituiranno un vecchio albergo palestinese sempre a Gerusalemme-Est. Già la sera prima, durante il discorso all’Aipac, la lobby ebraica americana, Bibi aveva rintuzzato la richiesta di stop fatta davanti alla stessa platea da Hillary Clinton, che aveva invitato Israele a fare ‘scelte difficili ma necessarie per la pace’. ‘Gerusalemme non è una colonia, è la capitale d’Israele’ aveva tuonato il leader. ‘Il popolo ebraico costruì Gerusalemme 3000 anni fa e continua a farlo ora’”. E mi pare che basti. Altro che disgelo!

Si arriva così al tragico 31 maggio, quando la flottiglia Freedom, che recava aiuti umanitari ai palestinesi, rinchiusi in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, viene assaltata dalla flotta israeliana. Risultato: nove morti tra i passeggeri della Mavi Marmara, la nave turca che guidava il convoglio.

Un paginone! E una doppia serie di titoli.

“Il blitz. Israele assalta le navi della pace dirette a Gaza con gli aiuti nove morti, oltre trenta feriti. I settecento attivisti portati a terra e arrestati”

“Paura di una nuova Intifada. Netanyahu nella tempesta, salta il vertice alla Casa Bianca. La stampa: ‘Rischiamo l’isolamento’”.

Netanyahu è in viaggio per il Canada ed esita pure a tornare indietro. Diamo la parola a la Repubblica:

Inversione di marcia più che giustificata, perché stavolta Israele rischia di pagare un prezzo molto alto. Le tragiche conseguenze dell’arrembaggio notturno hanno lasciato interdetti persino quei paesi europei che intrattengono rapporti amichevoli con Israele come l’Italia e la Germania i quali stavolta non hanno potuto sottacere la protesta.
Sarà difficile a questi paesi opporsi alla linea di condotta tracciata dall’alto Rappresentante dell’Ue per la Politica estera e la Difesa, Khateryne Ashton, che ha subito evocato l’esigenza di un’inchiesta internazionale(d’accordo in questo con il Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon), e la necessità di garantire al milione e mezzo di palestinesi che vivono a Gaza condizioni di vita più umane, spezzando il cordone sanitario che da quasi tre anni soffoca la Striscia.
Persino al di là delle previsioni degli organizzatori della flottiglia anti-blocco, i fatti di ieri notte potrebbero segnare una svolta nell’atteggiamento internazionale che finora ha garantito appoggio all’embargo messo in atto da Israele contro la popolazione di Gaza. Soprattutto dopo aver constatato che nessuno dei due obiettivi del blocco (la rivolta della popolazione contro Hamas e la riduzione della minaccia terroristica portata dalle milizie islamiche) può dirsi realizzata.
Dunque, per poter continuare a mantenere sbarrati i valichi di Gaza Israele avrà più che mai bisogno degli Stati Uniti, ma basta leggere il cauto comunicato emesso dalla Casa Bianca per rendersi conto che il tempo delle cambiali in bianco è scaduto
”.

Ma i giorni successivi stempereranno pian piano tutto, fino ad arrivare al 21 giugno, quando verrà fuori la notizia che gli Stati Uniti si ritengono soddisfatti. A luglio poi tornerà di nuovo l’entusiasmo, con Netanyahu che parla di Abu Mazen come suo partner, con Obama che si sbilancia addirittura sui tempi!

Il 22 agosto, a sorpresa,

Obama rilancia il processo di pace. Negoziati diretti Israele – palestinesi. A settembre gli incontri diretti dei due leader alla Casa Bianca. Il negoziatore palestinese Erekat: “Andremo ma non c’è lo stop alle colonie”. “Siamo disposti a trattare”. Netanyahu e Abu Mazen ‘costretti’ ad accettare l’invito.

