Michail A. Bakunin (1814–1876) – Lottiamo per il pieno sviluppo e il completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione e la prosperità materiale.

Mihail Aleksandrovič Bakunin 02

Solidarietà ed individualità
In un’epoca dominata dalla massificazione rileggere i classici della filosofia è un atto che diventa parola e che consente di osservare criticamente il presente. Per comprendere l’attuale dispositivo censorio – che agisce senza apparire –, bisogna prendere in esame autori messi al bando dalle accademie culturali e dalla industria mediatica. Nulla è neutro, ad ogni scelta è sottesa una determinata visione del mondo (Weltanschauung), in particolare quella finalizzata a sostenere la conservazione. Gli autori presenti nelle “vetrine” mediatiche correnti sono, in media, utilizzati per confermare l’individualismo astratto e mercantile. Il nulla avanza sulla punta di baionetta dell’industria culturale, il cui scopo è sostenere il potere ed i suoi dispositivi di controllo. Per la struttura economica del capitalismo il soggetto è un atomo che deve produrre e consumare in una sostanziale solitudine. Alla concretezza, al vincolo solidale, alla crescita delle potenzialità umane si sostituisce la miseria dell’atomismo del Regno animale dello Spirito (G.W.F. Hegel), in cui l’individualità si dissipa nella competizione fino ad evaporare, ed a configurarsi nell’io minimo (C. Lasch) addomesticabile ed innocuo per gli equilibri economici e politici consolidati. Ma se siamo capaci di attivare un riorientamento gestaltico è possibile verificare l’esistenza di altri modelli di individualità qualitativamente differenti. Michail Bakunin (1814-1876), ostracizzato dall’industria culturale, nei suoi scritti mostra che l’individualità è per sua natura concreta e solidale; anzi, non vi può essere individualità senza solidarietà e partecipazione alla vita comunitaria nella poliedricità dei suoi aspetti. Ogni essere umano, per metter in atto le sue potenzialità, necessita di comunità solidali ed accoglienti che, pur condizionando determinati comportamenti nella ricerca del bene comune, tengano fermo il principio del rispetto della specificità irripetibile di ciascuno. Senza solidarietà non vi è individualità, ma solo regressione umana:

«L’individuo umano, prodotto della solidarietà, cioè della società, pur se sottomesso alle sue leggi naturali può benissimo, influenzato da sentimenti provenienti dall’esterno, in special modo da una società straniera, reagire contro la sua fino a un certo grado, e tuttavia non sarebbe capace di uscirne senza entrare subito in un altro ambiente solidale sottoponendosi così a nuove influenze. Perché per l’uomo la vita al di fuori di ogni società e di ogni influenza umana, l’assoluto isolamento, è la morte intellettuale, morale e anche materiale. La solidarietà non è solo un prodotto ma la madre dell’individualità, e la personalità umana può nascere e svilupparsi soltanto nella società umana. La somma delle influenze sociali dominanti, espressa dalla coscienza solidale o generale di un gruppo umano più o meno vasto, si chiama opinione pubblica. E chi non conosce l’azione onnipotente esercitata dall’opinione pubblica su tutti gli individui? L’azione restrittiva delle leggi più draconiane non è niente al suo confronto. È dunque questa l’educatrice per eccellenza degli uomini. Da qui risulta che al fine di moralizzare gli individui occorre prima di tutto moralizzare la società stessa, umanizzarne l’opinione o coscienza pubblica».[1]

 

L’astratto
L’astrazione avanza legittimata dalla scienza. Michail Bakunin evidenzia che la scienza, per sua costituzione epistemica è astratta. Essa si occupa di leggi generali, e non delle contingenze particolari, questo non è un male in sé, poiché risponde ad un metodo di studio e conoscenza. Il pericolo è trasformare tale metodologia d’indagine in totalitarismo culturale, per cui l’astratto è istituzionalizzato dall’aurea sociale della scienza. La religione del progresso non è meno pericolosa della religione dell’economia. L’astratto scientifico può trasformarsi in tecnocrazia elitaria alleata con l’economia che manipola i popoli riducendoli in masse che obbediscano ai nuovi dogmi. Per sviluppare personalità solidali, dunque, bisogna formare ad un senso critico capace – dinanzi ad ogni disciplina, istituzione o sapere – di metter in moto la catena dei perché, la quale, se è interrotta, pone le premesse per nuovi dogmatismi non riconosciuti:

 

«Le astrazioni non hanno gambe per camminare e camminano solo quando sono portate dagli uomini reali. Ma per questi esseri reali fatti non solo di idee, ma concretamente di idee, di carne e di sangue, la scienza non ha cuore. Essa, tutt’al più, li considera come carne intellettualmente e socialmente sviluppata. Che le importano le condizioni particolari di Pietro e di Giacomo? Essa si renderebbe ridicola, abdicherebbe alla sua autorità, si annienterebbe se volesse valersene altrimenti che come esemplificazioni in appoggio delle sue teorie eterne. E sarebbe grottesco serbarle rancore per ciò, giacché la sua missione non è questa. Essa non può afferrare il reale; essa può muoversi soltanto nelle astrazioni. La sua missione è di occuparsi delle situazioni e delle condizioni generali dell’esistenza e dello sviluppo, sia della specie umana nel suo insieme, sia di questa o quella razza, di questo o quel popolo, di questa o quella classe e categoria di individui. È di occuparsi altresì delle cause generali della loro prosperità o della loro decadenza, e dei mezzi generali per farli avanzare in ogni sorta di progresso. Se essa compie estesamente e razionalmente questo lavoro, ha fatto tutto il suo dovere e sarebbe veramente ridicolo e ingiusto chiederle di più».[2]

 

“Dittatura del proletariato” e potere
Michail Bakunin fu espulso dal V Congresso dell’Internazionale dell’Aja (2-7 settembre 1872), poiché era entrato in collisione con Marx ed i marxisti, malgrado i numerosi punti di convergenza. Li dividevano le problematiche annesse alla “dittatura del proletariato”. È importante evidenziare le ragioni critiche dell’ostilità di Bakunin. Libertario ed anarchico, temeva che la “dittatura del proletariato”, malgrado le ragioni teoriche che supportavano tale passaggio verso il comunismo, potesse assumere una nuova forma di perenne potere di una minoranza su una maggioranza. La storia ha dato ragione a Bakunin, ma ancora una volta emerge il carattere critico della testimonianza di Bakunin, il timore consapevole che lo spettro del potere e dell’oppressione si potesse ripresentare in forme nuove. La sua lezione consiste nella consapevolezza che la libertà è prassi quotidiana, la democrazia dal basso non deve delegare, ma controllare in modo critico e partecipato il potere ed i modelli culturali:

 

«Io credo che il signor Marx sia un rivoluzionario serio, anche se non sempre molto coerente, e che veramente desideri la rivolta delle masse. E mi meraviglia come non riesca a vedere che l’attuazione di una dittatura universale, collettiva o individuale – una dittatura che agirebbe come una sorta di ingegnere capo della rivoluzione mondiale, regolando e dirigendo, più o meno come si conduce una macchina, il movimento insurrezionale delle masse di tutti i paesi – sarebbe in sé sufficiente a uccidere la rivoluzione, a paralizzare ogni movimento popolare. Dov’è l’uomo, dov’è il gruppo di individui, per quanto geniali siano, che oserebbe vantarsi di essere in grado di comprendere e interpretare la moltitudine infinita dei variegati interessi, tendenze e attività in ogni singolo paese, provincia, regione, località, professione e mestiere, che nel loro immenso aggregato sono uniti, ma non irregimentati, da alcuni principi fondamentali e da una grande aspirazione comune, la stessa aspirazione – uguaglianza economica senza perdita di autonomia – che, radicata in profondità com’è nella coscienza delle masse, costituirà il futuro della Rivoluzione sociale?».[3]

 

Riduzionismo economicistico
L’economicismo è un pericolo insito non solo nella cultura liberale, ma anche nei movimenti e partiti di “sinistra”. Il riduzionismo economicistico non favorisce lo sviluppo di personalità complete, né di sistemi sociali e politici rispettosi delle individualità, perché ignora le contingenze materiali, in cui ogni individuo si forma e le strutture culturali che eredita; pertanto non si possono applicare le stesse soluzioni a culture e popoli diversi. L’economicismo, come ogni forma di riduzionismo, è astratto e dunque violento. L’economicismo nel comunismo prepara “il capitalismo di Stato”; Bakunin intravede in ciò la negazione del comunismo e specialmente, malgrado le intenzioni di Marx, il profilarsi di nuove forme di totalitarismo:

 

«A risultati diametralmente opposti giunge il signor Marx. Prendendo in considerazione la sola questione economica, egli afferma che i paesi più progrediti, e di conseguenza più idonei a compiere la rivoluzione sociale, sono quelli in cui la produzione capitalistica moderna ha raggiunto il più alto grado di sviluppo. Solo questi paesi sono civili, ed essi soltanto sono chiamati a iniziare e guidare la rivoluzione. La rivoluzione consisterà nell’espropriazione, sia graduale sia violenta, degli attuali proprietari e capitalisti e nell’appropriazione di tutte le terre e di tutto il capitale da parte dello Stato, che, per poter assolvere la sua grande missione economica e politica, dovrà essere necessariamente molto potente e centralizzato. Lo Stato amministrerà e dirigerà la coltivazione delle terre tramite tecnici stipendiati a capo di armate di lavoratori agricoli organizzati e disciplinati per questo tipo di lavoro. Analogamente, esso costituirà sulla rovina di tutte le banche esistenti una banca unica che accentrerà l’intero lavoro e l’intero commercio internazionali»[4]

 

Rileggere Bakunin è un’esperienza culturale importante, poiché ci offre categorie interpretative e contenuti validi non solo per leggere il presente e per non subirlo passivamente; nei suoi scritti si può cogliere la passione pedagogica per la libertà che lo porta ad assumere una postura critica ed attiva verso ogni forma di cristallizzazione del potere. Ci insegna che la libertà è un processo mai concluso, essa è conquista collettiva quotidiana di cui tutti si è contemporaneamente docenti ed alunni:

 

«Nella libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo, tre elementi, il primo dei quali è di carattere decisamente positivo e sociale: esso consiste nel pieno sviluppo e nel completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, tutte cose che l’uomo può acquisire solo con il lavoro collettivo, fisico e intellettuale, muscolare e nervoso, di tutta la società. Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È il momento della rivolta dell’individuo contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale».[5]

Salvatore Bravo

***

[1] Michail Bakunin, La libertà degli uguali, a cura di G.N. Berti, Elèuthera, Milano 2017, p. 127.
[2] Ibidem p. 142.
[3] Ibidem p. 155.
[4] Ibidem pp. 159-160.
[5] Ibidem, p. 81.


Michail A. Bakunin (1814–1876) – Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Etty Hillesum (1914-1943) – Le parole di Etty invocano la responsabilità di ciascuno. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Occorre disseppellire dal cuore degli uomini la sostanza comune che rende tutti fratelli.

Etty Hillesum 03a
Salvatore Bravo
Le parole di Etty Hillesum invocano la responsabilità di ciascuno.
Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano.
Occorre disseppellire dal cuore degli uomini la sostanza comune che rende tutti fratelli.

 

Disseppellire Dio
Esther Hillesum, detta Etty  ha testimoniato la necessità dell’universale. Non si supera la crisi di un’epoca, l’esperienza di Auschwitz nel suo caso, senza un nuovo umanesimo. Bisogna «disseppellire Dio»! Le parole di Etty invocano la responsabilità di ciascuno dinanzi alla disumanità che avanza. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Si può dimenticare Dio, dimenticare cioè il bisogno di riconoscere la sostanza comune che rende tutti fratelli, ma nella dimenticanza, nella rimozione dell’universale non vi è che la disumanità che distrugge ogni tessuto sociale e umano. Solo il «disseppellire Dio» – nelle parole di Etty – può riumanizzare la vita di ciascuno, abbattere le barriere di fango che dividono e che causano solitudine materiale ed emotiva. Senza universale ci si ripiega su se stessi, l’altro è solo il “nemico”: nell’ordito sociologico del darwinismo sociale della «lotta per la sopravvivenza» (struggle for life and death) c’è solo la sconfitta è per tutti, non vi sono vincitori, ma solo diverse forme di solitudini:

«Poiché le persone scompaiono, non mi resta altro che il desiderio di parlare con Te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio. Ma ora avrò bisogno di molta pazienza e riflessione e sarà molto difficile».[1

La ricerca dell’universale può riemergere nelle circostanze più diverse e dimostra che è nella natura umana la necessità di ritrovarsi nella comune famiglia umana. Le modalità e le soluzioni possono essere plurali, ma in tutte vi è la dialettica che muove il soggetto verso l’universale. I percorsi possono essere molteplici, ma giungono alla comunità umana, mediante un processo graduale che muove dalla concretezza della contingenza, in cui si è situati, per ridisporsi verso l’umanesimo trascendentale. Nella storia la violenza è sempre stata presente, ma la salvezza non consiste nel semplice passaggio da un sistema di potere ad un altro, la salvezza è nel non lasciare che il male proliferi infettando e consumando anche coloro che propugnano la libera individualità sociale. Il “male” alligna anche nelle vittime – la violenza è il virus che prolifera –, se ad esso non si oppongono adeguate energie spirituali e concettuali. Il “male” si propaga, in modo meccanico, se non è avvertito, pensato e giudicato come tale. La speranza è quella di salvare, in primis, la propria vita interiore nelle determinate temperie della storia. Un nuovo inizio è possibile, se ci si congeda dalle violenze vissute, se si riconosce la “violenza” in noi stessi la violenza:

«Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un secolo è l’Inquisizione e in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».[2]

Ricettacoli di cose
Viviamo in un mondo di cose. Ai disastri della storia “si reagisce” mettendo in salvo le cose: in questo modo si perde se stessi, si diviene irrilevanti come le cose. Il “male” ci travolge, ci sorprende fino ad assimilarci, se di fronte ad esso ci si adopera solo per salvare un mondo fatto di cose. La salvezza diviene, così, l’inizio di un nuovo “male”, perché la sofferenza non è stata compresa, perché la rabbia non è stata pensata, perché il carnefice non è stato guardato nella sua miseria, la quale ci appartiene. Nessun essere umano è esente dal pericolo di essere veicolo di violenza. Pertanto l’attenzione diretta verso le cose rende le vittime tragicamente limitrofe ai carnefici:

«Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo».[3]

Se l’attenzione si sposta, anche, sui fondamenti della vita umana. Se si vive in pienezza l’universale, non si è più fragili, ma più lucidi davanti all’avanzare del “male”, perché si ha la chiarezza che l’invisibile, il fondamento ultimo, non può essere sottratto a nessuno. La lotta diviene dialettica, la distanza tra il carnefice e la vittima abissale, la differenza etica vissuta è l’inizio della speranza:

«Una cosa è certa: dobbiamo accettare tutto dentro di noi, dobbiamo essere pronti a tutto e sapere che le “cose ultime” non possono esserci sottratte; allora, con quella pace interiore, sapremo ben compiere i passi necessari».[4]

 

Appartenenza e comunità
L’universale non è astratto, ma è fatto di sangue e carne come il Dio che Etty ha «disseppellito». Il fondamento ultimo è partecipazione alla vita della propria comunità, fino all’ultimo, come nel caso di Etty. La comunità ci ha preceduti e ci accoglie, ne condividiamo la lingua come la storia, l’universale si svela e rivela nello scoprirsi come parte di un tutto. Il bene consiste nell’essere parte attiva di una totalità a cui non ci si nega, che non può essere dimenticata per inseguire un destino astrattamente individuale:

«Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare».[5]

L’appartenenza fa trascendere i limiti cronologici delle vite, ci si oppone al male testimoniando il bene e per donare alle future generazioni un lascito etico che possa servire per indicare il cammino verso cui ci si deve orientare per congedarsi dalla violenza della storia:

«Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. In qualche modo mi sento leggera, senz’alcuna amarezza e con tanta forza e amore. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?».[6]

 

Il marciume che debilita
Per uscire dalla logica dell’inazione e dal pessimismo paralizzante, bisogna imparare a discernere: anche nell’ora più buia, in cui tutto appare senza uscita, continuano ad esserci spazi di speranza dai quali riprendere il cammino. Il pessimismo, ogni querulo comportamento, rafforza il “male”, favorisce il suo consolidarsi, per cui ai perpetuo lamentii è necessario opporre la capacità di giudicare il contesto storico che stiamo vivendo senza comodi semplicismi:

«Spesso mi viene da dire: c’è un gran marciume in quel posto. Ma oggi, d’un tratto, ho pensato: se dico sempre quella parola, marciume, esso finisce per propagarsi nell’atmosfera e non la rende certo migliore».[7]

Nella Storia, e nella nostra storia, possiamo renderci persone. Dobbiamo però abbandonare gli stereotipi di idealistica astratta uguaglianza, per imparare a diventare persone concrete. La concretezza esige, per dirla con Aristotele, il sinolo di particolare ed universale, la sostanza individuale, cioè l’oggetto concreto composto di materia e di forma. Solo in tal maniera la speranza ha il volto di una nuova storia, di un nuovo umanesimo che abbia il suo fondamento nell’anima umana. Ogni emancipazione non può che rivelare a ciascuno la propria condizione umana:

«Forse la vera, la sostanziale emancipazione femminile deve ancora cominciare. Non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole. Siamo legate e costrette da tradizioni secolari. Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé».[8]

L’esperienza di Etty continua a parlarci, ha attraversato il «secolo breve» ed è giunta a noi. Diventare persone significa, anche, ascoltare le testimonianze della storia, continuare a dialogare con il presente come con il passato.

Salvatore Bravo

[1] Etty Hillesum, Diario Edizione integrale, Adelphi, Milano 2012, pag. 513.
[2] Ibidem, pag. 489.
[3] Ibidem, pag. 494.
[4] Ibidem, pag. 507.
[5] Ibidem, pag. 493.
[6] Ibidem, pag. 503.
[7] Ibidem, pag. 506.
[8] Ibidem, pag. 82.


Etty Hillesum (1914-1943) – L’uomo crea il suo destino dall’interno di sé. Ciò che determina il destino è come l’uomo si pone interiormente di fronte agli eventi della vita. Per conoscere la vita di qualcuno, bisogna conoscerne i sogni …
Etty Hillesum (1914-1943) – È l’anima dell’uomo che spande la sua luce fuori. I dominii dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ricerca ed esodo in Massimo Bontempelli. L’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. Questo il messaggio che ci lascia per il nostro cammino nella verità e verso la verità.

Massimo Bontempelli-Salvatore Bravo 09
Salvatore Bravo

Ricerca ed esodo in Massimo Bontempelli

 

Il 31 luglio 2011 a Pisa veniva a mancare Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011). La Filosofia ha perso un uomo silenzioso e caparbio che ha vissuto la filosofia come esperienza totale e concreta. Secondo l’opinione corrente Massimo Bontempelli potrebbe essere definito un autore minore. Il giudizio del circo mediatico è dominato dalla chiacchiera, innalza sugli altari i nichilisti organici al sistema che hanno perso non solo la misura, ma specialmente il fondamento ontologico del bene. È inevitabile allora che autori radicali come Massimo Bontempelli non appaiano, ma ciò malgrado sono essenziali per comprendere il presente, decodificarne la matrice nichilista per elaborare percorsi alternativi. Dal nichilismo non si esce che con la verità, con la teoria che si coniuga con la prassi, ma ancor più con la testimonianza che un altro modo di esserci e vivere lo studio, l’impegno politico e sociale è possibile. La forza del nichilismo è nella capacità di convincerci che l’omologazione regna e dunque non vi è speranza, perché la verità è solo un gioco di parole, un’illusione fugace e pronta a svanire al tocco del principio di realtà. La trasvalutazione dei valori dei nichilisti nella forma dell’economicismo coltiva la disperazione per rafforzare il potere costituito, per annichilire ogni speranza. Il serpente sibila che niente ha senso, per cui tutto è possibile, rilevante è solo l’immediatezza, la certezza sensibile da afferrare e consumare. Massimo Bontempelli dinanzi alla violenza del nichilismo non solo ha argomentato il suo “no”, demistificandone i fondamenti ed i dogmatismi, ma specialmente ne ha colto la trasversalità, mostrando che dietro i grandi paraventi della propaganda, nella destra come nella sinistra, alligna lo stesso male che agisce e dissolve ogni programma politico in clientelismo, in logica crematistica ed asservimento dei popoli. Ha guardato con gli occhi della mente, con l’acutezza della civetta filosofica, le convergenze della destra e della sinistra. Dinanzi al disincanto non ha reagito, ma ha agito con l’esodo silenzioso e proficuo da categorie vetuste e dunque irrazionali per cercare la verità, per rifondare una nuova metafisica umanistica.

Filosofare con lo scandaglio
Filosofare con lo scandaglio, secondo la nota metafora di Hegel, è pericoloso. Massimo Bontempelli è andato fino in fondo, per dimostrare con la sua ricerca che solo la metafisica può riportare il senso dove vige l’irrazionale nella forma della categoria della sola quantità senza qualità. L’antiumanesimo è la verità tragica e terribile del capitalismo nella sua fase attuale. La destrutturazione delle autocoscienze scientemente programmata dai potentati economici, si realizza mettendo in pratica processi di derealizzazione. Sembra un paradosso, ma nell’epoca della realtà aumentata, Massimo Bontempelli ha dimostrato che reale non è il virtuale o il godimento dell’attimo che fugge via, ma saper cogliere mediante processi di astrazione la verità che dà senso all’empirico. Senza la razionalità oggettiva l’essere umano è travolto dalle stesse dinamiche che governano gli enti. Si vive, così, in un mondo irreale e muto. Solo il concetto può umanizzare, riportare con la verità la razionalità, strappare l’essere umano dalla passività dei processi di derealizzazione per riportare la prassi al centro della storia e della vita. È stato questo il senso della sua vita come filosofo, storico ed educatore. L’intreccio di filosofia, storia e paideia lo avvicina ai grandi della filosofia. La specializzazione in campo filosofico è depauperamento della filosofia che per suo statuto è disciplina olistica, capace di avere una visione generale per coglierne le connessioni logiche, le cesure ed astrarne il senso. Senza l’abitudine a pensare non vi è essere umano, ma solo un simulacro di esso. Filosofare è un viaggio, in cui si può naufragare o approdare alla verità per ricostruire percorsi di senso, altrimenti si affonda nella palude dell’immanenza. Non l’ho conosciuto di persona, ma dai suoi testi traspare la sofferenza di colui che constata quotidianamente come l’umanità si disperda nelle paludi delle mercificazioni. Il suo lavoro di ricerca è stato finalizzato ad uscire dalla tempesta del nichilismo economicistico. Hegeliano per preparazione e convinzione, ha scelto il percorso più difficile. Ovvero dinanzi ad un mondo che ha rinunciato alla metafisica, ha testimoniato la necessità del ritorno ad Hegel, non per idolatrare, ma per capire, poiché la filosofia elabora categorie ermeneutiche eterne, ma che necessitano di essere mediate con la concretezza della realtà storica. Verità e storia non sono in antitesi, ma la verità vive nella storia. L’aziendalizzazione della vita in ogni espressione, dalle istituzioni alle relazioni umane, è la prova vivente che Massimo Bontempelli ha colto il problema nella sua drammaticità, lo ha trasformato nel senso della sua vita. Dobbiamo rimetterci alla giustizia del tempo, perché autori che hanno vissuto la verità come processo logico e dimostrativo, non periranno, saranno fonte di ispirazione per studiosi e filosofi del presente e del futuro. Sembra poco credibile, i tempi ingrati i cui siamo immersi, ci insegnano che la menzogna e la chiacchiera trionfano, ma ciò malgrado l’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. È stata la sua speranza, è il messaggio che ci lascia. Si può essere eredi della sua filosofia, solo se si riprende il cammino nella verità e verso la verità.