L’articolo da New York di Federico Rampini si apre con notevole enfasi, se non con toni trionfalistici. “Barak Obama si mette in gioco sul terreno minatodel Medio Oriente. L’America rilancia il dialogo di pace tra Israele e Palestina, senza precondizioni, con scadenze ravvicinate: il 2 settembre a Washington il primo giro di contatti diretti e l’obiettivo di raggiungere l’accordo ‘entro un anno’. Cioè un risultato da incassare entro il primo mandato di Obama, facendo così della pace israelo-palestinese un elemento di bilancio di questa presidenza.
E’ un rischio che altri presidenti hanno preferito non correre, viste le delusioni di precedenti tentativi di mediazione. Questa Amministrazione ci riprova, pur avendo scarse garanzie, ma con grandi ambizioni. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha annunciato ieri che i negoziati avranno per scopo quello di
‘risolvere tutte le questioni relative allo status finale’ di Israele e Palestina.

2 settembre. Netanyahu: “Abu Mazen partner di pace”. Obama: “possiamo farcela in un anno. Ma il premier israeliano non s’impegna sullo stop alle colonie. “Cediamo Gerusalemme-Est all’Anp”. Intervista-shock di Barak: “Un regime speciale per la Città Vecchia.

L’articolo di Angelo Aquaro comincia così: “Possiamo farcela in un anno: già troppo sangue è stato versato. Israeliani e palestinesi non devono lasciarsi sfuggire questa opportunità”. Barak Obama vede la pace possibile e rilancia il sogno di un nuovo Medio Oriente”.

Dunque a settembre ci si prepara agli incontri diretti, viene fissato un nuovo incontro per il 16, ma poi …

A ottobre, sempre peggio. Di novembre abbiamo già parlato.

Di seguito i titoli significativi dal 2 giugno al 16 ottobre.

2 giugno. La crisi. Israele sfida l’Onu: “Ipocriti”. La Nato: “Liberate i militanti”.

3 giugno. Netanyahu difende il blitz: “Era una flottiglia di terroristi”. L’Onu: un’inchiesta sulla strage. L’Italia vota no con Usa e Olanda. Abu Mazen: “Israele ha commesso un crimine”.

4 giugno. Il Vaticano a Israele: “Via il blocco di Gaza”.

7 giugno. Il Papa: “Occupazione ingiusta. Israele destabilizza la regione.

18 giugno. Gaza. Israele allenta l’embargo ma il blocco navale resta attivo.

21 giugno. La svolta d’Israele su Gaza: “Via libera a tutti i beni civili. Resta solo il blocco delle armi (!?)”. Gli Usa: siamo soddisfatti.

Nello stesso giorno Netanyahu incontra Blair rappresentante del Quartetto. Sempre gli stessi personaggi! E si preannuncia un incontro con Obama per il 6 luglio.

6 luglio. L’Amministrazione spera in concessioni che facciano tornare i palestinesi al negoziato. Netanyahu da Obama per ricucire. Alla Casa Bianca un vertice per superare i contrasti. “O le scuse o la rottura dei rapporti”. Ultimatum della Turchia a Israele. La replica: “Non le avrete”. Cieli negati ai voli militari.

7 luglio. Obama preme su Netanyahu “Colloqui diretti con i palestinesi”. Il premier israeliano: “Pronti a prenderci rischi”.

3 settembre. “Ci sono distanze incolmabili, remote le possibilità d’intesa”. L’ex negoziatore Usa Miller: troppa sfiducia tra le parti.

16 settembre. La Clinton chiede una svolta: “Israele fermi gli insediamenti”.

25 settembre. Israele, salta il compromesso sulle colonie. Netanyahu pronto a rallentare i nuovi insediamenti. I palestinesi: “Stop o niente negoziati”.

27 settembre. Israele, i coloni lanciano la sfida: “Costruiremo ancora, è casa nostra”. Scade il blocco degli insediamenti. Netanyahu: “Il dialogo continui”.

28 settembre. Colonie, gli Usa criticano Netanyahu. “Delusi per la ripresa dei cantieri. Gaza, uccisi tre palestinesi:”Raid israeliano”.

16 ottobre. Gerusalemme-Est, via a nuovi insediamenti. Netanyahu sblocca 240 alloggi. I palestinesi: ucciso il negoziato. Condanna degli Usa.

Il resto è silenzio!

Ottobre 2010

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