Contro i pregiudizi
La solitudine del filosofo è causata dalla sua lotta contro i pregiudizi, nel trasgredire all’ordine del discorso. Lo scientismo laicista non è scienza, ma visuale unidirezionale, pregiudizio socialmente accettato senza inquietudine mediante la derealizzazione in atto. Massimo Bontempelli ci rammenta il pericolo di un mondo senza qualità, in cui l’umano non dona la sua teleologia alla quantità: questo è causa di un infausto destino che disumanizza fino a rendere impossibile la vita. Il filosofo, dinanzi ad un pericolo tanto immenso, non può tacere. Massimo Bontempelli è stato funzionario dell’umanità, poiché ha denunciato con la profondità logica del concetto che la scienza senza metafisica è esiziale:

 

«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».[1]

 

La memoria dà senso alla vita ed all’impegno di coloro che ci hanno preceduto, e specialmente consolida il radicamento positivo e plastico nella storia. Affinché ciò possa essere abbiamo bisogno di maestri, Massimo Bontempelli lo è stato.

Salvatore Bravo

[1] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, pp. 5 6.



Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato.

  • Il senso della storia antica. Itinerari e ipotesi di studio. (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1978.
  • Antiche strutture sociali mediterranee. (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1979.
  • Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
  • Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
  • Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
  • Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
  • Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
  • Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
  • Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
  • Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
  • Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
  • Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
  • Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
  • Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
  • La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
  • La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
  • Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
  • Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000.
  • L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
  • Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
  • Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
  • Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
  • Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
  • Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
  • L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
  • Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
  • Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
  • Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
  • Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
  • La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
  • La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
  • Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
  • Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
  • Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
  • Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
  • Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
  • Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
  • La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
  • Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017
  • A cura di) Il respiro del Novecento, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 1999
  • (A cura di) Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n.4, Pistoia, CRT, 2000
  • (A cura di) Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n.5, Pistoia, CRT, 2000
  • (A cura di) Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n.8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
  • I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Theodor L. Adorno (1903-1969) – Il fatto che la filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico.

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«Il fatto che la filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore [Glanz] di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico [ …] e neppure un adempimento di desiderio psicologico. La qualità immanente di un pensiero: ciò che in esso si manifesta come forza, resistenza, fantasia, come unità dell’ elemento critico con il suo contrario, è se non un index veri, almeno un sintomo».

Theodor Ludwig Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970, pp. 347-348.


Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Le più recenti pubblicazioni (gennaio-giugno 2020)

Petite Plaisance - 15 titoli

Carlo Carrara – Essere e Dio in Heidegger

La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente. Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo. Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino. Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).

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Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.

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Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero. Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.

L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).

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Marino Gentile (1906-1991) – Il problema della filosofia moderna

Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio): Il disegno umanistico del «regnum hominis»/La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis»/Il matematismo del Galilei/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone/L’atteggiamento di Bacone verso la matematica/ R. Descartes come fondatore della filosofia moderna/Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano/La funzione del matematismo nel sistema cartesiano/La matematica e il dubbio universale/I due centri di certezza nel sistema cartesiano/Matematismo e meccanicismo/Le aporie del cartesianesimo. Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza: Le condizioni per un cartesianesimo integrale/Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma/Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo/Spinoza e Cartesio/Le caratteristiche del razionalismo spinoziano/Il matematismo nel pensiero spinoziano/Matematismo e meccanicismo/Occasionalismo e pascalismo. Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz): Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanicismo/Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo/Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie/Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke/Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke/Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana/Il dualismo d’interiorità ed esteriorità/Leibniz e la sua ripresa al matema­tismo antico/Matematismo antico e matematismo moderno/La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica. Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti: La filosofia kantiana come ricerca assoluta/Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica/Rapporto della dottrina dell’Io trascendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica/Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica/Il matematismo e le aporie della dialettica/Il matematismo come limite della ricerca kantiana.

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Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli

«Migliori e Grecchi sono due metafisici che si ispirano alla tradi­zione greca e la custodiscono con cura, anche se Migliori guarda soprattutto a Platone e Grecchi soprattutto ad Aristotele. Entrambi amano la verità e il bene» (Carmelo Vigna). Questi i temi del dialogo: La genesi della filosofia / L’amore per Platone / “La filosofia si fa, non si impara” / Il Multifocal Approach / Possibili critiche al Multifocal Approach / Uomo: una natura razionale e morale? / Sul timore della definizione / Su ciò che non è stato ritrovato / Presocratici: una lettura multifocale? / Chi fu il “primo filosofo”? / Sulla definizione della filosofia e la differenza con le scienze / Socrate sofista? / Sulla filosofia ellenistica e post-ellenistica / I Greci cercavano per trovare risposte utili / Sul bene / Sulla verità: questione logico-fenomenologica o (anche) onto-assiologica? / Utopia e progettualità / Sul trascendente / La dolcezza come virtù filosofica / L’anticrematistica: filo conduttore delpensiero antico? / Stato dell’arte della filosofia antica in Italia / Oltre alla filosofia… / Su Platone Primo Ministro… / Sulla educazione dei giovani / Sulla morte.

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Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Alle origini della filosofia della cultura

In queste pagine si afferma il principio che le concezioni della natura svolte dai presocratici sono il risultato della proiezione dei problemi del mondo umano sull’universo fisico: è da respingere l’opinione per cui il pensiero filosofico all’inizio si sarebbe occupato esclusivamente dei problemi più lontani, relativi all’origine, alla formazione e alla costituzione del cosmo e solo in tempi più recenti avrebbe rivolto la propria attenzione a quelli più vicini, cioè ai problemi relativi all’uomo. Pur non essendo una delle opere fondamentali del Mondolfo, questo libro è però una delle sue opere più significative: vi si possono trovare i principali motivi che ne caratterizzano il pensiero. Ha messo in evidenza le tendenze poliedriche dello spirito ellenico e la varietà e il contrasto delle sue manifestazioni nel pensiero dei filosofi greci, dimostrando come negli scritti di alcuni di essi si possa trovare il riconoscimento esplicito dell’importanza del soggetto umano nella gnoseologia, nell’etica e nella teoria delle creazioni culturali. In questo libro vengono inoltre indicati altri precedenti della filosofia della cultura: in Platone, in Aristotele, in Tommaso d’Aquino, nei filosofi del Rinascimento, in quelli dell’età moderna fra i quali Vico, Hegel e gli idealisti. La concezione della filosofia come «problematicità» non porta mai Mondolfo alla conclusione sconsolata del problematicismo e neppure alla conclusione degli scettici che proclamano la sterilità e la vanità dell’indagine filosofica. Al contrario conduce ad una conclusione fiduciosa: il lavoro filosofico contribuisce a rendere la coscienza dei problemi sempre più chiara e profonda.

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Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e politico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

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Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pensiero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la eccede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.

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Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.

Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.

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Daniele Orlandi – Scrivere il risentimento. Su Jean Améry

I libri non hanno solo un proprio destino:talvolta possono essere destino (Jean Améry).

Come vive un intellettuale la propria condizione di uomo dello spirito nel luogo dell’anti-spirito per ec­cellenza che fu il Lager? Con uno stile a metà tra il saggio e la narrazione, Daniele Orlandi ripercorre la vicenda umana e culturale di Jean Améry, filosofo e scrittore, fra i più alti testimoni dello sterminio nazista, morto suicida nel 1978.

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Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro

La formazione dell’ideale filosofico costituisce un momento di grande importanza nella storia dell’etica greca e forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità sia tra la riflessione morale più antica e l’indagine naturalistica che caratterizza fin da principio la filosofia presocratica, sia, più tardi, fra questo naturalismo e l’umanesimo di Socrate. Secondo l’idea tradizionale derivata da Cicerone, la filosofia, che fino allora avrebbe rivolto al cielo la sua contemplazione, con Socrate soprattutto, l’abbasserebbe verso la terra e l’uomo. In realtà, anche l’interesse conoscitivo verso la natura che appare al principio della filosofia greca ubbidiva a motivi essenzialmente umani, costituiti soprattutto da un’esigenza profondamente etica e religiosa, che sorgeva da un nuovo concetto dell’uomo e del suo fine. Per la tradizione anteriore l’uomo, mortale e limitato, doveva pensare unicamente cose umane, cioè limitate e mortali, rinunciando alle divine, che si dichiaravano privilegio degli dèi, difeso dalla loro gelosia. Nell’attribuire all’uomo la capacità di pensare alle cose divine, e nel farlo in tal modo partecipe del divino, convertiva in un’obbligazione sacra per lui quello che la saggezza anteriore gli vietava come insolenza (hybris) ed empietà. La filosofia pertanto diviene per i moralisti greci la forma più eccellente ed efficace di purificazione spirituale (catharsis); e l’attività del filosofo rappresenta – come ci mostra nella Repubblica platonica l’allegoria della caverna – una missione di illuminazione e liberazione. Socrate personificò questa missione, nella sua vita e nella sua morte.

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Roberto Fumagalli – Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico

Un saggio su Michelstaedter è un’impresa destinata inesorabilmente all’incompiutezza: scrivere di colui che con le parole volle fare guerra alle parole, alla ricerca di una pienezza di vita inattaccabile, da trovare, come fondamento stabile, socraticamente solo in se stessi – dando tutto e non chiedendo nulla per sé. Non si potrà mai dire compiutamente l’altezza vertiginosa raggiunta dal suo pensiero, che resta come una cifra inaudita dell’assolutezza dell’Essere e della giustizia da lui cercata. Eppure, col suo pensiero, questo giovane (ma saggio) solitario, che si richiama alla sapienza di Eraclito e di Parmenide e che troverà un’eco, e una parentela postuma, anche in Heidegger, vorrebbe unire il mondo in un unico afflato di fratellanza e d’amore, sull’esempio di Cristo e di Buddha: da lui presi come modello di vita persuasa, sul finire della sua breve esperienza terrena. In Michelstaedter è risuonata la voce di qualcosa di sovrumano, così lontana dalla sua, e ancor più dalla nostra, epoca del compiuto nichilismo: del sapere scientifico ormai vittorioso e della tecnica dimentica dell’anima.

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Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli – Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo

Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi. Si evidenziano i relatori e i temi trattati: Daniele Guastini, «Inattualità e attualità della paideia poetica» – Angelo Tonelli, «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”»Alberto Jori, «Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale» – Arianna Fermani, «”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia» – Maurizio Migliori, «Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo» – Giulio A. Lucchetta, «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale».

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Giancarlo Paciello – Piccola storia dell’Irlanda

Questa Piccola storia dell’Irlanda nasce in parallelo alla stesura di un saggio che raccontava l’epopea della resistenza irlandese e il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni determinati fino alla morte in difesa dei loro diritti, ne costituiva il naturale “antefatto”, e, finalmente, dopo più di vent’anni, vede la luce. Se dal punto di vista storico, i problemi da risolvere non erano molti – non era infatti difficile chiarire l’estraneità degli irlandesi (gaelici e cattolici) dai britannici invasori dell’Irlanda e, all’atto della colonizzazione, ormai definitivamente protestanti –, non si poteva dire la stessa cosa per quanto riguardava il presente, da intendere comunque in senso lato, dal momento che in questo presente andava incluso un periodo di circa ottant’anni, quanti cioè ne erano trascorsi dalla divisione dell’Irlanda in due da parte della Gran Bretagna. Un excursus storico di più di 700 anni, dall’invasione dell’Irlanda da parte degli anglo-normanni alla proclamazione della repubblica indipendente d’Irlanda del 1916 e alla successiva spartizione, con le relative conseguenze discriminatorie, politiche e sociali, per la minoranza cattolica, nell’ultra-artificiale Irlanda del Nord. Il libro contiene anche il saggio originario, con una descrizione degli eventi più significativi, a partire dai disordini (i troubles) del 1969, per arrivare ai giorni nostri e un’analisi dell’Accordo del Venerdì santo, come evoluzione del processo di pace, avviato nel 1993.

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Mauro Peroni – Felicità possibile. Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

Nel nostro scenario sociale, dove circola ormai stabilmente un multiforme disagio esistenziale, quali sono le condizioni di possibilità della felicità? Intendendo con ciò non gli occasionali momenti di “positività”, ma la vita felice. Ossia l’esistenza che conosce quel senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che i semi in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Il libro affronta la questione impiegando uno strumentario teorico-concettuale non solo filosofico, ma attinto anche dal più ampio campo delle scienze umane. Si pone in ascolto della domanda di felicità che proviene dal presente e prova a rispondervi soffermandosi su tre nuclei essenziali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Inoltre riserva attenzione alle inquietudini dei soggetti adolescenti, ai quali è dedicata una proposta educativa concernente l’intelligenza pratica. I numerosi fili del discorso vengono intessuti con uno stile che coniuga il rigore delle argomentazioni con un linguaggio che parla anche ai non specialisti.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sergio Quinzio (1927-1996) – «Consummatum est». Sergio Quinzio critica la società del benessere, scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità. L’attività feconda del soggetto è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione. Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.

Sergio Quinzio 01

Salvatore Bravo

Consummatum est

Sergio Quinzio e la  critica alla società del benessere,
lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità.
L’attività feconda del soggetto,
è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.
Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita
è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.

Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo.

La vera minaccia sta nel fatto che il processo tende all’insoddisfazione assoluta,
all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose,
in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà.

Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore.

La parola felicità,
che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto,
è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.

La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica.

La morte di dio coincide con la morte della verità,
per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita
è un punto ottico di energia creativa
che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità.

Oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto.

Consumare-finire
Sergio Quinzio, filosofo e teologo di difficile collocazione, pur in una prospettiva altra rispetto alle sinistre marxiane e marxiste, analizza lo stato presente nella sua apocalittica e misera problematicità. La chiesa ha spesso cavalcato lo spirito del mondo: l’altare, associato al trono, è stato parte del processo di sussunzione e dominio. Quinzio analizza le metamorfosi delle forme di sussunzione. Nei suoi testi la religione ed i valori cristiani sono paradigmi con cui denunciare il capitalismo assoluto: la disumanità come sistema. La responsabilità umana ed il male sono parte integrante della visione cristiana di Quinzio. La responsabilità umana è l’altro volto della kenosi[1], dello svuotamento dell’onnipotenza di Dio, che permette la libertà degli esseri umani e con essa la possibilità del male.
Il giudizio sul capitalismo assoluto non conosce appello: esso è il ribaltamento del bene, imita e perverte la pienezza del bene con il feticismo delle merci. Il consumo onnivoro divora anche il vero eden-bene, lo cancella, lo assimila col fremito immaginifico dell’abbondanza delle merci. Consumare non è un atto neutro: consumare significa annichilire l’essere, fagocitarlo. Consumare significa derealizzare il mondo e la realtà fino alla realizzazione minacciosa ed integrale del nulla. L’onnipotenza del consumo divora la categoria della possibilità, della vita, al suo posto vi è l’unidirezionalità meccanica del gesto esiziale che preannuncia la sua fine:

«Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. È ancora l’idea del regno dei cieli, in un adattamento e in una trasposizione dove ogni aspetto trova il suo corrispondente. Anche il consumare. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Dagli altri vangeli queste parole non sono state tramandate: le riporta solo l’ultimo degli evangelisti, quello al quale è attribuita la rivelazione della fine dei tempi e del giorno del Signore contenuta nell’Apocalisse. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo».[2]

Disincanto
Colui che è nella trappola del consumo, dipende dalle cose, è trainato con violenza da agenti esterni, è il triste complice dell’apocalisse di un intero pianeta. L’accumulo non garantisce la felicità, anzi il consumo è inversamente proporzionale alla felicità: il consumo smodato delude sempre. Il consumatore assoluto, figura antropologica del turbocapitalismo, vive in un clima di perenne conflitto, l’atmosfera relazionale è appestata dalla sfiducia e dalla violenza dei concorrenti. Il consumatore assoluto è sul mercato della violenza, ne è parte, ma non la percepisce, consuma, ma è consumato dal disincanto che il feticismo delle merci gli comunica:

«L’americano Vance Packard proclama allarmato che la continua dilatazione dei consumi, favorita allo scopo di far crescere di pari passo la produzione, non può durare all’infinito, perché si giungerà prima o poi al limite di saturazione, e cioè a una condizione finale di blocco. Questa morte per affogamento nel proprio grasso è la previsione avanzata da insigni cultori della scienza economica e appassionatamente negata, in nome della stessa scienza, da altri esperti non meno illustri, come Walter Heller. Sia come sia, l’apocalisse è molto meno scientifica e molto più radicale. È probabile che esistano infiniti universi di beni da inventare e da produrre – dal momento che la loro utilità non è affatto in gioco – e che abbia quindi ragione la scienza ottimista e torto quella pessimista (sempre che l’ottimismo non sia destinato a ricevere qualche grosso contraccolpo dall’esterno del sistema). Ma la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla fruizione dei singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà».[3]

 

La merce come sostanza prima
La società del consumo ha la sua sostanza prima e perversa: la merce. Ogni ente è posto sulla linea della merce da consumare. La merce è il mitico modello di fondazione a cui tutto eguagliare: gli esseri umani non sono che merce tra le merci, il pianeta è merce da consumare, il globo terrestre è solo un ampio mercato senza significato, tutto procede fatalmente; avendo il sistema fatalmente disperso ogni teleologia e logos, si autoriproduce secondo un perverso movimento:

«Come conseguenza dell’identificazione degli oggetti fra loro – privati di significato e ridotti tutti al minimo denominatore comune dell’essere oggetti – c’è il sussistere di istituti, concetti, prassi, tradizioni, formule che hanno esaurito da molto tempo il loro senso e il loro valore: in quanto liberati dalla necessità di adempiere ad altra funzione che non sia tutta nell’essere oggetti, continuano a vivere, o piuttosto a restare, dal momento che gli oggetti non vivono. Questa insperata salvezza nella comune dannazione è sopraggiunta, per esempio, sulla chiesa cattolica, e i luoghi di culto cristiani – proprio quando il culto è solo per gli oggetti – sono tornati a riempirsi. Perché dove la realtà è consumata non esiste più una possibilità di offrire oggetti senza che vengano automaticamente consumati. Tra queste sopravvivenze, o piuttosto permanenze, di cose svuotate di valore ci sono i princìpi sui quali si regge la società civile, gli ordinamenti e le leggi: poiché la diffusione del benessere e l’avvento della società opulenta discendono in modo quasi esclusivo dall’incremento della produttività determinato dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e cioè dalla messianica possibilità di far tendere la produzione all’infinito e contemporaneamente i costi a zero, princìpi, ordinamenti e leggi sono in realtà impotenti a dirigerne o a mutarne o a modificarne il corso, scongiurandone la minaccia finale». [4]

 

Assimilazione regressiva
La felicità promessa vive nell’illusione di un tempo a venire, nella ripetizione di un ciclo cosmico e pagano, in cui l’attimo presente è pregno della frustrazione di domani, della speranza irriflessa nella magia della merce. Il consumismo integrale con la sua circolarità temporale è una forma di paganesimo, la vita degli esseri umani diviene organica al tempo circolare, diviene parte dei cicli naturali. Il progetto esistenziale e collettivo è sostituito dall’assimilazione regressiva ai cicli temporali. Il consumo produce solo altro consumo, in un circuito di dipendenza senza scampo: i dannati degli ipermercati sono infecondi, perché la felicità è osmosi con il mondo, è relazione biunivoca, mentre la felicità delle merci è sterile, è ripetizione di un atto servile, è impotenza generalizzata venata di violenza acquisitiva:

«È strano che, in una società dinamica come la nostra, l’ideale inseguito sia statico: il benessere, lo star bene, la sazietà soddisfatta e conclusa. Mentre le antiche civiltà statiche proponevano l’ideale aperto della felicità, parola che con femina, fenus, fecundus, fetus deriva da felare (poppare, succhiare), con significato di fecondo, fertile. Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Sembra che gli uomini del benessere subiscano l’imposizione di una identificazione obbligatoria: in qualche oscuro modo la felicità la vogliono, e tutto quello che viene offerto è invece il benessere, che non è una macchina più o meno adatta a produrre la felicità, ma una macchina che sta al posto della felicità, in sua vece. Un uomo che credesse ancora davvero nella possibilità di essere felice non riuscirebbe a concepire neanche l’idea del benessere, la parola stessa non avrebbe per lui nessun senso. Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore». [5]

Le parole e l’ordine del discorso sono un perenne luogo di battaglia. Per avanzare il capitale assoluto deve ridistribuire le parole, modificarne il significato, sottrarre significati per impedire che le parole possano essere veicolo di alternative. La storia e la filosofia sono anch’esse ridimensionate e disposte nell’ottica del trionfo del liberalismo e della fine della storia: oltre il presente non vi è nulla, la gabbia d’acciaio è totalità sostanziale. La religione è tollerata solo come servizio di assistenza. La parola felicità (dal latino “femina”), che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione, con la tracotanza dell’avere che costruisce barriere, atomizza, isola e rende il capitalismo assoluto fonte di verità e di affermazione indiscussa. Il postulato del consumare non è mai messo in discussione, è il dogma a cui ci si inchina a prescindere dalla posizione che si occupa nel modo di produzione. Si è così avvinti da forze che non lasciano scampo e che esigono il continuo olocausto di sé (holòkaustos, “bruciato interamente”), del mondo, in un bruciare che non è sono metaforico:

«La società del benessere non ha niente in comune con una società che si proponga di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini, è tutt’altra cosa. Nasce dal postulato che non esista altra realtà al di fuori della produzione e del consumo, che non esista altro significato al di fuori del disporre di moltissimi oggetti. Importanti sono gli oggetti in sé e per sé, in quanto feticci: gli stessi bisogni cadono quindi nell’ombra e non si sa neppure più cosa siano. Al benessere non si può sovrapporre la moralità, perché le idee non sono comunque sovrapponibili e reciprocamente penetrabili. La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica, e che ubbidisce quindi alla sua logica interna deducendone automaticamente una sua morale, l’unica che non la contraddica: la morale dell’efficienza e del suo successo messa in luce da Max Weber. Non si può fondere il bisogno di felicità naturale dei secoli pagani, la morale cristiana, il moderno stato di diritto, le tecniche produttivistiche contemporanee, e risolvere così un problema di scelta scegliendo tutto insieme. Di veramente caratteristico, nell’attuale società, c’è infatti il rifiuto delle scelte, che è stato battezzato civiltà pluralistica o del dialogo o, precisamente, del benessere. Questo tipo di società sceglie, di fatto, il benessere; ma è una strana scelta, perché il benessere implica l’accettazione indifferenziata di tutte le cose e di tutte le idee. Il presupposto implicito è che, non valendo nessun criterio di preferenza, il risultato auspicabile e necessario può aversi solo mediante l’incremento quantitativo». [6]

 

Produttivismo indifferenziato
La critica di Sergio Quinzio si fa rilevante, coglie nelle alternative apparse nella storia del Novecento lo stesso male: la produzione senza misura. La storia non è stata maestra di vita, ha riprodotto lo stesso schema in contesti diversi: il produttivismo, il saccheggio, la sussunzione dei dominatori che in gioco di cambi di maschere ideologiche sono la riproposizione dello stesso tragico problema, ovvero il tentativo programmatico di negare il limite, la misura per l’onnipotenza della produzione. L’economicismo è dunque la cifra della modernità, l’alternativa non può che iniziare dal mettere il discussione la sacralità dell’economia. Marx, con il Capitale, ha teorizzato l’uscita dal paradigma dell’economia; il Vangelo ha parole lapalissiane verso la proprietà privata e la cattiva distribuzione dei beni, al punto che la Chiesa è stata l’istituzione che ne ha impedito la lettura rivoluzionaria:

«Ma il tragico è che non si vede che cosa si debba o si possa scegliere al di fuori del benessere che occupa tutto l’orizzonte, che sembra assorbire tutta la realtà. Il benessere, per esempio, ha deglutito tutto il movimento operaio, declassandolo da fatto capovolgente a fatto correttivo. Il guasto più profondo sta nell’incapacità di concepire scelte veramente alternative. Dal vangelo alla rivoluzione francese, dal socialismo alla società opulenta, dai testi eruditi ai fumetti c’è ormai un unico schieramento che incarna per definizione la civiltà e il progresso, la cui compattezza, essendo fondata sul benessere, è garantita dalla rinuncia a qualsiasi verità e insidiata soltanto dai conflitti di interessi istituzionalizzati. Di quanto si è allargata spazialmente la libertà formale, di tanto è diventata pesante e paralizzante l’illibertà sostanziale, coincidente con la preclusione di qualunque alternativa e speranza. L’accettazione del sistema è obbligata, e diventa perciò inutile qualunque riserva, qualunque protesta, qualunque accusa». [7]

La poietica (dal gr. poiētikós, der. di póiēsis “produzione”) è il nuovo fascismo della quantità: l’io desiderante è solo l’epifenomeno del mercato, che attraverso il condizionamento dei mezzi mediatici sostituisce l’io con una finzione dello stesso, con l’io minimo organico al mercato. Individualismo astratto che idolatra i consumi personali per astrarsi ed estraniarsi dalla cura del mondo.

 

Verità e tolleranza
Consumare significa finire: il fine è sostituire la verità con l’indifferenza e rappresentare quest’ultima per tolleranza ed inclusione. Senza verità, il soggetto non ha più bisogni profondi, non parla con se stesso, è straniero a se stesso, il nulla avanza e rende l’io disabitato:

«Un altro infine, che funzionava spaventosamente bene ancora ieri, è già quasi del tutto seccato: convogliava l’intransigenza e l’intolleranza, il poco e il corrotto, cioè, che era rimasto della fede nella verità assoluta. L’indifferenza per la verità ha prodotto la tolleranza. Resta ancora qualche sedimento d’intolleranza, defluito dal piano delle fedi e poi delle idee a quello degli interessi personali contingenti, ma stiamo per diventare tutti opulenti e presto non avremo più né bisogni né interessi. Allora, nel nulla, non ci saranno attriti». [8]

Conclusione
L’analisi di Sergio Quinzio è un appello all’agire e alla responsabilità umana che devono emanciparsi dal male, dall’eccedenza della sofferenza. L’essere umano non si salva da solo, ma è vocato alla responsabilità storica nel suo tendere verso la fine dei tempi. Il cristianesimo di Quinzio è una forma di umanesimo, poiché la fede non deresponsabilizza, e dinanzi allo svuotamento di Dio, al male che irrompe nella storia con l’inquietante consumo dell’essere e dell’esserci, l’umanità deve testimoniare che un altro modo di vivere è possibile.

La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità. La comune critica da posizioni diverse contribuisce a chiarire la condizione storica presente. La fatica del concetto vive nella relazione tra identità, differenze. La critica è il lievito della prassi, la prepara, ne affina la consapevolezza. La complessità della globalizzazione necessita di più voci per essere compresa e per rispondere alle contraddizioni che la attraversano fatalmente. Il capitalismo contemporaneo si struttura e consolida nell’esproprio non solo dei beni comuni, ma, specialmente, nel rendere – mediante la pratica del consumo – gli esseri umani infantili, persone che non pongono il problema del senso e del limite. Pertanto oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto, per poterle dominare:

«Più semplicemente: il capitale oggi non mira tanto ad alienare/estraniare cercando di imporre uno specifico modo, una determinata forma di vita, ma impedendo ogni cristallizzazione di un modo, ogni strutturazione di una forma di vita. Mira a lasciarci infanti, a non farci mai crescere, non vuole narrare una storia o impedirne la narrazione ma gettarci in un’apocalisse permanente. Non serve più distruggere un mondo, una storia, una cultura, una tradizione, se riesci a far sì che non possa mai costruirsene una, che il tempo non riesca mai a solidificarsi, che la tendenza non riesca mai a istituirsi, mettendo le mani sulla capacità di costruire, sulla facoltà di solidificare, sulla potenzialità di istituire. A che serve intaccare una qualche realizzazione e configurazione di “famiglia”, “stato”, “nazione”, “comunità”, “personalità”, “felicità”, se riesci a impedire che possa mai emergere un qualsiasi coagulo? A che serve radere al suolo tutto ciò che è stato edificato se riesci a impedire che possa più edificarsi qualcosa andando a distruggere giorno per giorno il cantiere aperto per riaprirne uno subito dopo? A che serve cucirti addosso una nicchia o una gabbia (fosse anche dorata), quando basta renderti un migrante senza fissa dimora? A che serve impedirti di fare questo o costringerti a fare quest’altro quando basta bombardarti di stimoli, di possibilità e di informazioni impedendoti così di strutturare qualsiasi atto, di articolare qualsiasi risposta, di tradurli in una qualche azione? Per tenerti fermo è più facile sollecitarti in infiniti modi che non impedirti un qualche movimento o richiedertene qualche altro». [9]

 

Dinanzi alla tragedia del presente è necessario l’ascolto di tutte le voci dissenzienti per rimettere in cammino le comunità.

Salvatore Bravo

***

[1] Kenosi parola greca da κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi” o “chenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”.
[2] Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi eBook, 2014.
[3] Ibidem, p. 12.
[4] Ibidem, p. 13.
[5] Ibidem, p. 14.
[6] Ibidem, pp. 15-16.
[7] Ibidem, p. 16.
[8] Ibidem, p. 24.
[9] Giacomo Pezzano, Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 87.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fabrizio Marchi – Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta. Il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere

Fabrizio Marchi
Il capitalismo in quanto nichilista è flessibile,
si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere

di S. Bravo

***

Il testo di Fabrizio Marchi, Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta, scompagina stereotipi e dogmatismi del nostro tempo. Il progresso e l’illuminismo sono la religione non riconosciuta dell’Occidente. Lo scientismo laicista, epifenomeno dell’illuminismo, ha fondato la religione della merce, poiché ha eroso ogni fondamento veritativo fino al trionfo del capitalismo e della mercificazione assoluta. Affinché la merce possa capillarmente diffondersi è necessario rimuovere ogni limite, per cui dietro la retorica dei diritti civili non si cela che il cannoneggiamento del capitale che rimuove ogni comunità, ogni identità e tradizione. Il capitalismo laicistizzato[1] ha raggiunto l’apogeo della sua espansione e della colonizzazione delle menti. La mercificazione totale necessita di essere puntellata da miti (femminismo, teoria gender, laicismo, diritti civili senza diritti sociali) che risultano essere i dogmi della liturgia del capitale. Non vi è nel testo di Fabrizio Marchi nostalgia per il passato, ma la passione per la verità che necessita di sottoporre a critica costruttiva i dogmi di una società che proclama la libertà e l’emancipazione e nello stesso tempo impedisce la dialettica e la discussione su se stessa. Discutere dei miti dell’Occidente, oggi, è praticamente impossibile; l’Occidente proclama la morte delle ideologie per nascondere il trionfo dell’ideologia della merce: con tale operazione il capitale si ritrae da ogni confronto dialettico. Il progresso è tale se non si trasforma in mito fondativo, per cui tra le pieghe delle merci riemergono nuovi fascismi[2], in forme che bisogna imparare a riconoscere. Il fascismo non ha più la forma del ventennio e del franchismo, ma ricompare e si struttura nel dogma dell’emancipazione, nell’eliminazione e rimozione del maschile, in quanto archetipo del limite, nel disprezzo verso la famiglia tradizionale, la quale è realmente, malgrado i suoi umani limiti, un baluardo contro la mercificazione. Non si tratta di essere ostili alle “famiglie plurali”, ma se si concentra l’attenzione e si inneggia solo alle famiglie liquide o non tradizionali, è palese che le famiglie arcobaleno sono la testa d’ariete con cui il capitale attacca ogni spazio sociale ed affettivo liberato dai processi di mercificazione. Le relazioni liquide ed instabili educano al consumo[3], allo scambio veloce, ed oggi tali rapporti sono additati come esempio di massima ed indiscutibile libertà, perché confermano il valore di scambio. Il progresso deregolamentato giustifica l’utero in affitto come conquista rivoluzionaria, esso in realtà è l’espressione massima della mercificazione della vita e della negazione all’identità. Fabrizio Marchi porta il lettore a considerare il punto di vista del bambino: si immagini i sentimenti ed il dramma di un bimbo che sa di essere stato il prodotto di un contratto tra venditrice e compratore[4].

Un nuovo sguardo sul mondo
Lo sguardo noetico e noematico sul mondo ci deve invece indurre a stimare positivamente le resistenze al capitale. Si può essere atei, come afferma di essere Fabrizio Marchi, e ciò malgrado avere stima della religione e della spiritualità, poiché ad esse Marchi riconosce il merito di porre al centro la comunità e specialmente ci si può ritrovare sulle domande profonde sulla vita, pur non condividendo le risposte. Non ci si può approcciare alla religione secondo schemi marxiani, in quanto è mutato il contesto, per cui bisogna imparare a giudicare in modo critico, non applicando formule stantie, ma valutando i mutamenti strutturali e sovrastrutturali. Anche la libertà erotica è un dogma dell’Occidente, le donne liberate dal giogo maschile in realtà, non vivono una sessualità liberata, ma mercificata, le donne appaiono libere e disinibite, ma in realtà usano il loro corpo per sedurre e fare carriera. E’ una sessualità legata all’utile, per cui anche dietro questo mito vi è l’azione alienante del capitale[5]. Il femminismo ha la sua genetica all’interno del capitale, esso prepara la liberazione colpevolizzando il maschio al fine di scardinare ogni limite alla circolazione della merce. La sessualità divenuta merce di scambio, simbolo della libertà, insegna il cinismo dell’utile e l’atomismo sociale. La sessualità liberata, invece, dev’essere emancipata da carrierismi, narcisismo e logoramento dell’utile. Per poter rifondare una nuova sinistra comunista è indispensabile passare attraverso dogmi e recinti ideologici, in cui la sinistra si è chiusa con l’effetto di essere diventata organica al sistema capitale. Quest’ultimo è colto da Fabrizio Marchi nella sua verità, ovvero il capitalismo in quanto nichilista è flessibile, si adatta ad ogni contesto pur di sopravvivere[6]:

“Se la storia ci ha dimostrato qualcosa, è che il capitalismo è un sistema (rapporto di produzione) e un’ideologia (accumulazione illimitata del capitale e forma merce elevata a feticcio e oggi “assolutizzata”, cioè capace di occupare ogni spazio non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso) estremamente flessibile, in grado di coniugarsi, come dicevo, con qualsiasi contesto storico e culturale”.

Su queste parole dovremmo riflettere, per imparare a decodificare le metamorfosi del capitalismo. Si deve aumentare notevolmente la capacità qualitativa di filtraggio delle metamorfosi del capitale per congedarci da esso ed il testo di Marchi, in tal senso, è un valido ausilio critico.

Salvatore Bravo

***

[1] Fabrizio Marchi, Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta, Zambon, 2018, pag. 155.
[2] Ibidem, pag. 143.
[3] Ibidem, pag. 168.
[4] Ibidem, pag. 172.
[5] Ibidem, pag. 226.
[6] Ibidem, pag. 147.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Alessandro Dignös – Il saggio di Arianna Fermani «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». Un’indagine sul carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza» a partire dallo studio del pensiero etico di Platone e di Aristotele

Arianna Fermani, speranza Dignoes
Arianna Fermani

«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös
Il saggio di Arianna Fermani Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.
Un’indagine sul carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza»
a partire dallo studio del pensiero etico di Platone e di Aristotele

Il presente studio di Arianna Fermani, dal titolo eracliteo Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato, si propone di fare luce sull’essenza di quella particolare “realtà” che è costituita dalla «speranza», a partire dal riconoscimento che la nozione di «speranza» che domina il senso comune appare incapace di cogliere la complessità dei significati che tale termine racchiude. Se, infatti, si riflette sul modo in cui la «speranza» è generalmente descritta, è possibile osservare come essa venga quasi sempre identificata con un «sogno ad occhi aperti» (p. 7), ossia con qualcosa che intrattiene un nesso indissolubile con la dimensione desiderativa. Questa visione di tale realtà non è falsa ma, rimarca la studiosa, è vera soltanto in parte, giacché si fonda sul presupposto che essa rappresenti una sorta di “sottoinsieme” dell’“elemento” «desiderio», da cui soltanto può essere compresa e spiegata. L’obiettivo del presente saggio è quello di chiarire come la «speranza» non abbia solamente a che fare con la sfera “sentimentale”, poiché è caratterizzata da un altro aspetto essenziale, in virtù del quale essa viene ad assumere un significato diverso da quello il senso comune è solito attribuirle.

L’analisi di Fermani sulla «speranza» è condotta attraverso un vero e proprio “dialogo” con Platone ed Aristotele, grazie ai quali, secondo l’autrice, è possibile cercare di dare risposta alla domanda «che cos’è la speranza?» (Ibidem). Il punto di partenza e il filo conduttore di questo studio è, in ogni caso, costituito dalla ricostruzione e dall’analisi del significato etimologico delle parole connesse alla «speranza» – un’operazione che, per la studiosa, non è sterile o semplicemente erudita, poiché «ogni lavoro sulla parole implica una immersione in profondità e un cambio di prospettiva» (Ibidem). Ciò che si deve fare, al fine di fare luce sull’essenza di tale realtà, è quindi esaminare i diversi termini cui essa è legata, interrogando coloro che, per primi, hanno colto il carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza», mostrando come essa rappresenti l’anima di ogni autentica progettualità.

Fermani evidenzia come il termine ἐλπίς, con cui i Greci indicano la «speranza», si connetta al verbo greco ἐλπίζω, «la cui radice elp corrisponde alla radice latina vel, da cui “volere”» (p. 8). Come rivela l’analisi etimologica, l’elemento del «desiderio» non è solo accostabile alla «speranza», ma coincide con uno dei suoi tratti costitutivi. La «speranza» si caratterizza come un’autentica «aspirazione» o «tensione» verso qualcosa o, più precisamente, verso «qualcosa che non c’è o che non c’è ancora» (p. 10), configurandosi in questo modo come quel «desiderio» «che ci fa muovere» e «ci spinge e ci apre al futuro» (Ibidem). Alla luce di ciò, è evidente che in questo πάθος non vi è alcunché di “passivo”: al contrario, si tratta di un sentimento che ci sottrae al dominio di ciò che è semplicemente presente, impedendoci di assumere i tratti di una «semplice-presenza». In questo senso, la «speranza» è un desiderio che, mirando a portarci “oltre” ciò che appare assolutamente necessario e determinato, fa appello non tanto alla ragione quanto all’immaginazione (φαντασία): come rivela Aristotele, ciò che muove e orienta gli uomini all’azione, e dunque in direzione del futuro, è il desiderio, non il λόγος.

Facendo leva sulla nostra capacità immaginativa, la «speranza» ci induce a vedere la realtà non più in termini di “necessità”, bensì di “possibilità”, mostrando come il futuro sia costitutivamente aperto a scenari radicalmente diversi da quello che domina il nostro presente. È questa la ragione per cui genera piacere: essa «rappresenta una spinta verso il meglio» che «ci porta via da una situazione spiacevole, ci allontana da un vuoto, da una mancanza» (p. 12), trasportandoci, sia pur solo momentaneamente e attraverso l’immaginazione, in un “altrove” migliore. La «speranza», dunque, ha a che fare sia con il dolore sia con il piacere: infatti, «da un lato essa è connessa al dolore per la mancanza e, dall’altra, è connessa al piacere in virtù della sua spinta verso il meglio» (Ibidem).

Ad ogni modo, il fatto di configurarsi come il desiderio di ciò che è ora assente rende la «speranza» anche qualcosa di pericoloso: se, infatti, essa viene riposta in cose che, in realtà, sono prive di fondamento, va da sé che essa non assume l’aspetto di qualcosa che ci dà sollievo e serenità, bensì di un’illusione o autoinganno che ci induce in errore e procura sofferenza. In altri termini, se la «speranza» è infondata, essa «può farci perdere il contatto con la realtà o […] può farcela percepire in modo scorretto» (p. 14), rendendoci passivi e schiavi di un’idea che ci impedisce di gettare «un ponte verso un futuro migliore» (Ibidem). In questo caso, «in ragione di una sua scorretta gestione» (p. 15), la «speranza» si connette al vizio, poiché è causa di infelicità. Tutto ciò, rileva Fermani, è ben spiegato sia da Platone – che, nel Filebo, associa le “speranze insensate” a vizio e a scarsa intelligenza – sia da Aristotele – il quale, nella Retorica, sostiene che nessuno delibera su “cose senza speranza”.

In senso proprio, la «speranza» coincide con una tensione o aspirazione che, chiamando in causa la nostra immaginazione e fondandosi su ciò che è autenticamente possibile, ci conduce a dare un (nuovo) senso all’esistenza. Essa, se bene intesa, non è causa di sofferenza e passività giacché, come emerge dalle opere di Platone ed Aristotele, ha l’aspetto di una buona disposizione interiore, in virtù della quale l’uomo è spinto non solo ad agire ma, più precisamente, ad agire virtuosamente. «In questo caso», osserva la studiosa, «il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto» (p. 18). La «speranza» si caratterizza così come una virtù che rende possibile e accompagna altre virtù, prima tra tutte il «coraggio». Si tratta pertanto di un’autentica “passione attiva” o “attività” che mobilita il nostro λόγος in direzione di ciò che è bene, dandoci «lo slancio per affrontare le numerose sfide che la vita ci pone di fronte. E ogni sfida», ricorda Fermani, «implica inevitabilmente il rischio» (p. 19).

Proprio la sua intima relazione con il rischio mostra che la «speranza» è «intimamente collegata anche alla consapevolezza del limite» (p. 20), ossia alla consapevolezza del fatto che tutti noi, in quanto uomini, siamo enti essenzialmente «finiti». In questo senso, la «speranza» rivela anche la propria funzione positiva e “paideutica”: essa ci insegna e ci rammenta che la nostra essenza risiede nel «limite», e dunque che, se vogliamo essere felici, ciò che dobbiamo fare è “seguire la via della «misura»” e «non desiderare cose impossibili» (Chilone di Sparta). Alla luce di ciò, per Fermani si può dire che «il soggetto agente spera solo se assume il suo limite, solo se abita con consapevolezza il suo essere costitutivamente esposto e manchevole». La «speranza», lungi dall’essere un invito alla rinuncia, è invece un’«apertura» che «si contrappone alla chiusura prodotta dalla paura» (p. 21) e alla «presunzione», cioè al disconoscimento della “limitatezza” della realtà umana. Essa rappresenta «il fondamento della nostra felicità, della felicità “umana”, ovvero di quel “capolavoro” che a noi progettare, fondendo ogni volta ragione e desiderio, con impegno, con costanza e tenacia» (p. 22).

Preziose indicazioni, in questa direzione, sono offerte ancora una volta dall’analisi etimologica. Se consideriamo la radice latina del termine «speranza», spes, possiamo osservare che essa «raccoglie entrambe le matrici della speranza, ovvero […] la speranza come desiderio e la speranza come virtù» (p. 27). Si tratta, infatti, di un termine la cui radice «può essere […] rintracciata nel verbo greco σπεύδω e nel sostantivo σπουδή», che significano rispettivamente «“affrettare”, “sollecitare”, […] “aspirare a”, “affaccendarsi”, “adoperarsi”, “ingegnarsi”», e «“sollecitudine”, “diligenza”, “cura”, “fatica”, “sforzo”, ma anche “aspirazione”» (Ibidem). Le origini della parola «speranza» rivelano in tal modo come essa non implichi soltanto l’atto di “desiderare” ed “aspirare a” qualcosa, ma anche quello di “attivarsi” ed “impegnarsi” concretamente, affinché ciò che desideriamo possa realizzarsi.

In questa prospettiva, «sperare» non equivale dunque a dissociarsi dalla realtà e ad illudersi ma, al contrario, a protendersi verso l’avvenire, accettando i limiti che ci definiscono, da un lato, e, d’altro lato, i rischi cui, per la stessa condizione umana, siamo perennemente esposti. Solo assumendo tali rischi è possibile immaginare un futuro migliore e «costruire nuovi scenari» (p. 23). La «speranza» si fonda sull’idea che lo scenario in cui agiamo non sia il solo possibile e, dunque, sull’idea che ciò con cui entriamo in relazione possa essere cambiato e migliorato. Senza «speranza» non può esservi alcuna progettualità: ogni vera progettualità, come ogni forma di παιδεία o Bildung, si fonda infatti sul riconoscimento che il “regno delle cose umane” non sia un orizzonte stabile e immutabile, bensì qualcosa che può essere trasformato dalla prassi umana. Nessun uomo sarebbe indotto a ri-pensare la realtà e a modificare lo stato di cose presenti, se non fosse animato dalla «speranza» che le cose possano essere migliori. La «speranza» è propriamente ciò «che ci permette di volere un mondo diverso e che ci dà la forza di cambiarlo» (p. 27). «L’invito a coltivare la speranza rappresenta, in conclusione, l’invito a non smettere mai di guardare oltre e di “volare alto”» (p. 28).

Il saggio di Arianna Fermani ha il merito di indurci a ripensare radicalmente l’idea di «speranza», mostrando come la concezione ordinaria della «speranza» sia non solo limitata ma, proprio per ciò, foriera di fraintendimenti. Dal “dialogo” tra la studiosa e Platone ed Aristotele – cui si uniscono, qua e là, le “voci” di Chilone, Agostino, Tommaso, Leopardi e naturalmente, in sottofondo, quella di Eraclito – emerge come la speranza si configuri sia come un «desiderio» che ci spinge all’azione, sia come una «virtù» da cui ha origine la buona azione. La «speranza» non è dunque un sentimento che riguarda un particolare ambito della vita, né una forza irrazionale che, legandoci al presente, ci rende passivi e sofferenti: al contrario, si tratta di una qualità inscritta nell’essenza stessa dell’uomo come «essere progettuale». Appartiene alla natura umana il fatto di desiderare (πάθος) ciò che è buono e pensare (λόγος) al modo in cui esso può essere realizzato. Ogni progetto umano presuppone l’idea che un avvenire migliore sia possibile. La «speranza» rappresenta il disvelamento di tale possibilità.

Alessandro Dignös

 


Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»
Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.
Alessandro Dignös – Il saggio «L’ultimo uomo» di Salvatore A. Bravo. Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo».

Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Tommaso Demaria (1908-1996) – Il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano la buona vita e le buone azioni umane, o almeno il canale indispensabile per tale linfa.

Tommaso Demaria, metafisica e comunitarismo
Salvatore Bravo

Metafisica e comunitarismo


Il problema del vivere e dell’agire umano oggi,
nonché il problema delle grandi azioni collettive,
sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo.
Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere
la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano
la buona vita e le buone azioni umane,
o almeno il canale indispensabile per tale linfa.


Tommaso Demaria è stato un comunitarista cattolico. Il pensiero metafisico, e come tale antinichilistico, è osteggiato in ogni sua forma filosofica. L’ostracismo di cui sono oggetto gli autori la cui ricerca è spesa nella rifondazione della metafisica, svela la verità del capitalismo ed il suo nichilismo ideologico e dogmatico. L’ostilità bellicosa contro la metafisica è assoluta. Per il capitalismo si tratta di un nemico e, pertanto, non vi sono espressioni metafisiche maggiormente tollerate rispetto ad altre: ogni fondazione veritativa è osteggiata in quanto antitetica al relativismo del capitalismo. La metafisica fonda la verità, delimita dei confini concettuali per discernere il bene dal male. Il capitalismo ha la sua verità nel nichilismo, e nella dismisura, pertanto non può tollerare limiti e confini, perché dove vi è verità necessariamente l’essere umano riconosce razionalmente, o in modo intuitivo, la presenza di confini e con essi la possibilità di progetti alternativi. La censura cade come una mannaia ideologica sui pensatori metafisici, formalmente tollerati, nei fatti sospinti al silenzio.
L’ostilità mediatica contro la metafisica comporta l’inevitabile marginalità culturale. La verità è la prima vittima della struttura economica del capitalismo che, per proliferare, necessita dell’assenza di ogni fondamento veritativo, divorando ogni confine, attaccando ogni limite geografico ed etico pur di sopravvivere. Il capitalismo assoluto non conosce altra legge che il profitto «è il dito di dio (il mercato) della contemporaneità». Non vi è più civiltà, in tal modo, ma solo mercato.
Il capitale non è “fenomeno esterno”, ma interno: governa la mente dei popoli. Riconoscerlo significa identificare la sua presenza nel modo di pensare, nel linguaggio, nell’agire di ciascuno. Emanciparsi dal nichilismo capitalistico significa confrontarsi con se stessi, riconoscerne la presenza. Senza tale attività interiore ogni progetto è inutile, ogni resistenza mostra la propria incoerenza.
Nulla è più osteggiato dei concetti come “bene”, “universale”, “vincoli etici”. Al loro posto vi è il termine “giustizia” utilizzato in modo ideologico. Si tratta di giustizia senza “bene”, e pertanto limitata alla meritocrazia conseguente la competizione. Giustizia astratta e formale, priva di concretezza e fondamento ontologico. La giustizia senza fondamento è semplicemente ridotta ad una formale distribuzione dei beni secondo “l’ordine del merito” coniugato allo sviluppo intensivo dell’economia. In tal modo si procede ad instaurare un’organizzazione sociale senza progetto. Il “bene” non solo comunica significato teoretico alla giustizia, ma stabilisce gerarchie assiologiche. Senza il “bene” non vi può essere vita buona, non vi è comunità e specialmente non vi è storia. La giustizia formale dei diritti individuali non intacca le contraddizioni, ma le consolida, le naturalizza e riduce la vita ad «ente statico», a solo corpo senza storia.

L’ente statico
L’essere umano è dominato da un sistema organizzativo che nega la progettualità e riduce la vita di ciascuno a “semplice cranio” senza relazione. L’ente statico è l’essere umano ridotto a sola natura, e dunque astratto dalla storia. Il capitalismo assoluto destoricizza per potersi naturalizzare ed eternizzare. Gli esseri umani sono indotti ad autorappresentarsi come “pura biologia” senza storia vissuta, in tal modo il regno del capitale governa sovrano. il soggetto si ripiega su se stesso e non vi è storia in un mondo di soli corpi:

«L’ente statico quindi viene così chiamato, non per altro che per questo: perché appunto, per creazione divina o per produzione e generazione naturale, vien posto all’esistenza come ente già bell’e fatto. Ciò non impedisce che l’ente statico esistenzialmente appaia come un ente magari attivissimo e con una fenomenologia in continuo movimento anche come crescita, dando luogo ad una apparente contraddizione in termini: quella precisamente di un ente statico che agisce, si muove e forse cresce. Ma bisogna tener conto del significato tecnico della parola, superandone il significato volgare ed empirico corrente, che per quanto tale non ha diritto al monopolio lessicale. E nel significato tecnico da noi stabilito, per una ragione metafisica che andrà man mano chiarendosi, lo statico, ripetiamo, non nega affatto né l’attivismo né il movimento. Nega soltanto l’ente in costruzione, affermando che l’ente statico è già bell’e fatto fin dal primo istante della sua esistenza. L’ente statico così inteso viene a coincidere con l’ente di primo grado, sì che i due diventino sinonimi. Ambedue infatti corrispondono e qualificano l’ente in natura rerum, sia pure con sfumature diverse. L’ente statico qualifica l’ente in natura rerum come essere (e conseguentemente anche – lo vedremo fra breve – come essenza); l’ente di primo grado invece lo qualifica geneticamente, nel senso che lo pone come ente “primogenito” rispetto all’ente di secondo grado, che metafisicamente è sempre un “secondogenito”. Ciò posto, sarà facile controllare la verità dell’ente statico come da noi concepito, guardando alla natura rerum. Qualsiasi pianta od animale sarà ente statico non perché fisicamente o fenomenicamente sia immobile, ma semplicemente perché, fin dal primo istante della propria esistenza, piante ed animali sono già quel dato essere completo, bell’e fatto. Un bambino, un gatto, un cane, una pianta qualsiasi, nascono già possedendo il loro essere, specificamente completo e inconfondibile. Nascono col loro essere già bell’e fatto. In una parola, metafisicamente sono enti statici, nonostante l’attivismo e la molteplice fenomenologia in movimento che li accompagna».[1]

L’ente statico vive fuori della storia, è astratto, sradicato dalla comunità, la quale non è luogo neutro, ma è radicamento nel linguaggio, nella tradizione storico-filosofica e specialmente nella responsabilità. Entrare nella storia significa schierarsi, situarsi in una posizione ideologica e progettuale. L’ente statico, in quanto passivo dinanzi agli eventi storici, inevitabilmente diviene il suddito fedele dei falsi assoluti che appaiono e scompaiono dal suo orizzonte vitale. Ogni ideologia che riduce l’essere umano ad “ente statico”, ne lede la verità che lo sostanzia. L’essere umano, cioè, è un ente che non può essere limitato al semplice corpo: diventa umano entrando nella storia e radicandosi responsabilmente in un progetto comune.

L’ente dinamico
L’ente dinamico, dunque, è l’essere umano che completa se stesso e la sua natura (ente statico) entrando nella storia, dove incontra la comunità viva. L’ente statico assume valore solo se integrato nell’ente dinamico. Il corpo vissuto partecipa alla costruzione della storia, diventa concreto integrandosi con l’ente statico; diviene, così, veicolo di relazioni e storia, altrimenti è solo «nuda vita»:

«Ne segue un completamento del panorama dell’essere e dello sviluppo della sua relativa metafisica. E ciò, fin dall’inizio dell’Ontologia, senza discontinuità e senza disorientamenti, senza contraddizioni o rinnegamenti, poiché si tratta di un puro adeguarsi realistico al significato e al quadro effettivo dell’essere, che è insieme ente statico ed ente dinamico. Ed è tale, ci sia lecito ripeterlo ancora una volta, non a titolo di una qualsiasi estrosità soggettiva, ma per suggerimento del dato di esperienza, e per una imprescindibile esigenza della cultura e della vita di oggi, sulla linea dell’integrazione teoretica e della indispensabile apertura pratica dello stesso sistema realistico. Si tratta infatti, sul piano pratico, in continuità e in sintonia con un rinnovamento cristiano del mondo che rimane l’unica vera rivoluzione, di adeguarsi alla più grande rivoluzione storica in atto, che è quella del passaggio dall’homo faber (semplice artigiano) alla umanità costruttiva della nostra civiltà industriale. Ciò che esige, sul piano teoretico, l’integrazione dinamica dello statico, a cominciare da quella integrazione radicale, l’unica veramente decisiva, che consiste nella integrazione ontologica. Integrazione dinamica dello statico, diciamo; e non rifiuto di esso. Il dinamico non è rifiuto dello statico. Al contrario, ne è una postulazione e rivalorizzazione. L’ente di secondo grado non può né esistere né avere un senso, senza l’ente di primo grado e la sua indispensabile premessa metafisica. L’autentico rapporto tra statico e dinamico, quindi, sia detto una volta per sempre, rimane quello della reciproca postulazione, solidarietà ed integrazione, sia teoretica che pratica. Il che si rifletterà necessariamente anche sulla tradizione, che nella dialettica dell’ente dinamico, non solo non può venir rifiutata, ma deve essere accolta rianimata, decisamente rivalorizzata, e dinamicamente rilanciata. La tradizione non è l’essere, ma interpretazione dell’essere. Il suo rilancio implica quindi il passaggio dall’ente statico all’ente dinamico. Senza tale passaggio muore la tradizione, e si blocca la costruzione».[2]

 

Dinontorganico
Tommaso Demaria utilizza il termine dinontorganico (Dinamico, ontologico, organico): significa che la Realtà Storica è costruita dal libero agire degli uomini. L’essere umano è concreto, perché si umanizza nella storia, nella quale realizza la sua verità profonda: è parte di un tutto, per cui il suo agire storico è comunitario, e si storicizza in istituzioni, comunità e modelli economici nei quali realizza “creativamente” la sua essenza di essere concreto e libero. La verità, in questo modo, fonda la giustizia.

Tommaso Demaria, come di molti studiosi metafisici (Costanzo Preve,[3] Massimo Bontempelli[4]), ha testimoniato con coerenza la necessità di una rifondazione metafisica e comunitaria del pensiero senza la quale l’essere umano è solo quantità, e dunque oggetto di “cattivi infiniti”. Il filosofo deve entrare nella storia per vivere e pensare i problemi che essa pone, deve dimostrare “concretezza”, altrimenti è solo servo del potere e tradisce la sua vocazione politica ed etica:

«La realtà storica è una realtà viva, impegnata nell’azione e impregnata di azione, che addirittura si risolve in una costruzione del mondo. Niente di meno invitante ad una speculazione metafisica pura, inerte, sganciata dalla pratica, per non dire evasione, talvolta, da ogni impegno e funzionalità pratica. A costo di ripeterci, diciamo ancora una volta che ci interessiamo della metafisica della realtà storica non già per una tendenza alla contemplazione pura o per un istinto di evasione dalla pratica, tacitando se mai la propria coscienza di fronte al dovere operativo, col pensiero che ogni idea si riflette, sia pur mediatamente e remotamente, nell’azione. Il motivo del nostro interesse, e del nostro passaggio dalla realtà storica alla sua metafisica anziché ad un impegno pratico immediato, è proprio l’opposto: è indettato dalle esigenze del problema operativo, e nient’altro. Il motivo del nostro interesse nasce dalla convinzione che il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, tanto sul piano naturale che soprannaturale, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Essi affondano le loro radici appunto nel problema metafisico della realtà storica. E soltanto dalla giusta soluzione di questo possono ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano, o almeno il canale indispensabile per tale linfa».[5]

 

Il comunitarismo cattolico di Demaria ha molti punti di contatti con i comunitaristi italiani e con gli studiosi che silenziosamente ricercano per fondare una nuova metafisica (Luca Grecchi, con la sua metafisica umanistica,[6] ne è un esempio) pone problemi che non possono essere elusi, perché sono l’urgenza della contemporaneità.

Salvatore Bravo

***

[1] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, vol. I, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, p. 45.

[2] Ibidem, p. 60.

[3] Cfr. Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006; Costanzo Preve, Lettera sull’umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012. Cfr. anche: Salvatore Bravo, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2019.

[4] Cfr. Salvatore Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

[5] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, op. cit., pp. 19-20.

[6] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2018.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera a Marcus Herz: «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».

Immanuel Kant, lettera a Marcus Herz

Lettera di Kant a Marcus Herz (Inizi di Aprile 1778)

Mio prezioso amico, amico scelto, lettere come quelle che ricevo da te mi trasportano in uno stato emotivo che ingentilisce la mia vita, esattamente come vorrei che la vita ne fosse ingentilita, quasi fosse una sorta di assaggio di un’altra vita. Questo avverto nel momento in cui, se le mie speranze non sono vane, intravedo nella tua anima onesta e grata una prova rincuorante che l’obiettivo dominante della mia vita accademica, che ho sempre presente nella mia mente, non è stato perseguito invano: parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili. Tuttavia, questo mio piacere si tinge di una certa nota di malinconia, se considero che davanti a me si aprirebbe un’arena molto più vasta in cui promuovere questo obiettivo, ma che d’altra parte ne sono escluso per la limitata vitalità che mi caratterizza. Sai che non mi entusiasma particolarmente il pensiero di far profitti o di ricevere applausi su un grande palcoscenico. Piuttosto, una situazione tranquilla, che soddisfi la mia necessità di una dieta variabile di lavoro, riflessione e rapporti con gli altri, una situazione in cui il mio spirito, ipersensibile ma per altri versi leggero, e il mio corpo, precario ma mai tutto sommato malato, possano tenersi in esercizio senza eccessivo sforzo… è questo tutto ciò che ho desiderato e che sono riuscito ad ottenere. Tutti i mutamenti mi spaventano, anche quelli che prospetterebbero un miglioramento significativo delle mie condizioni. E penso di dover obbedire a questo istinto della mia natura, se voglio dipanare il filato tenue e delicato che il Fato ha intessuto per me. I miei ringraziamenti più sentiti, quindi, vanno ai miei amici e sostenitori che nutrono di me un’opinione così generosa, e si dedicano al mio benessere. Al contempo, però, chiedo sinceramente che dirigano questo genere di disposizione d’animo a proteggermi e sostenermi nella situazione che vivo adesso, in cui (finora) ho avuto la fortuna di vivere senza notevoli apprensioni. Ti sono grato, quindi, della tua prescrizione di medicinali nel caso di un’eventuale emergenza, carissimo amico, ma includendo essa dei lassativi, che in genere influiscono pesantemente sulla mia costituzione e comportano inevitabilmente una costipazione intensa, e considerata la regolarità del mio corpo ogni mattino, penso di essere in una saluta buona, pur fragile (buona a mio modo, perlomeno, non avendo mai esperito una salute migliore dell’attuale), e quindi ho deciso di lasciare interamente la questione alla natura, intervenendo con i rimedi artificiali laddove questa desistesse. La notizia secondo cui alcune pagine del libro su cui sto lavorando siano state già date alle stampe è prematura. Non desidero obbligarmi a sforzi per pubblicare in fretta (intenderei continuare i miei lavori su questa terra ancora per un po’), e lascio che altri progetti interrompano il mio lavoro sul libro. Esso prosegue, comunque, e penso di portarlo a compimento l’estate ventura. Mi auguro che tu riconosca, dalla natura e l’ambizione del progetto, che ci sono buoni motivi per cui un libro di questo genere, pur non straordinario per numero di pagine, mi abbia assorbito così tanto. Tetens, nel suo diffuso trattato sulla natura umana, ha scritto osservazioni penetranti, ma indubbiamente il testo dà l’impressione di essere stato edito direttamente dopo la stesura, senza correzioni. Introducendo il suo lungo saggio sulla libertà nel secondo volume, deve aver sperato di districarsi da un labirinto del genere inseguendo schizzi di idee abbozzati in tutta fretta da lui stesso, almeno così mi parrebbe. Dopo aver esaurito se stesso e il lettore, ha lasciato la questione esattamente al punto di partenza, suggerendo al lettore di farsi scortare dai propri sentimenti. Se la mia salute non vorrà peggiorare, penso proprio che sarò in grado di presentare il mio promesso libricino ai lettori la prossima estate. Mentre ti scrivo, ricevo un’altra amabile lettera, da Sua Eccellenza, il Ministro von Zedlitz, che mi ribadisce la sua offerta di un posto a Halle. Devo rifiutare, per le ragioni che ti ho già descritto. Siccome ho il dovere di rispondere immediatamente a Breitkopf a Lipsia, che mi chiedeva di rielaborare il mio saggio sulle razze del genere umano in maniera più approfondita, devo attendere il prossimo passaggio del postiglione per inviarti la presente lettera. Ti prego di salutare il Sig. Mendelssohn per me, riferendogli la mia speranza che la sua salute migliori, e il mio augurio di raccogliere il frutto del suo cuore naturalmente allegro e del suo spirito sempre fertile. Mantieni il tuo affetto e la tua amicizia nei miei confronti.

Il tuo servo sempre devoto e fedele, I. Kant

 

Immanuel Kank in un ritratto del pittore tedesco Adolf von Heydeck, inizio del IXI secolo.

Il dono della parola

Questa lettera di Kant mi è stata donata da un amico traduttore, Angelo Magliocco. Ne cito il nome, poiché il suo lavoro di traduzione è sempre stato rispettoso delle parole verso le quali si ha ormai un’intenzionalità veloce, le si usa senza ascoltarle, mentre esse racchiudono un corpo, un’anima ed una storia. La lettera ci consente di vedere la grandezza da vicino. Siamo abituati alla grandezza seduttiva e rumorosa che non lascia spazio che a se stessa. Grandezza spaziale e barocca che deve occupare lo sguardo con la forza magnetica del sogno e della distopia dell’eccesso. La grandezza che ritroviamo in Kant riscalda il cuore e ci riconcilia con il mondo. Le parole nella lettera sono disposte in modo da comunicare all’amico un senso di mitezza ed accoglienza. Non vi è nessuna parola che possa essere associata a protervia o ad arroganza intellettuale, anzi vi è la consapevolezza che la produzione filosofica e scientifica necessitano di lentezza.

La pratica filosofica
Il filosofo educa al pensare non solo nell’attività professionale, ma sempre, nel privato come nelle relazioni: filosofare è una pratica che unisce in un filo sottile ogni segmento temporale della vita. Nella lettera le parole ci lasciano immaginare la gestualità lenta e delicata del pensare. Pensare è il regno delle parole, le quali per potersi configurare necessitano di tempo, di intenzionalità temporale qualitativa e non quantitativa. Il successo con i suoi abbagli non lo attrae. L’erotica del sapere lo induce ad essere gratificato dall’agire nel sapere, mentre il palcoscenico con i suoi applausi non lo affascina, poiché il sapere ostentato è interruzione della profondità a favore della dispersione in vane e convenevoli parole. Il tempo del pensiero è prezioso e non lo si può dissipare nella vanità e nella dipendenza dalle adulazioni. La brevità della vita conferisce al tempo vissuto di ciascuno un valore assoluto.

Grandezza autentica
La grandezza vista da vicino palesa la consapevolezza dei limiti di ogni esistenza e la necessità di dare senso alla propria vita con scelte che testimoniano un insegnamento etico senza “moralismo” o “giudizio”. Vivere con coerenza l’amore per il sapere nella condivisione discreta e dialogica, assume valenza educativa per coloro che hanno la fortuna di poter incontrare la vera grandezza. Ma anche coloro che nel tempo pongono lo sguardo lontano dal loro presente, per incontrare modelli a cui potersi ispirare e rigenerare dalla volgarità dell’eccesso, ritrovano nella vera grandezza una stella polare pronta a brillare sul loro cammino. Kant scrive che il fine della sua vita accademica è diffondere “disposizioni d’anime buone”. Si può essere certi che tale “disposizione” ha attraversato il tempo e continuerà a splendere per chi sa guardare ed ascoltare la profondità delle parole. Se tanta grandezza ha attraversato i secoli, vi è da chiedersi cosa resterà nel tempo di questi nostri anni.

Salvatore Bravo


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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